lunedì 28 dicembre 2015

Movimenti sociali e trasformazione urbana, un libro di Oriol Nel-lo

Oriol Nel-lo, La ciudad en movimiento. Crisis social y respuesta ciudadana, Diaz e Pons  editores, Madrid, 2015, pp. 205 (il libro sarà presto disponibile in edizione italiana)


Dei molteplici aspetti del pensiero di Oriol Nel-lo quello del rapporto tra conflitti sociali e territoriali e la città (sua organizzazione, sua vitalità, sua capacità di innovare, ecc.) costituisce un punto di grande rilievo. Su questo tema ha pubblicato altri saggi e articoli tra i quali voglio ricordare soltanto Aquí, no! Els conflicttes territorials a Catalunya, del 2003,  ma in questo libretto (in sedicesimo) si coglie uno sforzo teorico di rilievo meritevole di attenzione e di riflessione. La questione dei movimenti sociali non solo viene inserita nella fase attuale di crisi economica, ma si prendono in considerazione le forme e i contenuti che i recenti movimenti esprimono. Qui un primo punto di rilievo, l’autore non assume acriticamente le nuove forme e i nuovi contenuti delle più recenti lotte, ma ne analizza le potenzialità, ne mette in luce le contraddizioni, e le inserisce come elemento di una trasformazione completa della città, della politica e delle istituzioni. La fiducia nel cittadino di costruire il suo propri destino è una costante di tutto il volume, le considerazioni critiche o le perplessità non sfociano in una incertezza di quella che non è una speranza ma una prospettiva. Anche quando il ragionamento si fa più critico, circa gli effetti di alcune iniziative a generare posizioni non condivisibile, come il localismo, l’autore mette a frutto la sua esperienza e capacità di ricercatore e politico per individuare le ragioni di eventuali derive, ma soprattutto mette in evidenza alcuni errori di valutazione.
Per capirci forse è utile iniziare dalla parte finale del volume, quella che si riferisce in particolare a Barcellona. L’autore si domanda come mai nonostante che Barcellona, che negli ultimi quaranta anni abbia goduto di una forte miglioramento della qualità della vita, nella qualità dei servizi, nella politica redistributiva, si presenti, paradossalmente, come una città nella quale il movimento urbano è tra i più vigorosi della Spagna e dell’Europa, e così capace di innovazione?   
Nel-lo fornisce una risposta articolata. Intanto rifiuta una visione semplificata dei movimenti urbani, si tratta di movimenti mutabili e complessi e formati da gruppi sociali ciascuno dei quali ha propri obiettivi (gli studenti, i gruppi di difesa del territorio, il movimento indipendentista, le azioni di innovazione sociale), ma che riescono in qualche modo a dialogare  e la loro integrazione pone rilevantemente il problema della trasformazione della città. Inoltre l’interpretazione destra/sinistra, nazionalista spagnola/catalana, risulta inadeguata. I gruppi non sono “compartimenti stagni”, ma esistono forte interazioni e le posizioni politiche si mischiano a livello sociale, dell’ambito delle iniziative di lotta, nella sperimentazione di nuove forme di socialità. In terzo luogo gli obiettivi dei diversi movimenti pongono esplicitamente o implicitamente tre questioni tutte rilevanti nella trasformazione della città: il patrimonio collettivo, la giustizia spaziale, la qualità della democrazia. Bisogna inoltre considerare la relazione che esiste tra i movimenti urbani e le istituzioni, nessun movimento che voglia realizzare i propri obiettivi può fare a meno, sostiene l’autore,  di “conquistarsi uno spazio istituzionale”. Infine, ed è l’aspetto decisivo: il carattere permanente del conflitto, sua presenza sostanziale e continuativa nella vita urbana.    
