lunedì 16 novembre 2015

L’URBANISTICA DI FRONTE ALLA FRAGILITÀ DEL TERRITORIO

L’URBANISTICA DI FRONTE ALLA FRAGILITÀ DEL TERRITORIO
Francesco Indovina

da Ecoscienza, n. 3, 2015, ARPA Emilia-Romagna


La fragilità del territorio, il suo dissesto, smottamenti, frane ecc. trovano sempre un responsabile nell'urbanista, o meglio ancora nell'urbanistica. Certo sono stati prodotti dei piani inadeguati, sbagliati e che si opponevano poco o niente alla speculazione, ma il problema non è questo, non si tratta del fallimento dell’urbanistica, ma piuttosto della sua sconfitta. Contro l’urbanistica ha vinto l’opportunismo della politica (locale e nazionale), la voracità del settore edilizio e delle opere pubbliche, la speculazione, la convinzione diffusa che si poteva costruire ovunque, contro ogni ragionevolezza, in una situazione in cui il bisogno di una casa ha finito per giustificare l’irresponsabilità costruttiva (ci ricordiamo della teoria dell’abusivismo di necessità?). Detto questo, la situazione non cambia, non solo, ma nuove situazioni pongono problemi nuovi e più gravosi sul piano della formazione, della disciplina, del pensiero urbanistico.
I cambiamenti climatici, per esempio, con il moltiplicarsi di “eventi estremi”, pongono nuovi problemi che si sommano a quelli precedenti, ma la cui attenzione mi sembra scarsa. A questo proposito vorrei segnalare come mi pare ci si muova in modo assolutamente inadeguato, come se fossimo cinquanta anni fa e si fanno le cose che bisognava fare allora, e che non sono state fatte, e che ora forse sono “dannose”. Ma pare, per esempio, che l’attenzione al moltiplicare del verde urbano, che ha moltissime giustificazioni, non tenga conto della situazione nuova: quale sia l’effetto di tale diffusione in presenza, per esempio, delle così dette “bombe d’acqua” o delle più tradizionali alluvioni. Non sto prendendo posizione contro il verde urbano, ma sottolineo che questo oggi, in qualche modo che non so, deve tenere conto della nuova situazione. Che sia necessario un atteggiamento di adattamento, mi sembra inevitabile, e questo non vuol dire accettare lo stato di fatto, ma richiede che la ragione prenda coscienza del cambiamento e cerchi di adeguare gli strumenti per evitare danni maggiori.
A me pare che sia da sottolineare sia la fragilità delle città che quella del territorio, che le due questioni siano intrecciate è forse vero, ma ciò non toglie che si tratta di questioni diverse che hanno bisogno di tipologie d’intervento diverse; ma ancora, dire fragilità delle città è una generalizzazione che non convince, anche se le “voragini” che si aprono nelle strade urbane sono abbastanza comuni. Così come dire fragilità del territorio è diverso se riferito a un territorio di collina e montagna o a un territorio marino, non perché l’uno sia meno fragile dell’altro, tutt’altro, ma perché diverse sono le necessità d’intervento. Gli urbanisti non possono pensare che un’attenta politica delle “destinazioni d’uso” dei suoli sia la soluzione dei nostri problemi, né, ancora, che la riduzione del consumo di suolo, la difesa del paesaggio e il privilegio accordato alle piccole opere, nobili e importanti propositi, siano risolutive della situazione. Diciamolo con molto chiarezza: c’è un futuro che deve essere governato con sagacia e intelligenza, ma c’è anche un passato che deve essere risanato, messo in sicurezza, reso “amico”, e per fare questo c’è molto da fare. Diciamolo con tranquillità e con la coscienza consapevole, il risanamento del nostro territorio e delle nostre città costituisce il New Deal del nostro paese e della nostra epoca. Si tratta di fare minuta manutenzione, ma anche opere grandi (non “grandi opere”), si tratta di mettere in moto progetti di ingegneria ambientale e urbana. So che ai miei colleghi urbanisti, al solo sentire parlare di ingegneria ambientale si rizzano i capelli in testa, ma anche di questo si tratta. Non bastano i pannicelli caldi, una filosofia di adattamento vuole e pretende anche opere grandi, richiede l’intelligenza degli ingegneri, richiede di mettere mano a nuove idee. Della preparazione dell’urbanista non deve cambiare niente e deve cambiare molto. Non deve cambiare il formarsi come tecnico dell’organizzazione del territorio, oggi per il futuro, e che attraverso tale organizzazione si pone obiettivi di efficienza e di efficacia circa il funzionamento della città, fornire il proprio contributo, proprio attraverso l’organizzazione dello spazio, a obiettivi di equità sociale, combattendo  contro tendenze all'emarginazione e alla discriminazione, avendo piena consapevolezza che le scelte urbanistiche sono “scelte politiche” e che l’assistenza tecnica per la realizzazione di questi obiettivi non può essere un atteggiamento anodino. Forte deve essere la coscienza che il territorio è un bene sociale e collettivo, che molti partecipano alla sua formazione e organizzazione, ma questa deve seguire l’interesse collettivo. Alla formazione di tale tecnico, le nostre scuole di urbanistica, per quanto lo permettano istituzioni inadeguate, contribuiscono non solo con gli insegnamenti tecnici propri della disciplina, ma arricchendo la formazione dell’urbanista con economia, diritto, sociologia, matematica, storia, antropologia, statistica, ecologia ecc. Tutti strumenti per formare un’intelligenza in grado di leggere una città e interpretarne le dinamiche. Negli ultimi anni le discipline ambientali hanno trovato maggior spazio, ed è stata una cosa buona, ma è stato male che questo allargamento spesso sia avvenuto a scapito delle discipline sociali. Deve cambiare un certo atteggiamento nei riguardi della realizzazione del piano o dell’intervento urbanistico. Se da tempo è diventato senso comune che la gestione del piano (attraverso accorte politiche) è parte integrante del processo di pianificazione, sia il piano che la sua gestione hanno oggi bisogno di una impostazione fondata su un atteggiamento adattativo e che punto di riferimento per ogni intervento non possa essere ormai che l’area vasta, non solo perché sempre più (nel nostro paese con enorme ritardo) la gestione tende a competere a istituzioni (fisse o variabili) di area vasta, ma anche perché i processi a cui si è fatto riferimento all’inizio non sono governabili se non a livello di area vasta.
Un atteggiamento adattativo ha due corollari: da una parte vedere l’urbanistica come lo strumento nel suo campo di governo delle trasformazioni, che ovviamente non significa “amministrazione” delle trasformazioni, ma piuttosto governo delle forze della trasformazione verso obiettivi noti, trasparenti e significativi sul piano degli esiti. Ma, dall’altra parte, avere netta coscienza che il “futuro” non si realizza automaticamente da buoni obiettivi, ma che le incertezze e i rischi di tale futuro devono essere indagati e ove possibile contrastati. Ma per questa operazione non bastano né “danze della pioggia”, né esorcismi, né idiosincrasie sulle necessarie modifiche di assetto dello spazio. È in questa dimensione che si intrecciano relazioni fruttuose tra l’urbanistica e l’ingegneria ambientale e ingegneria del territorio, relazioni che non si possono immaginare sempre pacifiche, ma che si devono imporre come razionali e trasparenti. Le paure e i timori per i mutamenti per gli assetti del territorio devono costituire un chiaro stimolo per moltiplicare l’attenzione. Un laico atteggiamento è l’unica speranza di salvezza (in questo e in tutti gli altri campi). Sia gli urbanisti che gli ingegneri ambientali (in senso lato) durante la loro formazione devono fare esperienze in comune, partecipare insieme a progetti, misurarsi, prima di avere acquisito la “patente” di tecnico nel capirsi vicendevolmente.

