giovedì 29 dicembre 2016

Lavoro e diseguaglianze

Diario n. 328
27 dicembre 2016



Non vi è dubbio che i problemi più gravi dell’attuale fase (non transitoria) siano il lavoro e le diseguaglianze nella distribuzione del reddito e della ricchezza. Collegati a questi due, come in una catena, troviamo la crisi fiscale dello stato (a tutti i livelli), la riduzione dei servizi sociali, la mancanza di abitazioni a basso prezzo (a cui corrisponde una grande quantità di abitazioni vuote e di invenduto), la cattiva situazione delle infrastrutture, la mini criminalità (mentre gode ottima salute quella organizzata), la crisi del sistema sanitario, la sicurezza, ecc. Una catena che può essere allungata come si vuole ma che si sviluppa a partire da quei due anelli. Di questi due problemi un qualsiasi governo si dovrebbe occupare, ma ne prima né ora le questioni sono all’ordine del giorno con il dovuto impegno e con le necessarie nuove idee.

Lavoro      
I provvedimenti già attivi non solo non sono stati risolutivi, ma hanno, in un certo senso aggravato la situazione. Gli strumenti attivati non hanno inciso significativamente sulla disoccupazione e hanno reso precario e vergognosamente super sfruttato chi il lavoro, anche se marginale, a tempo, incerto in qualche modo lo ha. I vaucher producono racconti  agghiaccianti: 7,5 euro all’ora per qualsiasi tipo di lavoro (dal servizio di sicurezza, al servizio bar, passando per il call center , ecc., parcellizzato e spezzettato  in modo tale che pochi riescono ad avere garanzia, sia fa per dire, di un reddito mensile. Non solo pagati con ritardo, ma spesso i voucher sono utilizzati come “tessera” per un lavoro nero più sfruttato, mentre l’ultima frontiera è quella della loro utilizzazione per pagare chi sostituisce (sic!) i lavoratori in sciopero.
La filosofia “meglio di niente” sta ancora di più imbarbarendo la nostra società e il mercato del lavoro: ogni dignità di se stessi sembra vanificata dalla ricerca di una elemosina-lavorativa.
La bellezza del paese, la sua cultura, la sua storia, che poi tradotto in soldoni significa turismo non solo sarebbe assurdo che portasse ad una società fatta di camerieri, guidi turistiche e commesse, ma neanche si costruisce con progetti adeguati, mentre quei specifici settori, insieme all’edilizia sono quelli del massimo sfruttamento e dell’uso (non chiamiamolo abuso) dei voucher.
Non c’è una soluzione facile, si tratta di modificare quanto, dove, come e quando ciascuno debba lavorare; come assicurare comunque un reddito ad ogni famiglia; come riconoscere differenze di ruoli e di remunerazione che non potranno che essere da limitate.
Non solo i camerieri, non solo le signorine gentili che assillano dai call center, non solo le rare, ovviamente, start up, ecc. si tratta di un progetto di società che rifiuta lo stato attuale e che prospetta una diversa organizzazione sociale fondata sulla dignità.

Diseguaglianze  
Le maglie della società, i suoi nodi e i suoi incroci sembravano offrire a ciascuno, secondo volontà e capacità, di trovare una propria collocazione che non fosse esclusivamente determinata dalla nascita. Si trattava di una mitologia, di una retorica, ma in parte costituiva anche una realtà, ma soprattutto imprimeva le stigmate della “capacità” (anche nel nostro paese dove vige e si fa sempre forte il familismo, la pratica della raccomandazione, ecc.). Una società felice, certo che no, una società segnata da differenze, ma anche da lotte per attenuarle. Nessuno si arrendeva, il vivere individuale era anche collettivo, l’ “insieme agli altri” era una filosofia di vita.
Ma oggi tutto sembra cambiato. L’individualismo estremo ha introdotto una nuova filosofia: da solo e per me stesso. Ma questa modalità di agire germina l’approfittatore. Non è il saper fare, non è l’essere parte di una massa in cammino, ma soltanto ed esclusivamente il saper sfruttare l’occasione. Questa è la matrice generativa della corruzione (insaziabile e  diffusiva), dell’evasione, del piccolo trucco.
Questa situazione ha moltiplicato le diseguaglianze. Non si tratta di quella macroscopica tra l’1% e  il 99% della popolazione), che sarebbero da colpire, ma si sono moltiplicate le diseguaglianze anche all’interno del 99%: corruzione, evasione, trucchi, ecc., tutti governati dal verbo approfittare, costituiscono il nuovo magma sociale. E che si tratti di un magma male odorante.
Facile accusarmi di fare di tutta un’erba un fascio, so che non tutti sono come descritti. Ma so di una società in sofferenza e  malata dove il tono complessivo è dato dalla malattia, e chi non è partecipe di questo povero e indegno banchetto è come tramortito.

Politica
È chiaro che diseguaglianze e lavoro  (sua mancanza, sua condizione, ecc.) si sostengono a vicenda: la società “civile” che ne emerge è malata, non si tratta di mele marcie, come spesso si sente dire, ma di una condizione generale. Spesso quella che ci appare non è più una società ma una massa di individui agglomerati, dove al massimo vige il piccolo clan.
Questi mi sembrerebbero gli argomenti della politica, non necessariamente in questa versione. Ma questo governo, approssimativo come il precedente, usa la lingua dell’ottimismo, o dice parole indecorose in bocca ad un ministro.

Lunga o breve che sia la sua vita, il futuro non promette bene. Anche se, e ripeto se, non sia impossibile che il popolo tramortito non si svegli, ma anche in questo caso, anzi soprattutto in questo caso, c’è necessità di politica, di una idea di futuro, si una idea di società. 

giovedì 8 dicembre 2016

La sinistra che ...

Diario n. 327
8/12/2016



Il referendum è archiviato. La vittoria del No, mette in movimento la politica, ma quello che è spaventoso è il vuoto a sinistra.  Spezzoni, correnti, circoli, congressi … tutti divisi ma tutti rivendicando, ovviamente, la necessità di unità.
Renzi e il suo disegno pasticciato sono stati battuti; non si è visto il “disastro” annunziato, ma questo non vuole dire che la finanza stava con il NO, ma solo che la logica della finanza sfugge a molti osservatori. La finanza non gode del caos, ma se gli serve il caos lo crea in perfetta autonomia,  senza bisogno della “politica”.
Ma Renzi è questione del PD, questo non può essere dimenticato; non conviene tradurre i sogni in realtà. Sul PD si può fare pressione per una nuova leadership, ma quello che importa è la linea politica che sarà definita dal prossimo congresso di quel partito.  Non credo che sia indifferente  la persona che guiderà il PD, figuriamoci, gli uomini e donne contano, la loro capacità e personalità contano, ma quello che interessa è la correzione di linea politica.
A molto di noi piacerebbe un governo di SINISTRA, ma … prima non ci sono le forze, secondo  manca la consapevolezza completa della situazione e della sua evoluzione, terzo il “programma” che si mette in campo è modesto;  un programma che definisce come  alleviare, e non è poco, le sofferenze della popolazione, ma che è incapace di dire come e in che direzione può avvenire il mutamento della società (questo è all’ordine del giorno). Una sinistra inadeguata, assolutamente inadeguata, ma con questo stato bisogna fare i conti; cambiare questa situazione ha bisogno di tempo e di tanto lavoro, non di fantasia, ma di un po’ di utopia, non narrazioni,  ma progetti di società. Insomma un duro lavoro collettivo immerso nelle lotte nazionali e internazionali.
Al referendum il “popolo” ha sconfitto l’establishment,  diamolo per buono, forse è meglio pensarlo come il risultato di uno scontro tra idee diverse di organizzazione istituzionale. Dentro un referendum c’è tutto: fede indiscussa, antipatia, contrasti di interessi, voglia di rivincita, tentativi di posizionamento  e anche idee diverse. Se Renzi sbaglia (la sua solita arroganza) a attribuirsi il 40%, c’è da dire che nel 60% ci sono dei germi pericolosi contro cui non siano vaccinati.
Non credo che possa interessare più di tanto pensare se Renzi possa essere rieducato, convertito o rotamato. Il PD è chiamato ad una riflessione seria (dura, dice Renzi; minaccia), alla definizione del suo ruolo in questa fase storica, prima di definire le alleanze o insieme a definire le alleanze, affidando la guida del partito a mani capaci. Se questa riflessione quel partito sarà capace di fare non credo che possa venire fuori un linea di sinistra, ma si spera una linea progressista, un centro progressista che guardi i meccanismi di esclusione, di emarginazione, di diseguaglianze.  
Se così fosse, e non sarebbe male, una sinistra ricomposta (speranza), unità (speranza), fondata su analisi puntuali (speranza) e con un programma di transizione (speranza), potrebbe allearsi con un PD progressista per un governo che sappia intervenire sulla realtà, che guardi si alle sofferenze ma anche al futuro. Un governo e un’iniziativa politica che sappia arginare il populismo eversivo, che non è l’inesorabile risultato dei tempi, ma l’esito di un depauperamento dell’iniziativa pubblica.
  



mercoledì 30 novembre 2016

E il Senato?

Diario 326
30/11/2016

Ci sono nuovamente caduto!
Il presidente del Consiglio, in una delle recenti apparizione in pubblico, ha fatto vedere la "scheda elettorale per il senato". Che strano non si sa come si voterà per il senato, manca l'apposita legge elettorale, ma Renzi fa vedere la scheda. Il nostro presidente continua a strafare, ma temo che nonostante questa sua tendenza non sarà punito.
A proposito di Senato e di sua elezione vi allego una piccola riflessione (pesante) del mio amico Angelo   


Non ne posso più. Mi sono deciso a rimanere in silenzio sul cambio della costituzione, anche se ho deciso che avrei votato no, ma anche il silenzio delle intelligenze  è spaventoso.
Renzi ha appena detto che se vince il "si" si modifica il sistema elettorale del senato facendo indicare agli elettori dei consiglieri regionali quali di questi dovranno andare in senato.
Ma appena viene promulgata la nuova costituzione,  tutto deve adeguarsi ad essa, ed il più presto possibile. 
Per quanto riguarda i deputati, la legge per eleggerli esiste (Italicum) e, quindi  possono e  devono immediatamente essere indette le elezioni. Modificare l'Italicum come scritto nel documento Renzicuperliano potrà avvenire solo dopo il 4 Dicembre e quando anche il senato sia insediato.