Con questa lettura articolata che guarda agli obiettivi, alla permeabilità dei movimenti, alla possibilità di riportare a unità l’articolazione degli obiettivi, allora la situazione di Barcellona più che essere paradossale costituisce una lezione.
Ma vale la pena di tornare all’inizio del volume per dare conto delle tematiche affrontate  a cominciare dal titolo: Città in movimento che mi pare alludo insieme a due concetti da una parte che la città non è ferma, stabile e immutabile, ma in continua trasformazione, e dall’altra parte fa riferimento all’esito dei movimenti nel determinare la trasformabilità della città. Ma il sotto titolo è fortemente indicativo Crisi sociale e risposta dei cittadini si tratta non solo di una precisazione circa la collocazione nella fase attuale di crisi delle riflessione, ma anche di un’opzione di politica generale e urbanistica.
Il volume è organizzato in tre parti. La prima riguarda la relazione tra la crisi economica e la città: La città nella crisi (Urbanismo della crisi; L’importanza dello spazio nella crisi; Aumento delle diseguaglianze e dimissione dello stato; L’economia morale della moltitudine; Il pericolo del provincialismo spaziale; La competitività territoriale e la città marchio; Il rinascimento del luogo e l’esaltazione del nazionalismo; Il futuro non è scritto). La seconda riguarda i movimenti: Cittadini in movimento (Lo spazio legato al tempo; Le nuove forme di azione collettiva; Patrimonio collettivo e beni comuni; Una nuova tragedia dei beni comuni?; La questione della giustizia spaziale; I movimenti di difesa del territorio; L’emergenza dell’azione per l’innovazione sociale; Da la denunzia alla proposta). La terza, come già osservato riguarda  Barcellona (Per una geografia politica della città; Trasformazione urbana e movimento dei cittadini; Dalla difesa del territorio all’alternativa ambientale; Dal diritto di decidere all’indipendenza; Dalla solidarietà alla giustizia sociale).
L’ispirazione ideale, ma anche politica, ma non meno di ricerca e di riflessione è chiaramente espressa all’inizio del volume: “Costruirsi la propria vita, costruirla collettivamente difronte alle condizioni avverse, costruirla insieme agli altri precisamente perché le condizioni sono avverse; questa è, senza dubbio, una delle principali aspirazioni di tutto il movimento sociale urbano, il quale movimento prende corpo quando, nella città, persone comuni – costruttori di macchine, di ponti, di alimenti e di ogni altra cosa – decidono di prendere il proprio destino nelle loro mani, a volte carichi di indignazione, a volte di speranza, ma spesso di ambedue i sentimenti.”
I movimenti sociali urbani si distinguono, rispetto ad altre azioni collettive perché pongono la questione urbana (residenza, servizi collettivi, spazio pubblico, ambiente) al centro della lotta.
L’idea di Nel-lo, per quello che vale da me condivisa,  è che la dinamica urbana subisce una rilevante influenza dai movimenti sociali urbani. La città è un organismo complesso e contradittorio, alle realizzazione della quale concorrono il potere istituzionale, i diversi poteri economici, i tecnici, la stessa azione culturale. Ma di questo groviglio di interessi e di interventi i movimenti sociali urbani mettono in luce le contraddizioni, la diversa distribuzione dei vantaggi, la sperequazione nella dotazione dei servizi e delle condizioni di buon vivere, la segregazione, il degrado fisico e ambientale. Ma non si tratta solo di denunzia, ma di un’azione concreta per cambiare le cose.
