giovedì 16 settembre 2021

Il Manifesto 50 anni

 

 

Cos’è un quotidiano comunista? Certo è un quotidiano che cerca la verità, che interpreta i fatti che avvengono avendo come punto di riferimento la condizione della classe operaia e degli ultimi (non necessariamente comunisti), che si sforza di non ripetere slogan  ma di articolare il comunismo nel processo di trasformazione della società.  Il Manifesto è stato sicuramente  questo, con intensità e intelligenza politica non sempre costante, le maree invadevano anche la sua redazione. Non importa quanto ciascuno di noi sia stato sempre d’accordo con quanto scrivevano i fondatori o i loro eredi, si trattava sempre di una medicina, anche se talvolta amara,  quasi sempre corroborante.

Colgo un’incomprensione profonda in chi propone di togliere la testatina di quotidiano comunista, o forse la considera un’espressione senza sostanza.

Ma c’è qualcosa di più. Non sembri un azzardo ma questo quotidiano ha rappresentato un argine alle derive della sinistra; la sua critica alla lotta armata come allo smottamento verso un riformismo senza corpo e anima, ha costituito un punto di riferimento importante, e ha finito per influenzare chi si muoveva nel campo della politica. Molti di noi sono spesso scandalizzati dalla pochezza dell’espressione che la sinistra, in tutte le sue articolazioni, esprime, ma riflettiamo su cosa sarebbe oggi la sinistra senza la presenza cinquantennale di questo giornale. Senza la critica che ha espresso, senza i suggerimenti che ha avanzato, il tutto facendo un giornale.

Possiamo dirci contenti e soddisfatti, perché mai, no, non lo siamo. Esprimo un’opinione personale che non è sostanziata dal confronto con altri compagni, usa meno e poi la … pandemia. A me pare che il giornale sia sempre radicale, anzi forse più radicale del passato su certe questioni, ma che contemporaneamente sia sempre più trascinato dai fatti spiccioli, per grandi che siano, ma abbia perso il gusto e la sapienza per riflettere sulla modernità del comunismo. 

Possiamo accettare che il capitalismo vinca sempre e ovunque, e che il “denaro” e le “merci” disgreghino continuamente la società producendo diseguaglianze, discriminazione, emarginazione, distruzione ambientale e guerre? Non possiamo sperare che cambi la sua natura senza che ad esso si opponga una prospettiva diversa, appunto il comunismo moderno. Questo può pescare nella tradizione i suoi valori, soprattutto la libertà, può ancora riferirsi a quanto elaborato in questo secolo, ma sicuramente deve definire le modalità della nuova organizzazione sociale e i mezzi per vincere. Dobbiamo capire il mondo per poterlo cambiare, questo è certo, ma dovremmo cambiarlo.

Il nostro comunismo, non può essere quello dell’inizio del secolo scorso, da li deve venire l’ambizione di cambiare la società (una follia?), ma qui ora dobbiamo declinare le modalità per disgregare il potere, dobbiamo fornire il sapere intorno al nostro mondo e alle sue radici, individuare gli strumenti di lotta, dobbiamo fornire un rinnovato pensiero materialistico e nuovi strumenti materiali per eliminare ogni piramide sociale, ogni discriminazione, ogni povertà (materiale e intellettuale). Non abbiamo scelta, siamo costretti su questa strada, se quello che vediamo non piace perché ingiusto e indegno di una umanità destinata al benessere generalizzato e alla felicità.

E qui torniamo al nostro giornale, alla necessità che sia di … più (non sembri una critica semmai potrebbe essere un’autocritica di quanti  leggono  con la puzza sotto il naso).  Un di più di fantasia, un di più di coraggio, un di più di lavoro in profondità, un di più in proposizione, un di più idi ricerca, un di più di elaborazione.

Il Manifesto non è mai stato una gazzetta (e non lo è), le sue ambizioni erano altre, non fare un giornale di sinistra (appunto quotidiano comunista), ma mettere mano ad uno strumento di lotta e per questo non è sufficiente la denunzia,  è necessaria la proposta, l’esplorazione dei soggetti in campo, la spinta verso l’autorganizzazione, la chiarezza degli obiettivi: il comunismo moderno.

