giovedì 31 agosto 2017

Rossana Galdini, Terapie urbane.


Rossana Galdini, Terapie urbane. I nuovi spazi pubblici della città contemporanea (Rubettino, 2017, pp. 168, 14 euro).
da ASUR, 2013


Tra le questioni che riguardano la città contemporanea sicuramente si trovano quelle relative allo spazio pubblico; i termini più ricorrenti sono quelli della sua crisi, della necessita di un rifondazione del concetto, della riflessione sulla loro progettazione oggi, ecc. In tutte queste riflessioni è possibile evidenziare un punto mai completamente risolto: è la forma e struttura degli spazi pubblici che ne determinino l'uso o piuttosto è il tipo di organizzazione sociale e di organizzazione della vita quotidiana che determina l'uso che degli spazi pubblici si fa. Che sia in una falsa alternativa  è evidente, ma tale reciproca relazione mette in evidenza come non sia possibile trattare la questione degli spazi pubblici nell'ambito delle idee astratte di organizzazione della città o l’occasione per applicare modelli più o meno realistici.
La piazza è sempre là, uguale a se stessa, ma nel tempo l'uso che ne è stato fatto si è notevolmente modificato ed è stato strettamente collegato ai bisogni che quella collettività esprimeva in una determinata stagione storica; una funzione sembrava decadere ma poi la stessa in forma diversa si ripresentava. L'appropriazione politica di quello spazio pubblico sembrava scomparsa con il mutare della comunicazione politica, ma all'improvviso essa accoglie migliaia di uomini e donne, di ragazzi e vecchi che sentivano l’improvviso  bisogno di esprimere con la presenza del corpo la loro domanda politica, il loro disaggio, la loro voglia di cambiamento. La piazza, spazio pubblico emblematico, mostra tutta la sua disponibilità alla flessibilità. Si tratta di tema importante sui si tornerà anche perché costituisce uno dei tratti principali del lavoro di Rossana Galdini.
È proprio la ricchezza dei punti di vista, l'articolazione dei ragionamenti e dei riferimenti che rende interessante questo testo. L’autrice ci pone di fronte alla coniugata differenza tra “spazio pubblico” e “spazi pubblici”, essendo questi ultimi la materiale organizzazione dei primi, o ancora la distinzione tra luoghi e spazi. Con riferimenti ricchi e appartenenti a campi disciplinari diversi, l'autrice conduce in un percorso di definizioni, di ipotesi progettuali e di osservazioni che rendono chiaro quanto sia centrale nel discorso sulla città la questione degli spazi pubblici, tanto che è possibile affermare che senza “spazi pubblici” non vi è città. Non si tratta solo di una modalità di organizzare le relazioni spaziali, ma anche quello di dare corpo alla socialità, costruire le possibilità materiale perché la colloquialità urbana possa esprimersi, espandersi, dare senso alla città.
Osserva l'autrice che: “ non sempre esiste una diretta conseguenza tra la presenza di uno spazio materiale è la creazione di uno spazio relazionale. Molte volte lo spazio formale e il suo progetto facilitano la realizzazione di spazi relazionali aperti, dell'incontro, del dialogo, altre volte sono percorsi immateriali, relazioni interpersonali che creano spazi pubblici informali”. Un'osservazione questa che apre a molte questioni, che vanno dalla progettazione, alla previsione di bisogni presenti e futuri, alle modalità attraverso le quali far partecipare le persone alla costruzione degli spazi pubblici (collettivi), al ruolo della tecnologi nella ridefinizione degli spazi pubblici, alla loro privatizzazione, alla perdita di ruolo della sfera pubblica nella vita quotidiana e quindi al deperire dello spazio e degli spazi pubblici e all’emergere, fino a quando non saranno investiti da una crisi di ruolo, di spazi privati ad uso pubblico.  Tutte questioni importanti ma spesso contraddittorie, che vengono nel testo esplorati mettendo il luce punti di vista diversi, collegando la dinamica della “questione” all'evoluzione della società, degli stili di vita prevalenti.
Si tratta di una trattazione quanto mai ricca e documentata, un testo con una forte componente didattica, l’assenza di banalizzazione e la ricchezza dei riferimenti hanno lo scopo di sollecitare la riflessione, anche per l’attenzione posta agli strumenti adottati più recentemente nel tentativo di reinventare gli spazi pubblici adatti alla nostra epoca..   
“Accanto all'opinione diffusa del declino dello spazio pubblico, si è diffusa, parallelamente, anche l'ipotesi di una sua reinvenzione, supportata da motivazioni differenti come l'ispirazione all'idea di estetizzazione della scena urbana, alla tematizzazione degli spazi, alla trasformazione recente di molte città in set turistici, o, al diffuso bisogno di creare e ricreare spazi di interazione e luoghi di socialità”. L'autrice mette in campo tutto il suo interesse e la sua capacità esplorativa, soprattutto, sulle nuove metodiche di intervento; così esplora l’Everyday Urbanism, il Tactical Urbanism, il Temporary Urbanism, l’Ago puntura urbana, il Do it Yourself Urbanism.
A me pare, ma si tratta di un punto di vista molto soggettivo, che queste metodiche possono finire per  mettere in discussione  senso e significato di spazio pubblico. Si tratta di  metodiche che in misura più o meno grande comportano il coinvolgimento della popolazione nella progettazione o anche realizzazione e gestione degli spazi pubblici. La partecipazione dei cittadini costituisce, insieme, una necessità, un’opportunità e di una ragionevole attenzione ad alcune modifiche della società. Ma si tratta anche di una questione problematica. Il mio atteggiamento non è contro la partecipazione ma questa non può essere nominata e proclamata senza senso critico, come spesso avviene in tanti “innamorati”.