A questo scopo il testo  si muove su due livelli fortemente intrecciati, da un parte le specifiche condizioni di vita urbana oggi dentro la crisi, dall’altra la reale consistenza dei movimenti urbani, il loro ruolo, la loro più o meno rilevante efficacia.
Ma anche nella parte che riguarda l’analisi della città nella crisi, oltre a mettere in evidenza l’aumento delle sperequazioni, i processi di segregazione, la fuga dello Stato dalle propri responsabilità, l’autore rileva come i germi della crisi possono far maturare pericolose soluzioni e  reazioni. Non condivide il processo di esaltazione dei “luoghi”, fino a farne dei “marchi” e sviluppare una concorrenza tra le città, ma lo preoccupa anche l’esaltazione del localismo e del nazionalismo.
Così come se i movimenti sociali urbani possono essere positivamente giudicati, questo non esclude una loro analisi critica. Non si tratta della ricerca del pelo nell’uovo, ma piuttosto di un atteggiamento politico attento agli esiti, all’evoluzione delle esperienze, al ruolo che di fatto possono giocare nella trasformazione della città.
Così nell’analisi del movimento per i beni comuni, molto sostenuto nel nostro paese, e quelle delle esperienze di innovazione sociale, l’autore ne assume tutto il carico innovativo, ma ne mette in evidenza limiti e contradizioni.  
In conclusione l’autore se da una parte considera i movimenti sociali urbani fondamentali per la trasformazione della città in questa fase di restringimento delle possibilità, della privazione di risorse, della sempre più marcata diseguaglianza e, in sostanza, anche di crisi delle democrazia, dall’altra parte prende atto che i movimenti come si presentano in Europa e soprattutto nell’Europa del sud, non mostrano ancora quella capacità che la situazione richiederebbe. Le pratiche di innovazione sociale, la difesa di situazioni particolari, e le articolate e variegate (ma spesso frammentate) iniziative, per poter diventare “movimento” devono esprimere una forte capacità di cambiar, come hanno iniziato a fare, la loro natura: da difensivi, come richiesto dalla crisi economica, devono diventare offensive e devono assumere il carattere fondamentalmente politico, anche perché sono politiche le questioni che pongono (equità e democrazia).
Volendo fare una sintesi mi pare come il libro di Oriol Nelo-lo sia molto apprezzabile perché, in modo sintetico, ma estremamente chiaro, da una parte fa vedere come la crisi economica esasperi  le questioni antiche e ne fa nascere di nuove circa la qualità della vita urbane; dall’altra parte analizza “cosa si muove” nei movimenti in ambito urbano, mettendone in evidenza virtù e limiti, e, infine,  chiarisce che per affrontare le questioni che la crisi pone e che i movimenti si pongono,  è necessario integrare le varie esperienze e, soprattutto, che il movimento assuma  carattere eminentemente politico. Ma non si tratta di una posizione da “grillo parlante” quanto piuttosto di una ragionamento affidato ad affilati strumenti di analisi e alla capacità di aderire ai movimenti senza abbandonare la capacità critica che rende tutto trasparente.