Quanto scritto non vuole essere una critica a chi il giornale lo fa tutti i giorni, ma forse è il momento per riflettere su questo arzillo cinquantenne: mettiamolo sulla bici per scalare la montagna.

 

  

 

 

lunedì 13 settembre 2021

Agnés Poirier, Rive Gauche

Agnés Poirier, Rive Gauche, Arte, Passione e Rinascita a Parigi, 1940-1950, Einaudi, 2021

Il libro è la ricostruzione delle idee che hanno percorso Parigi nel decennio che va dall'occupazione nazista alla liberazione e alla ripresa.

Sono gli anni dell'esistenzialismo, e della trasformazione dei modi di vita soprattutto di chi era partecipe della vita della Riva Sinistra.

L'autrice racconta della presenza degli intellettuali, a cominciare da S e DB, e dell'animazione suscitata dalle nuove idee e dalla presenza di scrittori, artisti, intellettuali, non solo francesi ma anche americani. Il libro riesce a rendere viva l'articolarsi delle vite di questa umanità, sicuramente per molti versi eccezionale, dei loro rapporti e dei loro amori. Il modello di convivenza di DB e di S, che prevede un grande amore e una grande intesa, soprattutto intellettuale, insieme ad una piena libertà, costituisce per alcuni ambienti uno scandalo mentre per altri una ispirazione.

Interessante anche le vicende del gruppo (DB  e S, più altri amici come C, e compagni) con il partito comunista francese, molto settario e chiuso. 

La nascita della rivista Le Temps Modernes, e il ruolo assunto da questa pubblicazione.

Nonostante la molteplicità dei personaggi e qualche difficoltà nel seguirne le vicende, il libro non solo è di facile e piacevole lettura, ma è anche appassionante.


venerdì 10 settembre 2021

Restaurazione senza critica

 

 

 

Diario

10 settembre 2021

 

Se con un po’ di attenzione, e combattendo il filo di noia che prende, si seguissero le trasmissione di discussione politica, per esempio in TV, si scoprirebbe, con poca meraviglia, che alcuni degli interlocutori più critici (filosofi, professori, giornalisti, ecc., con un passato più o meno da estremisti), riescono ad appuntare sul governo delle critiche relative al metodo. Il decreto, la legge, il provvedimento poteva essere fatto meglio, essere più chiaro, senza contraddizioni, ecc., ma nessuno elabora una critica sulle prospettive di trasformazione della società.

Alcuni affermano la necessità di una trasformazione, ma si tratta di una affermazione senza spessore. Sono consapevole che non è facile indicare una “via di trasformazione” che non segua modelli storici fallimentari, ma tuttavia meriterebbe misurare quale tasso di trasformazione inducono i provvedimenti governativi. Niente di tutto questo. Quella operata da Mario Draghi è una vera e propria restaurazione, le innovazioni essendo limitate a quanto impone l’innovazione tecnologica e a quanto conviene integrare le trasformazione sociali indotte dal passare del tempo, senza sconvolgere rapporti di potere.

Non si tratta di una critica agli “intellettuali”, questi infatti non sono tutti uguali, si diversificano per cultura, esperienza politica, punti di vista sulla società, ecc. ma piuttosto pare necessaria una riflessione tragica, il pensiero critico sulla società e la individuazione dei processi di trasformazione (non di cambiamento) sono scomparsi dall’orizzonte del pensiero e della politica di sinistra.

Che suonino, che suonino pure, ma la musica pare inadatta alle necessità.

 

mercoledì 8 settembre 2021

Il "casismo" imperversa

 

 

Diario

8 settembre 2021

 

Io ho fatto le due dosi di vaccino, nessun disturbo collaterale, come milioni di cittadini. Io ho ottenuto il green pass facilmente, come milioni di cittadini. Io e quelli come me non siamo dei “casi”, non suscitiamo emozioni, la nostra esperienza non viene strombettata sui giornali e sulle TV, siamo, possiamo dire, dei casi normali.