Per il senato la nuova costituzione impone che sia eletto dai consigli regionali tra i sindaci (21) e i consiglieri (74). I consigli regionali esistono e sono pienamente legittimati. Non decadono con la nuova costituzione. E' il senato che decade. Ma Renzi dice che sarà fatta una legge che darà la possibilità ai cittadini di indicare, all'atto della elezione dei consiglieri, quali di essi dovranno occupare la carica di senatori.  Ma già all'atto della promulgazione della nuova costituzione i Consigli Ragionali esistono legittimamente e, stando alla nuova costituzione, non ci sono ostacoli perchè eleggano i nuovi senatori. La promessa legge elettorale per il senato, senza un senato legittimo, non può essere  approvata.
Se invece si vuole prestare fede a quanto dice Renzi occorrerebbe  che autonomamente e contemporaneamente all'unisono si dimettessero tutti i presidenti regionali e i consiglieri per indire immediatamente  nuove elezioni con l'indicazione degli elettori intorno ai nuovi senatori. Ma questo è impossibile perché non può essere approvata la nuova legge elettorale senza il senato.
Per realizzare quanto Renzi promette, occorre che "manu militari" i Consigli Regionali esistenti legittimamente siano dichiarati decaduti ed annullati. Ho detto "manu militai" perchè non c'è altro mezzo, in quanto essendo decaduto il senato esistente e non essendocene ancora un altro legittimo, leggi non se ne possono fare. E  non sarebbe questo un colpo di stato? Ma ormai è provato che non si sanno fare neanche i colpi di stato. 
Ma da nessuno sento porre questi problemi. Che è successo all'Italia? Angelo

Perché Dio. Un testo di Carlo Rovelli

Diario n. 324
29/11/2016

Cari amici, oso inviarvi, invece del solito pensierino sulla politica (Renzi, Salvini, Grillo, ecc., la crisi e l’uscita dal tunnel)  questo Elzeviro del fisico Carlo Rovelli, pubblicato sul Corriere della sera. Spero che molti di voi possano apprezzarlo. È il mio regalo per le prossime festività.
Un abbraccio e che il prossimo anno non ci porti un nuovo referendum, e che chi governerà possa capire verso dove ci moviamo e non ci racconti altre favole. Sperare è possibile anche se forse è inutile.
Un abbraccio Francesco  

Carlo Rovelli
Diverse persone mi hanno chiesto perché dico che non credo in Dio. Ecco la mia risposta.
   A me non piacciono quelli che si comportano bene per paura di finire all'infer­no. Preferisco quelli che si comportano bene perché amano comportarsi bene. Non mi piacciono quelli che sono buoni per piacere a Dio. Preferisco quelli che sono buoni perché sono buoni. Non mi piace rispettare i miei  simili perché sono figli Dio. Mi piace ri­spettarli perché sono esseri che sentono e che soffrono. Non mi piace chi si dedica al prossimo e coltiva la giustizia pensando in questo modo di piacere a Dio. Mi piace chi si dedica al prossimo perché sente amore e compassione perle persone.
   A me non piace sentirmi in comunione con un gruppo di persone stando zitto dentro una chiesa ascoltando una funzione. Mi piace sentirmi in comunione con un gruppo di persone guardando i miei amici negli occhi, parlando con loro, e guardando il loro sorriso. Non mi piace emozionarmi davanti alla natura perché Dio l'ha creata così bella. Mi piace emozio­narmi perché è così bella. Non mi piace consolarmi del­la morte pen­sando che Dio mi accoglierà. Mi piace guar­dare in faccia la limitatezza della nostra vita e imparare a sorridere con affetto a sorella morte. Non mi piace chiudermi nel silenzio e pregare Dio. Mi piace chiudermi nel silenzio e ascoltare le profondità infinite del silenzio. Non mi piace ringraziare Dio: mi piace svegliarmi al mattino, guardare il mare e ringraziare il vento, le onde, il cielo e il profumo delle piante, la vita che mi fa vivere, e il sole che si alza.
A me non piacciono quelli che mi spiega­no che il mondo l'ha creato Dio, perché pen­so che non lo sappia nessuno di noi da dove viene il mondo; penso che chi dice di saperlo si illude; preferisco guardare in faccia il mistero, sentirne l'emozione tremenda, piutto­sto che cercare di spegnerla con delle favole. A me non piacciono coloro che credono in Dio e così sanno dove sta la Verità, perché penso che in realtà siano ignoranti quanto me. Penso che il mondo è per noi ancora uno sterminato mistero. A me non piacciono quelli che conoscono le risposte. Mi piaccio­no di più quelli che le risposte le cercano, e dicono «non so».
Non mi piace chi dice di sapere cosa è bene e cosa è male, perché sta in una chiesa che ha il monopolio di Dio, e non vede quante diver­se chiese esistono al mondo. Quante morali diverse, e ciascuna sincera, esistono al mondo. Non mi piace chi dice a tutti cosa tutti devono fare, perché si sente forte grazie al suo Dio. Mi piace chi mi dà suggerimenti sommessi, chi vive in un modo che mi stupi­sce e ammiro, chi fa scelte che mi emozionano e mi fanno pensare.
Mi piace parlare agli amici, provare a con­solarli se soffrono. Mi piace parlare alle pian­te, dare loro da bere se hanno sete. Mi piace amare. Mi piace guardare  il cielo in silenzio. Mi piacciono le stelle. Mi piacciono infinita­mente le stelle. Non mi piace chi si rifugia nelle braccia di una religione quando è sper­so, quando soffre; preferisco chi  accetta il vento della vita, e sa che gli uccelli dell'aria hanno il loro nido, ma il figlio dell'uomo non ha dove posare il suo capo.
E siccome vorrei essere simile alle persone che mi piacciono, e non a quelli che non mi piacciano, non credo in Dio.
(da Corriere della sera, 26/11/2016)


mercoledì 2 novembre 2016

Tina Anselmi

Diario n, 323
2/11/2016



Con la morte di Tina Anselmi scompare una delle poche personalità democristiana degna e una delle poche personalità politiche ammirabili della I Repubblica. Mai coinvolta in giochi di potere, o in altri giochi non confessabile. Con la sua rettitudine ha illuminato la Politica e i posti di responsabilità ricoperti: soprattutto per la sua determinazione godiamo del sistema sanitario nazionale, che ora le regioni manomettono continuamente.  La sua cifra morale è stata fondamentale nel guidare la Commissione di indagine sulla P2.

L’ho incontrata solo una volta, non era una persona semplice ma piuttosto consistente di quella materia che rendono uomini e donne politiche esemplari: schiettezza, dirittura morale, senso dello stato. L’avevo invitato, tanti anni fa,  ad un incontro con gli studenti, ma le condizioni di salute di quel momento non le hanno permesso di accettare l’invito. Mi dispiace molto di non avere provato ancora in seguito.

giovedì 27 ottobre 2016

Referendum


Il culto dei morti e la resurrezione dei corpi

Diario 322
27/10/2016


La Chiesa cattolica non finisce mai di sbagliare,  ogni volta si mette nella condizione di dover far marcia indietro per adeguarsi alle trasformazioni della società che, in qualche modo,  deve assecondare. È  stato così per l’omosessualità, il divorzio, i libri all’indice, per non parlare di streghe e di Inquisizione. Certo il ripensamento ha sempre qualcosa di equivoco ma i “fedeli” intendono.
La Chiesa ha accettato che dopo la morte i corpi potessero essere cremati (molti non hanno atteso il suo permesso), bene. Fatta la dichiarazione taci. No! Adesso i vincoli: le ceneri non possono essere disperse, non si possono tenere in casa, non si possono distribuire ai parenti, ecc. Tranne casi eccezionali, quali sono? perché? Ma!
Le ceneri dovranno essere sepolte in terra consacrata (cimitero)  in attesa della resurrezione dei corpi.
Per un credente la resurrezione dei corpi è universale, ovunque i corpi si trovino e in qualsiasi stato siano. Non avranno la resurrezione i tanti caduti in guerra e dispersi? non quelli annegati? non quelli sbranati da bestie feroci? non quelli torturati e buttati in fosse comuni?  non quelli sepolti con riti diversi. Insomma una dichiarazione senza senso, che depotenzia Dio stesso che pare possa resuscitare solo quelli sepolti in terra consacrata.
Probabilmente l’intenzione era buona ma non tiene conto né della storia né della realtà: si voleva forse  combattere una sorta di “nuova idolatria”: quella delle ceneri onorate in casa, conservate, divise tra i parenti, racchiuei in gioielli, o esse stesse trasformate in pietre preziose.  
Ma non si capisce quale sia lo scandalo. Il “culto dei morti”  è stato sempre accompagnato da forme non proprio spirituali. Un tempo la ricorrenza dei morti era per i bambini una festa, in quanto i morti portavano regali. Mi ricordo perfettamente con mia madre andare per i negozi di giocatoli  a individuare i miei desideri, con la speranza che mi fossero soddisfatti dal nonno tale, dalla zia talaltra, dalla bisnonna, ecc.. Una personalizzazione del ricordo legato ad un dato di gioia, infatti la mattina della ricorrenza dei morti era una festa:  cercare per casa dove erano stati nascosti i doni,  scoprire se i morti avevano esaurito i miei desideri, e i regali erano personalizzati dai specifici defunti. Quasi sempre i miei desideri erano soddisfatti, perché mia madre mi guidava in modo che le mie scelte fossero compatibili con la capacità di pagare dei morti.

Poi venne Babbo natale e i morti, i morti veri (si direbbe in carne e ossa), sono scomparsi dall’immaginario dei bambini.     

giovedì 29 settembre 2016

Parole/illusioni; parole/menzognere.