Le necessarie dimissioni del Governatore della Banca d’Italia



Diario n. 308
28/12/2015

Se le notizie pubblicate dall'ultimo numero del L’Espresso fossero confermate, sembrano molto documentate, non ci si può aspettare che le dimissioni di Ignazio Visco da Governatore della Banca d’Italia. Sappiamo che il Governatore gode della fiducia del Presidente della repubblica, ma forse questa fiducia è mal posta e potrebbe essere … ritirata.
La Banca d’Italia ha negato, di fatto,  la documentazione della sua ispezione alla Banca Marche alla Consob, documentazione che  metteva in luce la disastrosa situazione senza speranza della suddetta Banca. In assenza di tale documentazione e in presenza di informazioni non veritiere della Banca d’Italia la Consob ha dato il nulla osta per l’aumento di capitale della Banca Marche permettendo che fiduciosi risparmiatori investissero in quella banca per trovarsi poco dopo con della carta straccia in mano.
Non interessa se nell'operazione ci sia o meno dolo, la cosa certa è l’inadeguatezza della Banca d’Italia e del suo Governatore a svolgere le funzioni attribuite.  



giovedì 24 dicembre 2015

La crisi attuale e la reticenza della sinistra


Diario n. 307
24/12/2015


A proposito della crisi che ha colpito l’economia mondiale, due filoni di pensiero si scontrano. Da una parte chi crede, fermamente e senza che un dubbio attraversi la propria intelligenza, che per quanto grave sia la crisi, essa deve essere considerata un “accidente”, e che i sani spiriti capitalistici sapranno fare ripartire il meccanismo economico. Questa posizione considera un errore qualsiasi intervento pubblico;  l’economia, sgragionano, non è più quella degli anni ’30, un articolazione mondiale (la globalizzazione), una fitta rete di relazioni e di interdipendenze, la grande disponibilità finanziaria  esalteranno i primi segni di ripresa. La politica che si ritiene utile e opportuna è quella monetaria: disponibilità crescente di moneta, bassi tassi di interessi, ecc. Un tempo si diceva che quando il cavallo non vuole bere è inutile offrigli l’acqua (che si traduce come è inutile offrire denaro comodo se non c’è voglia, o possibilità, di investimenti). Questa posizione da una parte produce l’austerità (ridurre drasticamente il debito pubblico, quindi l’occupazione nel settore, i servizi collettivi, gli investimenti infrastrutturali, ecc.) con risultati modesti, dall’altra favorire i consumi per rimettere in moto la domanda e quindi l’investimento (per questo vanno benissimo sussidi, riduzioni delle tasse, bassi tassi d’interesse, ecc.). Per favorire questo, inoltre si rende indispensabile una moderata inflazione, con la speranza che l’aspettativa di prezzi in crescita possano stimolare gli investimenti.  
L’altro filone ritiene necessaria una politica di investimenti pubblici, una politica keynesiana. Il capitale non si riprende da solo, ha bisogno di massicci stimoli che solo una politica di investimenti pubblici può determinare. Anche in questo caso gli investimenti pubblici dovrebbero produrre occupazione, reddito disponibile, aumento dei consumi e ripresa degli investimenti. Questo è possibile tassando di più i “ricchi”, svolgendo opere pubbliche necessarie (ambiente, territorio, risanamento edilizio, riqualificazione urbana, ecc.).
Sul piano teorico si tratta di due posizioni contrapposte, ma nella pratica le cose sono più pasticciate, i governi in realtà fanno politiche che sommano pezzi dell’una e pezzi dell’altra, avendo come obiettivo più che la soluzione della crisi la tendenza a tamponare e soprattutto la ricerca del consenso. Del resto anche sul piano teorico oggi non paiono esistano dei templi (accademici, per lo più) dove le due posizioni trovavano voce autorevole e soprattutto omogenee.
Anche se i due filoni si contrappongono le politiche che i governi fanno sono sostanzialmente un mix senza principi, frutto del convincimento momentaneo, dell’occasione e soprattutto, torno a ripetere del possibile consenso che i singoli provvedimenti possono promuovere (al di là della reale capacità di produrre quegli effetti propagandati). I danni di questo andazzo politico sono sotto gli occhi di tutti.