Ma ci sono i casi, non normali, che costituiscono il pane quotidiano di giornali e TV. C’è il caso di chi non ha potuto ancora fare il vaccino, nonostante aver preso appuntamento; c’è il caso di chi ha avuto, fatto il vaccino, notevoli disturbi collaterali (previsti); c’è il caso del parente che fatti i vaccini è stato colpito dal virus (prevista la possibilità); c’è il caso della nonna che curatasi con un purgante sta benissimo (fortunata); ecc. ecc., l’articolazione dei casi ha uno spettro molto ampio. C’è il caso di chi per quanti sforzi abbia fatto non è riuscito ad ottenere il green pass; c’è il caso di chi ha avuto il green pass sbagliato; c’è il caso di chi per avere il green pass è stato sballottolato per tanti uffici; ecc. ecc. anche in questo caso l’articolazione dei casi è molto ampia.

Ora tutti questi casi di anomalie (previste o meno) trovano spazio sui giornali e soprattutto in tv, nei programmi di “discussione” (si fa per dire). Credo che sia giusto che se ne parli, si tratta di casi che forniscono indicazioni per operare delle correzioni al sistema della vaccinazione e alla documentazione di garanzia. Il problema sta nel fatto che i singoli casi sono trattati in modo screanzato, perché sono assunti come dimostrazione del caotico sistema di vaccinazione, o, ancora, rendere chiara  l’inaffidabilità dei vaccini e del sistema di somministrazione, alimentato dubbi, perplessità in una fascia modesta della popolazione.

Giornali e TV in questi casi non fanno “informazione” ma piuttosto   “disinformazione”, per la soddisfazione di scettici (pericolosi).     

martedì 7 settembre 2021

Mario Draghi + covid = oppio per la mente

 

 


Diario 7 settembre 2021

 

Quali sono i temi politici che attanagliano l’attenzione dell’opinione pubblica se non il destino futuro di Mario Draghi (presidente del Consiglio o della Repubblica?) e l’evoluzione dell’epidemia con i connessi problemi della vaccinazione e del green pass? Di recente si è aggiunto, per fortuna (non me ne vogliano le donne afghane), l’Afghanistan, che succederà di quel e in quel paese, dopo che l’Occidente ha ritirato soldati e quant’altro. L’Afghanistan ha sollevato grande emozione, che appunto come le emozioni molto presto sparirà.

Pur non sottovalutando la questione sanitaria, è detestabile  lo spettacolo che “attorno” si è costruito con grande apporto della politica e dei mezzi di comunicazione di massa, in primis la TV. Senza sottovalutare la questione sanitaria, mi pare che l’agenda delle questioni che potrebbero interessare il paese dovrebbe essere diverse. Ma non c’è verso: il destino del futuro di Mario Draghi e il covid dominano.

Si potrebbe riflettere e discutere del ruolo di restauratore svolto dal nostro presidente del Consiglio: nell’industria, nei rapporti di lavoro, nel distruggere ogni rappresentanza politica, ecc., ma come si fa, non è possibile mettere in discussione il salvatore della patria. La linea di gestione del nostro presidente e una sorta di veste autoritaria del tipo “maestro scolastico”. Lui non mortifica nessuno, neanche l’intemperante Matteo Salvini, lo chiama a se, se lo siede accanto e con pacatezza gli spiega cosa deve fare e quello abbozza. Se un suo ministro arditamente rivela la necessità del “nucleare”, egli non mostra né irritazione né stupore, ma tace (forse è d’accordo?). Questa sua maieutica funziona benissimo con il PD, non ha bisogno neanche di richiami, quel partito si è messo nella sue mani.

Eppure prima o dopo si dovrà riflettere su questa stagione, la pentola della società ribolle. Così i movimenti non vas, ecc.,  tutto quello ce se ne potrà dire,  sono uno sfogo, sicuramente stupido, del malessere della società.    

Si potrebbe iniziare a ragionare quali potrebbero essere i passi per imboccare una vera transizione ecologica, prescindendo da quello che ne pensa, male, il ministro competente. Si potrebbe ragionare sui passi culturali e di organizzazione sociale necessari affinché il paese diventi multietnico. Si potrebbe ragionare sui livelli massimi di ricchezza ammessi per i singoli (ricchezza acquisita legittimamente). Si potrebbe pensare di capovolgere il sistema di finanza pubblica: i livelli di imposizione dovrebbero essere definiti sulla base delle fabbisogno pubblico che parta da scelte discusse e condivise, e non viceversa. Si potrebbe riflettere sul ruolo della “moneta” in un sistema egualitario. Si potrebbe mettere mano ad una forbice culturale e sociale da una parte e repressiva dall’altra, in tutte le zone di insediamento della criminalità organizzata. Si potrebbe ragionare su un nuovo statuto dei lavoratori. Il ruolo degli anziani, quale potrebbe essere in un contesto sociale nuovo?

