mercoledì 27 aprile 2016

La salute non va bene, e il resto?

Diario n. 313
27 aprile 2016



Quando la “sanità” va male la salute dei cittadini non va bene. Oggi grande sgomento per i dati messi a disposizione dell’Osservatorio nazionale sulla salute, che testimonia dell’aggravarsi della situazione della salute dei cittadini a partire dalla speranza di vita che, fatto eccezionale, diminuisce invece che crescere. Dichiarazioni, cautele, qualche spicchio di verità, una situazione grave.
Conosco molti che fiduciosi sul regime economico-sociale che ci governa  giuravano che niente di grave sarebbe successo nei nostri servizi sociali, che i taglia a comuni e regioni non avrebbero influenzato la dotazione dei servizi. Stupidi? No, accecati dall’ideologia.
Perché la sanità va male? Certo per la corruzione, ancora per l’indecente gestione da parte di molte regioni, e poi e soprattutto per i tagli, tagli, tagli. Riduzione della prevenzione, riduzione delle vaccinazioni, ticket in crescita e insopportabili per fasce consistenti della popolazione, riduzione delle cure, alimentazione distorta (pare che la famosa dieta mediterranea tramonti, per gusto, forse, per la pubblicità aggressiva di prodotti industriali, pure, ma anche per il costo della vita), liste di attese abnorme e che scoraggiano, ecc.
Se la corruzione è comune a tutte le regioni, l’efficacia del sistema sanitario non è identico tra le varie regioni, da qui una “migrazione di cura” (di chi può o può sacrificarsi, parte alla ricerca dell’ospedale disposto ad accoglierlo).
L’ennesima fotografia di un paese spaccato e squilibrato: nella grave situazione il nord sta meglio che il sud; chi ha risorse economiche si cura e chi non ne ha muore. Più di mezzo milione di morti nel 2015 in più rispetto a quelli del 2014, dovrebbero essere un campanellone di allarme, ma il ministro della salute si distingue per le sue vacue e inutili osservazioni.  

Certo che la sanità va male e che per conseguenza la salute non sta bene, ma sono indicatori pesanti di come va male il paese. Vivere della speranza che alla fine c’è la luce che ci guida all’uscita del tunnel della crisi è stata ed è una vera pazzia. Mentre siamo in attesa di questo evento magico, il paese regredisce, le diseguaglianze crescono, la frammentazione sociale avanza, la cultura del “mio” prevale, e si costruisce una condizione sociale e politica in cui sguazza Salvini (e dobbiamo ringraziare che esiste 5*).    

martedì 26 aprile 2016

Necessità, realizzabilità, frustrazione

Francesco Indovina
(stesura 2013)

(in: Utopia, passato, presente, futuro, Quaderni planning design tecnologia, scienza dell’abitare, n.3, Università La Sapienza di Roma) 