Ma non bisogna pensare che non ci siano dei punti fermi, o meglio delle proposizioni di fede ai quali i governi recitano il credo. Queste proposizioni di fede, comuni  in ambedue le posizioni, sono sostanzialmente due, mai espresse sotto forma di un “credo”  esplicitato, ma pur tuttavia determinante nelle scelte: da una parte la fede nel sistema capitalistico, dall’altra la convinzione che un mercato sempre più libero, o molto moderatamente controllato, faccia un gran bene all’economia (ma non del singolo mono o oligopolista, ma a tutta l’economia e per riflesso a tutta la società).   
Poche voci sono quelle che si levano nell’individuare nella crisi, un limite della formazione capitalista. Il capitalismo è al tramonto. Questo non vuol dire che sia già morto (i sistemi sociali non praticano l’eutanasia), avremo periodo di piccola ripresa (ora la dimensione della crescita si misura in zero virgola incremento del Pil), risorgerà, prima o dopo, la questione dei redditi sovrani, l’occupazione sarà sempre in altalena ma pesantemente negativa, ecc.). Questa malattia del sistema, malattia mortale, può portare ad una lunga, lunghissima, degenza, con pochi benefici sociali, ma soprattutto inquinando, per così dire, l’aria.
La cura sarebbe, infatti, è la cremazione del cadavere e la costruzione di una nuova forma di società, qui viene il difficile.
Intanto due cose: da una parte  in questa situazione una politica keynesiana sia senz’altro da preferire e per la quale vale la pena battersi (ma che sia coerente). Non potrà essere risolutiva, ma per lo meno potrà alleggerire, non sempre e non per tutti, la situazione. Dall’altra parte gli amici e i compagni impegnati a lottare per una politica ambientalista dimentiche delle relazioni esistenti all’interno della formazione sociale mi paiono che finiranno, nonostante qualche  “vittoria”, a pestare l’acqua nel mortaio. E quelli tra questi che farneticano di “economia verde”, di “business ambientale”, senza pensare che quando queste “cose” se saranno inserite nel processo produttivo capitalista assumeranno una valenza diversa. Tutti si vorrebbe vivere in un ambiente sano e piacevole, ma il “desiderio” poi si scontra con la realtà sociale, che ricordiamolo non è solo la cupidigia del capitale ma anche la difesa del posto di lavoro di operai. Questa contraddizione non ci farà mai fare dei reali passi avanti.
In questa situazione l’econo0mia fluttua e non si stabilizza. Per esempio nel 2014 il successo dell’economia USA ha fatto gridare alla fine della crisi, solo che quest’anno il risultato è inferiore a quello dell’anno scorso. L’annunzio che si intravede una luce alla fine del tunnel e sempre attualòe ma la fiammella traballa ad ogni soffio di vento.
In questa situazione la “società” si muove in modo aleatorio, sembra determinata dall’emozione e dalla comunicazione più che dalla riflessione. Al successo inequivocabile della destra in Francia, si contrappone una battuta della destra spagnola, mentre nei paesi dell’est Europa i risultati elettorali spesso sono molto preoccupanti, ed il quadro internazionale si focalizza sul terrorismo mentre la situazione geopolitica è tellurica nella sostanza.
È chiaro che per determinare una situazione della reale uscita della crisi che comporti una modifica di struttura economica sociale ci vuole insieme un “pensiero”, una “forza” e un “collegamento internazionale”.
Se in Portogallo, Spagna, e Grecia si sono sviluppate dei nuovi soggetti politici, che sebbene inadeguati sul piano del pensiero, si collocano a sinistra (si tratta di una semplificazione forse ingiusta), in Italia non si riesce a cavare un ragno dal buco. I “tavoli” si fanno e si disfano con una velocità irresponsabile.
C’è il problema di dare “forma” a questo nuovo soggetto politico (“la forma partito”, si veda l’articolo sul Il Manifesto del 24 dicembre di Lidia Menapace, che pone problemi meritevoli di attenzione), ma c’è soprattutto un problema di “pensiero”. Leggere che uno dei meno corrivi dei leader della sinistra affermi che la nuova formazione non può fondarsi sul pensiero del ‘900 mi scoraggia. Sono sicuro che le soluzioni adottate nel ‘900 non sono più valide (tanto per intenderci non c’è da prendere il “palazzo d’inverno”), ma che l’analisi dei meccanismi economico sociali della formazione sociale capitalista fatta in quel ricco secolo di pensiero, sia ancora valida lo pensano e lo dicono molte autorevoli menti.