Diario n. 321
29/9/2016



Parole/illusioni

Austerità  è stato questo il tema ricorrente per molti anni illudendoci (ma soprattutto illudendosi) che questa formula, che non è di gestione del “bilancio pubblico” ma piuttosto una politica (anti)sociale (vedi la Grecia come caso emblematico), avrebbe garantito la soluzione della crisi, la riduzione del debito pubblico, il risanamento delle banche, lo sviluppo dell’occupazione, l’efficienza della pubblica amministrazione, la razionalizzazione della spesa sanitaria e non so che altro. Risultato zero, né poteva essere diverso. Ha aggravato le condizioni degli anziani e dei giovani, ha peggiorato i servizi sociali e collettivi, ha aumentato le diseguaglianze, ha peggiorato la situazione delle nostre città, ha ripristinato le discriminazioni e ha accresciuta la povertà (meno male che c’è la Caritas, ma che ovviamente non può bastare). Nonostante quello che si dice, questa politica non ha fatto bene neanche alla Germania, che ne era la portabandiera.

Flessibilità ma il vento è cambiato ora la parola/illusione  austerità è sostituita da un’altra parola/illusione: la flessibilità. Anche questa dovrebbe garantire le stesse cose che garantiva l’austerità (ma come sarà possibile è un mistero): l’uscita dalle crisi, lo sviluppo dell’occupazione, l’innovazione, l’aumento di produttività, la riduzione del debito (magari a più lungo tempo), il salvataggio delle banche, il  ripristino della legalità, grandi investimenti pubblici, ecc.

Un tempo insegnavano che prima di esprimersi, nell’ira e nel dolore, nell’entusiasmo e nella gioia conveniva sempre “contare fino a dieci”. Ma se questo insegnamento era negletto dalla “vecchia” politica lo è ancora di più dalla “nuova”.

Parole/menzognere   

Ci sembrava (o forse si sperava) di esserci liberati dai “contratti con gli italiani”, di berlusconiana memoria. Ma siamo al “diteci che c’è da fare ed io faccio” non un contratto ma una sorta di bancomat, o se si preferisce spesa alla carta. Ma non solo, nel tempo si è annunziato un elenco non solo di grande proporzione ma pieno di contraddizioni: il ripristino ambientale e idrogeologico e la continuazione di scavi di galleria già avviate (ma almeno una pare abbandonata anche dalla Francia), o la programmazione di altre gallerie i cui progetti erano abbandonati da tempo. La banda larga, l’informatizzazione della pubblica amministrazione che spesso è priva degli strumenti tecnici e della professionalità per utilizzarli. Il ripristino dei territori distrutti da terremoto, con grandi promesse su metodi e tempi. Non si potrà fare peggio di come abbia fatto il governo Berlusconi e il suo plenipotenziario Bertolaso a L’Aquila, ma si può tentare.
E per finire il ponte sullo stretto. Questo veramente ha meravigliato tutti! Ma perché un’affermazione così cervellotica, fuori dalla realtà e dal senso? Sospetto che si  tratti di una specie di ripicca. Una mia nipotina (cinque anni) in risposta al divieto di suo padre di fare una certa cosa, ha detto: “allora io dico minchia”. Renzi ha detto “minchia”: la Raggi non vuole fare le Olimpiadi a Roma, allora io faccio il ponte sullo stretto.  Questa mia affermazione nobilita l’affermazione di Renzi, fornisce una ragione, un motivo, se non fosse così sarebbe ancora peggio.
Michele Serra, che è un tiepido sostenitore di Renzi, oggi su Le Repubblica ha scritto che, è favorevole che si realizzi il ponte sullo stretto dopo la messa in sicurezza degli edifici pubblici e privati nelle zone sismiche, dopo il risanamento idrogeologico, dopo avere investito fino a renderle efficienti e vivibili le linee ferroviarie “minori” dopo avere completato le opere pubbliche lasciate a metà, dopo la riforestazione, ecc. In sostanza, insinua Serra, ci sarebbe tanto cose  da fare invece del ponte di Messina.
Si noti, per altro, che  il piano presentato oggi dalle ferrovie sembra andare in altra direzione, altro che linee ferroviarie minori.

L’affermazione che questo ponte si faccia è una vera bufala, il ponte è una parola/menzogna, dovrebbe saperlo lo stesso Renzi (altrimenti a che cosa gli servono i tanti consiglieri?) o forse siamo ancora alle parole/illusioni.  

Matteo Renzi: consenso e realtà

Diario n. 320
11 settembre 2016



Matteo Renzi gode di molto consenso nell’opinione pubblica (può essere diminuito, tuttavia è ancora molto alto); ma in molti si chiedono su che basi si fondi tale consenso, dati gli scarsi risultati della sua azione e di quella del suo governo.
Egli appare come un innovatore, un bastonatore dei vecchi vizi. Per esempio gode della fama di “rotamatore” della vecchia politica, ma se guardassimo con attenzione si osserverebbe che gli unici rotamati, con qualche successo, sono stati Rosi Bindi e Massimo D’Alema, non  Lugi Bersani (perché godeva di un notevole consenso nel partito, al contrario dei primi due), ma soprattutto non ha rotamato  Verdini e i suoi compagni di merenda, tanto per fare un nome per tutti.
L’opinione pubblica è convinta che di “Matteo” ci si può fidare, solo perché la nostra memoria ha cancellato lo scherzo liceale, che insieme al presidente Napolitano, ha fatto al suo predecessore. Ci siamo scordati lo “stai sereno” comunicato al presidente del consiglio poche ore prima di defenestrarlo.
Un politico “nuovo”, fuori dalle manovre della vecchia politica, e ti sforna il Patto del Nazzareno con Berlusconi (quest’ultimo nella disfida per guadagnare consenso lo riconosce come “suo” erede).
Un politico che crede nella necessità di coinvolgere le migliori competenze, mentre il suo cerchio ristretto di consulenti è composto soprattutto da amici, di cui è chiara la fedeltà ma non sembra accertato il tasso di competenza.
Un politico alieno dalle lottizzazioni, con una visione netta della divisione tra i compiti della politica e la funzione delle altre istituzioni (pubbliche e private), ma poi ecco interventi sulle nomine bancarie, sulla Rai, ecc.
Un politico del fare e non del parlare, ma solo perché si dimentica la spericolata politica dell’annunzio: sull’uscita dalla crisi, sull’occupazione, su provvedimenti poi inariditi, ecc.
Un politico che sa quello che vuole e sa quello che deve fare. Immagini evanescenti, forse sarebbe bene dire che sa quello che vorrebbe ma non sa come fare. La crisi, la sua fine, la luce infondo al tunnel, l’occupazione che sale, i consumi che crescono, gli investimenti (anche esteri) che cadano a pioggia, … niente, solo parole. Per onestà bisogna dire che non è colpa sua, il male dell’economia non sono capaci di leggerlo (e quindi non possono e non sanno intervenire), ma è sua la colpa di declamare ottimismo, come spirito del tempo, di spingere all’auto-iniziativa come soluzione, mentre il debito pubblico cresceva, così come cresceva l’indebitamento privato, le famiglie (i nonni) come unico baluardo alla crisi, la disoccupazione prendeva un brodino con i soldi distribuiti ai padroni, la banche cavalcavano onde minacciose, ecc. Ottimismo di maniera, cura sicura, come quando l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi negava la crisi con la faceta osservazione che i “ristoranti erano pieni”.
Però uomo coerente: ah! ah! Proviamo a vedere: l’Italicus (legge elettorale) non si tocca; forse si può ritoccare; forse è necessario migliorarla; be rivediamola (con o senza la sentenza della Corte Costituzionale. Si può cambiare opinione, ma per un politico è fondamentale spiegare le ragioni del cambiamento. Ci sono motivi di fondo? Oppure è pura opportunità. Dico questo perché se uno non spiega il perché del cambiamento gli altri non capiscono e non si fidano.
La Riforma Costituzionale è fondamentale per il “paese” io (Renzi) ci metto la faccia. Se non passa abbandono la politica, mi dimetto, … fino a garantire elezioni nel 2018, cioè anche se non passasse avremmo un governo Renzi fino a quella data.
Insomma queste brevissime note, che potrebbero essere molto più lunghe e puntuali, dicono che non ci sono motivi oggettive e reali perché Renzi goda del consenso dell’opinione pubblica (non sto dicendo che il Governo ha fatto tutto male, per realizzare questo obiettivo ci vorrebbe una determinazione fuori dall’usuale).
Ma perché questo consenso senza ragione? Certo Renzi è bravo, ha una buona comunicativa, è uomo di spettacolo, ma questo non basta, il successo dipende dalla pochezza (di idee e di forze) dei suoi antagonisti. Gli unici che sembravano potergli tenere testa erano i 5* il cui futuro è incerto (non credo nel loro disfacimento, che tuttavia sarebbe un bene perché toglierebbe un tappo alla protesta che potrebbe essere indirizzata verso una proposta alternativa non populista).
È in questa debolezza che sta la forza di Renzi. Una debolezza che non è solo organizzativa, ma anche di analisi e di proposta. Tra il populismo dei 5*, il politichese di una parte della sinistra, e Matteo Renzi, le speranze per il paese sono molto poche.