In questi giorni Philae, un piccolo robot, è atterrato sulla cometa 67P. Dopo i missili V2 lanciati sull’Inghilterra, verso la fine della seconda guerra mondiale, dopo i satelliti, lo sbarco sulla luna, le stazioni spaziali, l’esplorazione di Marte, ora questa impresa, che a me pare prodigiosa. Tutto ha inizio con le V2 di Wernher von Braun sull’Inghilterra.
Lo sbarco sulla cometa mi pare un buono spunto per ragionare sul tema che la rivista ha proposto. Se da una parte questo episodio  fa riflettere sulle “infinite” (?) possibilità della scienza e della tecnologia, dall’altra, spalancando la finestra sul  “nostro” mondo, siamo colpiti dal panorama di macerie fisiche, sociali ed economiche, che appaiono ai nostri occhi. Sembra che la specie umana mentre esprime un grande potenziale scientifico e tecnologico non è capace di un “governo” del corpo sociale che garantisca giustizia, equità, accoglienza, convivenza, pace e libertà. Con l’aggiunta che le esperienze  utopiche in questo ambito si sono dimostrate disastrose. Insomma nell’insieme siamo incapaci sia di auto-organizzazione che di governo.
Immagino si possa  dire qualcosa intorno a questa “incapacità” generale e politica, ma vorrei  avvicinarmi al tema dal punto di vista dei mie principali interessi;   vorrei, cioè,  avanzare qualche considerazione su come la questione si pone a livello del governo della città e del territorio. Non voglio, neanche, affrontare il tema di quale sia in quest’ambito l’ “utopia realizzabile” e perché dei suoi fallimenti. In un certo senso in ogni progetto c’è un’utopia realizzabile e sotto traccia anche il suo fallimento.
Sembrerebbe logico che, nel contesto prima delineato, un’attenzione particolare fosse posta alle  “città ideali”; non sono di questo avviso. Esse, infatti,  ci (mi) appaiono da una parte come  un’astrazione rispetto alla concretezza materiale dei processi sociali, economici e culturali e, dall’altra parte, affermano un’idea di forma urbana legata ad una forma di organizzazione sociale sostanzialmente prevaricante e fortemente impositiva. Una strada del tutto sbagliata per arrivare ad un società migliore (equa, giusta, democratica, egualitaria, accogliente, ecc.) che non potrà che essere un processo che abbia uomini e donne impegnati in prima persona con la piena consapevolezza di lavorare ad una costruzione sociale sempre perfettibile.
Ma non bisogna pensare che i “modelli” siano solo quelli delle città ideali, altri e differenti modelli si è cercato di calare nella realtà urbana, finalizzati alla realizzazione di una filosofia o di una funzionalità (utopie?). Si possono citare, in modo esemplificativo senza soffermarsi su di essi, la “città giardino” e la “città lineare”, l’una tesa ad affermare un punto di vista che privilegiava la relazione con l’ambiente, la bassa densità, la non grande dimensione; la secondo che esaltava la funzionalità della mobilità.
Il tema, che appare dominante nel governo della città e del territorio e che  determina una condizione di frustrazione, può essere individuato nell’ordine urbano che motiva ogni piano, ogni azione di governo del territorio, ogni progetto.  L’attività del pianificare, del progettare, del governare e di organizzare la città o il territorio, infatti, manifesta la volontà di dettare un ordine (imporre un ordine); modificare l’esistente ha lo scopo di determinare le condizione perché si affermi   un ordine futuro (per definizione non solo diverso da quello preesistente, ma anche migliore). Non si tratta, tuttavia, anche se  apparentemente lo sembri, di  un ordine “fisico”,  in realtà, anche per le determinazioni di “senso” che l’organizzazione fisica dello spazio produce, si tratta di un ordine complessivo.  Non si prospetta solo un ordine fisico, ma piuttosto il tentativo ricorrente è quello di creare le condizioni per la realizzazione di un ordine sociale;  un ordine sociale modificato (fino ad essere rivoluzionato) o la creazione di una struttura che rafforzi l’ordine sociale esistente, affinché  esso sia in modo espanso  “accettato” e, soprattutto, che  non sviluppi anticorpi.
Ed è qui che ritorna il concetto di “modello”. Quando si prospetta un “futuro”, che  sicuramente intende correggere quello preesistente, chi conduce l’operazione si affida ad un modello che ha in mente, che ha elaborato, che costituisce lo “stile” della sua modalità di governare. Non necessariamente si tratta di un modello codificato,  ma piuttosto di una struttura logica che  individua, all’interno di una rete di connessione, cosa cambiare, dove collocare, che cosa realizzare, cosa sacrificare, cosa esaltare, ecc. In sostanza l’ansia realizzativa è legata ad una prospettiva ben definita (la sua realizzazione è problema diverso).
