domenica 18 novembre 2012

La planificació territorial també té ideologia



 

La planificació territorial també té ideologia

Si alguns hem incorporat al nostre discurs sobre models de ciutat conceptes com "ciutat difusa" o "ciutat compacta", són termes que tenen un autor de referència, Francesco Indovina.
El passat 13 de novembre vam tenir l'oportunitat d'escoltar les seves paraules al CCCB, arran de la publicació del llibred'Oriol Nel.lo, "Del análisis del territorio al gobierno de la ciudad". Un llibre recomanable que caldrà llegir, per l'autor i pel recorregut que fa d'aquest urbanista inconformista italià i de la seva aportació a les dinàmiques territorials i urbanes. 

Serveix aquest apunt per escriure algunes de les idees de la conferència d'Indovina que em va provocar alguna reflexió. 
D'entrada em va agradar la primera presentació que Indovina va fer de sí mateix i de la seva obra: 
"no sóc un home de biblioteques, el resultat és fruit de la trobada". I ho comparteixo. La trobada, amb les persones i amb el territori, és la praxis necessària que ens permet un coneixement de les realitats i els seus moviments, i que en tot cas hem de completar amb l'anàlisi i la recerca. Però sense la relació directa és difícil mirar i és difícil comprendre, i sense comprendre és impossibleplanificar (sigui a nivell territorial, sigui qualsevol política). Aquesta actitud vital segurament neix del compromís social, per això, perquè és una manera d'entendre i actuar.

Fruit de la mateixa, (sóc agoserada quan ho dic perquè no tinc un coneixement exhaustiu de l'autor) Indovina va argumentar algunes de les premisses que segons ell han de ser presents en la planificació territorial, 
"el territori es planifica, el problema és qui el planifica i en funció de quines interessos: propis o col.lectius".

La velocitat dels canvis actuals tenen una plasmació directa en les nostres ciutats i en noves condicions urbanes. Com preveure i planificar aquests noves condicions? com respondre als nous reptes urbans?. Trobo a faltar actualment aquest debat al nostre país, un territori que es configura en una xarxa de petites i mitjanes ciutats i una gran àrea metropolitana ("
l'arxipèlag metropolità")amb interrogants que són claus i encara ho seran més en funció de la resposta o no resposta que se'l doni i de com es gestiona la crisi vigent.

És evident que la planificació, per acció o per omissió, configura o no noves oportunitats per a la ciutadania. Una planificació, que com l'autor diu, no és una tècnica, perquè el territori és on es desenvolupa la vida i les relacions, i per tant ple d'interessos i de contradiccíons. 
"La falta de planificació no és una mancança de govern, és conseqüencia de govern captiu" I si no, fem un repàs per exemple al desarrollisme dels anys 60 i 70 i tindrem prou imatges per entendre aquesta contundent afirmació. O quins són els riscos actuals, amb governs captius dels mercats. 

Francesco Indovina, lúcidament, destacava 
la diferència entre "individualitat" i "individualisme". El primer com a expressió d'una societat que és heterogènia i el segon com a prinicipi del pensament liberal. I cada concepte té una traducció diferent en el disseny de les ciutats. La ciutat compacta, densa i intensa del primer, i la ciutat difusa del segon. Una societat com la nostra, lluny de la homogeneitat, té models diferents d'ocupació de l'espai públic, i penso que la cohesió es guanya en la utilització diversa de l'espai públic des dels principis democràtics. 

Fidel al prinicipi d'individualitat i no individualisme, com diu Indovina, 
'"La planificació ha d'estar amatent a noves oportunitats que siguin alliberadores i que millorin les condicions de cadascú, i el govern del territori ha de tenir com a principal compromís la defensa dels drets de ciutadania".

El model de ciutat i de territori pot possibilitar més o menys progrés individual, que en la seva suma és col.lectiu. O dit d'una altra manera, sense progrés i oportunitats individuals no hi ha avenç col.lectiu. I les oportunitats les trobes o no al territori on vius.
En definitiva, la planificació territorial respon a una ideologia. Sé que no és cap descoberta. Però vol ser un avís.
 

sabato 10 novembre 2012

Diario 197



Diario 197
5 – 11 novembre 2012

  • Obama
  • Pinocchio dove sei?
  • Non posso avere ragione    
  • Citazioni: nel bene e nel male (Obama, Todd Giltin, Jaques Attali, Silvio Berlusconi)


Obama
La vittoria di Obama ci fa respirare, il reazionario è stato sconfitto. Dire che il paese è diviso in “due” è ridicolo, lo si ripete dopo ogni elezione americana, una divisione iscritta nelle regole del gioco e che può essere un po’ più vicina o un po’ più lontana dal 50%.
Obama è comunque sempre il presidente degli USA, quindi non carichiamolo di aspettative che non potrà (e forse non vorrà) soddisfare; ma sicuramente, sotto la sua nuova presidenza, liberato dai problemi di una ricandidatura, gli USA saranno un po’ meno ingiusti, un po’ più solidali, un po’ più civili e più rispettosi della dignità di uomini e donne a prescindere dalle differenze di razza, di religione e scelte sessuali.
Non tutto invidiamo degli USA, ma un presidente come Obama si, è imparagonabile con l’attuale nostro presidente (per non dire del precedente).
L’orizzonte Italia non prevedete niente di buono.

Pinocchio dove sei?
Due dei maggiori economisti alla moda, che imperversano dai due principali quotidiani e spesso dalla TV, si sono esibiti in spericolate spiegazioni, non circa la loro preferenza per il candidato avverso ad Obamo (cosa lecita, ciascuno sceglie il carro dove salire), ma circa l’opportunità, la necessità e la convenienza di una vittoria di Romney. Liberi intellettuali? Forse liberisti, sicuramente fastidiosi e privi di spessore. Due grilli parlanti. Pinocchio dove sei?

Non posso avere ragione    
Non voglio, non posso avere ragione quando ho pronosticato che avremmo finito con il votare con la vecchia legge (la porcata, per intendersi). Sebbene i montiani, in qualsiasi partito, in qualsiasi palazzo e su qualsiasi poltrona, vogliono una legge maggioritaria ma non tanto da garantire a chi vince di governare, in modo da non libarci da Monti e lasciare libero il Quirinale; sebbene pochi, quasi nessuno vuole un ritorno al proporzionale (una testa un voto); sebbene tutti si sbracciano per dichiarare la necessità di una riforma, mi pare che alla fine o tutto rimarrà come prima, o avremo una legge peggiore di quella attuale, con tutti i difetti di quella presente, ma cancellando la sua natura maggioritaria. Non è un cedimento alla democrazia, ma una scelta per l’ingovernabilità che ci porta nuovamente in grembo a Monti. Questo molti vogliono e forse, sostenuti dal colle più alto, lo otterranno.

Citazioni: nel bene e nel male 
Obama, La Repubblica, 8 novembre 2912
“Continueremo a fare questa strada insieme, perché il ruolo del cittadino nella democrazia non si esaurisce con il voto. …Vogliamo per i nostri figli una America che non sia fiaccata dalle disegueaglianze. Generosa, tollerante, aperta al sogno degli immigrati”

Todd Giltin, La Repubblica, 8 novembre 2912
“È l’esatto opposto di quel che accadde nel 1978 quando la California approvò Proposition 13 che, riducendo tasse sulle case, mise in moto l’offensiva ideologica anti-fisco, che fu raccolto da Ronald Reagan e poi condizionò per un terso di secolo la politica americana. Adesso il pendolo va dall’altra parte: si comincia a capire che gli investimenti pubblici, specie nell’istruzione, sono un modo per facilitare las crescita e ridurre le ineguaglianze. Speriamo che, come avvenne nel 1978, il messaggio della California sia ora recepito dal altri parti del paese”

Jaques Attali, La Repubblica, 8 novembre 2912
“Approvare 17 piani di austerità non equivale a fare un piano di crescita per l’eurozona.”