  

domenica 10 luglio 2016

C’è qualcosa di marcio in … USA, e non soltanto li



Diario n. 319
10 luglio 2012

L’America è sconvolta, titolano i giornali, dichiarano gli speaker della TV, confermano i corrispondenti. Il cecchino che appostato in un palazzo uccide alcuni poliziotti è sconvolgente. Un atto di barbarie, si uccide a caso, un atto che  non può che essere condannato ed esecrato. Il giudizio non ammette varianti.
Non si tratta di giustificare ma di trovare una spiegazione, per quanto assurda possa essere. A me pare che la questione causa-effetto sia chiara. Nelle ultime settimane, e ancora ieri,  poliziotti bianchi  hanno esercitato la loro autorità e il loro ruolo in modo eccessivo, freddando, spesso assolutamente senza motivo e senza pericolo per la loro incolumità cittadini americani neri spesso inermi e in condizione di non nuocere. I video e le registrazioni sono chiarissimi; spesso si è trattato di esecuzioni a freddo. Per questi numerosi episodi l’America non si è sconvolta. Ora è chiaro che tra i membri della polizia ci possano essere delle persone, diciamo così, “eccessive”, questo non infirma la natura di quel paese ed il ruolo della polizia; ma natura del paese e ruolo della polizia viene messo in discussione quando i poliziotti che si sono macchiati di un crimine non vengono inviati a giudizio, non vengano esonerati dal servizio, non vengano sottoposti a provvedimenti. Per questa mancanza di giustizia sarebbe stato necessario, democratico e solidale che l’America, anche in questo caso, si svegliasse sconvolta.
La causa non giustifica l’effetto, ma forse serve a dare qualche spiegazione.
Alimentato da un possibile futuro presidente degli USA il clima razzista negli USA tende a crescere, il rivendicazionismo culturale, etnico e sociale appare come una brutta strada, una terribile strada. Si getta molto acqua sul fuoco, non è in atto una guerra razziale, vogliamo crederlo, ma non si tratta di minimizzare ma di azioni concrete e di una nuova presidentessa USA che non si lasci trascinare da quest’onda per guadagnare qualche voto.     
Ma il marcio del razzismo non alligna soltanto negli USA, ha rappresentanti e attivisti anche in Europa e nel nostro paese.
Amedeo Mancini può essere un balordo, violento e ignorante, ma ha ucciso Emmanuel Chidi Nnamdi per motivi razzisti; i bagnini di quello stabilimento della Versilia che hanno esposto la bandiera dei confederati nella guerra civile americana sono sicuramente stupidi ma anche razzisti, per non parlare di molti dei discorsi della Lega e del suo segretario, e degli infiniti episodi quotidiani non sempre cruenti ma sempre razzisti. Fassino, ex sindaco di Torino, ora propone liste per le case popolari divise tra italiani e immigrati, una soluzione contro gli immigrati;  la proposta si giustifica perché è nei quartieri popolari che Fassino ha perso e li il problema dell’immigrazione e sentito pesantemente. Che scelta, legarsi al carro dell’onda anti-immigrati e razzista.
Stiamo scherzando con il fuoco, facciamo finta di niente e voltiamo la faccia, invochiamo l’Europa che non c’è, e speriamo nel Papa. Questa si che è la politica che ci salverà.


mercoledì 6 luglio 2016

Piove, piove, piove e siamo senza … ombrello




Diario n. 318
6 luglio 2016

Il terrorismo religioso si diffonde; non ha bisogno di un califfato, che perde terreno, per produrre dolore e morte inutili a tutte le latitudini.
La vittoria dei secessionisti nel Regno Unito indebolisce l’Europa, che sempre più diventa succube del capitale finanziario e della Germania. Le promesse di trasformare la UE in una “unità di popoli”, sembrano poco credibili; né ogni “nazione” che facesse per sé sarebbe più debole.
Il tracollo delle borse colpisce in maniera rilevante  tutti i paesi e in maniera molto pesante l’Italia. L’assicurazione del governo che il nostro sistema bancaria era solido, tra i più solidi d’Europa mostra la chiacchiera a vuoto dei nostri governanti, ai quali è oscura la “speculazione”. Le borse hanno perso, ma ci piacerebbe sapere, ma non lo sapremo mai, ma possiamo immaginarlo, da questa caduta delle borse chi e quanto ha guadagnato. Al gioco delle borse non esiste il caso che perdono … tutti.
In tutta Europa avanzano forze di destra, reazionarie, molto spesso razziste e social-fasciste. Non si tratta di colore “locale”, ma di una marea crescente alla quale non si pone diga.
In Spagna Podemos subisce una imprevista sconfitta (ma che sta nell’ordine delle cose europee), alla quale va allegata la possibile crisi della dirigenza del Partito Laburista inglese.
In Italia il movimento 5* conquista alcune maggiori città, Roma compresa; quando va ai ballottaggi vince sempre. Non ostante l’evidenza di una molto parziale capacità di governo, si appresta alla scalata a Palazzo Chigi, grazie anche alla nuova legge elettorale.
Per non parlare del possibile esito della prossima elezione del presidente degli USA.
Diciamo chiaramente non piove, grandina, e siamo senza riparo.
Chi, come, quando, perché… troppo complicato e troppo lungo. Qualche brevissima osservazione.
Non si lotta più? No! Non si può dire, anzi movimenti e conflitti sono sempre più diffusi e, soprattutto, articolati.
Ma di queste lotte e conflitti mi pare di poter osservare:
-         che il “capitale” è quasi scomparso come oggetto dell’antagonismo. Certo che oggi è inafferrabile e non identificabile materialmente. Si può manifestare contro le borse, o le banche, ma non si scalfisce il capitale finanziario. Così il nemico di queste lotte finiscono per essere le Istituzione (il comune, la regione, ecc.);
-         gli obiettivi di queste lotte sono sostanzialmente tutte valide (acqua, ambiente, salute, servizi, traffico, organizzazione urbana, ecc.), anche se alcune sono da rigettare (immigrati, integrità culturale, ecc.). Ma facciamo aggio sulle prime.
-         molte di queste lotte o fanno riferimento alla condizione specifica micro di chi lotta, senza collegarla alla realtà più ampia, o nascono da un rigetto “culturale” verso la politica e soprattutto i politici (i quali danno man forte al crearsi di questo rigetto). Questo fa si che movimenti anche possenti, come 5*, non hanno nessuna garanzia di tenuta a mano a mano che vincono: ogni vittoria li porta a trasformarsi in casta. Perché la “casta”, oltre che un contenuto soggettivo (come si fa politica) ne ha uno oggettivo (la collocazione istituzionale e nelle strutture di potere). Sta qui la matrice della sconfitta di Podemos, non so, chiedo lumi agli amici spagnoli.
 Come si costruisce l’ombrello? Non ho ricette, ma so che si tratta di una necessità e di una urgenza. So anche che ci vorrà tempo, intelligenza e capacità “politica”. Mi scoraggia (ammesso che sia rilevante) guardarmi attorno. La riunione della direzione del PD fa cadere le braccia. Lo spreco di energia per contrastare il referendum costituzionale mi è incomprensibile:  riducono la democrazia, allora riprendiamocela. Costruire oggi un’alternativa impone chiarire ed affrontare le condizioni strutturali, progettare un futuro appetibile, capire che si tratta di una lotta per il potere. Il potere non è tutto ma senza di esso vince e stravince il capitale finanziario. Capisco che sono generico, ma non è più il mio tempo.    


  

venerdì 24 giugno 2016

Studentessa condannata. Intimidazione e attacco alla libertà di ricerca


Diario 317
24 giugno 2016


Più che scandaloso è un violento attacco alla libertà della ricerca e alla libertà in se stessa.
In un paese autoritario e antidemocratico, come l’Egitto, i servizi, più o meno segreti, più o meno di stato, possono arrestare (o meglio prelevare), torturate e poi uccidere un giovane ricercatore come Giulio Regeni che studiava e indagava i movimenti operai di quel paese.
Nel nostro paese, democratico, una studentessa, Roberta Chiroli, è stata condannata dal Tribunale di Torino a due mesi di reclusione per il contenuto della sua tesi in antropologia, che riguardava il  movimento No Tav. E’ stata riconosciuta, contro ogni evidenza, non solo partecipe di quel movimento ma corresponsabile.
Insomma sempre più i punti di “scontro”, o anche soltanto di tensione, della società non possono essere studiati, non possono essere indagati senza finire, secondo le condizioni dei singoli paesi, nel mirino delle autorità che difendono lo stato quo.
Evidentemente il giudici di Torino, tanto occhialuto quanto ignorante, non sa che l’antropologia pretende lo studio di campo, sia che l’indagine investa una tribù dell’Amazonia, sia i movimenti sociali, sia la vita di una comunità, sia i comportamenti dei giovani. Dicendo che si tratti di un giudice ignorante non si vuole fare velo sul contenuto tutto politico non solo della condanna ma anche dell’inchiesta giudiziaria.  Una tesi di laurea ha un referente, detto “relatore”, che ne attesta qualità e metodo, viene presentata e discussa davanti ad una commissione che la valuta anche in relazione alla carriera dello studente/essa; tutto questo non può essere ignorato dal giudice che questa stessa procedura ha seguito per potersi laureare; e allora?  Credo che si tratti non solo di una condanna politica inflitta ad una studentessa, che diventa responsabile dell’oggetto del proprio studio, ma anche di un avvertimento al corpo docente che potrebbe essere investito da correità. Una vera e propria intimidazione. Studiate il sanscrito ma lasciate stare i movimenti sociali.
Credo che l’Università, pur nella sua disgraziata situazione in cui si trova, debba reagire. Spero che Ca’ Foscari, Ateneo presso il quale la studentessa compiva i suoi studi, abbia preso posizione (essendo stato all'estero la notizia potrebbe essermi sfuggita). Ma forse in questo scampolo di fine anno accademico si dovrebbe e potrebbe discutere della liberà di ricerca e del ruolo sociale della ricerca stessa. La libertà della ricerca non riguarda solo gli ogm ma riguarda tutti i campi della vita sociale, culturale e politica.      


martedì 14 giugno 2016

Astensionismo, che bello!