Non a caso mi piace definire il processo di organizzazione della città e del territorio (l’urbanistica) come “scelta politica tecnicamente assistita”; si tratta di una scelta politica da parte di chiunque definisca le linee di indirizzo di una data realtà (è logico immaginare che tale scelta avvenga secondo procedure democratiche e trasparenti; che sia sempre così è un altro problema), mentre le tecnicità di assistenza costituiscono la modalità attraverso le quali quelle linee di indirizzo assumono connotati morfologici di piano e azioni realizzative di politiche pubbliche.
Lo schema appare perfetto, semplice e chiaramente definito nei suoi termini generali e fondativi, ma la realtà operativa è molto più complessa, contradittoria, non priva di ostacoli e di trappole.
Vorrei indicare quelle che possono essere definite come le difficoltà oggettive (delle soggettive non merita occuparsi) che un tale processo incontra, oggi più che ieri. In sostanza vorrei esplicitare in breve e sommariamente del perché, secondo la mia opinione,  ogni ordinamento è destinato a presentarsi nella sua realizzazione come “parziale” e,  non raramente, fallimentare.
Per quanto realistico possa essere un piano di organizzazione (o riorganizzazione) dello spazio,  esso ha sempre e comunque la tendenza (il suo contenuto) ad imporre un diverso modo di funzionamento e organizzazione; altrimenti perché intervenire? Proprio perché questo nuovo modello di organizzazione rifiuta la tendenza in atto e a questa più o meno estesamente si “oppone” (di fatto), per sua natura assume il connotato apparente di “utopia realizzabile”, ma  nella realtà finisce per configurarsi come un’utopia  “non realizzata”, la struttura della società reagisce e si oppone (reazione e opposizione dipendono sia dalla natura del progetto, dalla sua forza, sia per gli interessi che colpisce).
So che forse eccedo nell’uso (e abuso) del termine utopia, ma mi sento legittimato a questo uso facendo riferimento, anche se in modo parziale e personale, a quanto affermano Yona Friedman  e Robert Musil, posizioni richiamate nella presentazione di questo numero della rivista. Assumo, cioè, che l’utopia non solo sia realizzabile ma costituisca elemento fecondo di ogni (di tutti?) gli interventi di trasformazione della città (e della società). Interpreto, tuttavia,  tale realizzabilità come una possibilità perennemente frustrata ma assolutamente necessaria. I termini realizzabilità, frustrazione e necessità costituiscono la maglia concettuale che definisce ogni tipo di intervento.
La realizzabilità costituisce l’elemento fondativo di ogni politica, non mi riferisco soltanto ai suoi contenuti, ma anche alla operatività attivata. Non sono i contenuti che possono garantire la  realizzabilità degli stessi,  questi dipendono dalla giusta e ponderata misura del rapporto tra realtà,  obiettivi e forse in campo. Tanto per essere esplicito, non penso che una proposta estrema e radicale (come si dice oggi non volendo più usare il termine rivoluzione e suoi derivati) abbi un tasso di realizzabilità minore di una proposta riformista, in molti casi proprio quest’ultima rischia di essere non realizzabile, perché incide poco, lascia spazio alla contrapposizione, non determina nuovi equilibri. È il rapporto tra proposta, forze in gioco (di tutti i tipi), e contesto reale che determina la realizzabilità o meno di una proposta (anche di assetto del territorio).
La necessità è il fondamento di ogni intervento. Si interviene perché la realtà non appare soddisfacente (nel dal punto di vista fisico morfologico, né da quello sociale), e la sua dinamica ancora meno. È questa insoddisfazione, più o meno generalmente percepita, che determina la domanda di un intervento correttivo della situazione.
La frustrazione è l’esito di diverse circostanze, che vanno dall’inadeguatezza della proposta, da errori di valutazione, ma soprattutto del fatto che si ha a che fare con un’organizzazione complessa e in modo circostanziato di una maglia di relazioni con diversi gradi di affinità  fino all’antagonismo.