domenica 15 novembre 2015

Terrorismo. Perché?


Diario n. 304
15/11/2015 

Terrorismo. Perché?

Ma no: perché?
Chi ha tutto non può chiedere a chi non ha niente: perché?
Chi ha usato la fede per “civilizzare” il mondo non può chiedere a chi usa Dio contro di noi: perché?
Chi fabbrica armi e poi li dà a chi uccide non può chiedere: perché?
Chi ha portato la guerra, inventando menzogne, in altri paesi per puro interesse non può chiedere a chi ci porta la guerra: perché?  
Chi costruisce nuovi equilibri internazionale combattendo, forse,  il califfato ma pensando ai propri interessi, non può chiedere alla strategia del terrore: perché?
Perché, perché, perché………………..

Tutti i possibili perché non giustificano le crudeli uccisioni; non giustificano e basta. Ma forse ci fanno capire qualcosa.
Ma capire non ci libera dalla paura, dall'angoscia, dall'impotenza. Oggi piangiamo tutti assieme gli amici francesi trucidati, ma non abbiamo pianto qualche giorno fa gli amici libanesi morti in  uno stesso attentato. Non abbiamo pianto i morti kurdi bombardati dalla Turchia. Non abbiamo pianto … La nostra solidarietà, il nostro rispetto della vita non è generalizzato. Di fatto distingue,  e questo non ci aiuta ad essere liberi, né a capire.