Diario n. 316
14 giugno 2016

Provo grande perplessità sul fatto che l’“evasione” dal voto, l’astensionismo, sia trattata con indifferenza, come un evento al quale non ci può opporre, come il frutto ineliminabile delle trasformazioni della società.
Noto l’esistenza di movimenti, spesso vigorosi per la salvaguardia dell’ambiente, noto che le iniziative per garantire la sopravvivenza di alcune specie in estinzioni sono ricorrenti,  trovo tutto questo giusto e pertinente, la biodiversità va difesa e garantita, quello che mi sconvolge è l’indifferenza per la riduzione della specie uomo/donna che si occupi di politica; dell’impoverimento di questa biodiversità politica (sociale) nessuno si preoccupa (a parte qualche commento rituale)
A sinistra ho trovato delle speciose giustificazioni del fenomeno, anzi della sua esaltazione: il non voto viene correlato con la “nuova” politica. In questa interpretazione si fa notare che all’evasione dal voto corrisponde un impegno di rilievo in altre forme di espressioni “politiche”: i movimenti di difesa della natura, le lotte contro le grandi opere, la difesa del patrimonio culturale, la lotta contro il razzismo, ecc., sono queste ed altre quelle elencate in una sorta di “pagine gialle” delle lotte. Si tratta di constatazioni esatte, ma che non solo non “giustificano” il non voto, ma neanche lo spiegano.
Come si fa a dire che l’astensione dal voto si sposa con l’impegno in queste diverse  iniziative di lotta? Non esiste ricerca alcuna che giustifica questo assunto, nessuna testimonianza conferma l’ipotesi. Può anche essere che tra gli astensionisti la presenza di quanti impegnati nelle diverse forme di resistenza e di lotta sia minimo. Non ho dati, ma mi pare lecito ragionare.
È più probabile che l’astensione si sposi con l’indifferenza, l’apatia  e con l’assenza di ogni tipo di impegno nelle altre e diverse forme di lotta, di resistenza civile o anche di solidarietà..
È vero che in molte delle lotte frammentarie si annidi un vizio di disconoscimento del ruolo complessivo che le lotte, in ogni forma, devono assumere, e per realizzare questa opzione appare necessari un forma di relazione con le “istituzioni”. Si tratta di una grossolana interpretazione dei processi sociali e politici, che frammentano e non uniscono, che neanche scalfiscono la natura e le sedi del potere.
I partiti in campo possono non soddisfare (e non soddisfano), la classe politica (la casta) può fare orrore (e lo fa), i programmi politici possono apparire velleitari da una parte e  mendaci dall'altra (assolutamente vero), che la fiducia negli uomini politici e nelle loro parole è quasi nulla (verissimo). A tutto questo, tuttavia non si dà soluzione alternativa chiudendosi in un piccolo orto. E proprio questa chiusura che partiti, programmi e classe politica desiderano, solo in questo modo avrà pieno successo la loro manipolazione.
La scomparsa del cittadino politicizzato, cosciente e consapevole è più grave della riduzione della riduzione della biodiversità,  ne va la salvezza della “società”, della possibilità di cambiarla e anche di rivoluzionarla. Ma di questa scomparsa i partiti che non ci piacciono godono, di questa gli uomini politici che non ci piacciano hanno bisogno, su questa indifferenza si fondano i programmi farfugliati.  

Bisogna preoccuparsi seriamente, soprattutto da parte di chi vuol cambiare la società, di questa evasione dal voto, non unica espressione politica,  ma anche non piccola manifestazione della volontà politica attiva. Pochi elettori e un po’ di terrorismo fanno le società salde e immutabili.         

venerdì 3 giugno 2016

Ipocriti, inetti, inefficaci / Prepotenti

Diario n. 315
3 giugno 2016


Ipocriti, inetti, inefficaci
Siamo molto soddisfatti di noi stessi. Noi simo gli unici che salviamo gli immigrati in mare; che dovrebbe essere un atto dovuto e non un merito di cui cingersi la testa (va fatto e doppiamo farlo). Il nostro cuore si commuove per la bimba rimasta senza mamma ed ecco la corsa all’adozione, bene.
Ma tutta questa retorica non riesce a nascondere le migliaia di immigrati sepolti in mare: involontarie “camere ad acqua”. Non riesce a nascondere la situazione in cui sono costretti migliaia di infelici nei così detti “centri di accoglienza”. Non riesce ad offuscare la situazione di super sfruttamento ai quali sono sottoposti quelli che riescono ad ottenere un lavoro, nelle campagne, in piccole imprese o nell’edilizia.
Quello che pare un ragionevole appello “aiutiamoli nei loro paesi”, non è altro che un modesto sotterfugio per lavarsi le mani della tragedia e metterci la coscienza apposto.
Non possiamo far finta di non vedere, non possiamo far finta di non capire; altre volte è stato fatto e poi ci è stato chiesto conto della nostra indifferenza.
Non si può dire che la soluzione sia facile, ma il primo passo è l’accoglienza. L’inettitudine politica è chiara e manifesta. Si può favoleggiare di un aiuto nei paesi di partenza per il loro sviluppo, ma non si può immaginare che questo proposito, se venisse realizzato, cosa di cui si può benissimo dubitare, abbia effetto nel breve periodo. E a chi fugge dalla guerra che cosa offriamo? Niente, buone parole, conferenze internazionali, mentre si spara si sevizia, si violenta. Intanto i mercanti d’armi, pubblici e privati, fanno affari d’oro. Non sarebbe difficile un embargo totale e completo al commercio delle armi; si potrebbe ma non si vuole. Intanto si sostengono regimi autoritari e retrivi, opprimenti e spesso schiavisti. Principi, magnati, politici si incontrano, in eleganti banchetti di gala, e tessono le loro trame e i loro affari, mentre i barconi affondano.
L’Europa e il nostro paese, diventano sempre più razzisti al quale si oppone un tiepido antirazzismo. Ma non possiamo dimenticare che il razzismo verso qualcuno si sposa con l’autoritarismo verso tutti.  
Non possiamo non vedere, non possiamo stare zitti, ne va della nostra dignità di uomo e della nostra stessa libertà.

Prepotenza
Un uomo politico dovrebbe riflettere e interrogarsi sulle proprie azioni; sarebbe segno di saggezza. Ma non mi pare che Matteo Renzi e la sua ministra delle riforme, Maria Elena Boschi, abbiano questa saggezza In assenza di questa saggezza quella che prevale è la prepotenza, dagli immediati risultati ma dei successivi fracassi.
La suddetta coppia dovrebbe spiegare come mai pur esistendo una molta estesa maggioranza convinta della necessità di correggere il “bicameralismo perfetto” e altrettanto convinta della opportunità di  ridurre il numero dei parlamentari, si sia giunti ad un situazione nella quale alcuni convinti sulle necessità delle riforme tentano di affossarle votando No al referendum e, ancora, come mai molti altri, moltissimi si potrebbero dire, convinti della necessità delle riforme si acconciano a votare Si con il muso storto, sentendosi ricattati, e annunziando una necessari correzione della riforma stessa.
Ci vuole un’abilità politica raffinata e acuta, partire con il sostegno di una grande maggioranza, e arrivare ad un successo (forse) striminzito e mal sopportato.
Altro che nuova stagione politica, il sospetto è che ci troviamo governati da dilettanti  allo sbaraglio, in quanto tali sicuri di sé e un po’ … prepotenti

mercoledì 25 maggio 2016

La carcassa dell'auto dell'attentato a Falcone

Ciao Francesco, 
24 anni fa, il 23 maggio 1992, Giovanni Falcone veniva assassinato con la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta nella strage di Capaci per opera di Cosa Nostra. In questi giorni la carcassa della Fiat Croma dell'attentato al giudice antimafia viene esposta in Puglia. Ma normalmente si trova nella Scuola di Polizia Penitenziaria a Roma: l'accesso, però, è riservato solo a pochi. "È importante custodire la memoria", dice in questo appello il giornalista Sandro Ruotolo. "Perché questa teca con l'auto di Giovanni Falcone non può essere visitata da tutti?".

sabato 7 maggio 2016

Una idea utile ma aspettative irreali

Diario n. 314
7 maggio 2016


Il nostro presidente del consiglio, Matteo Renzi , pare si stia facendo promotore per impegnare l’Europa ha sostenere lo sviluppo dei paesi del medio oriente e dell’Africa. Mi pare una cosa saggia e, come dire, riparatoria, dato che i paesi europei sono storicamente responsabili  del dramma economico e sociale che investe tutto il continente. Dalle conquiste religiose a quelle  imperialiste e neo-coloniali, all’invenzione di stati e statarelli, dallo sfruttamento  delle risorse (senza parlare dello schiavismo), all’alleanza politica con regimi reazionari e conservatori, alle azioni contro i regimi progressisti , la politica europea ha dato il peggio di sé.
Gli stati europei, Italia compresa, e poi con l’aggiunta degli Usa ed ora della Russia e della Cina, non hanno fatto altro che una politica di desertificazione, di distruzione e sfruttamento senza nessuna capacità (e volontà) di ammodernare questi paesi e di promuovere forme di sviluppo economico adeguate.
Sebbene la proposta di Renzi sia un po’ “pelosa” (come si dice) perché finalizzata a cercare di frenare e ridurre i flussi migratori, è da sostenere.
La proposta presenta, tuttavia, un punto debole e accarezza un’illusione.
Non è chiaro come sarà organizzata e gestita questa promozione allo sviluppo. In moltissimi di questi paesi non esiste una “società civile” o “corpi intermedi”  che possano essere il perno di questo nuovo sviluppo. In questa situazione  non si potrà che investire le “autorità”, i singoli “poteri” che, democratici o meno, sono tutti fortemente corrotti (le nostre imprese i nostri governi non hanno fatto altro che trasferire questo virus, che ha trovato subito corpi molto disponibili all’infezione). Sarà un vero problema politico evitare che le eventuali risorse più che allo sviluppo finiscano per ingrassare ceti emergenti.  Lo “sviluppo” qualsiasi cosa si intende con questo termine, ha bisogno di infrastrutture fisiche, sociali e culturali, che non si inventano dall’oggi al domani, e che bisognano di un coordinato processo di investimento in campi diversi.
È una cosa da fare, non è una cosa facile, né i risultati saranno immediati.
Ecco allora l’illusione: una politica di questo tipo dovrebbe frenare i flussi di emigrazione (o forse dovrebbe sollecitare i governi a proibirli con la repressione?).
È certo che molti degli immigrati che a diecine di miglia premono sulle frontiere europee  (sempre più restie ad aprire le porte)fuggono alla miseria, alla fame alla violenza o alla guerra, ma sarebbe un errore di riduzionismo non considerare l’attrazione che esercita non solo sul piano economico ma anche sociale e culturale l’Europa. Vista da qualsiasi metropoli africana o da un villaggio l’Europa rappresenta una meta desiderata, una meta spesso conosciuta attraverso la televisione e l’immagine che ne  proiettano  i viaggiatori (turisti e no) che attraversano quei paesi. Berlino, Londra, Parigi e anche Milano, Roma e Napoli, non sono luoghi che promettono, si fa per dire, solo pane, esse sono l’immagine della luce, di un futuro che appare denso di promesse di una vita migliore in quantità e qualità. Negarlo sarebbe un errore e una stupidità, né possiamo farci forte dal fatto che poi si ricreano comunità etniche e religiose nelle nostre città, né che in qualche caso le culture (per esempio di sopraffazione delle donne) permangono. Convivere e necessario ma non sempre facile.
Se così fosse non pensiamo seriamente che l’ipotesi di uno sviluppo locale possa frenare l’emigrazione: siamo attrattivi, come in epoche diverse lo sono stati altri paesi e altri continenti. L’emigrazione dei nostri “laureati” o “dottorati”, non è solo questione di assegni, di borse, di contratti, ma di qualità della vita e della ricerca, certo una migliore dotazione di risorse può essere un freno, ma l’attrazione di Oxford o del Mit, va oltre.  Su un piano diverso l’umanità che viaggia in barche sgangherate o in gommoni  flosci sono spinte da uguali speranze, dal desiderio di esplorare, da una rincorsa alla vita e spesso senza la volontà e il desiderio di una rottura netta con la loro terra.


mercoledì 27 aprile 2016

La salute non va bene, e il resto?