Senza pensiero niente trasformazione. Ed è alla trasformazione che bisogna rendere convinti e consapevoli le forze sociali. La politica è anche fascinazione (non falsificazione), ma è non è possibile che il fascino che la sinistra (nelle sue varie articolazioni) produce, sia il rinnovo della classe dirigente (magari da rotamare), la trasparenze delle decisioni, la sostenibilità, ecc., tutte cose utili e necessarie ma che non fanno nuova società.  Una nuova prospettiva deve esprimere “fascino” a livello dei problemi, deve essere convincente, propositiva nel dettaglio, ma con un grande respiro di trasformazione, deve essere unificante, deve rompere schemi e barriere, deve essere luminosa. Altrimenti prevale la falsa promessa di arricchirsi, all’arricchimento bisogno contrappore felicità, libertà, autonomia, eguaglianza.    
Non ho ricette, non esiste l’Artusi della trasformazione, ma tra tutti i problemi che emergono con grande evidenza si potrebbe tentare di affrontarli parzialmente alcuni.
C’è una problema di concentrazione della ricchezza? Pare di si: oggi, è stato stimato che l’1% della popolazione detiene una ricchezza pari a quella del restante 99% della popolazione. Altro che invitare e facilitare i grandi patrimoni ad opere di bontà, o sostegno alla culture, ecc.  piuttosto è necessario  operare un drastico prelievo fiscale secondo scaglioni progressivi fino al prelievo totale per l’ultima frazione di reddito che supera una certa soglia. Si dirà che questo scoraggia lo sviluppo, nessuno lavorerà oltre per raggiungere quel reddito, sembra una buona notizia, ciascuno valuterà il livello di opportunità di scorzo, e oltre si dedicherà alla lettura, allo sport, al godimento della natura, dei figli, dell’amata e degli amici. Ma non basta, basta decidere che la moneta è solo strumento di scambio e di accumulazione relativa: uno può godersi la ricchezza accumulata fino all’ultimo respiro, dopo di che la sua ricchezza passerà alla collettività.
C’è un problema di progresso tecnico, di obsolescenza e di aumento di produttività. Il progresso tecnico è un meraviglioso meccanismo che rende inadeguati i rapporti sociali di tipo capitalistico e che per affermarsi quei rapporti deve superare. Il progresso tecnico può rendere il mondo migliore e gli uomini e donne meno infelici. L’occupazione langue, e banale dirlo ma lavorare tutti e lavorare meno. Ma non basta se si legasse il punto precedente a questo si potrebbero trovare soluzioni interessanti. Sono perplesso su tutta l’attenzione che si mette all’inflazione (si capisce una modesta inflazione): si congettura che una inflazione al 2% potrebbe rilanciare gli investimenti. Si fa fatica a seguire il ragionamento: io capitalista mi avventuro a realizzare un investimento, nella situazione, diciamo così, fluida nella quale si trova l’economia, perché mi aspetto che i prezzi “generali” aumenteranno del 2%. Ho l’impressione che si tratti di un modello di ragionamento per lo meno fragile; per un andamento dei prezzi crescenti per percentuali molte più alte questo potrebbe essere possibile, ma il 2% non muove nessuno. Ma se collegassimo il progresso tecnico, cioè l’aumento di produttività, ai prezzi con delle regole che guardano al complesso della società e non al ristretto mondo di un’azienda allora si potrebbe puntare ad una deflazione costante e continua. Oggi l’aumento di produttività va tutta a beneficio dell’impresa (i contratti aziendali dovrebbero forse far partecipare i lavorato ai risultati dell’aumento della produttività), ma niente va direttamente alla società, questa o i consumatori si dovrebbero avvantaggiare dalla concorrenza che si fanno le imprese, teoricamente abbassando i prezzi, in realtà questo non avviene perché sono crescenti i costi commerciale (basta osservare la pubblicità) e gli accordi manifesti o impliciti. Allora si potrebbe imporre la regola che  l’aumento di produttività per il 30-40% resta all’impresa che lo distribuisce all’interno,  e per il rimanente va ad abbassare i prezzi con vantaggio di tutta la società.    
Mi fermo perché non voglio dare l’impressione di avere il ricettario, e poi perché solo la convergenza di più opzioni e proposte possono dare fondamento.  I precedenti sono soltanto delle indicazioni, ma essi (o altri) non devono essere visti come dei “provvedimenti”, certo anche questo,  ma piuttosto devono essere il risultato di una nuova teoria d’intervento, un nuovo pensiero, che avrà sicuramente un risvolto per così dire istituzionale ma che dovrà (dovrebbe) essere collegata con un azione di lotte e di conflitti e che potrebbe (dovrebbe) coinvolgere le forze sociali anche nella gestione dei risultati, in un processo lungo ma certo di trasformazione.       