Siamo orgogliosi della nostra civiltà, della nostra libertà, della nostra convivenza, dei nostri diritti; ma questa civiltà che ci pare attaccata e che vogliamo difendere è il risultato di misfatti, di orrori, di genocidi. E con il lavoro sulle nostre coscienze, utilizzando la nostra intelligenza, riflettendo su noi e gli altri, che, forse, ci siamo liberati da quegli orrori perpetrati fino ad ieri (il secolo scorso è stato il tempo di una carneficina continua), costruendo un non mai raggiunto livello alto di civiltà.

Ma niente e concluso, gli interessi spesso ci acciecano. La riunione a Malta dei capi di stato sull'immigrazione la dice lunga sulla nostra disponibilità all'accoglienza. I muri, i fili spinati, i fossati che molti paesi stanno materialmente costruendo contro l’immigrazione la dice lunga su l’Europa unita. Queste frontiere oggi  sono “contro” gli immigrati ma finiranno per essere le frontiere interne di un Europa divisa. La divisione sta nella logica delle frontiere. Ci aspetta un’Europa molto più frammentata di come è uscita dalla seconda guerra mondiale e forse meno civile di quello che pensiamo.

Certo bisogna resistere all'emozione che parla alla pancia, alla paura che prende il cuore, al senso di insicurezza che diventa modo di vita. Bisogna ragionare, bisogna avere politiche efficaci ed efficienti. Sapremmo cosa fare nel medio-lungo periodo, ma non possiamo farlo; le nostre condizioni economiche e sociali, i nostri rapporti sociali, gli interessi che giocano anche sopra le nostre teste non ci permettono di fare quello che sappiamo andrebbe fatto.

Quando i due militari dell’ISIS nel video che gira in rete, chiamano quanti di “loro”, sono umiliati in terra straniera, costretti a chiedere l’elemosina, disoccupati, sottopagati, e li invitano a unirsi a loro nel nome di Allah, sanno di fare un gioco facile anche se  non di sicuro successo, per nostra fortuna. Ma li chiamano alla lotta là dove si trovano, li invitano a prendere le armi che hanno a disposizione e ad uccidere. Terrorismo diffuso, questa è la nuova situazione.

Quando qualche imbecille propone di distinguere gli immigrati che vengono da zone di guerra da accogliere (con attenzione e parsimonia), dagli immigrati per bisogno (fame, sottosviluppo, ecc.) da rifiutare e mandare indietro,  inconsapevolmente (ma è possibile inconsapevolmente)  contribuisce a creano le migliori condizioni di accoglienza agli appelli dell’ISIS.    

C’è una politica di medio-lungo periodo. Ma quello che bisognerebbe fare in tale tempo medio-lungo non si farà;  si dirà; si useranno molte parole; ma non si farà. Così  il tempo medio-lungo diventerà infinito e alimenterà nuove rivolte, nuovi terrorismi, nuove bandiere. Non si farà perché non lo permette il nostro sistema sociale, non lo permettono gli interessi economici in gioco, perché i “soci” che dicono di combattere l’ISIS  fanno i loro giochi. Agli immigrati non saranno riconosciuti diritti di cittadinanza;  le risorse dei singoli paesi non saranno lasciati agli stessi per lo sviluppo; non si faranno sostanziosi investimenti internazionali per lo sviluppo; al contrario si continuerà a corrompere, a sostenere dittature spesso feroci, a saccheggiare le risorse, si asserviranno popolazione, si affameranno, si sottrarrà l’acqua, …..

Ma anche se si facessero per il medio lungo periodo le cose positive previste e prevedibili, resta il grumo terribile del breve periodo: l’ISIS e  il terrorismo. Che fare? Pensieri poveri e contraddittori. Contro questo pericolo non basta l’intelligenza dei servizi (il terrorismo diffuso e individualista, non ha corpo, non ha bisogno di centrali, basta la predicazione), la prevenzione, certo, se ne siamo capaci, ma sarà necessaria anche qualche forma di repressione: bloccare l’espansione, liberare chi volontariamente si è fatto schiavo, liberare chi è oppresso in nome di un Dio crudele che lotta per la sua supremazia. C’è anche uno scontro militare all'orizzonte. No contro Allah, non serve, non uno scontro di civiltà, quale è la civiltà proposta dall’ISIS se non un futuro di sottomissione e privazioni, ma contro il terrorismo, contro un regime criminale, contro un dittatura politica che si crea il proprio Dio. Dovrebbe essere una “pulizia” fatta dagli stessi musulmani uniti con le forze internazionali, in una guerra di liberazione. Ma pare difficile che i regimi musulmani, date le loro divisione interne che alimentano lo stesso terrorismo e che sostengono l’ISIS, siano disponibili per tale guerra di librazione..