Silvio Berlusconi, La Repubblica, 9 novembre 2912
 “Io continuo a cercare un candidato premier: Angelino (Alfano) vincerà pure le primarie, ma con lui rischiamo di straperdere le politiche” (Il capo padrone non demorde, ma forse non morde. In sostanza dice: giocate pure alle primarie poi io tirerò fuori il coniglio dal cappello. Ma non credo che il giochino questa volta possa riuscire. Il PDL le elezioni le straperderà con chiunque, anche con Berlusconi, se poi pensa che il coniglio sia l’ex banchiere Giampiero Samorì, proprio non ha capito la fase. Molti pensano che basti una faccia nuova, altri, anche a sinistra, pensano che basti un lista virtuosa e presentabile. Non è così, il tempo è diverso.)













giovedì 8 novembre 2012

Sempre città occasionale



Sempre città occasionale
di Francesco Indovina e Valentina Simula

(in Inforum, ottobrre, Bologna)
1.      Alla continua ricerca di “occasioni”
La città “occasionale” (Indovina, 1993) è stata il risultato della messa in mora, sostanziale, del processo di pianificazione nel governo delle trasformazioni urbane; non sarebbe possibile sostenere che oggi, dopo vent'anni, la pianificazione abbia assunto il ruolo di direzione nel governo delle città che le compete. Ad eccezione che in alcune città la pianificazione rischia di essere un “genere letterario” più che uno strumento di governo della città; questa vanificazione è avvenuta con più peso nei vent'anni a cavallo del secolo.
Il processo di deregulation, che ha caratterizzato gli anni '80, infatti, non è stato contrastato né da provvedimenti normativi, né tanto meno da una prassi di governo, al contrario altri elementi hanno contribuito ad alimentare l’occasionalità nella gestione del territorio. Si tratta di alcuni tratti significativi di questo periodo che per realizzarsi hanno avuto la necessita di una “attitudine”, si potrebbe dire così, dei governi delle città a distaccarsi dall'idea di applicare una pianificazione, comunque definita, che definisse obiettivi e prospettive future. Piuttosto si è teorizzato che era proprio nell'interesse collettivo e dello sviluppo della città “cogliere” le occasioni, trasferendo a livello collettivo quella che poteva essere una prassi individuale, forse non del tutto giustificata, anche se comprensibile in una fa di disarticolazione sociale.
Affermare che ancora oggi possa valere la definizione di città occasionale per molte delle città italiane (e non solo), deve essere considerata una descrizione della dinamica di molte di tali città. Questo non sta a significare che non esistano casi in cui si è tentato un approccio coerente di pianificazione. Ma non volendo fare una casistica, in questa sede non proponibile, ma volendo cogliere un indirizzo generale, pare di poter dire che l'occasionalità sia la cifra giusta della tendenza qui esaminata.
Ma il tempo non passa invano, delle novità ci sono, quella che pare rilevante è il tentativo di nobilitare le occasioni facendole diventare un elemento costitutivo del piano. Un tentativo che nega di fatto ogni ragione d'essere del piano, che per sua costituzione è la formalizzazione di obiettivi definiti e non di obiettivi maturati per caso. I tentativi in questa direzione non hanno incontrato nessun conforto da parte dei critici (tranne di quanti questo approccio hanno teorizzato), ma piuttosto il consenso degli amministratori delle città, che hanno posto nell'occasione la speranza di uscire dalle difficoltà di governo.
Tali “occasioni” (spesso chiamate proprio così), sono state, ovviamente, presentate come vantaggiose per la città e la relativa popolazione, ma si è oscurato il fatto che venivano “offerte” da gruppi pochissimo attenti agli interessi comuni.
Per altro il tanto parlare di “reti di città” non pare abbia prodotto significative modifiche nelle politiche urbane, mentre ha prodotto forme nuove di organizzazione dell'insediamento umano nel territorio che richiedono maggiore e migliore pianificazione. Ma anche in questo caso piuttosto che governare questi processi di urbanizzazione diffusa si è lasciato che il processo si auto-organizzasse determinando effetti negativi sul consumo di suolo, sull'ambiente e sui costi di gestione dei servizi. Quello che pare paradossale è che difronte a questi fenomeni urbanisti attenti e progressisti, piuttosto che porsi il problema di come “pianificare” questi processi abbiano assunto un atteggiamento critico verso tali fenomeni denunciandoli come “negazione” della città e non comprendendo che si trattava della ricerca di una diversa e migliore città.
La tendenza ad attivare “piani strategici” (piuttosto che strategie di sviluppo) ha costituito un escamotage che doveva compensare la mancanza di idee e di visione di amministratori e tecnici, per acquisire lo status di strumenti adatti a “creare” occasioni. Senza parlare delle opzioni di “marketing urbano” che costituiscono una dichiarazione ufficiale per assecondare la città occasionale.
Gli elementi (reali e materiali) che in questo ventennio hanno rafforzato lo sviluppo occasionale della città non sono “nuovi” in assoluto, ma sicuramente è nuovo il peso esercitato in questa fase storica. Da una parte si tratta del ruolo sempre crescente assegnato al processo edilizio e dall’altra parte allo svilupparsi di quella che è possibile chiamare l'urbanistica degli eventi.
Nell'anno di grazia 2012, inoltre, non pare possibile affrontare il tema delle dinamiche urbane senza fare riferimento agli effetti che la crisi economica determina sulla situazione delle città e sul loro governo.

2. Il settore edilizio
Il settore edilizio ha goduto e gode della fama, solo parzialmente veritiera (Indovina, 1972), di essere un settore “volano”, al punto che è diventata verità non discutibile l'affermazione che “quando il settore edilizio tira l'economia va bene”. In questa versione si tratta di un settore che per le sue relazioni con gli altri settori produttivi, determina il tenore del ciclo economico. Non è questa la sede per contestare tale affermazione, ma quello che pare interessante è come il settore edilizio abbia assunto una sua “autonomia”.
È possibile accettare (criticamente) il ruolo di volano del settore edilizio, ma a patto di considerarlo legato al ciclo economico stesso e alle modalità attraverso le quali tale ciclo si manifesta. Così nel secondo dopoguerra il boom economico e i grandi movimenti migratori avevano alimentato il ciclo edilizio urbano, mentre più avanti negli anni il ciclo edilizio è stato alimentato da una domanda di miglioramento abitativo, poi dalla domanda di seconde case, ecc.. Si è argomentato che nei momenti di flessione dell'economia spingere il settore edilizio può rilanciare l'economia (il volano). Quello che tuttavia è evidente oggi è la crescente “autonomia” del settore, che si attorciglia su se stesso, forza la domanda, sottrae risorse economiche agli altri settori produttivi e determina la crisi. Non è questa la sede per cogliere come il settore da volano di sviluppo sia diventato una volano della crisi, ma per quanto interessa in questa sede è evidente che la crescita abnorme del settore sia stata l'occasione di crescita insediativa fuori da ogni regola.
La dinamica urbana vive di crescita edilizia, ma è quest'ultima che è funzionale alla prima, ma quando il settore edilizio si rende autonomo è la prima che finisce “vittima”, infatti la crescita dell'insediamento risulta avulso di ogni valutazione di fabbisogno o se si preferisse anche di domanda. La crisi attuale di alcuni paesi (Usa e Spagna in primis) e di alcune città, vittime di iniziative speculative di fondi internazionali di origine, spesso, dai paesi arabi, legate ad una domanda delle seconde e terze, quarte, ... case dei segmenti di popolazione molto ricca (gli esempi di Londra, Dubai, ecc.), sono la dimostrazione di quanto qui affermato.
Anche in questo settore non sono da sottovalutare gli effetti della ricerca della finanza internazionale di occasioni di investimenti speculativi, e se alcuni di questi (molti?) sono risultati fallimentari non è il caso di preoccuparsi per gli esiti negativi sul piano finanziario, ma molto preoccupanti appaiono gli esiti di trasformazione del territorio, manomissioni di ambienti, costruzioni di edifici interrotti, ecc. L'euforia non controllata determina non solo guai finanziari (di cui non ci occupiamo) ma guai territoriali che ci preoccupano.