La città è un’organizzazione dalle molteplici relazioni tra soggetti e interessi, che tende a “reagire” alla sua trasformazione di fronte ad un atto di imperio (il piano), che proprio perché introduce delle trasformazioni,  non conferma la tendenza spontanea,  cioè non segue il corso delle cose, ma impone delle deviazioni sul percorso spontaneo. D’altra parte il piano, per quanto articolato sia, finisce sempre per lasciare dei margine: deve essere seguito (eseguito) ma contemporaneamente deve considerare possibili “opposizioni” e non può prevedere degli accadimenti esogeni, e quindi deve ammettere qualche maglia larga; speso, incontrando una realtà non abbastanza studiata o non prevista,  si “smaglia” e lascia spazio a realizzazioni che difficilmente possono essere considerate conformi alle intenzioni.  
La cosa che vorrei sottolineare è, inoltre, l’emergere di condizioni esogene, molto difficilmente prevedibili (sono questi gli argomenti che sostengono quanti pensano ad un “piano flessibile”, cioè all’assenza e alla vanificazione di ogni forma di pianificazione), che possono influenzare la realtà modificando le condizioni di base. Una di questi elementi esogeni è sicuramente la tecnologia. Si possono fare due banali considerazioni iniziali: l’innovazione tecnologica e sempre più pervasiva; il ritmo dell’innovazione è sempre più veloce. Quale sia l’impatto di questo nell’organizzazione urbana e territoriale, un impatto non evitabile, viene molto spesso  mitizzato mentre andrebbe governato.
Si osservi intanto che mentre per lungo tempo la tecnologia della città (incorporata nella città) era superiore (per qualità e quantità) a quella in uso nelle “famiglie”, ora la situazione si è capovolta: ciascun individuo ha in generale una dotazione di tecnologia assolutamente incommensurabile rispetto al quella in uso nella città. Il grande parlare della “città intelligente”, i finanziamenti a questo scopo destinati, sono finalizzati, si dice, a colmare questa distanza tra città e individuo. Ma non vengono prese in considerazione  le conseguenze sull’organizzazione urbana, ci si contenta di descrivere le meraviglie della connessione, quella della disponibilità di dati in tempi reali, quelle delle possibili libertà di scelta, la dilatazione delle conoscenza, l’informazione in tempo reale, ecc. Ma cosa, a che scopo e da parte di chi, queste possibilità sono realizzate e utilizzate, o, ancora, come si modificano i rapporti di potere reale cancellando i “corpi” intermedi e facendo riferimento esclusivamente all’individuo connesso ma isolato?
Se da una parte le “fantasie” tecnologiche possono descrivere paesaggi “spaventosi”, dall’altra parte non pare soddisfacente l’ipotesi soft che ci offre una città “migliore” ma che di fatto continua a funzionare come ora. L’innovazione tecnologica, individuale, collettiva e urbana, modificherà, lo sta già facendo, gli stili di vita, e questi influenzeranno pesantemente la “domanda” di città, la percezione della convivenza, i modi come si userà lo spazio organizzato, che continuiamo a chiamare città. Alle condizioni date non avremo una società più coesa, ma piuttosto una società più segmentata (altro che liquida) e caratterizzata da fortissime sperequazioni e discriminazioni. La crisi occupazionale non sarà risolta, ma essa, sembra probabile,   si approfondirà proprio per effetto delle tecnologie, con quello che questo significa sia in termini di disponibilità di reddito di famiglie e individui, sia in termini di ulteriore sgretolamento della società, sia in termini di “domanda pubblica”, nonché di conflitti e insicurezze. Non è da escludere, ma al contrario considerare che le sperequazioni sociali determineranno da una parte un ulteriore affermazione dell’organizzazione sociale dello spazio, dall’altra parte  si avrà un crescente degrado della città nel suo complesso e specialmente di alcune sue parti.
Ma se poi il nostro sguardo si proiettasse fuori dai confini europei allora la situazione ci apparirebbe del tutto fuori da ogni possibilità di controllo. Non solo il processo di inurbamento è previsto sempre più rapido, ma  in alcune metropoli dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina si prevede che la popolazione possa crescere (previsioni fino al 2025) nella misura di alcune centinai di miglia di persone l’anno  (con una punta massima di mezzo milione di abitanti medi per anno per Dakar). Appare evidente come questa dimensione non renda possibile nessuna politica di insediamento che non siano sterminati slum e politiche violente di contenimento. La condizione urbana e metropolitana nel mondo appare drammatica, anche in paesi con tassi di sviluppo economico molto alto, come in Cina, e politiche autoritarie, come in Cina. In realtà qualsiasi forma di governo del territorio rischia di essere travolta.