In realtà non si farà nulla per il periodo medio-lungo, si farà nel periodo breve una guerra priva di prospettive. E sulle macerie sorgeranno nuove bandiere, nuove rivendicazioni e nuovi terrorismi.

Sentendo i capi di governo, ascoltando la voce della gente, che quando impaurita dà il peggio di sé,  non mi pare si possa essere ottimisti.






   

martedì 10 novembre 2015

Nasce la “sinistra italiana”: speranza, ottimismo e qualche osservazione

Diario n.303
11/11/2015

Nasce la “sinistra italiana”: speranza, ottimismo e qualche osservazione

Che i parlamentari della “sinistra” formassero un nuovo gruppo unitario era tempo, è il meno che ci si potesse aspettare.
Che da questa iniziativa nasca un percorso per la formazione di un nuovo soggetto politico apre alla speranza. Non si può non essere ottimisti, si deve essere ottimisti, ma non tanto da annullare il senso critico, soprattutto se esso riguarda non il pelo ma l’uovo.
Non diffido, sono sicuro della sincerità di tutti, singoli individui e organizzazioni, non si può non apprezzare il processo democratico che si vuole avviare per la costruzione di questo nuovo soggetto politico. La posta è importante, il percorso è importante, proprio per questo qualche osservazione va fatta.
Ma prima di “osservare” vorrei apprezzare (con vera onestà) il lavoro fatto da Il Manifesto, con la sua iniziativa C’è vita a sinistra, che ha raccolto negli ultimi 4 mesi molti contributi che oggi, proprio oggi, vengono riproposti in un supplemento allegato al giornale. Forse troppi nomi della tradizione; questa non vuole essere una critica, ma la registrazione di uno stato di fatto ed anche della durata delle idee (la semina, ah! la semina). Norma Rangeri, in una sorta di introduzione, mette in luce, in una rassegna sintetica, i contenuti, qualche volta contraddittori, qualche volta dissonanti, ma sempre interessanti, che i collaboratori hanno espresso.
Il documento che avvia il cammino per la formazione di un nuovo soggetto politico forse, a mio parere, avrebbe dovuto contener alcuni riferimenti più precisi. Capisco la preoccupazione di non voler mettere il “cappello” sulla discussione, ma una discussione su tracciati troppo generici non credo dia buoni risultati.
Mi ha disorientato proprio l’inizio quando si dice che il nuovo soggetto politico deve essere in grado di lanciare “in modo autorevole e credibile” la sfida al governo Renzi e al PD. Disorientato, non per il guanto di sfida lanciato a  Renzi e al PD, abbattuti devono essere, ma perché non mi pare che con questo preambolo si colga il nocciolo e perché la comunicazione è equivoca. Anche il M5* ed anche la destra (unita o frammentata, non importa) possono, e di fatto lo fanno, lanciare la stessa sfida. Vero che, nel documento in questione, si fa l’elenco dei soggetti sociali che si vogliono rappresentare (“del variegato universo del lavoro subordinato e autonomo, degli strati sociali che più soffrono il peso della crisi, dei loro diritti negati e delle loro domande inascoltate, orientato a valorizzare la funzione dei governi territoriali e dei corpi intermedi”), ma anche questi possono essere dei “vocaboli” intercambiabili.  
Renzi e il PD (con buona pace della sua “sinistra” interna) hanno interiorizzato il capitalismo come sistema e il mercato come regolatore, e questi rappresentano con più o meno capacità.
“L’impronta neo liberista” (saremmo per un liberismo più tradizionale?), “le ricette” adottate, ecc. non sono che l’espressione del capitalismo di oggi, delle sue necessità della sua famelica volontà di accaparramento. Dobbiamo e possiamo essere ancora anticapitalisti e comunisti? Nuove analisi, nuove parole, nuove prospettive saranno necessarie ma questo è il tema.
Certo non estremizziamo; ma possiamo parlare di uguaglianza? Possiamo parlare di controllo dell’economia e dei suoi processi? Possiamo parlare dello sviluppo di un’economia pubblica? Possiamo dire che lo Stato E’ la soluzione e non il problema? Possiamo parlare di libertà individuali?  Può il nuovo soggetto politico avere un vocabolario che ne definisca o almeno ne lascia intravedere il profilo?
Nel documento si parla del soggetto politico come “democratico, sia nel suo funzionamento interno (…) sia perché deve essere il punto di riferimento e di azione di tutte/i i democratici italiani di tutte e tutti, perché deve essere il luogo in cui tutte/i coloro che si contrappongono alle politiche neoliberiste, alla distruzione dell’ambiente e dei beni comuni, alla svalutazione del lavoro, alla crescente xenofobia, alle guerre, all'attacco alla democrazia possono ritrovarsi e organizzarsi in un corpo collettivo capace di superare antiche divisioni nell'apertura e nel coinvolgimento delle straordinarie risorse fuori dal circuito tradizionale della politica”. D’accordo, ma se non si chiarisce il nesso con il sistema sociale capitalista l’insieme di questi obiettivi non fanno una prospettiva, inoltre può sembrare che siano raggiungibili in se stessi; ed invece no, se non si inquadrano in un chiaro riferimento, in grado di dare alimento politico, forza sociale e dirompenza.
Ma non vorrei essere visto come un estremista massimalista. Ritengo che essendo chiaro il nemico (non Renzi e il PD, ma quello che sta dietro) poi si devono articolare singole lotte, che assumono senso perché è chiaro quale è il moloc che sta dietro; si possono perdere e si possono vincere ma comunque  hanno senso se almeno scalfiscono la grande roccia. Quella che va abbattuta.
Non possiamo adattarci alla constatazione che oggi il capitale è diverso, è sempre più immateriale, e sempre più lontano, questo è vero e falso contemporaneamente, è possibile incidere sul sistema di  accumulazione, è possibile indebolire la sua impermeabilità, è possibile batterlo, anche perché non sta tanto bene in salute. Non possiamo adattarci all'idea che la frammentazione sociale rende difficile l’unificazione di tutti in un progetto di società (i contadini pugliesi non avevano niente in comune con gli operai Fiat, eppure erano legati da un progetto di società).
Se  pensassimo che il capitale che ci è toccato sia intangibile e che la società frammentata non è unificabile in un progetto, allora tutto sarebbe inutile.
Cosa può offrire il futuro non sempre è leggibile, ma bisogna essere pronti e sicuri di quello che si vede con la sguardo nella prospettiva. Pensiamo che non sarà per domani,  che ci vorrà più tempo, e poi all'improvviso si scopre che è di oggi.