Diario n. 313
27 aprile 2016



Quando la “sanità” va male la salute dei cittadini non va bene. Oggi grande sgomento per i dati messi a disposizione dell’Osservatorio nazionale sulla salute, che testimonia dell’aggravarsi della situazione della salute dei cittadini a partire dalla speranza di vita che, fatto eccezionale, diminuisce invece che crescere. Dichiarazioni, cautele, qualche spicchio di verità, una situazione grave.
Conosco molti che fiduciosi sul regime economico-sociale che ci governa  giuravano che niente di grave sarebbe successo nei nostri servizi sociali, che i taglia a comuni e regioni non avrebbero influenzato la dotazione dei servizi. Stupidi? No, accecati dall’ideologia.
Perché la sanità va male? Certo per la corruzione, ancora per l’indecente gestione da parte di molte regioni, e poi e soprattutto per i tagli, tagli, tagli. Riduzione della prevenzione, riduzione delle vaccinazioni, ticket in crescita e insopportabili per fasce consistenti della popolazione, riduzione delle cure, alimentazione distorta (pare che la famosa dieta mediterranea tramonti, per gusto, forse, per la pubblicità aggressiva di prodotti industriali, pure, ma anche per il costo della vita), liste di attese abnorme e che scoraggiano, ecc.
Se la corruzione è comune a tutte le regioni, l’efficacia del sistema sanitario non è identico tra le varie regioni, da qui una “migrazione di cura” (di chi può o può sacrificarsi, parte alla ricerca dell’ospedale disposto ad accoglierlo).
L’ennesima fotografia di un paese spaccato e squilibrato: nella grave situazione il nord sta meglio che il sud; chi ha risorse economiche si cura e chi non ne ha muore. Più di mezzo milione di morti nel 2015 in più rispetto a quelli del 2014, dovrebbero essere un campanellone di allarme, ma il ministro della salute si distingue per le sue vacue e inutili osservazioni.  

Certo che la sanità va male e che per conseguenza la salute non sta bene, ma sono indicatori pesanti di come va male il paese. Vivere della speranza che alla fine c’è la luce che ci guida all’uscita del tunnel della crisi è stata ed è una vera pazzia. Mentre siamo in attesa di questo evento magico, il paese regredisce, le diseguaglianze crescono, la frammentazione sociale avanza, la cultura del “mio” prevale, e si costruisce una condizione sociale e politica in cui sguazza Salvini (e dobbiamo ringraziare che esiste 5*).    

martedì 26 aprile 2016

Necessità, realizzabilità, frustrazione

Francesco Indovina
(stesura 2013)

(in: Utopia, passato, presente, futuro, Quaderni planning design tecnologia, scienza dell’abitare, n.3, Università La Sapienza di Roma) 