3. Gli “eventi” .
Quella degli “eventi” ha costituito una delle maggiore iatture che potevano capitare alle nostre città. Non ci si riferisce, anche se la cosa ha un grande rilievo, ai fenomeni di corruzione che hanno accompagnato, in generale, la realizzazione delle opere destinate a permettere il pieno dispiegarsi dell'evento stesso, quanto piuttosto agli effetti sia sulla pianificata crescita della città che sui “detriti” che l'evento lascia in eredità alla città.
Ogni evento, per sua natura eccezionale, pretende delle procedure eccezionali, delle risorse eccezionali ed è, a parole, carico di meravigliosi effetti sulla città, sulla sua economia, sulla sua visibilità internazionale, sulla qualità della vita dei cittadini, ecc.
Ogni evento, proprio perché è una manomissione dell'ordinaria dinamica della città, richiede la messa in mora dell'eventuale piano della città e richiede procedure eccezionali e quasi sempre urgenti. Si tratta di un'occasione che la città non può perdere. A fronte di queste affermazioni ogni rispetto del piano, della normativa, delle procedure, ecc. rischia di essere una meschinità nei confronti di una grande possibilità offerta alla città.
Ogni evento “non costa”, certo ci vorrà un contributo pubblico, ma a fronte ci saranno enormi vantaggi economici per la città e per il paese intero. I contributi pubblici nel tempo tendono a crescere continuamente di pari passo con la valutazione dei sempre maggiori vantaggi.
Ogni evento lascerà alla città un patrimonio di “opere” che potranno essere utilizzate al meglio come centro di innovazione tecnologica, polo di eccellenza, incu batori di imprese, ecc. O attrezzature che potranno essere poi utilizzate dalla popolazione. Per gli eventi di natura sportiva questa ultima notazione risulta veritiera con le seguenti cautele: talvolta il dimensionamento eccede le possibilità della popolazione; gli impianti vanno gestiti e la gestione è costosa per cui non sono rari i casi di impianti “abbandonati” (e non si fa riferimento alle opere non terminate in tempo che restato quali scheletri abbandonati – mondiali di nuoto in Italia compresi).
Molto più complessa è la situazione che riguarda le esposizioni. In questo caso gli edifici costruiti non sempre (o meglio quasi mai) hanno l'utilizzazione sperata e dichiarata (centri di ricerca, poli di eccellenza, ecc. hanno bisogno di idee, uomini, attrezzature e non solo di edifici). Più spesso di quanto si potesse temere si tratta di edifici dall'incerta utilizzazione e comunque sottoutilizzati.
Una questione rilevante dell'urbanistica degli eventi intesa come l'urbanistica che si piega alle necessità dell'evento, è il fenomeno che è possibile definire della “moltiplicazione”: le strutture che si sono realizzate per l'evento per essere utilizzate pienamente hanno necessità che gli eventi si moltiplichino, ogni evento richiama la necessità di un altro evento. In un processo di disastro continuo.

4. La crisi economica
Se si volesse avanzare qualche considerazione sul governo urbano nell'attuale fase di “crisi”, sarebbe necessario specificare la natura di tale crisi. L'interpretazione che si tratti di una crisi, anche se molto grave, congiunturale, non pare condivisibile; così come, la speranza che prima o poi, tutto ritornerà come prima, per effetto della forza regolatrice del mercato, pare infondata. L'attuale crisi appare come la manifestazione di una trasformazione profonda del capitalismo, generata da una lunga stagione liberista, soprattutto in campo finanziario,incompatibile con l'ordine sociale al quale ci eravamo abituati. Insomma, nulla sarà come prima.
Dentro la dinamica della crisi il governo delle città subisce dei pericolosi contraccolpi, nell'indifferenza dell'opinione pubblica che è sottoposta al bombardamento ideologico dei sacrifici (termine che vorrebbe indicare un fenomeno limitato nel tempo), ma che, più correttamente, si dovrebbe chiamare impoverimento strutturale. Non sono rare le ciniche opinioni di chi intravede in questa tendenza un dato positivo con l'affermarsi di uno stile di vita più sobrio, dimenticando che tale impoverimento si applica in modo differenziato alla popolazione, colpendo sempre chi ha meno, mentre chi ha più trova in questa situazione opportunità di arricchimento.
Tornando al tema del governo urbano non si possono considerare, in generale, gli amministratori locali indifferenti alle condizioni delle popolazioni che sono insediate nei loro territori. Molte amministrazioni risultano agguerrite nel contrastare le politiche nazionali dei “tagli”, anche se con scarsi risultati. Molti ritengono di fare “quello che possono, né pensano di poter fare di più”, anche se ciò che riescono a fare non solo non pare sufficiente ma spesso finisce con l'essere controproducente, aggravando le condizioni dei cittadini.
La metafora che ai più sembra adattarsi a questa situazione è quella dell'incudine e del martello. Da una parte si ha una popolazioni, che nella sua parte maggioritaria, vede una contrazione del reddito; cioè la capacità di spesa di larghe fasce di popolazione si contrae, con un peggioramento della condizione di vita. Dall'altra parte le amministrazioni locali, specialmente quelle comunali, subiscono tagli nei trasferimenti di risorse da parte statale e regionale, effetto della crisi, e quindi finiscono per avere sempre meno risorse per la gestione delle rispettive città.
Una situazione quale quella descritta vorrebbe che le amministrazioni locali sviluppassero una politica espansiva dei servizi sociali in modo da compensare le minori risorse delle famiglie. Ma una politica di espansione dei servizi, ripetono tutti, anche se fosse necessaria, sarebbe impossibile a fronte di una contrazione delle risorse.
È proprio questo stare tra l'incudine e il martello che condiziona le amministrazioni locali e che le spinge a fare scelte sbagliate, anche se suggerite e ugualmente attivate anche a livello nazionale. Tali scelte, come si potrà osservare alimentano ulteriormente la dinamica occasionale delle nostre città.
Una tra le principali scelte è quella di vendere il rispettivo patrimonio immobiliare (palazzi, aree, abitazioni, ecc.). Fare cassa pare sia la parola d'ordine. Pur non volendo considerare il caso, pur reale, di vendita di uffici che poi l'amministrazione pubblica ha affittato da chi li aveva acquistati (con una perdita secca per l'amministrazione pubblica), questa scelta sembra su diversi piani un errore.
Intanto è difficile “vendere bene” in una situazione di crisi (le cronache ci raccontano di una diminuzione dei prezzi degli immobili anche del 20%); più che vendere in questo caso si tratta di svendere. Ma non basta, per il tema che qui interessa c'è un secondo aspetto che merita attenzione. Vendere da parte dell'amministrazione significa garantire che l'acquirente faccia un buon affare (il privato altrimenti non ci sta), il che significa garantire, secondo i casi, ampliamenti volumetrici, cambiamenti di destinazioni d'uso, ecc. cioè azioni tutte che hanno poco a che fare con una città pianificata.
Inoltre non è raro il caso che alcuni di questi edifici siano stati già destinati a usi collettivi, arricchendo la città di funzioni di qualità. È vero che molto spesso questi progetti restano non attuati per anni, per carenza di risorse, ma è sicuro che la vendita di questi edifici sottrae una possibile risorsa futura alla città.
Questo non vuole dire che non ci possano essere edifici suscettibili di essere venduti a ragion veduta, ma è chiaro che la fase di crisi non può costituire una fase positiva per queste operazioni. Anche qui ancora l'incudine e il martello, bisognerebbe vendere ma il tempo sarebbe sbagliato. Un'altra scelta è quella di accordare credibilità alla pressione di promotori immobiliari per processi di urbanizzazione e di trasformazione di destinazione d'uso dei suoli. Dentro la crisi, si suggerisce, non si può andare per il sottile, se queste operazioni portano risorse, sono da benedire. Anche se la crisi fornisce poche speranze di buoni affari, c'è sempre chi crede che tutto possa riprendere come prima.
Queste due scelte appaiono produrre risultati negativi e soprattutto mettono lo sviluppo della città in mano ai privati, scardinando ogni possibile strategia di governo per il futuro.
Altre scelte, come ridurre al minimo tutti gli interventi di manutenzione, o contrarre i servizi sociali, ecc., sebbene abbiano effetto sulla qualità della città incidono in modo marginale sul tema qui affrontato.
Quanto descritto mette in luce che tali interventi “amministrativi” in realtà non incidono sulla crisi e di fatto, oltre rendere più grave la condizione delle fasce di popolazione più colpite, toglie all'amministrazione ogni potere di governo della città, con una cessione di potere agli interessi privati. Non pare che questa possa essere la strada virtuosa che le amministrazioni locali possono seguire, il governo delle città e dei territori, soprattutto nella crisi, ha un forte bisogno di innovazione, non già una semplice amministrazione di bilancio, né tanto meno assecondare politiche di privatizzazione mai a beneficio collettivo.