PS. Aggiungo, se qualcuno non l’avesse visto, il documento completo di Sinistra italiana.


IL DOCUMENTO DI “SINISTRA ITALIANA” 

1. Noi ci siamo, lanciamo la sfida
Riteniamo non solo necessario ma non più procrastinabile avviare ORA il processo costituente di un soggetto politico di sinistra innovativo, unitario, plurale, inclusivo, aperto alle energie e ai conflitti dei movimenti dei lavoratori e delle lavoratrici, dei movimenti sociali, dell’ambientalismo, dei movimenti delle donne, dei diritti civili, della cittadinanza attiva, del cattolicesimo sociale. 

Un soggetto politico in grado di lanciare in modo autorevole e credibile la propria sfida al governo Renzi e a un PD ridotto sempre più chiaramente a "partito personale del leader", in rappresentanza del variegato universo del lavoro subordinato e autonomo, degli strati sociali che più soffrono il peso della crisi, dei loro diritti negati e delle loro domande inascoltate, orientato a valorizzare la funzione dei governi territoriali e dei corpi intermedi. Dobbiamo rispondere in modo adeguato - con la forza, il livello di unità e la chiarezza necessarie - alla domanda sempre più preoccupata di quel popolo di democratici e della sinistra che non si rassegna alla manomissione del nostro assetto democraticocostituzionale, alla liquidazione dei diritti del lavoro e alla cancellazione del residuo welfare. 

L'obbiettivo è lavorare fin d’ORA, in un contesto di dimensione europea contro le politiche neoliberiste, all’elaborazione di un programma comune con cui candidarsi alle prossime elezioni politiche alla guida del Paese, con una proposta politica autonoma e in competizione con tutti gli altri poli politici presenti (la destra, il M5S e il PD), nella consapevolezza che in Italia la stagione del centro-sinistra è finita. In Europa è evidente la crisi profonda delle tradizionali famiglie socialiste. 