Intanto la partecipazione dovrebbe rendere espliciti i bisogni della popolazione, le necessità che complessivamente o in gruppi, più o meno grandi esprimono. Tuttavia se la crisi degli spazi pubblici fosse  interpretata come l'esito della frantumazione sociale, la società liquida, per fare riferimento ad una interpretazione che gode molti consensi, allora  ogni aggregazione di popolazione finalizzata alla definizione  di un bisogno comune non potrebbe che essere considerata temporanea, caduca, e non tale da essere assunta come riferimento per la costruzione di spazi pubblici che rispondano a bisogni espressi. È la caducità di tali bisogni, non esito di un aggregato sociale stabile, a rendere inagibile tale domanda come programmatica.
Se da una parte sembra difficile che la frammentazione della società possa essere assunta come riferimento, con tutte le conseguenza che si riverberano sul problema degli spazi pubblici, dall'altra parte la società esprime disagi che una buona organizzazione degli spazi pubblici potrebbe attenuare, e ancora esprime, anche se in modo contraddittorio, esigenze di socializzazione che spesso esplodono contro ogni previsione. La società pur nella sua frammentazione, nel prevalere di un individualismo distruttivo di ogni senso di appartenenza, continua ad esprimere bisogni di collettività. È proprio l'espressione individuale di questi bisogni che non appaiono stabili e si esprimono in forma individualistica che spesso non può permettere processi di aggregazione.
La risposta consapevole a questo stato di cose è l'individuazione dello “ spazio flessibile”  come opportuno è necessario. Gli spazi pubblici flessibili costituiscono la frontiera più avanzata della progettazione della città; spazi che si prestano ad essere adattati secondo bisogni e necessità espresse. Questa enfasi sulla flessibilità lascia intendere che gli spazi pubblici della tradizione urbana, usiamo questo termine generico, fossero caratterizzati da rigidità. Ma è proprio così?  Non credo. La piazza, assumiamo questo spazio emblematico, è stata ed è ancora, mercato, luogo di manifestazioni politiche, campo di gioco e spazio sportivo, vi si fanno anche corsi di cavalli e partite di calcio, palcoscenico per manifestazioni artistiche e culturali, luogo di socializzazione, parcheggio di auto, luogo adatto per i venditori ambulanti,  spazio per manifestazioni religiose o di preghiera. E chi sa quanto altro ancora. Non sono così stupido da pensare che tutte le piazze siano uguali e così flessibili, ma voglio sottolineare che in generale gli spazi pubblici sono per loro natura flessibili, ed entro ceri limiti possono essere utilizzati a scopi diversi. Non nego che esistano spazi specializzati e non flessibili, penso alle corsie preferenziali per le tranvie, per esempio, o ancora agli spazi specializzati per specifici sport, tutto vero, ma in generale gli spazi pubblici si presentano in larga parte già predisposti ad usi diversi. Da questo punto di vista l'invenzione della gente, dei giovani è molto superiore a quanto previsto da progettisti e amministratori. Non sono gli spazi ad essere rigidi, ma molto spesso è l’amministrazione e la politica che mette ostacoli alla flessibilità. Quale è stato il contributo della street art nel modificare il senso di alcuni spazi? Si pensi a cosa potranno presto diventare le  gradi rotatorie di cui oggi è disseminato il paese come preso da un  virus?
Non sto dicendo che tutti gli spazi pubblici si presentano con un alto tasso di flessibilità,  credo che molta attenzione a questo aspetto vada posto nella progettazione di nuovi spazi pubblici (da questo punto di vista, tuttavia,  mi spaventa l'idea progettuale  che dovrà programmaticamente  essere fissata sulla flessibilità).  Non è lo spazio che sarà flessibile ma l'uso che le persone ne faranno.
Quello che in realtà si sta perdendo, ed è positivo, è l'idea prevalente di spazi pubblici monofunzionali, anche se di alcuni di questi ci sarà ancora bisogno. La città sempre più si apre ad esperienze diverse, a culture estranee, a bisogni modificati e in continua  evoluzione, gli spazi pubblici che della città costituiscono l'ossatura portante, dovranno adattarsi a questa situazione ma a partire dalla loro reale natura: substrato da cui è possibile esercitare il diritto alla città, elementi che danno senso alla condizione urbana, luogo dove si esercita una possibilità di espressione sociale e individuale. Saranno necessari aggiustamenti ma non mi pare che la strada giusta sia quella di inseguire una frammentata domanda è l'esercizio di un individualismo rivendicato come diritto.  Nella partecipazione frammentata, nella volontà del piccolo gruppo di realizzare un proprio punto di vista, va colto il dato di arbitrarietà e di egotismo.
Il testo di Rossana Galdini di questo e di altro ancora si occupa. Che ci vogliano dei “nuovi spazi pubblici” come recita il sottotitolo del libro è necessario, che nuovi esperimenti andranno fatti è pur vero, ma assumiamo che la città è in continuo cambiamento e che questo non sarà tanto l'esito di un progetto audace, ma la creazione delle possibilità che il nuovo possa realizzarsi e che i vincoli che imponiamo, o che abbiamo la pretesa di imporre, non riescano a trascinare nell’ignavia la capacità creativa della popolazione e che questa dovrà misurarsi con le contraddizioni nel suo seno.
Un testo da studiare per i suoi molti filoni seguiti, non già una ipotesi preconfezionata ma una vera ricerca tra le molte ragioni, i molti esperimenti, tenendo  ferma la relazione tra città e spazi pubblici.
Francesco Indovina