Se la società non guarisse della cultura della discriminazione, delle donne, in primis, delle scelte sessuali, di quelle religiose e raziali, resterebbe sempre una società malata e violenta. L’uso dei mezzi di comunicazione di massa che sono stati usati per l’epidemia di covid, dovrebbero, ancora di più, essere usati nei riguardi di questa epidemia, perché di una vera epidemia si tratta. Non possiamo ogni volta commuoverci per la donna uccisa da chi diceva di amarla e non vedere che oltre il fatto di sangue una discriminazione e una angheria costante viene consumata nei riguardi delle donne in tutti gli ambienti sociali.

Si potrebbe continuare a ragionare su quale società vorremmo fosse la nostra. I modelli sono e sono stati fallimentare, ma abbiamo bisogno di aria, di un pensiero giovane, abbiamo gli strumenti, ci manca la volontà, ma forse siamo in uno stato di impossibilità.

Tutto questo è impossibile, non si può mettere in discussione chi è stato chiamato “salvatore della patria” (unico!). Sarebbe bello se si rendesse conto che la sua presenza non moltiplica le energie vitali, ma le sta uccidendo. La sua è una presenza negativa per un nuovo futuro della nostra società. Ma forse non pensa assolutamente ad una nuova società.

Così del covid, basta parlare, sappiamo cosa fare, facciamolo e basta. Non è necessario sentire l’opinione, o il parere del filosofo e della casalinga, e di tutti quelli che ci stanno in mezzo. Liberiamo la mente da questa ossessione.

Dobbiamo ricominciare a pensare, a desiderare, a volere e se necessario anche a lottare. Da quando la lotta politica è diventata così sterile e repulsiva?  

     

 

domenica 5 settembre 2021

R. Scannavini, Al centro di Bologna, 1965-2015 (da Città bene comune, Casa della Cultura, Milano)

 

Il capoluogo emiliano, nel periodo di cui si occupa il libro di Roberto Scannavini – Al centro di Bologna, 1965-2015. Mezzo secolo di urbanistica (Costa Editore, 2020) –, è stato il cuore di una innovativa sperimentazione urbanistica che ha prodotto non pochi risultati eccellenti. Alcune fasi cruciali di questa esperienza hanno giustamente catalizzato l’attenzione della cultura urbanistica nazionale e internazionale per l’intelligenza politica e tecnica con la quale sono stati utilizzati gli strumenti di pianificazione disponibili e per le innovazioni introdotteGli anni presi in considerazione dall’autore, soprattutto i meno recenti, sono quelli in cui nel nostro paese sono state varate leggi importanti che avevano l’obiettivo di migliorare la gestione delle nostre città. Bologna, tuttavia, ci ha messo del suo ed è andata oltre la loro mera applicazione tecnica. Grazie all'impulso di assessori di grande spessore politico e disciplinare (come Giuseppe Campos Venuti, Armando Sarti, Pierluigi Cervellati), si è infatti avvalsa di consulenti esterni di primo piano (cito solo Leonardo Benevolo), ma soprattutto di un gruppo di giovani tecnici, molto impegnati e preparati, che ha supportato scelte politiche e urbanistiche coraggiose costituendo, di fatto, l’armata dell’intervento. A questo proposito, scrive Scannavini, andrebbe attribuito «…un riconoscimento particolare all’assessore Armando Sarti, … per la capacità d’iniziativa e la decisione coraggiosa – soprattutto per i tempi – di dare piena fiducia, da subito, ai giovani architetti neolaureati appena assunti in Comune» (p.18). Non è azzardato affermare che questa “fiducia ai giovani” possa essere considerata una chiave di lettura per spiegare, almeno in parte, il successo dell’urbanistica bolognese che non ha paragoni con quella praticata da altre città italiane nello stesso periodo. È questo l’ambiente politico e culturale nel quale l’esperienza bolognese è maturata e si è potuta affermare, assumendo il tema della conservazione della forma urbis e del centro storico come asse portante di ogni intervento urbanistico ed edilizio della città. Una scelta non priva di contrasti sul piano politico – perché si toccavano non pochi interessi immobiliari (quelli che nel nostro paese si sono sempre configurati come centri di potere, con grande rappresentanza politica, così come quelli delle cooperative) –, sul piano culturale e su quello disciplinare. Su quest’ultimo fronte, anche se il consenso è stato ampio, non sono infatti mancate le voci critiche (se ne trova traccia anche solo sfogliando la raccolta di Archivio di studi urbani e regionali degli anni Settanta).