Ogni giorno che passa aumenta il disagio e il disastro nel Paese. Renzi ha declinato il tema della vocazione maggioritaria come politica dell'uomo solo al comando, alibi per un partito trasformista pigliatutto in realtà dominato dall'agenda liberista dell'Eurozona. Noi vogliamo al contrario costruire una sinistra in grado di animare un ampio movimento di partecipazione popolare e di realizzare alleanze sociali e politiche che mettano radicalmente in discussione le “ricette” nazionali ed europee che hanno caratterizzato il governo della crisi da parte di Popolari e Socialisti. Sappiamo perfettamente che non è sufficiente unire quel che c’è a sinistra del Partito Democratico, o autoproclamarsi alternativi, per costruire un progetto all'altezza della sfida, davvero in grado di cambiare la vita delle persone. Ma siamo altrettanto convinte/i che senza questa unità il processo nascerebbe parziale, o non nascerebbe affatto. Per questo noi questa sfida la lanciamo oggi. Insieme. 

2. Definzioni del soggetto
Il Soggetto politico che vogliamo sarà: democratico, sia nel suo funzionamento interno (una testa un voto regola guida, strumenti e momenti di partecipazione diretta e online, pratiche di co-decisione tra rappresentanti istituzionali e cittadini, costruzione dal basso del programma politico) sia perché deve essere il punto di riferimento e di azione di tutte/i i democratici italiani di tutte e tutti, perché deve essere il luogo in cui tutte/i coloro che si contrappongono alle politiche neoliberiste, alla distruzione dell’ambiente e dei beni comuni, alla svalutazione del lavoro, alla crescente xenofobia, alle guerre, all’attacco alla democrazia possono ritrovarsi e organizzarsi in un corpo collettivo capace di superare antiche divisioni nell’apertura e nel coinvolgimento delle straordinarie risorse fuori dal circuito tradizionale della politica. Alternativo e autonomo rispetto alle culture politiche prevalenti d’impronta neoliberista che ci condannano al declino sociale e culturale, di cui oggi il PD tende ad assumere il ruolo di principale propulsore e diffusore. Innovativo sia nelle forme sia per la rottura con il quadro politico precedente, così come sta avvenendo in molti paesi europei. Differente dal sistema politico corrotto e subalterno di cui siamo avversari. Europeo in quanto parte di una sinistra europea dichiaratamente antiliberista, che, con crescente forza e nuove forme, sta lottando per cambiare un quadro europeo insostenibile. 

3. L'anno che verra' - il 2016
Il 2016 ci presenta passaggi politici di grande importanza: le amministrative che coinvolgono le principali grandi città, il referendum sullo stravolgimento della Costituzione e la possibile campagna referendaria contro le leggi del governo Renzi.
In coerenza con il nostro obbiettivo principale per la scadenza delle amministrative vogliamo lavorare alla rinascita sociale, economica e morale del territorio, valutando in comune ovunque la possibilità di individuare candidati, di costruire e di sostenere liste nuove e partecipate in grado di raccogliere le migliori esperienze civiche e dal basso e di rappresentare una forte proposta di governo locale in esplicita discontinuità con le politiche dell’attuale esecutivo. Fondamentale è la costruzione di una forte campagna per il NO nel referendum sulla manomissione della Costituzione attuata dal governo Renzi e il sostegno alle campagna referendarie in via di definizione contro le leggi approvate in questi 2 anni. 

4. Quindi...
Al fine di avviare il processo Costituente di questo soggetto politico, convochiamo per il XX xx dicembre 2015 una assemblea nazionale aperta a tutti gli uomini e le donne interessati a costruire questo progetto politico. Da lì parte la sfida che ci assumiamo e li definiremo la nostra carta dei valori. L'assemblea darà avvio alla Carovana dell'Alternativa, individuando le forme di partecipazione al progetto politico. Si tratta di definire il nostro programma, le nostre campagne e la nostra proposta politica in un cammino partecipato e dal basso che con assemblee popolari e momenti di studio e approfondimento coinvolga movimenti, associazioni, gruppi formali e informali unendo competenze individuali e collettive.
Entro l’autunno del 2016 ci ritroveremo per concludere questa prima fase del processo e dare vita al soggetto politico della sinistra.