mercoledì 2 agosto 2017

L’abusivismo cresce e i condoni pure. Viva il locale



Diario n. 348
1 agosto 2017-08-01

Circa il 18% delle costruzioni realizzate nel 2015 risultano abusive. Il dato è in continua crescita. Il 20% dei fabbricati costruiti non rispetta le norma urbanistiche. Le regioni campioni dell’abusivismo sono: Sicilia, Campania, Calabria, Molise, con percentuali di abusi intorno al 50%.
Si tratta di un esito congiunto di disattenzione e inettitudine delle autorità, dei connubi tra certe amministrazioni e la speculazione edilizia con annessa corruzione e dalla prevaricazione della criminalità organizzata.  
Questo tuttavia è niente in confronto a quello che ci prepara il futuro, infatti, accanto al sostanziale blocco dei condoni a livello nazionale, si sta sempre più sviluppando una politica di condoni selvaggi regionali e locali, all’insegna della riduzione del consumo di suolo.
Se da una parte è ovvio che il suolo va risparmiato, lo slogan consumo di suolo zero, che presuppone o meglio che lascia intendere la salvaguardia dell’agricoltura e ovviamente dell’ambiente, a me pare priva di senso, rispetto alle dinamiche urbane e alle trasformazioni delle città e alle dinamiche della stessa agricoltura.  Certo i vuoti vanno riutilizzati, lo si sostiene dagli anni ’70, i terreni interstiziale devono essere recuperati, ma l’affermazione (disegno di legge approvata dalla Camera) sul consumo di suolo avrebbe bisogno di maggiore riflessione, maggiori analisi, qualche fondamento teorico, ecc. Il guaio è che si è trasformato in uno slogan che mostra oggi tutta la sua pericolosità.
Per risparmiare suolo alcune regioni condonano le mansarde trasformate e finanche le cantine. Ove queste ultime  fossero incompatibili con gli standard di abitabilità si “suggerisce” di scavare e/o togliere soffitti per guadagnare i necessari centimetri di altezza. Questo avviene, per esempio, in Abruzzo, terra sismica, dove i terremoti spesso disastrosi e cruenti niente hanno insegnato alle autorità.
In Lombardia e Lazio i sottotetti possono essere condonati se trasformati in abitazioni.
La Campania, Regione gestita dal “compagno” Vincenzo de Luca, ha in corso di gestazione una legge che di fatto evita ogni demolizione di edifici abusivi (immagino perché così si risparmia suolo).  
Chiudiamo con la Sardegna (governata dal centro sinistra) dove la nuova legge urbanistica in approvazione dal Consiglio regionale di fatto riduce drasticamente i vincoli posti dal piano paesaggistico circa l’inedificabilità  di una fascia di territorio inferiore a 300 metri dalla costa.  
Questa vicenda, e altre ancora, fanno giustizia del luogo comune (comune anche alla sinistra) secondo il quale il miglior governo è quello più fisicamente vicino ai governati: il “locale” come luogo della mobilizzazione popolare e per il raggiungimento dei migliori obiettivi. Il locale sembra quanto mai permeabile ad interessi locali non sempre legittimi e spesso contrari ad ogni criterio di buon governo. Ma la vicenda chiama in causa direttamente Gentiloni e De Rio che hanno la possibilità e il potere di impugnare questi provvedimenti perché contrari all’indirizzo nazionale. Lo faranno? c’è da dubitare.

Non convince che per risparmiare suolo bisogna incrementare l’abusivismo edilizio e condonare ogni abuso ed ogni costruzione irregolare.