Per  alcuni di questi aspetti si pensa che la “partecipazione” possa costituire un antidoto, in altri contesti si fa riferimento a processi di autoorganizzazione, o ancora a forme nuove di convivenza. Trattare di questi aspetti non mi è consentito, per ragione di scienza e di spazio, ma un’osservazione mi sembra di poterla avanzare: tali riferimenti tengono sotto gli occhi la situazione europea, che pur nei suoi limiti potrebbe giovarsi di una loro estesa e intelligente attivazione (estesa e intelligenza attivazione, si torna all’utopia nel senso banale del termine). Ma l’Europa, non sembri un paradosso, costituisce una caso fortunato, per storia, cultura e sviluppo economico, ma se il mondo continuerà ad andare così come è andato negli ultimi dieci/venti anni il continente sarà “invaso” non militarmente (almeno si spera) ma da una massa di disperati che sfuggono alla fame, sete, carestia, oppressione e violenza e sperano in una vita migliore. Né avremo possibilità di difenderci.
Se gli elementi prima segnalati, in modo disordinato e forse non coerente, rappresentassero tuttavia la prospettiva della nostra futura condizione urbana e metropolitana, il ricorso all’utopia sarebbe una mera necessità. Intendo dire che il governo delle trasformazioni in atto e attese richiede il massimo di intelligenza “politica”, il massimo di inventiva, il massimo di senso critico. Non solo ma l’utopia realizzabile si dovrebbe caratterizzare per un tasso molto elevato di radicalità: le città e l’organizzazione del territorio richiedono delle soluzioni sociali e politiche che sappiano mettere a frutto il grande potenziale delle innovazioni tecnologiche, e che sappiano usare questo potenziale per una rivoluzione che mentre libera “tempo individuale”, garantisca diritti di cittadinanza, sviluppo e moltiplicazione dei servizi, uguaglianza e libertà.
È molto probabile che la convivenza civile sarà in futuro segnata da oppressione, discriminazione, sperequazione e violenza, così come viene descritta in molta letteratura e in molto filmografia (si pensi a Fuga da New York, Blade runner o il precedente Metropolis). Non mi riferisco al mondo dopo la catastrofe nucleare o ambientale (la terra il giorno dopo), ma piuttosto alla rappresentazione visiva dell’incapacità della nostra specie di controllare la propria evoluzione (sic!) sociale è individuale.
Mentre mi paiono molto improbabili quelle descrizioni di città e metropoli “perfette”, che abbondano dell’uso delle tecnologie più avanzate, ma che sembrano non incidere sulle relazioni sociali, con una sorta di scoperta del “buono” che c’è in ciascuno di noi.
Ma se non possiamo assecondare le visioni apocalittiche né tanto meno possiamo fidarci di una prospettiva del meraviglioso, allora abbiamo bisogno di tornare ai concetti sui quali in precedenza mi sono soffermato: necessità, realizzabilità, frustrazione. Concetti che andranno affidati non solo ai “reggitori”  (qualsiasi ne sia la forma) ma alla società nel suo insieme e nei suoi singoli membri.
Il futuro richiede, ci impone se non si volesse soccombere, un’utopia realizzabile; si tratta, cosi mi pare di sentirla, come una necessità salvifica (non metafisica) delle migliori possibilità della specie. La necessità di un progetto (urbano e sociale) che affermi (non riaffermi) principi di equità, convivenza, uguaglianza e libertà. Che ridisegni lo spazio affermando questi valori (non quello della solidarietà, spero sia chiaro perché). Tale necessità devono concretizzarsi in un’utopia realizzabile, spero che sia chiaro per quanto detto prima che tale realizzabilità non si fonda sulla sua moderazione, quanto piuttosto sulla sua radicalità. Ai contenuti di questa utopia realizzabile bisognerà mettere collettivamente mano, non può essere l’idea di qualche eccelsa mente, proprio perché deve cogliere i sapere diffuso, le esperienze concrete, la disponibilità creativa, non potrà che essere un prodotto collettivo (spero che sia un’utopia realizzabile questo coinvolgimento).  Contemporaneamente dobbiamo essere pronti ad accettare la frustrazione di una realizzazione parziale: contrasti, fratture, incomprensione, antagonismi e interessi, scenderanno in campo, per contrastare e per modificare.