5. Dalle occasioni alle opportunità
La sintetica esplorazione effettuata ha messo in evidenza come in realtà l'occasionalità nelle scelte di sviluppo urbano più che ridursi ha trovato negli ultime 30 anni nuovo alimento nei fenomeni che hanno investito la città. Le amministrazioni, grandi e piccole, restano costantemente vigili nel cogliere le occasioni che si presentano per la loro città. Tanto più la crisi morde le città, tanto più la ricerca delle occasioni diventa nell'immaginario politico la soluzione.
Si tratta di un atteggiamento, forse comprensibile ma non condivisibile, che viene alimentato dalle critiche talvolta giustificate, ma più spesso errate, nei riguardi della pianificazione. Vale la pena di sottolineare con forza che la ricerca di occasioni corrisponde ad una cessione di potere; il governo del territorio costituisce una delle principali funzioni delle amministrazioni locali, questo sta a significare che l'amministrazione locale ha il potere, e dovrebbe avere anche la capacità, di governare le trasformazioni della città e del territorio. Una tale attitudine starebbe a significare che l'amministrazione locale tiene il volante della dinamica urbana e territoriale e guida tale dinamica verso obiettivi condivisi e verificati. Giocare con le occasioni assume il significato di cedere il volante: la dinamica non è più guidata secondo obiettivi condivisi, ma prende la strada delle occasioni offerte dagli interessi che attraverso ad esse si materializzano. Una cessione di potere che può essere perniciosa per la vita della città.
Si può sempre sostenere che l'amministrazione non è obbligata a cogliere le occasioni, ma può scegliere tra esse quelle che sono coerenti con i propri obiettivi di sviluppo. Si tratta di una affermazione tanto ragionevole quanto inverosimile. L'amministrazione potrebbe esercitare questo potere di scelta se non fosse presa al collo dalle necessità e dalle scarsità delle risorse. La sua carenza cronica di risorse, accentuata enormemente dalla crisi, rende questo possibilità di scelta più ipotetica che reale.
Se si puntasse alle opportunità con connotato endogeno, questo potrebbe essere il terreno su quale l'intelligenza politica delle amministrazioni potrebbe esercitarsi. L'attenzione dovrebbe essere rivolto alle conseguenze della globalizzazione, della finanziarizzazione e della crisi economica e agli effetti prodotti in una prospettiva di “rinnovo urbano” (Cecchini, in stampa). La ricerca delle opportunità all'interno delle profondissime trasformazioni della nostra era potrebbe permettere di trovare il bando della complicata matassa della realtà per intrecciare i fili lunga la via della razionalità, della salvaguardia ambientale e dell'eguaglianza sociale e fare delle nostre città un modello di vita.

Opere citate
Indovina, 1972, a cura di, Lo spreco edilizio, Marsilio editore
Indovina, 1993, a cura di, La città occasionale, Frango Angeli editore
Cecchini A. (in stampa), “A great work:renovatio urbis in the age of globalisation”, in Maciocco G. Johansson M, Serreli S. (eds) City Project. Public Space, Springer.