Il libro di Roberto Scannavini – di fatto un resoconto di tutta questa esperienza che finisce per configurarsi come un bilancio della storia urbanistica di una città – mi pare interessante per due ordini di motivi. Da una parte, perché descrive gli strumenti adottati, gli interventi che sono stati realizzati e i loro esiti nell’arco di mezzo secolo. Dall’altra perché questo racconto si intreccia con la biografia professionale dell’autore; e non poteva essere diversamente dato che Roberto Scannavini è stato uno dei pilastri su cui si è costruita questa esperienza.

Partiamo dal primo ambito. Il volume è organizzato per grandi tematiche. I piani di tutela e i progetti di restauro, che comprende il piano per il Centro storico 1967-69; il piano di edilizia popolare nel centro storico 1973-85; verso il PRG del 1985; il PRG per il centro storico del 1985; il piano dei servizi e di sviluppo dell’Università; il sistema storico del verde; il recupero degli spazi pubblici e delle piazze storiche. Ho voluto elencare questi strumenti – che poi sono le tappe salienti dell’intera vicenda e che nel testo sono illustrati in modo dettagliato e corredati di molte immagini – per rendere esplicito che il risultato ottenuto, comunque lo si giudichi, non è un prodotto estemporaneo, né la semplice affermazione di un’idea astratta, ma l’esercizio di un significativo lavoro di pianificazione condotto attraverso l’utilizzo di strumenti urbanistici utilizzati in modo innovativo. Il piano di edilizia popolare nel centro storico, per esempio, esprime un’idea di città e di salvaguardia del corpo fisico della città non disgiunta da quello sociale. Nello stesso periodo, invece, generalmente l’intervento nei centri storici si caratterizzava per una modifica delle destinazioni d’uso degli immobili con l’allontanamento della popolazione; o per il restauro e il ripristino dell’edilizia esistente finalizzati all’aumento della rendita e dunque, anche qui, con la conseguente espulsione della popolazione; infine, per l’inserimento nei tessuti storici di edilizia nuova, spesso mostruosa, al posto di quella esistente con analoghi esiti. Al contrario, l’intervento pubblico di Bologna, appunto di edilizia popolare, apre un’altra strada (per altro non molto seguita): l’acquisizione pubblica di parte del patrimonio edilizio del cuore della città, il relativo restauro e la risistemazione della popolazione già insediata negli stessi immobili. Un approccio che ha permesso la conservazione, il recupero e la ristrutturazione del tessuto edilizio storico senza snaturarne l’anima. Cosa che ha fatto scuola e persino da traino per altri interventi privati.

Una seconda tematica affrontata nel testo riguarda il restauro e l’adeguamento dei monumenti e la loro destinazione a nuovi usi: piazza Maggiore; palazzo d’Accursio; l’ex sala Borsa; ecc. Interventi che non solo hanno garantito la salvaguardia di un notevole patrimonio architettonico e monumentale ma che hanno avuto come esito quello di dotare la città di nuove attrezzature, funzioni e servizi.

Il libro tratta poi il tema dell’Università, una delle più importanti del paese, dal punto di vista degli spazi necessari al suo funzionamento e del suo parziale decentramento fuori dal centro storico, nell’area vasta. Una problematica che ha riguardato palazzi di grande valore architettonico, suscitando allo stesso tempo una discussione sul patrimonio militare dismesso e ceduto al Comune. L’ipotesi di un suo recupero per motivi diversi non è decollata ma a questa l’autore assegna un ruolo strategico per la Bologna del futuro: la rigenerazione di tali aree dismesse e dei relativi complessi architettonici, secondo Scannavini, dovrebbero «essere congrui e compatibili con il ruolo complessivo del centro storico, sempre nel quadro dello sviluppo qualitativo di tutta la città» (p. 137).