Tale frustrazione non è un indicatore di sconfitta, ma piuttosto indica la strada  di un continuo e permanente  ricominciare.     

mercoledì 13 aprile 2016

Attilio Belli, Memory cache. Urbanistica e potere a Napoli (CLEAN, Napoli, 2016)

Da ASUR, 2017
Non ci si lasci ingannare dalla dichiarazione di “mitezza” dell’autore, il suo racconto delle vicende universitarie all’interno della Facoltà di Architettura, nonché le questioni che riguardano le vicissitudine del governo della città di Napoli è tutto fuorché mite. Non perché Belli coltivi l’astio, ma perché la “testimonianza” di queste vicende, che è uno spaccato di potere pubblico e accademico,  di invidie e tradimenti, di intrighi e tentativi frustrati, in quanto portando le stigmate della realtà ne mostrano la “violenza”. Se c’è una cosa che meraviglia è la capacità di “resistenza” dell’autore dentro queste vicissitudini: guardate con ironia queste vicende portano il segno di una determinazione, che ancorché frustrata resiste e si ripropone. Si tratta della consapevolezza di un ruolo, della convinzione circa l’utilità della propria disponibilità, della sicurezza nei propri mezzi intellettuali e della certezza dell’interesse collettivo esercitato dalla propria disciplina. .  
Quella dell’autobiografia è un esercizio pericoloso, nell’introduzione Belli espone i pericoli di tale esercizio (con abbondate bibliografia), la consapevolezza dell’autore di navigare in un mare pieno di pericoli lo porta a costringere il lettore quasi a dimenticare la soggettività biografica per concentrare l’attenzione al “contesto”.  Il contesto sia della vita universitaria, sia della politica, sia delle tragedie che investano Napoli costituisce la trama alla quale si intreccia l’ordito delle esperienze dell’autore. Da sempre Napoli è il soggetto dell’attenzione di Belli, nei suoi lavori teorici, in quelli di ricerca fino alle  sue prove letterarie.
Nel primo capitolo, l’ossessione di una passato glorioso, l’autore ricostruisce i tratti della sua formazione. Gli incontri e i testi che costituiscono i mattoni di questa formazione sono rilevanti e ampiamente citati dall’autore: tutto omogeneo e compatto, sicuramente no, testi e personalità costituiscono un caleidoscopio. Tutta l’evoluzione culturale dell’autore è caratterizzato da legami e rotture, da adesioni e rifiuti. Cosi per la sua prima formazione, che schematizzando è possibile nominare come “pianificazione scientifica”, paga il prezzo della rottura con Quaroni, che a Belli pesa molto.
Al periodo di formazione si accompagnano esperienze professionali di pianificazione nonché un primo ingresso all’università, prima con una borsa e poi come tecnico. Tutti rose e fiori, non è da crederlo, ma il peggio dovrà venire più avanti:, più si arricchisce la sua esperienza, più la sua professionalità e la sua elaborazione diventa più ricca, in sostanza, più cresce Belli, più crescono opposizioni, sgarbi, tradimenti.
Ma anche il contesto cambia, cresce, “dal  1968 al 1972 si sovrappongono, si intrecciano, e infine si elidono due modi di vita e due paradigmi disciplinari molto diversi tra di loro. Il passaggio dall’empirismo logico, dal planning scientifico, al marxismo, all’analisi del conflitto urbano e dell’uso del territorio nel diagramma delle trasformazioni sociali; la svolta politica e ideologica del periodo prenderà corpo in campo disciplinare. È molto interessante, potrei dire educativo, seguire il rapporto dell’autore con il contesto e come questo diventi metodo. Il grande movimento di politicizzazione di massa non lo lascia indifferente, e forte è l’attrazione nei riguardi dei tentativi di porre su basi diverse sia l’analisi che l’intervento nella città e nel territorio. Belli si impegna molto su questa riflessione, partecipa ad alcune iniziative editoriali che questo nuovo punto di vista cercano di approfondire. La sua attenzione si focalizza sui territori del mezzogiorno fornendo in un suo saggio una interpretazione molto interessante (Potere e territorio nel mezzogiorno d’Italia durante la ricostruzione 1943-1950) che non accresce le simpatie dei “poteri forti”, economici, politici e culturali, fuori e dentro l’università per il nostro autore. È anche un periodo di impegno politico nella “nuova sinistra, e cerca, nell’organizzazione napoletana di questa, declinare l’importanza delle questioni urbane e in particolare del Nuovo centro direzionale di Napoli. Scarso successo. Così come, in rappresentanza politica di questa sinistra entra a far parte della Commissione edilizia del comune di Napoli, ma solo e isolato può poco.