NUOVA DIMENSIONE DEL SETTORE EDILIZIO



ASUR n. 105 2012

NUOVA DIMENSIONE
DEL SETTORE EDILIZIO
di Francesco Indovina*

1. Repetita iuvant
Il settore edilizio fa parte del più generale meccanismo capitalistico italiano, ma […] ne
fa parte con uno specifico ruolo [e] rappresenta il centro di un intreccio di forze economiche
(e quindi politiche) che hanno permesso di realizzare il tipico meccanismo economico italiano.
Ciò non nel senso che il settore ha condizionato il meccanismo generale, ma nel senso
che il particolare sviluppo del settore era una delle condizioni per realizzare il tipo di sviluppo
complessivo […]. L’ottica dello “spreco edilizio”, infatti, può essere forviante se non si
chiarisce il senso da dare alla formulazione stessa. È possibile interpretare il settore come
caratterizzato da spreco solo se questo sta a significare che i benefici ottenuti risultano non
proporzionali alle risorse impegnate nel settore. Ma sarebbe scorretto parlare di spreco se
con questo si volesse intendere che nelle condizioni del meccanismo economico italiano sarebbe
stato possibile un’utilizzazione diversa e più efficiente delle risorse impegnate nel
settore (Indovina, 1972).
Mi sarà perdonata questa lunga autocitazione, il suo scopo è quello di ribadire
la collocazione del settore edilizio dentro l’economia italiana. Con questo non si
intende dire che nulla è cambiato.
Diverse cose sono cambiate, ma il ruolo del settore, a meno così pare, non è
mutato, anche se mutati sono, in parte, i protagonisti, e gli effetti si presentano, in
un certo senso, più dirompenti.
Non ci si riferisce tanto alla “bolla” del settore, di dimensione diversa nel nostro
Paese rispetto ad altri (in particolare rispetto agli USA e alla Spagna), ma rispetto
agli indirizzi del settore e agli effetti sull’organizzazione del territorio e della
città e sull’organizzazione sociale dello spazio. Si cercherà di argomentare i cambiamenti,
in relazione anche alla finanziarizzazione dell’economia e alla globalizzazione,
ma pare di poter dire che il settore oggi goda di una certa autonomia rispetto
alla società italiana, anche in virtù del fatto che l’apporto di risorse non direttamente
nazionali è molto cresciuto. Ma di questa affermazione si darà giustificazione
più avanti.
2. Qualche dato quantitativo
I recenti dati “provvisori” del Censimento della popolazione e delle abitazioni
(2011), lasciano perplessi circa la loro corrispondenza alla realtà. Inoltre
* Francesco Indovina, Università IUAV di Venezia, Santa Croce 1957, 30135 – Venezia;
email: indovina@iuav.it.
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essendo dati provvisori mancano alcune informazioni fondamentali, come il titolo
di godimento, ma soprattutto non appare credibili la rappresentazione statistica
di specifici fenomei.
Si prenda nota inoltre che la più recente classificazione indica come abitazioni
occupate quelle occupate dai residenti, mentre sono non occupate quelle occupate
da non residenti o effettivamente non occupate. Certo che in questo modo un fenomeno
particolarmente rilevante (le case vuote, seconde case che siano o meno)
sfugge a ogni quantificazione.
Nella tab. 1 sono riportati i dati degli ultimi cinque censimenti (1971-2011), in
modo da permettere un punto di vista di lungo periodo e osservare eventuali mutamenti
nelle tendenze. Dai dati della tabella si rileva:
• che il patrimonio complessivo continua a crescere, ma che la tendenza di
lungo periodo presenta una contrazione del tasso di crescita. Tra i primi due
censimenti, il patrimoni totale è cresciuto di circa il 26%, tasso di crescita
che è diminuito nel tempo tra un censimento e l’altro, fino a circa il 6% nell’ultimo
censimento. Una tendenza di lungo periodo che quindi sembra trovare
conferma anche nella rilevazione dell’ultimo censimento;
• qualche spiegazione andrà cercata relativamente alle abitazioni non occupate
(si ricorda il contenuto di tale classificazione), non solo la tendenza
alla contrazione del loro tasso di crescita è rispettato, ma si può osservare
che nel censimento più recente si ha una diminuzione in valore assoluto. La
ricerca di spiegazioni relativamente a tale andamento deve tener conto dell’incertezza
sulla validità dei dati. Proprio nel settore delle “case vuote” i
censimenti hanno sempre presentato il fianco a incertezze. Dopo
l’incremento altissimo degli anni Settanta (+106%, pari a circa 2.200.000
abitazioni) il tasso di crescita di questa parte del patrimonio si è contratto
(+20% negli anni Ottanta; il 6,5% negli anni Novanta), fino a essere negativo
nell’ultimo decennio (-11% circa). Due spiegazioni potrebbero essere
date a questo fenomeno (il condizionale è obbligatorio), che corrispondono
ad alcune informazioni derivanti anche dalla cronaca: con l’acuirsi delle
difficoltà economiche delle famiglie, le “seconde case” potrebbero essere
state trasformate in “prima casa”, per esempio dei genitori pensionati che in
questo modo lasciavano la loro prima casa ai figli (o viceversa). Il fenomeno
non dovrebbe essere molto vistoso, infatti la seconda casa, per localizzazione,
attrezzature e servizi dovrebbe risultare poco adeguata allo scopo. Il
secondo fenomeno riguarda le modalità di evasione dell’Ici (l’Imu non esisteva
al tempo del censimento ultimo) con una finta residenza. Anche questo
fenomeno non deve essere molto vistoso. C’è tuttavia un altro fenomeno,
in controtendenza, che alimenta il nostro sospetto circa la veridicità del
dato. Appare crescente la pluri-domicilizzazione per ragioni di studio o di
lavoro, un fenomeno questo che, data la definizione adottata di “case vuote”,
avrebbe dovuto incrementare questa fascia (case occupate da non residenti
classificate insieme alle vuote) e non portare a una loro diminuzione
in valore assoluto.
92 Tab. 1
Abitazioni non occupate e
occupate ai diversi censimenti –
Italia (
dettaglio ripartizioni geografiche); dati 2011 provvisori
Ripartizioni Valori assoluti Numeri indici
geografiche 1971 1981 1991 2001 2011 1981/1971 1991/1981 2001/1991 2011/2001
Non occupate
Nord-Occidentale 609.656 1.110.441 1.235.855 1.266.667 1.201.873 182,1 111,3 102,5 94,9
Nord-Orientale 344.248 732.068 818.630 885.859 1.016.855 212,7 111,8 108,2 114,8
Centrale 451.608 825.952 944.712 950.761 691.033 182,9 114,4 100,6 72,7
Meridionale 464.127 1.029.079 1.405.319 1.544.692 1.240.064 221,7 136,6 109,9 80,3
Insulare 262.906 697.931 888.093 990.726 844.449 265,5 127,2 111,6 85,2
Italia 2.132.545 4.395.471 5.292.609 5.638.705 4.994.274 206,1 120,4 106,5 88,6
Occupate
Nord-Occidentale 4.764.040 5.318.966 5.697.509 6.182.936 6.805.010 111,6 107,1 108,5 110,1
Nord-Orientale 2.833.035 3.310.972 3.728.314 4.194.709 4.764.605 116,9 112,6 112,5 113,6
Centrale 2.862.769 3.341.257 3.830.516 4.192.229 4.750.573 116,7 114,6 109,4 113,3
Meridionale 3.230.679 3.701.005 4.324.177 4.722.722 5.159.077 114,6 116,8 109,2 109,2
Insulare 1.610.904 1.869.534 2.155.397 2.360.692 2.601.183 116,1 115,3 109,5 110,2
Italia 15.301.427 17.541.734 19.735.913 21.653.288 24.080.448 114,6 112,5 109,7 111,2
Totale
Nord-Occidentale 5.373.696 6.429.407 6.933.364 7.449.603 8.006.883 119,6 107,8 107,4 107,5
Nord-Orientale 3.177.283 4.043.040 4.546.944 5.080.568 5.781.460 127,2 112,5 111,7 113,8
Centrale 3.314.377 4.167.209 4.775.228 5.142.990 5.441.606 125,7 114,6 107,7 105,8
Meridionale 3.694.806 4.730.084 5.729.496 6.267.414 6.399.141 128,0 121,1 109,4 102,1
Insulare 1.873.810 2.567.465 3.043.490 3.351.418 3.445.632 137,0 118,5 110,1 102,8
Italia 17.433.972 21.937.205 25.028.522 27.291.993 29.074.722 125,8 114,1 109,0 106,5
93
Da un precedente lavoro (Indovina, 2005) si è recuperata, aggiornandola con i
dati dell’ultimo censimento, la tab. 2, dove si mette in evidenza la destinazione
(occupate e non occupate) delle abitazione che in ogni decennio incrementano lo
stock di abitazioni. La tabella, ovviamente, è costruita sui saldi quindi non mette in
evidenza i passaggi interni tra le due destinazioni.
In modo evidente si coglie una contrazione di lungo periodo dell’incremento
dello stock di abitazioni (dai 4.500.000 degli anni Settanta si passa ad appena
1.783.000 dell’ultimo periodo). Del resto lo stock complessivo di abitazioni per circa
25 milioni di famiglie, pare più che sufficiente. Negli anni Settanta, il 50% della crescita
totale dello stock ha alimentato lo sviluppo del segmento “non occupato”
(+2.260.000). Sembra positivo che la parte del patrimonio che alimenta il settore del
non occupato (sebbene in crescita totale almeno fino al 1991, vedi tab. 1) sia in flessione,
in valore assoluto come in percentuale. Cresce anche il settore dell’occupato dei
non residenti, fenomeno dovuto all’immigrazione e a quella che in precedenza è stata