Infine, un’ultima tematica riguarda la Fondazione Carisbo, con gli interventi sul complesso San Colombano e del palazzo Fava, quali luoghi per esposizioni permanenti o temporanee.

In generale, il lavoro dell’autore è finalizzato a descrivere la logica di ogni intervento in rapporto agli strumenti utilizzati. Ne illustra con dovizia di particolari i presupposti e risultati, anche con il supporto di una documentazione per immagini che aiuta a comprendere meglio le situazioni. Tuttavia, come dicevo, l’interesse del volume sta anche nell’intreccio della biografia dell’autore con la vicenda dell’urbanistica di Bologna alla quale Scannavini ha dato il proprio contributo come funzionario del Comune e, negli ultimi anni, come libero professionista. Una biografia che si snoda dai tempi dell’Università, alla Facoltà di Architettura di Firenze, e arriva fino ai nostri giorni attraverso opere, restauri, piani, programmi, ecc., con i quali l’autore si è misurato. Un racconto narrato come «un lungo viaggio al centro di Bologna, che – scrive Scannavini – è iniziato in quella lontana mattina sulle rive dell’Arno nel 1957, e che si dovrebbe fermare qui, nel cuore della città antica. Un viaggio certo anche professionale, ma soprattutto un viaggio nella storia dell’urbanistica di Bologna che, nata dalla spinta politica dell’urbanistica riformista di matrice assolutamente emiliana e bolognese, negli anni ’60 del Novecento, ha saputo, nel suo filone storico della tutela, crescere e rendersi autonoma ed incisiva a livello locale, nazionale e internazionale» (p. 128).

C’è però qualcos’altro di importante che la lettura di questo libro mette in luce, ovvero come sia rilevante il governo politico della città per la sua salvaguardia e per garantire una buona vivibilità ai suoi cittadini e a quanti la frequentino. Niente di straordinario se pensiamo che un approccio di questo tipo era praticato da tutti i soggetti che di questa vicenda sono stati protagonisti. Molti di loro, infatti, sono stati promotori di un riformismo attento a tali aspetti, anche se qualche volta con qualche compromissione, oltre che finalizzato a una buona gestione e nel caso specifico a un governo urbanistico intelligente e razionale. Uomini e donne impegnati che hanno consegnato alle generazioni future non una città senza problemi – questo sarebbe stato impossibile (anche sul piano strettamente urbanistico) – ma una città con un alto livello di vivibilità e con una altrettanto alta dotazione di servizi di ogni genere, anche culturali.

Scannavini a proposito di alcune vicende ricostruite nel testo riconosce che forse «si poteva fare molto di più, ma non si è riusciti nonostante un impegno sia politico che tecnico professionale di durata quasi cinquantennale» (p.132). Questo libro, invece, a giudizio di chi scrive fa chiaramente emergere quanto si sia fatto e la distanza siderale che tuttora esiste tra Bologna e altre città italiane ed europee.

Francesco Indovina

 

 

 

N.d.C. - Francesco Indovina, già professore ordinario di Tecnica e Pianificazione urbanistica all'Università IUAV di Venezia, dal 2003 insegna alla Scuola di Architettura di Alghero (Università degli Studi di Sassari). Da sempre è fautore di un approccio interdisciplinare agli studi sulla città e il territorio coniugato a un saldo impegno civile. È autore di numerose pubblicazioni e ha fondato e diretto i periodici "Archivio di studi urbani e regionali" e "Economia urbana" (già "Oltre il Ponte"); dirige inoltre la collana di Studi urbani e regionali edita da FrancoAngeli.

Per Città Bene Comune ha scritto: Si può essere "contro" l'urbanistica? (20 ottobre 2015); Quale urbanistica in epoca neo-liberale (3 febbraio 2017); Pianificazione "antifragile": problema aperto (23 giugno 2017); Una vita da urbanista, tra cultura e politica (24 novembre 2017); Non tutte le colpe sono dell'urbanistica (14 settembre 2018); Che si torni a riflettere sulla rendita (8 febbraio 2019); Un giardino delle muse per capire la città (4 ottobre 2019); È bolognese la ricetta della prosperità (20 marzo 2020); Come combattere la segregazione urbana (27 novembre 2020); Post-pandemia? Il futuro è ancora nelle città (12 febbraio 2021).