Si tratta anche di grandi travagli all’università, con il rifiuto riconoscere l’urbanistica come disciplina autonoma e importante, fino a rifiutare la costituzione di un apposito dipartimento; ma non si tratta solo di divergenze disciplinari e scientifiche, ma piuttosto di pesanti questione di potere e di carriera. Belli partecipa a diverse concorsi, entrandone come Papa e uscendone sconfitto.  Tradimenti, concorrenze tra diverse sedi, scarso appoggio della Facoltà, questo e altro fanno attendere l’ordinariato a Belli fino al 1988. Da qui un nuovo percorso universitario per il nostro. Dopo la chiamata è invitato ad afferire al Dipartimento di Conservazione, del quale viene eletto direttore, ma il nostro fa un eccellente lavoro di politica accademica per giungere alla formazione del Dipartimento di Urbanistica (1996) e, finalmente, nel 2002, riesce a istituzionalizzare il corso di laurea in Pianificazione territoriale. Ma non ci si lasci ingannare non si tratta di una “ascesa al potere” in sé, ma piuttosto della necessità di avere strutture istituzionali per garantire una crescita disciplinare, la cura di giovani ricercatori, affermare, si potrebbe sintetizzare, le ragioni della pianificazione in relazione anche alla città. La ricerca metodologica assume la forma, nel 1994, della rivista CRU  i cui temi e il cui impegno ora è transitato nella rivista CRIOS:.  Mentre molte sono le iniziative di ricerca, le pubblicazioni e la partecipazione a ricerche internazionali.
Ma Belli non distrae il suo occhio dalle questioni della sua città. Non si tratta solo di impegni e di responsabilità di incarichi, vedi il piano territoriale, ma esercita il suo occhio critico sulle trasformazioni della sua città. Continua il suo impegno sulle questioni napoletane. Una delle vicende che più hanno interessato Napoli (“una delle vicende più assurde e indecorose, di cui siamo tutti responsabili”, scrive Belli) a cavallo dei sue secoli è la vicenda di Bagnoli. A cominciare dal 1990 l’acciaieria di Bagnoli declina e chiude nel 1993.  Una grande iattura per l’economia e l’occupazione dell’area ma anche, si disse, una grande occasione di rinascita. Ma ecco che tra paure di speculazioni e un ambientalismo estremo, una “pubblicità” esaltata contro il coinvolgimento dei privati, l’incertezza dei progetti, al di là del riferimento ad attività innovative,  l’esistenza di gruppi di interesse forti (ma inetti) e l’incapacità di governo, mostra in tutta la sua crudezza il disastro. Bagnoli è ancora là; oggi si ricomincia con le speranze, poche idee ma grandi annunzi ed esaltazione.
Il libro di Belli cade a pennello nel dibattito politico che dovrebbe animare la città in vista della prossime elezioni amministrative. O per meglio dire cadrebbe a pennello se le forze politiche coinvolte fossero effettivamente interessate ad un bilancio del passato e a riflettere su disegni e prospettive per il futuro. Detto francamente a molti dei protagonisti il tema sembra estraneo, mentre la sinistra si automacella tra antagonismi accettabili e processi di selezione discutibili.
Sebbene non tema esplicitamente centrale del libro la questione del necessario aggiornamento della teoria e della pratica urbanistica attraversa tutto il percorso di Belli. Passaggi netti, chiarezza di intenti, ma, personalmente, non convicente. Non si tratta di negare il necessario allargamento del punto di vista, non si tratta di negare anche inefficienze e lentezze del sistema di pianificazione, ma piuttosto di garantire il governo pubblico delle trasformazioni urbane e territoriali, un governo guidato da obiettivi strategici, che certo tengono conte delle trasformazioni in atto ma non ne sono vittime. Così come l’ascolto non mi sembra una stranezza per un urbanista, ma al contrario un elemento costitutivo della sua metodologia. La dinamica della società non mette in discussione il governo pubblico delle trasformazioni, ma solo la cattiva urbanistica, così come la richiesta di una maggiore flessibilità non richiede la cancellazione del piano ma piuttosto un articolata strumentazione per la sua realizzazione in grado di cogliere i cambiamenti significativi. L’urbanistica, come in più punti riconosce Belli, ha rapporti stretti con la politica, e questo perché le scelte urbanistiche non sono tecniche ma politiche, ma spesso, tutta la vicenda di Napoli ne è una  dimostrazione, la scelta politica si muove per soddisfare appetiti più che bisogni, si fa condizionare da un ideologismo estremizzato, al punto da essere pura astrazione, o mostra tutta la sua inettitudine. Con Belli, alla lettera, “l’urbanistica … meriti di essere vissuta a pieno e difesa da accuse che sparano con troppo faciloneria nel mucchio”.
Il volume contiene anche il racconto grafico di Paolo Ceccarelli di un incontro allo IUAV centrato sulla figura di Belli:  Attil neapolitan o avventure del prof. Belli in padania.