chiamata pluri-domicilizzazione (dato ancora non noto per l’ultimo censimento).
Tab. 2 – Destinazione dell’incremento dello stock di abitazioni tra i censimenti
Periodo Totale Destinazione
Occup. da residenti 2.022.000
Occup. da non residenti 218.000
1981-1971 4.500.000
Non occup. 2.260.000
Occup. da residenti 1.861.000
Occup. da non residenti 333.000
1991-1981 3.092.000
Non occup. 898.000
Occup. da residenti 1.362.000
Occup. da non residenti 555.000
2001-1991 2.263.000
Non occup. 346.000
2011-2001 1.783.000 Occup. da residenti 2.427.000
Occup. da non residenti o non occupate –644.000
Quello che impressiona in questa tabella è la parte riferita all’ultimo censimento
che mette in evidenza, per quello che i numeri dicono (falsificano?), un passaggio
dal patrimonio non occupato dai residenti o vuoto alla parte del patrimonio
occupato dai residenti. Per quanto detto in precedenza questa rappresentazione pare,
forse, poco corrispondete alla realtà, soprattutto se si tiene conto (vedi tab. 1)
che il fenomeno riguarda in misura più rilevante che nelle altre zone, l’Italia centrale,
meridionale e isole, zone privilegiate per le “casa per vacanze”.
Quello che, tuttavia, appare rilevante è che il disagio abitativo non è diminuito
ma, al contrario è crescente1, certo la crisi aggrava la situazione, ma come i dati
1 La documentazione sul disagio abitativo è molto ampia, per molti riferimenti si rinvia
a Indovina (2005); mentre aggiornamenti sugli anni più recenti si possono trovare in Fondazione
Anci (2010), nonché nei rapporti della Caritas.
94
dimostrano la situazione era grave anche in una fase di pre-crisi (Indovina, 2005).
Sintetizzando si può dire che l’avere affidato la soluzione della “questione abitativa”
al mercato e, contemporaneamente, avere contratto ogni intervento di edilizia
economica e popolare, non solo non ha risolto il problema di chi al mercato non
può accedere, ma ha creato le premesse per un aggravamento della situazione. Un
notevole contributo in questa direzione l’ha dato anche la crisi economica attuale,
sia in relazione a quanti fidandosi della propria condizione economica avevano
contratto dei mutui che oggi non riescono a rispettare, sia di quanti sono stati
espulsi, dal segmento della casa in affitto, per morosità2, determinata da un peggioramento
della propria condizione economica. La questione del disagio abitativo
trova una sua trattazione in questa raccolta, alla quale si rinvia, mentre sembra utile
affrontare il problema del ruolo del settore edilizio nelle condizioni odierne.
3. Un diverso ciclo con nuovi soggetti
È noto che al settore edilizio viene attribuito un importante ruolo anticiclico per
le relazioni che esso intrattiene con tutti gli altri settori produttivi. Una verità, questa,
che anche se ha assunto la forma del luogo comune – “quando il settore edilizio va,
tutta l’economia va bene” – è solo in parte vero: dalle tavole di interdipendenza questa
verità esce solo parzialmente verificata (Indovina, 1972). Ma il luogo comune ne
sotto intende un altro: una sorta di scissione tra il ciclo economico generale e quello
del settore. In realtà è vero che il settore contribuisce a sostenere il ciclo economico
generale ma a questo è strettamente connesso. Per scinderlo da quello sono necessarie
sostanziali ignizione di risorse pubbliche (edilizia economica e popolare, come il
Piano Fanfani, o opere pubbliche), altrimenti resta legato al ciclo economico (sicuramente
con un proprio ruolo). Così, nel secondo dopoguerra, i grandi movimenti
migratori e il boom economico avevano alimentato il ciclo edilizio urbano, che trovava
nella “domanda improcrastinabile” il suo motore (Indovina, 1975), e questo ha
sostenuto e rafforzato il ciclo economico generale. Negli anni più avanti è stata la
domanda per il miglioramento abitativo, e quella della seconde case (Barp, 1977),
che ha alimentato il secondo ciclo edilizio. Insomma ogni ciclo edilizio è caratterizzato
da una “forma” specifica che ne determina le condizioni e le strategie, da specifici
soggetti “operatori” e dalle caratteristiche della domanda.
In generale si è trattato di un settore “nazionale”, non solo nel senso che imprese,
promotori e lavoro sono stati prevalentemente nazionali (per il lavoro questa
affermazione oggi è sempre meno vera, essendo prevalente nel settore la manodopera
immigrata e spesso irregolare), ma anche che le risorse finanziarie necessarie
alla sua alimentazione sono state anch’esse nazionali (in parte degli stessi consumatori
finali, in parte dei promotori)3. Che questo abbia dato origine alla formazio-
2 Gli sfratti per morosità, nel 2010, sono stati l’86% del totale, in crescita rispetto al
2009 (84%). Censis (2011).
3 Esiste un contrasto interpretativo, che non merita essere ripreso, tra chi (Indovi95
ne di quello che è stato definito “blocco edilizio”, è noto; l’esistenza di tale “blocco”
(all’interno del quale il sistema bancario ha avuto un ruolo rilevante) è all’origine
delle rilevanti “storture” (ma funzionali) del settore (dalla corruzione, allo
spazio dato alle organizzazioni criminali, al mancato rispetto dei piani e delle norme
ecc.) fino alla crisi attuale.
Quelle che, pudicamente, sono state indicate come “storture”, in realtà, costituiscono
delle profonde ferite nel meccanismo economico e sociale del Paese,
che nel tempo si sono trasformate in pericoli di cancrene. Ci si riferisce all’infiltrazione
nel settore edilizio, soprattutto (inizialmente) in alcune regioni
del Sud del Paese, della criminalità organizzata, che ha visto in esso non solo il
primo gradino economico che avrebbe favorito il dilagare in tutta l’economia,
ma anche un vestito decente per risorse di origine ancora più criminali, lungo la
strada di un’ascesa sociale ancora in via di sviluppo. È la mafia che abbandonando
il proprio terreno d’origine, la campagna e il contrabbando, penetra profondamente
nel settore edilizio delle maggiori e minori città siciliane e meridionali.
Una presenza che non solo si caratterizza per i suoi tratti di violenza, ma
anche per capacità di corruzione e per lungimirante intreccio con la “politica”
(di governo). È da qui che la corruzione diventa costume e travalica il Sud e il
settore invadendo tutto il Paese, compresi i santuari della moralità. È da qui che
l’intreccio tra politica ed economia, non necessariamente mafioso ma sicuramente
svincolato da regole di trasparenza e di legittimità, finisce per degradare
molte funzione di governo.
In altri Paesi il meccanismo edilizio, ancorché in parte netto dalle peggiori
storture prima indicate, ha alimentato la crescita di una “bolla” edilizia, non priva
di implicazioni illecite, che si è autoalimentatasi per poi deflagrare, con conseguenze
per tutta l’economia mondiale. Che la situazione italiana non sia paragonabile,
in questo settore, a quella degli Usa o della Spagna non sta a significare una
“regolarità” di funzionamento del settore nel nostro Paese. Sempre, forse si può
affermare, il settore edilizio nel suo insieme è all’origine di situazioni dalle implicazione
negative, per il ciclo economico complessivo, per i meccanismi di illiceità
che promuove, per la degradazione delle città ecc.
Oggi (negli ultimi anni e non solo per effetto della crisi) la situazione si è in
parte modificata. Gli elementi di questa modifica possono indicarsi nei seguenti
fenomeni:
• una domanda per prima casa in fortissima contrazione. Nonostante una rilevante
flessione dei prezzi non si materializzano compratori. Le transazioni tra
il 2006 e il 2010 sono diminuite del 27%, dato che con modeste differenze (le
variazione estreme si collocano tra il 19% e il 32%) si ripete in tutte le regioni
(Censis, 2011). Le famiglie che non godono la casa in proprietà sono intorno al
20%, e si tratta di famiglie con poche disponibilità; né la gran parte è nelle
na) ha sostenuto che il settore abbia drenato risorse sottraendole ad altre utilizzazioni
produttive, e chi (Secchi) ha sostenuto che il settore costituiva una sorta di
“raccoglitore” di risorse che spostava verso altri settori produttivi. Oggi pare che la
questione si ponga in modo differente.
96
condizioni, soggettive e oggettive, di contrarre un mutuo (per altro molto difficile
da ottenere)4;
• la domanda di acquisto di abitazioni per investimento (da dare in affitto) è
sempre una quota modesta dell’intero mercato e in contrazione perché ne è
sempre più incerto lo sbocco5. Relativamente attivo è il segmento di acquisto
per investimento in settori specializzati: abitazione da affittare a studenti e lavoratori
fuori sede; a turisti ecc. Si tratta, tuttavia non tanto di un investimento
per la rendita, ma piuttosto dell’inizio di una vera e propria attività economica,
alla quale non molti sono disposti;