mercoledì 23 dicembre 2015

Il 2015 dell’occupazione

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Le fonti ufficiali e amministrative convergono su alcuni punti per quanto riguarda
 la dinamica dell’occupazione nel 2015. Aumentano gli occupati, soprattutto nei 
servizi e nel lavoro dipendente. In calo i rapporti di collaborazione, mentre 
sono consistenti gli effetti della decontribuzione.
La dinamica dell’occupazione
Sulla dinamica dell’occupazione nel 2015 abbiamo ormai a disposizione
 numerose informazioni statistiche aggiornate al terzo trimestre o anche
 a ottobre. Alcune evidenze si possono cominciare a considerare
acquisite: i due mesi che mancano alla fine dell’anno potrebbero
determinare qualche correzione, ma non alterare i segni dei fenomeni.
Dall’esame congiunto delle varie fonti ufficiali (Indagine sulle forze
di lavoro Istat e dati di contabilità nazionale) e amministrative
(Inps-Osservatorio sulla precarietà; ministero del Lavoro e network SeCo
 per le comunicazioni obbligatorie delle imprese ai centri per l’impiego)
 si può delineare il quadro che di seguito sintetizziamo.
Un punto sembra ormai certo e assodato: gli occupati complessivi
sono aumentati. La variazione, comunque calcolata (occupati o unità
di lavoro o posizioni lavorative), rispetto all’anno precedente si aggira
sulle 200mila unità. Non si tratta di una dimensione tale da far scordare
la dura riduzione imposta dalla crisi, né il ritmo del recupero è tale
 da assicurare sugli sviluppi futuri: ma è comunque una netta inversione
di rotta.
Un secondo punto sul quale c’è convergenza è la caratterizzazione settoriale
 dell’incremento, che risulta sostanzialmente dovuto ai servizi, mentre per le
 costruzioni, pur rallentata, prevale ancora la tendenza riflessiva e il
manifatturiero risulta, per ora, aver (solo) arrestato, dopo un lungo
periodo, il processo continuo di ridimensionamento.
Un terzo elemento si può dare per assodato: la crescita si è prodotta
nell’area del lavoro dipendente mentre l’insieme (eterogeneo) del lavoro
indipendente è rimasto al palo.
Tipologie dei contratti
Questione controversa è invece l’apporto alla crescita delle diverse
tipologie di contratti di lavoro. Dal punto di vista delle politiche del
lavoro, l’anno è stato caratterizzato dall’attenzione agli effetti dell’esonero
contributivo per le nuove assunzioni a tempo indeterminato, a partire da
gennaio 2015, e dal primo impatto del Jobs act su diversi aspetti, in
primis la revisione, in vigore da fine marzo, della normativa sui
licenziamenti (contratto a tutele crescenti) e le restrizioni, attivate da
giugno, per alcune forme di rapporto di lavoro parasubordinato
(contratti a progetto, associazione in partecipazione). Tutti questi
elementi convergono, di fatto, nell’incentivare o comunque favorire
le assunzioni con contratto a tempo indeterminato, riducendo il costo
mensile per i primi tre anni e rendendo certo il costo di una risoluzione
per licenziamento. È dunque logico che a questo aspetto si
dedichi una particolare attenzione.
I dati amministrativi (Inps, ministero del Lavoro, network SeCo) hanno
evidenziato il netto incremento sia del volume di nuove assunzioni a tempo
indeterminato sia del volume di trasformazioni da tempo determinato a tempo
indeterminato (tabella 1).
tab1 anastasia

Nello stesso periodo, il volume delle assunzioni sia con contratti di apprendistato
 sia con contratti a tempo determinato è diminuito (Inps, primi dieci mesi
del 2015) o modestamente aumentato su base annua
(ottobre 2014-settembre 2015), parallelamente a un’analoga crescita
delle cessazioni (regioni SeCo). Il maggior volume di assunzioni si riflett
 nelle variazioni dello stock dei rapporti di lavoro in essere: i grafici 1 e 2,
pur scontando il diverso universo di osservazione territoriale e la diversa base
settoriale (Inps non include agricoltura e settore pubblico), evidenziano
che la dinamica finalmente positiva risulta chiaramente trainata dai
contratti a tempo indeterminato. Tanto per Inps quanto per le regioni
SeCo le posizioni di lavoro a termine risultano invece in flessione e
lo stesso si registra per l’apprendistato. Aggiungiamo che i dati
amministrativi attestano chiaramente pure la riduzione del ricorso sia
ai rapporti di lavoro intermittente (come ormai accade dal 2012)
sia ai rapporti di collaborazione (-20 per cento su base annua) mentre è
cresciuto fortemente l’utilizzo dei voucher.
graf1anastasia
graf2anastasia



































Nei dati Istat non emerge ancora nitidamente la crescita del tempo indeterminato:
sembra anzi che l’incremento dei rapporti a termine sia più
 rilevante per spiegare la crescita occupazionale. Come peraltro si osserva
nella tabella 2 le variazioni tendenziali degli occupati nella distribuzione
tra occupati a termine e occupati a tempo indeterminato oscillano di mese
in mese. E occorre sempre ricordare che stiamo parlando di variazioni in
valori assoluti che sono sotto quella soglia di consistenza tale da poter
essere accertata con sicurezza anche da un’indagine campionaria, come
quella sulle forze di lavoro.

