      

Referendum, astensione, la “politica”


Diario n. 313
13 marzo 2016

Astenersi dal voto si può, è una possibilità e un diritto. I miei amici anarchici in generale non votano.
Ma quale è il significato del “non” voto? Pare di poter dire, senza possibilità di smentita, che il senso di questo atteggiamento  è il “tirarsi fuori”, e questo vale sia per chi esercita questo diritto per apatia o per convinzione. Il non voto esprime indifferenza verso le istituzioni, verso i meccanismi della democrazia, verso la “politica”. E questo vale per ogni manifestazione di voto, senza nessuna differenza tra voto politico e voto referenziale.
Ma questo diritto non pare possa essere esercitato da chi di politica vive, per così dire, di chi cioè di professione o temporaneamente svolge un ruolo dentro una istituzione (Parlamento, Governo, Comune, ecc.), o addirittura dirige un partito, corpo intermedio fondamentale di espressione politica e di sua organizzazione. Fa scandalo, non trovo termine diverso, leggere che il Presidente del consiglio, Matteo Renzi, o il Ministro Graziano del Rio, o i vicesegretari del PD Lorenzo Guerrini e Debora Serracchiani, o il capo gruppo al senato di Forza Italia Paolo Romani e tanti altri ancora in posizione più o meno rilevante di quelli citati, reputando il referendum “inutile”,  invitano gli elettori a “non votare” a disertare le urne, come si dice.
Quale è il ragionamento di questi pseudo dirigenti politici è presto detto: sono convinti che se si raggiungesse il quorum vincerebbero i “Si”, che reputano un errore economico e sociale. Allora per far vincere quello che per loro sarebbe il “No”, invitano a non votare, cioè a far mancare il quorum. Una vittoria con un sotterfugio.
Nel giugno del 1985, uno scontro durissimo oppose Bettino Craxi a Enrico Berlinguer, quando il PCI, sostanzialmente da solo, con anche il non pieno consenso della CGIL di Lama,  propose un referendum per abrogare il taglio di 4 punti di scala mobile decretato dal Governo Craxi. Una battaglia a viso aperto che segnò un’affluenza del 77,9% e decreto la vittoria dei “no” (il taglio rimase). Questo esempio ci dice che la politica ha il dovere di fare le proprie battaglie senza sotterfugi. In unj altro referendum, Craxi, imitato da Renzi per questo aspetto, invito all'astensione, e dette una precisa indicazione agli elettori: “invece di andare a votare andate al mare”.
Renzi e compagnia pensando che nel caso che fosse raggiunto il quorum vincerebbero i “Si” riconoscono di fatto che le ragioni del “Si” sono più convincenti. Ma perché le ragioni del “No” sono meno convincenti? Per ragione di comunicazione, per ragioni di contenuto, per la faciloneria con cui risultano sempre di più le decisioni del governo? Qualsiasi sia il motivo, si tratta di una causa politica. Questa non la si affronta e si fugge nell’astensione sollecitando la pigrizia dell’elettore, l’indifferenza e l’una e l’altra alimentando. Renzi e compagnia vengono meno al loro ruolo politico e istituzionale, non solo ma commettono un grosso errore politico.
Questo governo sembra appeso al referendum non quello sulle trivelle ma quello sulla modifica costituzionale: in quel caso Renzi vuole la vittoria dei “Si”, ma con quale faccia dopo avere invitato gli elettori a restare a casa dopo li inviterebbe a votare? Ma non è questione di faccia, per così dire, ma di credibilità.

Un politico ha il dovere di combattere per le proprie idee (giuste o meno), un uomo di governo ha il dovere di lottare per quello che pensa sia giusto per il paese (vero o meno che sia), non può scartare, non può nascondersi dietro un dito. Impegnarsi oggi per il “No” e domani per il “Si”, deve, insomma, invitare gli elettori a prendere sempre posizioni non all'agnosticismo a fisarmonica.