• l’acquisto come “bene rifugio”, a parte l’indeterminatezza della definizione,
non è favorito dall’andamento economico generale e dalla prospettiva di una
tassazione crescente. Il mattone ha rappresentato, tuttavia, fino agli anni Ottanta,
l’investimento verso il quale si sono indirizzati i risparmi delle famiglie
meridionali (pochi o tanti che fossero) per assenza di alternative. I figli crescono,
il mattone difende dall’inflazione, garantisce il risparmio, è facile da
realizzarsi nel bisogno, e altri spicci di filosofia economica.
Se questi fenomeni indicano una tendenza alla stagnazione del settore (cosa
che si vede anche negli indici della produzione delle costruzioni6), è possibile rilevare
che altri fenomeni si presentano come “stimoli”, anche se la loro natura mette
in luce delle problematicità complesse e, comunque, il loro peso non è tale da invertire
la tendenza generale, anche se appare rilevante in determinate filiere e zone.
Sono da considerare gli effetti che sul settore, in una Paese come l’Italia, può
determinare la ricerca della finanza internazionale di occasioni di investimenti
(speculativi). In questo senso il settore sembra sempre più svincolato dalle dinamiche
nazionali e collegato, per vie traverse e complesse, alla finanza internazionale.
Si sottolinea alla “finanza internazionale” non al ciclo economico internazionale,
infatti quella risulta indipendente e autonoma dal ciclo dell’economia reale internazionale,
oltre che nazionale7.
C’è un cambiamento significativo nel capitalismo della nostro era: la finanza
risulta, a livello mondiale, otto volte più grande del prodotto dell’economia reale.
4 Dall’indagine dell’Istat (2010), sulla vita quotidiana, si rileva che le famiglie che godono
la casa in proprietà presentano un aumento molto modesto: erano il 71,3% nel 2001e
raggiungono il 72,1% nel 2011. Nel complesso il 56% delle famiglie rilevano che le spese
per l’abitazione risultano per loro troppo alte.
5 Se si guardasse al patrimonio in proprietà a persone fisiche, solo l’8% è dato in affitto
(Censis, 2011, su dati Agenzia del Territorio).
6 Si prendano i numeri indice degli ultimi tre anni: 2009 indice 97,6; 2010, 93,5; 2011,
90,8 (Istat). “In cinque anni (2008-2012) il livello degli investimenti in nuove abitazioni si è
ridotto notevolmente, registrando una caduta del – 38,9% in termini reali” (Censis, 2011).
7 È l’incomprensione di questo fenomeno che determina l’assoluta inettitudine della
politiche economiche nazionali e dell’UE, le quali non fanno altro che “garantire” la finanza
internazionale e la relativa speculazione, che se è interessata a che non si manifestino fenomeni
come quello greco, per la necessità di “tosare” i popoli per garantire il rendimento dei
propri investimenti, resta assolutamente indifferente agli effetti sociali che determina.
97
La struttura capitalista, ancorché costituisca un blocco (vedi, per esempio, la famiglia
Agnelli che si muove nella produzione e nella finanza), si muove da una parte
nel processo tradizionale capitalistico (D-M-D), fondato sullo sfruttamento della
manodopera (e della natura), al quale si affianca un processo (D-D-D) che tosa i
popoli (e gli ingenui) speculando, sulle materie prime, sulle borse, sui redditi sovrani
ecc. La ricchezza di carta comanda su quella reale, le sue disponibilità sono
tali da determinare, insieme, le “occasioni” e le loro “realizzazioni”. È di qualche
rilievo cogliere quale sia l’effetto di questa nuova dimensione del capitale sul settore
che qui interessa.
Intanto va colto un dato strutturale/sociale: questa nuova dimensione del capitalismo
determina una redistribuzione della ricchezza quali mai si era avuta (a
livello nazionale e internazionale). Si è formata una classe di “ricchi” di una dimensione
mai avuta nel passato. Alle ricchezze accumulate sulla base dello
sfruttamento di materie prime (petrolio soprattutto) si sommano le ricchezze determinate
dallo sfruttamento delle nuove tecnologie, ma soprattutto le ricchezze
accumulate per via finanziaria. Non si vorrebbero fare rischiosi discorsi antropologici,
ma sicuramente le ricchezze accumulate via “rendita” (materie prime o
finanza che sia), tendono a definire una soggettività diversa dalle ricchezze accumulate
via produzione materiale. Il rapporto con il “lavoro”, in questo ultimo
caso, costituiste un segno in qualche modo influente. Non si vuole determinare
nessuna meccanica sociale e psicologica, ma va segnalato che le “domande” di
questi ricchi “renditieri”, si collocano, in un modo che pare sostanziale, nella dimensione
del lusso.
La classe dei super ricchi ormai ha una dimensione notevole: si parla di 11
milioni di individui, una cifra che sembra sicuramente sottovalutata, e non di poco,
data la difficoltà di un’informazione corretta della situazione in Cina e in altri Paesi
dall’incerta trasparenza. Si tratta di una massa dedita a consumi di lusso; non è casuale
che dentro la crisi l’unico settore che non ne è stato investito, ma anzi ha presentato
dati in espansione, sia proprio quello del lusso8.
Nel settore edilizio c’è una domanda specifica, che in modo sintetico possiamo
identificare indirizzarsi verso “abitazioni storiche”, verso seconde, terze e quarte
case, sempre di lusso, sia a livello urbano che in posti privilegiati del loisir; a questo
scopo si costruiscono, come dire, luoghi specifici (come Dubai) o specifici palazzi
o grattacieli (Londra, ma non solo). C’è una richiesta di posti isolati, come
piccole isole (Budelli, in Sardegna, è in vendita a 4,5 milioni di euro).
Nello stesso tempo, in connessione con questa specifica domanda, sono disponibili
investitori internazionali: i ricchi stessi, ma soprattutto fondi, assicurazioni
ecc. Il settore edilizio del nostro Paese, almeno in parte, sarà investito da
questo nuovo ciclo, diverso per operatori e diverso per domanda: questo non sta
a significare che le tradizionali domande e operazioni immobiliari scompariranno,
ma esse avranno sempre meno peso. Un settore a parte, ma su questo si tor-
8 “Il 2012 sarà un anno record per i consumi mondiali di beni di lusso, come moda e
accessori, auto, gioielli, profumi, cosmetici”. Armando Branchini, segretario dell’associazione
“altagamma” (L’Espresso, 28 giugno).
98
nerà più avanti, è quello che il Governo sembra voler attivare attraverso la vendita
del patrimonio pubblico.
In sostanza, è molto probabile che il settore si organizzerà in modo dualistico:
da una parte un settore tradizionale, modesto per dimensione ma diffuso nel territorio,
con qualche lieve innovazione richiesta dalle nuove necessità di risparmio
(energetico, ambientale, economico, di suolo ecc.), e dall’altra un settore all’avanguardia,
più ampio ma spazialmente concentrato, dominato da architetti star,
che si dedicherà a soddisfare questa nuova domanda. Quest’ultimo in Italia tenderà
ad aggredire soprattutto alcune regioni, quelle classiche della “bella Italia”, e alcune
città, anche queste le classiche “città d’arte”9.
Questa dinamica appena accennata non avrà niente a che fare con la “questione
abitativa” degli italiani. Fallita la soluzione di mercato, ragione vorrebbe si
tornasse alle forme di edilizia economica e popolare, magari rivisitate, ma non
sembra che a questo si pensi. La politica dei passati e del presente governo ha
guardato sempre e comunque al “mercato”. Fa eccezione la legge sull’equo canone,
frutto di lotte ed elaborazioni avanzate, ma questo fu abolito per tornare al mercato
che avrebbe dovuto produrre insieme il rilancio del settore e la cancellazione
della questione abitativa risolta dal meccanismo equilibratore ed equo del mercato.
Non c’è bisogno di ricordare come sia finita. Il piano caso del precedente governo,
che doveva muovere investimenti di grandissima dimensione (e così promuovere lo
sviluppo), era indirizzato a facilitare il miglioramento della domanda già soddisfatta:
concedeva la possibilità di ampliare l’abitazione posseduta. Anche qui
montagne che producono topolini. Non solo, quindi, non si aveva attenzione per
chi la casa non l’aveva, ma presupponeva una richiesta di miglioramento abitativo
che non c’è stata e che comunque è stata falciata dalla sopravvenuta crisi.
Il dinamismo e la crescita delle città sono legate all’attività edilizia, che è
funzionale a tale crescita e dinamismo, ma quando il settore edilizio risulta avulso
da ogni valutazione di fabbisogno o, se si preferisce, della domanda dei cittadini
insediati, è la città che resta vittima di una trasformazione che non le appartiene,
e che riguarda soltanto un possibile meccanismo speculativo (Harvey,
2012). Quello che si prospetta è quindi, non già la costruzione di una migliore