In questi giorni Philae, un piccolo robot, è atterrato sulla cometa 67P. Dopo i missili V2 lanciati sull’Inghilterra, verso la fine della seconda guerra mondiale, dopo i satelliti, lo sbarco sulla luna, le stazioni spaziali, l’esplorazione di Marte, ora questa impresa, che a me pare prodigiosa. Tutto ha inizio con le V2 di Wernher von Braun sull’Inghilterra.
Lo sbarco sulla cometa mi pare un buono spunto per ragionare sul tema che la rivista ha proposto. Se da una parte questo episodio  fa riflettere sulle “infinite” (?) possibilità della scienza e della tecnologia, dall’altra, spalancando la finestra sul  “nostro” mondo, siamo colpiti dal panorama di macerie fisiche, sociali ed economiche, che appaiono ai nostri occhi. Sembra che la specie umana mentre esprime un grande potenziale scientifico e tecnologico non è capace di un “governo” del corpo sociale che garantisca giustizia, equità, accoglienza, convivenza, pace e libertà. Con l’aggiunta che le esperienze  utopiche in questo ambito si sono dimostrate disastrose. Insomma nell’insieme siamo incapaci sia di auto-organizzazione che di governo.
Immagino si possa  dire qualcosa intorno a questa “incapacità” generale e politica, ma vorrei  avvicinarmi al tema dal punto di vista dei mie principali interessi;   vorrei, cioè,  avanzare qualche considerazione su come la questione si pone a livello del governo della città e del territorio. Non voglio, neanche, affrontare il tema di quale sia in quest’ambito l’ “utopia realizzabile” e perché dei suoi fallimenti. In un certo senso in ogni progetto c’è un’utopia realizzabile e sotto traccia anche il suo fallimento.
Sembrerebbe logico che, nel contesto prima delineato, un’attenzione particolare fosse posta alle  “città ideali”; non sono di questo avviso. Esse, infatti,  ci (mi) appaiono da una parte come  un’astrazione rispetto alla concretezza materiale dei processi sociali, economici e culturali e, dall’altra parte, affermano un’idea di forma urbana legata ad una forma di organizzazione sociale sostanzialmente prevaricante e fortemente impositiva. Una strada del tutto sbagliata per arrivare ad un società migliore (equa, giusta, democratica, egualitaria, accogliente, ecc.) che non potrà che essere un processo che abbia uomini e donne impegnati in prima persona con la piena consapevolezza di lavorare ad una costruzione sociale sempre perfettibile.
Ma non bisogna pensare che i “modelli” siano solo quelli delle città ideali, altri e differenti modelli si è cercato di calare nella realtà urbana, finalizzati alla realizzazione di una filosofia o di una funzionalità (utopie?). Si possono citare, in modo esemplificativo senza soffermarsi su di essi, la “città giardino” e la “città lineare”, l’una tesa ad affermare un punto di vista che privilegiava la relazione con l’ambiente, la bassa densità, la non grande dimensione; la secondo che esaltava la funzionalità della mobilità.
Il tema, che appare dominante nel governo della città e del territorio e che  determina una condizione di frustrazione, può essere individuato nell’ordine urbano che motiva ogni piano, ogni azione di governo del territorio, ogni progetto.  L’attività del pianificare, del progettare, del governare e di organizzare la città o il territorio, infatti, manifesta la volontà di dettare un ordine (imporre un ordine); modificare l’esistente ha lo scopo di determinare le condizione perché si affermi   un ordine futuro (per definizione non solo diverso da quello preesistente, ma anche migliore). Non si tratta, tuttavia, anche se  apparentemente lo sembri, di  un ordine “fisico”,  in realtà, anche per le determinazioni di “senso” che l’organizzazione fisica dello spazio produce, si tratta di un ordine complessivo.  Non si prospetta solo un ordine fisico, ma piuttosto il tentativo ricorrente è quello di creare le condizioni per la realizzazione di un ordine sociale;  un ordine sociale modificato (fino ad essere rivoluzionato) o la creazione di una struttura che rafforzi l’ordine sociale esistente, affinché  esso sia in modo espanso  “accettato” e, soprattutto, che  non sviluppi anticorpi.
Ed è qui che ritorna il concetto di “modello”. Quando si prospetta un “futuro”, che  sicuramente intende correggere quello preesistente, chi conduce l’operazione si affida ad un modello che ha in mente, che ha elaborato, che costituisce lo “stile” della sua modalità di governare. Non necessariamente si tratta di un modello codificato,  ma piuttosto di una struttura logica che  individua, all’interno di una rete di connessione, cosa cambiare, dove collocare, che cosa realizzare, cosa sacrificare, cosa esaltare, ecc. In sostanza l’ansia realizzativa è legata ad una prospettiva ben definita (la sua realizzazione è problema diverso).
Non a caso mi piace definire il processo di organizzazione della città e del territorio (l’urbanistica) come “scelta politica tecnicamente assistita”; si tratta di una scelta politica da parte di chiunque definisca le linee di indirizzo di una data realtà (è logico immaginare che tale scelta avvenga secondo procedure democratiche e trasparenti; che sia sempre così è un altro problema), mentre le tecnicità di assistenza costituiscono la modalità attraverso le quali quelle linee di indirizzo assumono connotati morfologici di piano e azioni realizzative di politiche pubbliche.
Lo schema appare perfetto, semplice e chiaramente definito nei suoi termini generali e fondativi, ma la realtà operativa è molto più complessa, contradittoria, non priva di ostacoli e di trappole.
Vorrei indicare quelle che possono essere definite come le difficoltà oggettive (delle soggettive non merita occuparsi) che un tale processo incontra, oggi più che ieri. In sostanza vorrei esplicitare in breve e sommariamente del perché, secondo la mia opinione,  ogni ordinamento è destinato a presentarsi nella sua realizzazione come “parziale” e,  non raramente, fallimentare.
Per quanto realistico possa essere un piano di organizzazione (o riorganizzazione) dello spazio,  esso ha sempre e comunque la tendenza (il suo contenuto) ad imporre un diverso modo di funzionamento e organizzazione; altrimenti perché intervenire? Proprio perché questo nuovo modello di organizzazione rifiuta la tendenza in atto e a questa più o meno estesamente si “oppone” (di fatto), per sua natura assume il connotato apparente di “utopia realizzabile”, ma  nella realtà finisce per configurarsi come un’utopia  “non realizzata”, la struttura della società reagisce e si oppone (reazione e opposizione dipendono sia dalla natura del progetto, dalla sua forza, sia per gli interessi che colpisce).
So che forse eccedo nell’uso (e abuso) del termine utopia, ma mi sento legittimato a questo uso facendo riferimento, anche se in modo parziale e personale, a quanto affermano Yona Friedman  e Robert Musil, posizioni richiamate nella presentazione di questo numero della rivista. Assumo, cioè, che l’utopia non solo sia realizzabile ma costituisca elemento fecondo di ogni (di tutti?) gli interventi di trasformazione della città (e della società). Interpreto, tuttavia,  tale realizzabilità come una possibilità perennemente frustrata ma assolutamente necessaria. I termini realizzabilità, frustrazione e necessità costituiscono la maglia concettuale che definisce ogni tipo di intervento.
La realizzabilità costituisce l’elemento fondativo di ogni politica, non mi riferisco soltanto ai suoi contenuti, ma anche alla operatività attivata. Non sono i contenuti che possono garantire la  realizzabilità degli stessi,  questi dipendono dalla giusta e ponderata misura del rapporto tra realtà,  obiettivi e forse in campo. Tanto per essere esplicito, non penso che una proposta estrema e radicale (come si dice oggi non volendo più usare il termine rivoluzione e suoi derivati) abbi un tasso di realizzabilità minore di una proposta riformista, in molti casi proprio quest’ultima rischia di essere non realizzabile, perché incide poco, lascia spazio alla contrapposizione, non determina nuovi equilibri. È il rapporto tra proposta, forze in gioco (di tutti i tipi), e contesto reale che determina la realizzabilità o meno di una proposta (anche di assetto del territorio).
La necessità è il fondamento di ogni intervento. Si interviene perché la realtà non appare soddisfacente (nel dal punto di vista fisico morfologico, né da quello sociale), e la sua dinamica ancora meno. È questa insoddisfazione, più o meno generalmente percepita, che determina la domanda di un intervento correttivo della situazione.
La frustrazione è l’esito di diverse circostanze, che vanno dall’inadeguatezza della proposta, da errori di valutazione, ma soprattutto del fatto che si ha a che fare con un’organizzazione complessa e in modo circostanziato di una maglia di relazioni con diversi gradi di affinità  fino all’antagonismo.
La città è un’organizzazione dalle molteplici relazioni tra soggetti e interessi, che tende a “reagire” alla sua trasformazione di fronte ad un atto di imperio (il piano), che proprio perché introduce delle trasformazioni,  non conferma la tendenza spontanea,  cioè non segue il corso delle cose, ma impone delle deviazioni sul percorso spontaneo. D’altra parte il piano, per quanto articolato sia, finisce sempre per lasciare dei margine: deve essere seguito (eseguito) ma contemporaneamente deve considerare possibili “opposizioni” e non può prevedere degli accadimenti esogeni, e quindi deve ammettere qualche maglia larga; speso, incontrando una realtà non abbastanza studiata o non prevista,  si “smaglia” e lascia spazio a realizzazioni che difficilmente possono essere considerate conformi alle intenzioni.  
La cosa che vorrei sottolineare è, inoltre, l’emergere di condizioni esogene, molto difficilmente prevedibili (sono questi gli argomenti che sostengono quanti pensano ad un “piano flessibile”, cioè all’assenza e alla vanificazione di ogni forma di pianificazione), che possono influenzare la realtà modificando le condizioni di base. Una di questi elementi esogeni è sicuramente la tecnologia. Si possono fare due banali considerazioni iniziali: l’innovazione tecnologica e sempre più pervasiva; il ritmo dell’innovazione è sempre più veloce. Quale sia l’impatto di questo nell’organizzazione urbana e territoriale, un impatto non evitabile, viene molto spesso  mitizzato mentre andrebbe governato.
Si osservi intanto che mentre per lungo tempo la tecnologia della città (incorporata nella città) era superiore (per qualità e quantità) a quella in uso nelle “famiglie”, ora la situazione si è capovolta: ciascun individuo ha in generale una dotazione di tecnologia assolutamente incommensurabile rispetto al quella in uso nella città. Il grande parlare della “città intelligente”, i finanziamenti a questo scopo destinati, sono finalizzati, si dice, a colmare questa distanza tra città e individuo. Ma non vengono prese in considerazione  le conseguenze sull’organizzazione urbana, ci si contenta di descrivere le meraviglie della connessione, quella della disponibilità di dati in tempi reali, quelle delle possibili libertà di scelta, la dilatazione delle conoscenza, l’informazione in tempo reale, ecc. Ma cosa, a che scopo e da parte di chi, queste possibilità sono realizzate e utilizzate, o, ancora, come si modificano i rapporti di potere reale cancellando i “corpi” intermedi e facendo riferimento esclusivamente all’individuo connesso ma isolato?
Se da una parte le “fantasie” tecnologiche possono descrivere paesaggi “spaventosi”, dall’altra parte non pare soddisfacente l’ipotesi soft che ci offre una città “migliore” ma che di fatto continua a funzionare come ora. L’innovazione tecnologica, individuale, collettiva e urbana, modificherà, lo sta già facendo, gli stili di vita, e questi influenzeranno pesantemente la “domanda” di città, la percezione della convivenza, i modi come si userà lo spazio organizzato, che continuiamo a chiamare città. Alle condizioni date non avremo una società più coesa, ma piuttosto una società più segmentata (altro che liquida) e caratterizzata da fortissime sperequazioni e discriminazioni. La crisi occupazionale non sarà risolta, ma essa, sembra probabile,   si approfondirà proprio per effetto delle tecnologie, con quello che questo significa sia in termini di disponibilità di reddito di famiglie e individui, sia in termini di ulteriore sgretolamento della società, sia in termini di “domanda pubblica”, nonché di conflitti e insicurezze. Non è da escludere, ma al contrario considerare che le sperequazioni sociali determineranno da una parte un ulteriore affermazione dell’organizzazione sociale dello spazio, dall’altra parte  si avrà un crescente degrado della città nel suo complesso e specialmente di alcune sue parti.
Ma se poi il nostro sguardo si proiettasse fuori dai confini europei allora la situazione ci apparirebbe del tutto fuori da ogni possibilità di controllo. Non solo il processo di inurbamento è previsto sempre più rapido, ma  in alcune metropoli dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina si prevede che la popolazione possa crescere (previsioni fino al 2025) nella misura di alcune centinai di miglia di persone l’anno  (con una punta massima di mezzo milione di abitanti medi per anno per Dakar). Appare evidente come questa dimensione non renda possibile nessuna politica di insediamento che non siano sterminati slum e politiche violente di contenimento. La condizione urbana e metropolitana nel mondo appare drammatica, anche in paesi con tassi di sviluppo economico molto alto, come in Cina, e politiche autoritarie, come in Cina. In realtà qualsiasi forma di governo del territorio rischia di essere travolta.
Per  alcuni di questi aspetti si pensa che la “partecipazione” possa costituire un antidoto, in altri contesti si fa riferimento a processi di autoorganizzazione, o ancora a forme nuove di convivenza. Trattare di questi aspetti non mi è consentito, per ragione di scienza e di spazio, ma un’osservazione mi sembra di poterla avanzare: tali riferimenti tengono sotto gli occhi la situazione europea, che pur nei suoi limiti potrebbe giovarsi di una loro estesa e intelligente attivazione (estesa e intelligenza attivazione, si torna all’utopia nel senso banale del termine). Ma l’Europa, non sembri un paradosso, costituisce una caso fortunato, per storia, cultura e sviluppo economico, ma se il mondo continuerà ad andare così come è andato negli ultimi dieci/venti anni il continente sarà “invaso” non militarmente (almeno si spera) ma da una massa di disperati che sfuggono alla fame, sete, carestia, oppressione e violenza e sperano in una vita migliore. Né avremo possibilità di difenderci.
Se gli elementi prima segnalati, in modo disordinato e forse non coerente, rappresentassero tuttavia la prospettiva della nostra futura condizione urbana e metropolitana, il ricorso all’utopia sarebbe una mera necessità. Intendo dire che il governo delle trasformazioni in atto e attese richiede il massimo di intelligenza “politica”, il massimo di inventiva, il massimo di senso critico. Non solo ma l’utopia realizzabile si dovrebbe caratterizzare per un tasso molto elevato di radicalità: le città e l’organizzazione del territorio richiedono delle soluzioni sociali e politiche che sappiano mettere a frutto il grande potenziale delle innovazioni tecnologiche, e che sappiano usare questo potenziale per una rivoluzione che mentre libera “tempo individuale”, garantisca diritti di cittadinanza, sviluppo e moltiplicazione dei servizi, uguaglianza e libertà.
È molto probabile che la convivenza civile sarà in futuro segnata da oppressione, discriminazione, sperequazione e violenza, così come viene descritta in molta letteratura e in molto filmografia (si pensi a Fuga da New York, Blade runner o il precedente Metropolis). Non mi riferisco al mondo dopo la catastrofe nucleare o ambientale (la terra il giorno dopo), ma piuttosto alla rappresentazione visiva dell’incapacità della nostra specie di controllare la propria evoluzione (sic!) sociale è individuale.
Mentre mi paiono molto improbabili quelle descrizioni di città e metropoli “perfette”, che abbondano dell’uso delle tecnologie più avanzate, ma che sembrano non incidere sulle relazioni sociali, con una sorta di scoperta del “buono” che c’è in ciascuno di noi.
Ma se non possiamo assecondare le visioni apocalittiche né tanto meno possiamo fidarci di una prospettiva del meraviglioso, allora abbiamo bisogno di tornare ai concetti sui quali in precedenza mi sono soffermato: necessità, realizzabilità, frustrazione. Concetti che andranno affidati non solo ai “reggitori”  (qualsiasi ne sia la forma) ma alla società nel suo insieme e nei suoi singoli membri.
Il futuro richiede, ci impone se non si volesse soccombere, un’utopia realizzabile; si tratta, cosi mi pare di sentirla, come una necessità salvifica (non metafisica) delle migliori possibilità della specie. La necessità di un progetto (urbano e sociale) che affermi (non riaffermi) principi di equità, convivenza, uguaglianza e libertà. Che ridisegni lo spazio affermando questi valori (non quello della solidarietà, spero sia chiaro perché). Tale necessità devono concretizzarsi in un’utopia realizzabile, spero che sia chiaro per quanto detto prima che tale realizzabilità non si fonda sulla sua moderazione, quanto piuttosto sulla sua radicalità. Ai contenuti di questa utopia realizzabile bisognerà mettere collettivamente mano, non può essere l’idea di qualche eccelsa mente, proprio perché deve cogliere i sapere diffuso, le esperienze concrete, la disponibilità creativa, non potrà che essere un prodotto collettivo (spero che sia un’utopia realizzabile questo coinvolgimento).  Contemporaneamente dobbiamo essere pronti ad accettare la frustrazione di una realizzazione parziale: contrasti, fratture, incomprensione, antagonismi e interessi, scenderanno in campo, per contrastare e per modificare.