martedì 3 novembre 2015

Privatizzazione del patrimonio culturale

Tommaso Montanari, Privati del patrimonio, pp. 166, 12 euro, Einaudi, Torino, 2015.
Francesco Indovina
ASUR (?)
L’Italia, come è noto, è depositaria di un enorme patrimonio storico e artistico, di questo ci si pavoneggia,  anche se il merito della presente generazione è nullo, mentre a questa  generazione resta il compito di conservarlo, tutelarlo, e farlo rendere culturalmente. Lo fa? Ci sono forti dubbi.
Tommaso Montanari, in questo suo libro, molto documentato, scritto con una verve polemica accattivante, indaga su come questo patrimonio sia gestito e  sulla perniciosa idea,  che prevale ed è prevalsa all’interno di tutti i governi, che si tratta di una ricca risorsa che deve essere sfruttata. Non abbiamo petrolio ma  il patrimonio storico e culturale ne fa le veci. Il ministro Dario Franceschini, citandone uno per tutti, ha detto “Penso che il ministero della Cultura sia in Italia come quello del petrolio in un Paese arabo”. Si tratta dell’attuale ministro della cultura, non dimentichiamolo.
Quale è il corollario di questa posizione: lo stato non ha risorse per rendere produttivo questo patrimonio, per farlo rendere bisogna coinvolgersi ai privati. La loro capacità manageriale potrà far rendere questo nostro “giacimento”, solo questa collaborazione ne permetterà lo sfruttamento. Il testo di Montanari è una puntuale denunzia degli effetti di questa mentalità e dell’ingresso dei privati nella gestione di questo patrimonio. E non si tratta di una posizione ideologica, vetero statalista si potrebbe dire, ma di una ragionata documentazione che mostra come l’entrata dei privati, nelle diverse forme, da una parte svilisce il contenuto culturale e formativo di questo patrimonio e dall’altra parte rende solo ai … privati.
Il primo passo di questo processo che ora pare inarrestabile, e che bisognerà arrestare, è stato compiuto quando era ministro della cultura Ronchey che con la legge che porta il suo nome rese affidabili ai privati i così detti “servizi aggiuntive”, ma la spallata decisiva è stata “sferrata da un insospettabile tecnico: il sopraintendente Paolucci, divenuto ministro per i beni culturali del governo di Lamberto Dini” che allargò le concessioni anche ai servizi non aggiuntivi (accoglienza, informazione, guida e assistenza didattica e di fornitura di sussidi catalografici, audio visivi ed informatici, fino alla biglietteria e all'organizzazione delle mostre). “Per avere un’idea delle conseguenze del passo compiuto da Paolucci basti notare che nel 2010 su 46.209.838,83 euro incassati attraverso i servizi gestiti dai privati, a questi ultimi sono andati 40.015.164,17 euro,  allo Stato 6.194.674,66”.
Montanari mette bene in evidenza che attraverso mecenati e sponsor, concessioni, fondazioni, consorzi, ecc., lo Stato (cioè, noi, scrive l’autore) rinunzia a gestire a beneficio di tutti questo patrimonio mentre ne favorisce lo sfruttamento da parte di  pochi. È proprio l’idea del giacimento che si afferma: il giacimento, in forme diverse viene consegnato ad un privato che lo sfrutta come una miniera d’oro. Ma solo se c’è l’oro. Antonio Catricalà, garante della concorrenza e del mercato, ha scritto in un suo rapporto al Parlamento “Che una diretta gestione pubblica potrebbe essere giustificata soltanto qualora si intenda rendere usufruibile un determinato sito culturale che non sia rilevante sotto il profilo economico (ciò può accadere, ad esempio, nei casi in cui vi sia una scarsa affluenza del pubblico)”. Sconvolgente: la gestione pubblica invece di essere la regola può essere “solo giustificata”, quando ci sono pochi visitatori, altrimenti deve essere assegnata ai privati. La miniera deve avere l’oro e questo deve andare ai privati, se la sua gestione è in perdita allora dobbiamo pagare noi (cioè lo Stato).  
Ma non basta questo, il problema non è solo economico, ma è soprattutto culturale. L’autore fa molte esempi ma quello più vistosamente evidente è il settore delle mostre: prive di qualità culturale, utilizzando la cessione del patrimonio pubblico (con accordi anche di lungo periodo), si mettono in piedi mostre “eventi”, che squalificano le stesse opere mostrate. I casi che vengono messi in carta sono molteplici ma uno vale la pena di essere citato in ordine al suo contenuto culturale, o per meglio dire al degrado culturale e alla mercificazione estrema e banale delle opere,  ci si riferisce alla mostra: Tuthankamon, Caravaggio, Van Gogh. La sera e i notturni dagli Egizi al Novecento.  