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.

 


© RIPRODUZIONE RISERVATA

03 SETTEMBRE 2021


mercoledì 1 settembre 2021

no vax, ecc. Quale è il problema?

 

 Diario

1 settembre 2021

 

Si potrebbe dire, non c’è niente da contrastare se ci sono delle persone che siano convinti che i vaccini contro il covid siano controproducenti. Niente di male, un’opinione come un’altra, se il virus non fosse contagioso o se queste persone vivessero isolate in campagna (come suggerisce una loro bibbia). Ma il virus è contagioso e queste persone circolano tra di noi. Allora un problema esiste. Qui non si tratta di opprimere un’opinione liberamente espressa, ma di difendere la salute individuale e collettiva, anche la salute dei non vax. Se continuano a manifestare e ad assembrarsi diventano un problema di “salute pubblica”.

Come mai non esiste un movimento che volesse abolire la patente automobilistica? Si dirà perché guidare senza patente è pericoloso per se e per gli altri, come dimostrano le statistiche. Ma anche per gli infettati dal virus esistono le statistiche dei malati e dei morti: Ma si dice queste sono false e gonfiate, e le prime? Con i vaccini si stanno arricchendo le grandi case farmaceutiche, dietro c’è un grande affare, mentre con la vendita delle automobili no!

Ma so che è inutile cercare di convincerli, sono assorbiti dentro un fede, che tuttavia non vuole farsi martirizzare ma preferisce martirizzare gli altri (giornalisti, medici, scienziati, politici, ecc.). Sono masse pericolose, non so, potrebbero diventarle, non c’è di meglio per questo percorso di una fede frustrata: la grandissima maggioranza degli italiani si è vaccinata e vuole vaccinarsi, le grida dei non vax non credo facciano molto proseliti.

C’è un problema politico: al di là delle manifestazioni no vax la politica e il governo hanno l’obbligo di difendere la salute dei cittadini. Almeno questo! Evidentemente quello che fa non basta, bisogna intervenire con più determinazione, per asciugare l’acqua dove i no vax nuotano. Perché non rendere obbligatoria la vaccinazione per tutti? Perché non escludere da alcune risorse (per esempio sanitarie) chi non si vuole vaccinare?  Insomma, i cittadini devono essere difesi e se obbligato a prendere la patente automobilistica posso essere obbligato a prendere la patente contro il covid.

Il numero dei non vax non è esiguo, ma si tratta pur sempre di una minoranza, e gli “attivisti”, più o meno violenti sono ancora una minoranza della minoranza. Ma la domanda non è dove vanno, non credo che andranno lontani, ma soprattutto da dove vengono. La risposta semplice è: dall’ignoranza”. Una risposta facile che trascina subito dopo  alcune altre domande: ma che società siamo, che ruolo ha la scuola (tutti più o meno hanno frequentato almeno 5 + x anni di scuola), che ruolo hanno i mezzi di comunicazione di massa, soprattutto la TV.

A giorni riapre la scuola, ma che scuola è se non riesce a immettere nella testa dei giovani, che poi diventano adulti e vecchi, un minimo di sapere scientifico? Dico di sapere scientifico che comprende anche l’interrogarsi sulle verità della scienza, ma avendo la consapevolezza che per dare una risposta non basta semplificare e fornire soluzioni facili. In questo sembra brillare la bibbia che va di moda tra i non vax (Eresia), che suggerisce che la soluzione definitiva contro il Sistema sia “nella vita nei boschi, senza televisione, senza cellulari, internet, ecc.”. Una soluzione che credo sarebbe rifiutata da tutti i non vax, che amano le loro piccole o grandi comodità e soprattutto la tv dove abbeverarsi di sciocchezze (per fortuna non sempre e non da tutte, ma i non vax usano il telecomando).    

Dobbiamo pretendere di essere difesi, altrimenti che significato ha il detto popolare “quando c’è la salute c’è tutto”,  non è vero ma si avvicina alla verità, questa verità dobbiamo pretendere che sia rispettata.