Tale frustrazione non è un indicatore di sconfitta, ma piuttosto indica la strada  di un continuo e permanente  ricominciare.     

mercoledì 13 aprile 2016

Attilio Belli, Memory cache. Urbanistica e potere a Napoli (CLEAN, Napoli, 2016)

Da ASUR, 2017
Non ci si lasci ingannare dalla dichiarazione di “mitezza” dell’autore, il suo racconto delle vicende universitarie all’interno della Facoltà di Architettura, nonché le questioni che riguardano le vicissitudine del governo della città di Napoli è tutto fuorché mite. Non perché Belli coltivi l’astio, ma perché la “testimonianza” di queste vicende, che è uno spaccato di potere pubblico e accademico,  di invidie e tradimenti, di intrighi e tentativi frustrati, in quanto portando le stigmate della realtà ne mostrano la “violenza”. Se c’è una cosa che meraviglia è la capacità di “resistenza” dell’autore dentro queste vicissitudini: guardate con ironia queste vicende portano il segno di una determinazione, che ancorché frustrata resiste e si ripropone. Si tratta della consapevolezza di un ruolo, della convinzione circa l’utilità della propria disponibilità, della sicurezza nei propri mezzi intellettuali e della certezza dell’interesse collettivo esercitato dalla propria disciplina. .  
Quella dell’autobiografia è un esercizio pericoloso, nell’introduzione Belli espone i pericoli di tale esercizio (con abbondate bibliografia), la consapevolezza dell’autore di navigare in un mare pieno di pericoli lo porta a costringere il lettore quasi a dimenticare la soggettività biografica per concentrare l’attenzione al “contesto”.  Il contesto sia della vita universitaria, sia della politica, sia delle tragedie che investano Napoli costituisce la trama alla quale si intreccia l’ordito delle esperienze dell’autore. Da sempre Napoli è il soggetto dell’attenzione di Belli, nei suoi lavori teorici, in quelli di ricerca fino alle  sue prove letterarie.
Nel primo capitolo, l’ossessione di una passato glorioso, l’autore ricostruisce i tratti della sua formazione. Gli incontri e i testi che costituiscono i mattoni di questa formazione sono rilevanti e ampiamente citati dall’autore: tutto omogeneo e compatto, sicuramente no, testi e personalità costituiscono un caleidoscopio. Tutta l’evoluzione culturale dell’autore è caratterizzato da legami e rotture, da adesioni e rifiuti. Cosi per la sua prima formazione, che schematizzando è possibile nominare come “pianificazione scientifica”, paga il prezzo della rottura con Quaroni, che a Belli pesa molto.
Al periodo di formazione si accompagnano esperienze professionali di pianificazione nonché un primo ingresso all’università, prima con una borsa e poi come tecnico. Tutti rose e fiori, non è da crederlo, ma il peggio dovrà venire più avanti:, più si arricchisce la sua esperienza, più la sua professionalità e la sua elaborazione diventa più ricca, in sostanza, più cresce Belli, più crescono opposizioni, sgarbi, tradimenti.
Ma anche il contesto cambia, cresce, “dal  1968 al 1972 si sovrappongono, si intrecciano, e infine si elidono due modi di vita e due paradigmi disciplinari molto diversi tra di loro. Il passaggio dall’empirismo logico, dal planning scientifico, al marxismo, all’analisi del conflitto urbano e dell’uso del territorio nel diagramma delle trasformazioni sociali; la svolta politica e ideologica del periodo prenderà corpo in campo disciplinare. È molto interessante, potrei dire educativo, seguire il rapporto dell’autore con il contesto e come questo diventi metodo. Il grande movimento di politicizzazione di massa non lo lascia indifferente, e forte è l’attrazione nei riguardi dei tentativi di porre su basi diverse sia l’analisi che l’intervento nella città e nel territorio. Belli si impegna molto su questa riflessione, partecipa ad alcune iniziative editoriali che questo nuovo punto di vista cercano di approfondire. La sua attenzione si focalizza sui territori del mezzogiorno fornendo in un suo saggio una interpretazione molto interessante (Potere e territorio nel mezzogiorno d’Italia durante la ricostruzione 1943-1950) che non accresce le simpatie dei “poteri forti”, economici, politici e culturali, fuori e dentro l’università per il nostro autore. È anche un periodo di impegno politico nella “nuova sinistra, e cerca, nell’organizzazione napoletana di questa, declinare l’importanza delle questioni urbane e in particolare del Nuovo centro direzionale di Napoli. Scarso successo. Così come, in rappresentanza politica di questa sinistra entra a far parte della Commissione edilizia del comune di Napoli, ma solo e isolato può poco.
Si tratta anche di grandi travagli all’università, con il rifiuto riconoscere l’urbanistica come disciplina autonoma e importante, fino a rifiutare la costituzione di un apposito dipartimento; ma non si tratta solo di divergenze disciplinari e scientifiche, ma piuttosto di pesanti questione di potere e di carriera. Belli partecipa a diverse concorsi, entrandone come Papa e uscendone sconfitto.  Tradimenti, concorrenze tra diverse sedi, scarso appoggio della Facoltà, questo e altro fanno attendere l’ordinariato a Belli fino al 1988. Da qui un nuovo percorso universitario per il nostro. Dopo la chiamata è invitato ad afferire al Dipartimento di Conservazione, del quale viene eletto direttore, ma il nostro fa un eccellente lavoro di politica accademica per giungere alla formazione del Dipartimento di Urbanistica (1996) e, finalmente, nel 2002, riesce a istituzionalizzare il corso di laurea in Pianificazione territoriale. Ma non ci si lasci ingannare non si tratta di una “ascesa al potere” in sé, ma piuttosto della necessità di avere strutture istituzionali per garantire una crescita disciplinare, la cura di giovani ricercatori, affermare, si potrebbe sintetizzare, le ragioni della pianificazione in relazione anche alla città. La ricerca metodologica assume la forma, nel 1994, della rivista CRU  i cui temi e il cui impegno ora è transitato nella rivista CRIOS:.  Mentre molte sono le iniziative di ricerca, le pubblicazioni e la partecipazione a ricerche internazionali.
Ma Belli non distrae il suo occhio dalle questioni della sua città. Non si tratta solo di impegni e di responsabilità di incarichi, vedi il piano territoriale, ma esercita il suo occhio critico sulle trasformazioni della sua città. Continua il suo impegno sulle questioni napoletane. Una delle vicende che più hanno interessato Napoli (“una delle vicende più assurde e indecorose, di cui siamo tutti responsabili”, scrive Belli) a cavallo dei sue secoli è la vicenda di Bagnoli. A cominciare dal 1990 l’acciaieria di Bagnoli declina e chiude nel 1993.  Una grande iattura per l’economia e l’occupazione dell’area ma anche, si disse, una grande occasione di rinascita. Ma ecco che tra paure di speculazioni e un ambientalismo estremo, una “pubblicità” esaltata contro il coinvolgimento dei privati, l’incertezza dei progetti, al di là del riferimento ad attività innovative,  l’esistenza di gruppi di interesse forti (ma inetti) e l’incapacità di governo, mostra in tutta la sua crudezza il disastro. Bagnoli è ancora là; oggi si ricomincia con le speranze, poche idee ma grandi annunzi ed esaltazione.
Il libro di Belli cade a pennello nel dibattito politico che dovrebbe animare la città in vista della prossime elezioni amministrative. O per meglio dire cadrebbe a pennello se le forze politiche coinvolte fossero effettivamente interessate ad un bilancio del passato e a riflettere su disegni e prospettive per il futuro. Detto francamente a molti dei protagonisti il tema sembra estraneo, mentre la sinistra si automacella tra antagonismi accettabili e processi di selezione discutibili.
Sebbene non tema esplicitamente centrale del libro la questione del necessario aggiornamento della teoria e della pratica urbanistica attraversa tutto il percorso di Belli. Passaggi netti, chiarezza di intenti, ma, personalmente, non convicente. Non si tratta di negare il necessario allargamento del punto di vista, non si tratta di negare anche inefficienze e lentezze del sistema di pianificazione, ma piuttosto di garantire il governo pubblico delle trasformazioni urbane e territoriali, un governo guidato da obiettivi strategici, che certo tengono conte delle trasformazioni in atto ma non ne sono vittime. Così come l’ascolto non mi sembra una stranezza per un urbanista, ma al contrario un elemento costitutivo della sua metodologia. La dinamica della società non mette in discussione il governo pubblico delle trasformazioni, ma solo la cattiva urbanistica, così come la richiesta di una maggiore flessibilità non richiede la cancellazione del piano ma piuttosto un articolata strumentazione per la sua realizzazione in grado di cogliere i cambiamenti significativi. L’urbanistica, come in più punti riconosce Belli, ha rapporti stretti con la politica, e questo perché le scelte urbanistiche non sono tecniche ma politiche, ma spesso, tutta la vicenda di Napoli ne è una  dimostrazione, la scelta politica si muove per soddisfare appetiti più che bisogni, si fa condizionare da un ideologismo estremizzato, al punto da essere pura astrazione, o mostra tutta la sua inettitudine. Con Belli, alla lettera, “l’urbanistica … meriti di essere vissuta a pieno e difesa da accuse che sparano con troppo faciloneria nel mucchio”.
Il volume contiene anche il racconto grafico di Paolo Ceccarelli di un incontro allo IUAV centrato sulla figura di Belli:  Attil neapolitan o avventure del prof. Belli in padania.