E che dire dei monumenti ceduti come location: il Salone dei Cinquecento per una sfilata di moda; lo stilista Stefano Ricci che fa correre una tribù di Masai nei corridoi degli Uffizi per presentare una sfilata di moda neocoloniale (neanche    ); il cortile dell’Ammannati in Palazzo Pitti travestito in una pagoda  per il matrimonio di un magnate indiano; Ponte Vecchio per la festa della Ferrari, ecc. L’autore osserva: “Non si tratta di una scala solo materiale: l’alienazione e anche alienazione psicologica, morale, spirituale, sociale. Quanto modifica la nostra vita e la nostra democrazia l’abitudine a noleggiare, affittare, privatizzare pro tempore i luoghi più simbolici e parlanti del nostro patrimonio culturale?”. Ma anche la città diventa oggetto da sfruttare: Debora Serracchiani, presidente della regione nonché, ai noi, potente vicesegretario del PD, impone un accordo a ministro della cultura secondo il quale le attività e le strutture temporanee “allestite in luoghi monumentali”  non sono assoggettabili al parere della Soprintendenza, “al fine di accogliere le esigenze manifestate dalle categorie economiche”.    
Montanari ha un’altra idea, il suo riferimento è la Costituzione dalla quale si ricava che “il patrimonio appartiene ad ogni cittadino – di oggi o di domani, nato o immigrato in Italia – a titolo di sovranità, una sovranità che proprio il patrimonio rende visibile ed esercitabile”. Ed ancora: “il patrimonio culturale non può essere messo al servizio del denaro perché è un luogo dei diritti fondamentali della persona. E perché deve produrre cittadini: non clienti, spettatori o sudditi”.  In sostanza nell’idea dell’autore il “patrimonio” non solo è un bene collettivo che non può essere ceduto per essere sfruttato, ma deve essere utilizzato per la costruzione di una cittadinanza consapevole. Esso non può che essere gestito dallo Stato, esso non può che essere gestito con professionalità, esso non può che essere oggetto di ricerca, esso non può che essere messo a disposizione dei cittadini, esso deve essere la base per operazioni culturali.
Ma i privati devono essere tenuti fuori? Non è questa l’opinione dell’autore, devono essere tenuti fuori gli sfruttatori di questo patrimonio, esso deve rendere cultura e non soldi (neanche per lo Stato). Si tratta di un patrimonio di tutti e per tutti e allora, argomenta, tutti possono contribuire alla sua conservazione e valorizzazione culturale. Egli fa riferimento alla “donazione volontari” che in molti paesi ha dato risultati sorprendenti, raccogliendo piccole e grandi donazioni. Attraverso queste donazioni, per esempio, “la National Gallery di Londra e la National Gallery di Edimburgo hanno raccolto 7,4 milioni di sterline per arrivare ai 50 milioni necessari per acquistare un capolavoro di Tiziano; nel 2010 settemila donatori hanno permesso al Louvre di acquistare le Tre Grazie di Lucas Cranach; il restauro della Nike di Samotracia è stato sostenuto con un milione di euro attraverso 6700 donazioni”. Anche la “concessione” può essere virtualmente utilizzata “il punto veramente innovativo non è affidare la concessione ad un soggetto non profit, ma scegliere un soggetto in base alla sua capacità di fare ricerca e di farla non privatamente ma in stretta connessione con l’università e organi di tutela”.
Quello che teme Montanari, e noi con lui, è la completa mercificazione del nostro patrimonio (che si può anche vendere per sanare i bilanci comunali, come proposto dal sindaco di Venezia): “E credo che questo sia il punto: quando si arriva a non distinguere più un centro commerciale da un museo va ancora tutto bene o abbiamo un problema? E il problema non è la presunta desacralizzazione dell’arte, il problema è il tipo di società che stiamo costruendo: la mercificazione non fa male alle opere d’arte che ci guardano impassibili e possono permettersi di attendere tempi più umani. No, la mercificazione del patrimonio culturale fa male a noi: che passiamo veloci e non possiamo attendere quei tempi. Perché ci toglie un altro spazio di libertà dal mercato, una rara palestra di virtù civile e di umanità gratuita. Ci toglie uno dei pochi autentici spazi pubblici”.
Questo libro meriterebbe di essere testo di formazione sia per educazione civile che per storia dell’arte, ma non pare che siano discipline che godano attenzione nei nostri ministeri. Mi sento comunque di raccomandarlo, non sia assunto come una lamentazione, ma piuttosto come una documentate denunzia di una deriva che chiama sia la responsabilità collettiva che quella individuale.  Non si può che essere grati all'autore di averci fatto toccare con mano la nostra distrazione, ogni tanti ci “indigniamo” per i casi più eclatanti, ma nello stesso tempo la politica dell’impoverimento della cultura e del patrimonio galoppa nell'indifferenza più che nell'attenzione. E la distrazione e tale che niente ci meraviglia, al contrario siamo portati ad accogliere positivamente tutto quello che Montanari denunzia. La mercificazione del patrimonio culturale fa male a noi, in realtà a già fatto male, ci ha reso ciechi, e stupidi. Forse dovremmo reagire.