9 Questo settore si caratterizza come un settore avanzato, il lusso accompagnato alle
nuove tecnologie, il che determina qualche nuova preoccupazione. La nuova frontiera dell’architettura
sembra il “grattacielo”, ovviamente costruito con materiali nuovi, tecnologie di
risparmio, con un ciclo chiuso dell’acqua, la trasformazione dei rifiuti ecc. Una soluzione
contro le degradate periferie, si dice. Tre osservazioni: spesso investimenti in questa direzione
si sono evoluti, per così dire, verso il fallimento del promotore, c’è forse un problema
di sostenibilità economica; senza voler passare per passatista, l’altezza, sempre maggiore,
determina, non sempre ma spesso, cortocircuiti estetici paesaggistici, la “misura” non può
essere solo costituita dalle potenziali tecnologiche e dei materiali, ma anche dal contesto; a
chi pensa che il grattacielo possa essere l’antidoto alle periferie consiglio la lettura di Ballard
(1994), certo un romanzo, ma gli scrittori spesso hanno l’occhio lungo. Quello dei
grattacieli, o meglio della mania dei grattacieli rischia di essere un ennesimo pericolo per le
nostre città: i “nuovi” investitori non guardano al piccolo condominio, la loro dimensione è
per forza “grande”.
99
città, alle nuove condizioni, ma piuttosto un deterioramento della condizione urbana,
che avrà come sua cifra costitutiva quella dell’esclusione. Ma senza “condizione
urbana” non c’è civiltà.
4. Il “patrimonio” pubblico soluzione della crisi
La crisi, come è noto, continua a mordere, ma il governo invece di prendere il
toro per le corna si balocca con l’idea che dando “fiducia” al mercato questo alla
fine regolerà le questioni secondo le “fondamentali”. Non ci si rende conto che all’attività
finanziaria, quelle che si definiscono le “fondamentali” non interessano e
non hanno rilievo alcuno. La soluzione individuata è una diminuzione del debito
sia attraverso una tosatura del popolo (mai una patrimoniale) e nella vendita del
patrimonio immobiliare posseduto a livello centrale e periferico. Anche i comuni,
infatti, sono spinti (obbligati) a vendere il loro patrimonio. I calcoli che si fanno su
quanto si potrà recuperare da queste vendite è, da una parte, cervellotico e, dall’altra
parte, è sperabile che i desideri non si avverino onde evitare il disastro per le
nostre città; queste ultime, infatti, finirebbero per essere sottoposte, più che nel
passato, a regole speculative. Bisogna osservare, per essere realistici, che il patrimonio
a cui si fa riferimento non è costituito più da abitazioni – in gran parte già
vendute e per le altre mancano i compratori – ma piuttosto da edifici terziari, aree,
caserme ecc. Per questo patrimonio potrebbero non mancare, con cautela, acquirenti
(stranieri e anche italiani) i quali essendo i venditori obbligati a vendere sono
in grado di dettare le proprie condizioni.
Intanto i prezzi; il mercato indica una forte contrazione dei prezzi delle compravendite,
a tale andamento dovrebbero adeguarsi i venditori (Stato ed Enti locali),
del resto molti dei venditori non credono alla possibilità di forzare il “mercato”,
ed essendo il venditore “costretto” a disfarsi di tale patrimonio, il compratore ha
potere di imporre la sua legge. Prezzi anche inferiori agli andamenti del mercato, e
quindi non è escluso che i ricavi non siano quelli sperati e che questo patrimonio
più che venduto sia svenduto (del resto le esperienze passate sono da annoverarsi
tutte come più o meno fallimentari). Ma non basta, il compratore pretende di fare
un “affare”, e forte del suo potere di mercato, delle “garanzie” che è in grado di
mettere in campo (compresi padrini politici, eccezionali architetti e, se necessario,
qualche piccola o grande corruzione) si aspetta di essere svincolato da norme di
piano (certo a beneficio della città), pretende una modifica di destinazione d’uso,
consona ai propri interessi, un rilevante aumento volumetrico (in alcuni casi la demolizione
e la ricostruzione), nessun vincolo di forma, altezza ecc. Insomma il
compratore richiederà tutte le varianti opportune per realizzare l’“affare”. Già questo
sta avvenendo in molte città, con un crescente conflitto che vede, spesso, insieme
il comune con il promotore (compratore) e contro i cittadini con talvolta la
sopraintendenza ai monumenti.
Insomma si tratta di una manomissione delle regole del governo della città a
cui in passato il Paese è stato sottoposto ma che si pensava non si dovessero più
100
presentare. A fronte i vantaggi per le singole città saranno minime, con disagi
crescenti. Gli Enti locali e anche lo Stato non disporranno più di un patrimonio
che avrebbe potuto essere utilizzato per il miglioramento della città, per accrescere
la dotazione di servizi, per incrementare il patrimonio di edilizia economia
e popolare e il verde, per implementare attività culturali e sociali ecc. In compenso
avrà degli edifici per lo più commerciali, o altrimenti destinati a una clientela
estranea alla città.
Non sembra questa la strada virtuosa che le amministrazioni locali dovrebbero
seguire; le città e i territori d’Italia hanno sicuramente bisogno di innovazione, di
miglioramenti, di gestione condivisa: il semplice punto di vista del bilancio (accrescere
le entrate), sembra destinato al fallimento e, nella misura in cui avesse successo,
causerà il deterioramento delle città: splendenti in qualche parte e abbandonate
nella loro maggior parte.
Qualche nota conclusiva
Le note precedenti non sopportano delle grandi conclusioni, quanto piuttosto
la messa a punto di alcune nodi che la fase attuale del ciclo edilizio suggerisce. A
questo schema ci si attiene, consapevoli dell’incertezza del momento e della possibilità
di una frana che porti il Paese a una situazione drammatica senza preparazione.
Una frana, entro certi limiti, evitabile; per far questo va abbandonata ogni idea
liberista, il Paese deve insorgere contro gli speculatori (i più vecchi si ricorderanno
quando questi si chiamavano “gli gnomi di Zurigo”, bei tempi), far valere i suoi
“fondamenti” contro il potere dell’economia di carta.
Nella situazione data il settore edilizio continuerà a subire contrazioni, mentre
il disagio abitativo continuerà a crescere e ad allargarsi verso segmenti sociali oggi
risparmiati. Nello stesso tempo si affermerebbero operazioni edilizie (speculative)
di varia e complessa dimensione, destinate a soddisfare, nelle diverse modalità, sia
la domanda dei ricchi crescenti che le fantasie degli speculatori internazionali.
Anch’essi presi in una sorta di solipsismo dissennato, convinti, in un certo senso,
che il mondo a loro si adeguerà senza rendersi conto che stanno creando le condizione
per una catastrofe sociale di cui pare impossibile solo pensare la dimensione.
Certo i tempi sono lunghi, le parti del Paese investito da queste operazioni potenzialmente
distruttive saranno diverse, ma è certo che il settore, senza ostacoli,
ma anzi facilitandone le tendenze, in questa direzione si muove.
Se, al contrario, in una sorta di nuova epifania riformista, si assumesse che il
settore edilizio dovesse soddisfare il fabbisogno di abitazioni reale, dovesse occuparsi
dell’organizzazione e della salvaguardia del territorio, del recupero delle abitazioni
degradate e della sicurezza degli edifici e dovesse finalizzare l’utilizzazione
del patrimonio pubblico a fini collettivi, allora sarebbe necessario il lancio di una
“piano” articolato in segmenti diversi. Da quello dell’edilizia economica e popolare,
per dare risposta positiva al fabbisogno di chi non può stare nel mercato, immigrati
inclusi, a quello per la salvaguardia del territorio, a quello ancora del riuso del
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patrimonio esistente degradato e non utilizzato, alla possibilità di costituire uno
stock specifico di abitazioni, con tipologia adeguata, per il fabbisogno dei fuori sede
per studio o lavoro, per gli anziani autosufficienti (totalmente o parzialmente).
Insomma se si guardasse ai bisogni delle popolazione si potrebbe mettere in cantiere
una serie di iniziative, che potrebbero non escludere i privati alla ricerca di sicure
e non speculative remunerazioni, relazionando il settore edilizio alla nostra società
e con questo far svolgere al settore anche quel ruolo di motore dell’occupazione
e dello sviluppo al quale spessi ci si appella. Il mercato capitalistico
ha dato e continua a dare pessimo esito di sé (non vale la pena citare dati), è tempo
almeno di correggerlo.
Accanto a queste operazioni attive, andrà predisposta una struttura normativa
di difesa della città e del territorio da azioni speculative, soprattutto in quelle zone
che queste potrebbero privilegiare.
Riferimenti bibliografici
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