Effetti della decontribuzione
Del resto, se quest’anno i rapporti di lavoro a tempo indeterminato non
fossero aumentati in termini di flusso e di conseguenza anche in
 termini di stock (è impensabile infatti immaginare una parallela e
contestuale moria, con la riduzione delle durate dei tempi indeterminati
alla stregua del somministrato o della maggioranza dei rapporti a termine)
 significherebbe che un incentivo triennale pari al 30 per cento del costo
del lavoro non ha molto peso né appeal. Certificherebbe una conferma
di non nuove teorie sul salario come variabile indipendente (dal suo costo). 
Così non è stato. La decontribuzione – che, basandoci sui dati Inps, possiamo
stimare a fine anno supererà agevolmente il milione (tra nuovi 
rapporti a tempo indeterminato e trasformazioni) – ha avuto effetti 
consistenti e consegna al 2016 un trascinamento occupazionale positivo: 
una fiammata di assunzioni a tempo indeterminato ha effetti indubbiamente 
più duraturi di una analoga dovuta ai rapporti a termine, come accaduto 
nel 2014 con il decreto Poletti.

Le tasse saliranno nel 2016 e negli anni seguenti


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Con l’approvazione della legge di Stabilità 2016 nei due rami del Parlamento e in attesa della pubblicazione della nota tecnico-illustrativa definitiva da parte della Ragioneria generale dello stato si può comunque calcolare in che misura l’impegno preso dal governo di ridurre le tasse sarà rispettato nel 2016 e negli anni successivi. I dati complessivi di variazione delle entrate e delle uscite dello stato presentati dal governo a ottobre sono stati complessivamente rispettati anche dopo il dibattito parlamentare, con l’eccezione del rinvio (proveniente dal governo) del taglio dell’Ires al 2017 per far posto alle voci del cosiddetto “pacchetto sicurezza” (ad esempio, i 500 euro ai diciottenni e gli 80 euro alle forze dell’ordine).
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Le tasse caleranno dunque nel 2016? Come si vede dal grafico, la risposta è – in breve – no.  Sia nel 2016 sia negli anni successivi (2017 e 2018) le entrate totali delle pubbliche amministrazioni dopo la legge di Stabilità non caleranno e anzi continueranno ad aumentare. Saliranno di 10,6 miliardi nel 2016 rispetto al 2015 (da 788,7 a 799,3 miliardi), di 20,7 miliardi nel 2017 rispetto al 2016 e di 25 miliardi nel 2018 rispetto al 2017.
Ma allora il premier prende in giro tutti gli italiani quando dice di aver tagliato le tasse con la legge di Stabilità 2016? Solo un po’. Le entrate totali continueranno ad aumentare (il che non dovrebbe succedere quando si “tagliano le tasse”), ma aumenteranno meno di quel che sarebbero aumentate senza la legge di Stabilità 2016. Le due curve riportate nel grafico – che descrivono l’andamento delle entrate totali prima e dopo la legge di Stabilità 2016 – indicano che senza la legge di Stabilità 2016 le tasse sarebbero aumentate ancora di più: di 28,7, 25,8 e 23,5 miliardi, rispettivamente, nel 2016, 2017 e 2018. Le misure contenute nella legge di Stabilità 2016 (taglio dell’Imu sulla prima casa e altre misure per il 2016, taglio dell’Ires per il 2017) porteranno a contenere di alcuni miliardi (l’entità è pari alla distanza tra le due curve del grafico) l’aumento di tassazione che si sarebbe verificato “naturalmente”. Dove il “naturalmente” non ha nulla di naturale ma si traduce in “per colpa degli aumenti di tasse decisi dai governi precedenti (incluso il governo Renzi nel suo primo anno di vita)”. Fermo restando che una parte preponderante del taglio di tasse è il disinnesco delle clausole di salvaguardia.
Si sarebbe potuto fare di più in termini di riduzione del carico fiscale? Sì, a patto di ridurre di più la spesa pubblica che invece – con il modicum di spending review realizzato e con gli aumenti di spesa del “pacchetto sicurezza” – finirà per aumentare di 9 miliardi fino a un totale di 840,6 miliardi nel 2016.

mercoledì 9 dicembre 2015

Massimo Pinchera


Diario n. 306
8 dicembre 2015

Dolore. Un'amicizia lunga  cinquanta sette anni si è rotta senza speranza di ricomposizione, il mio amico Massimo Pinchera è morto. Un'amicizia che ci ha coinvolti a tutti i livelli, affettivo, familiare, politico, di lavoro, di condivisione di idee e giudizi sul mondo, sapida, spesso ironica e allegra, altre volte triste e preoccupata; abbiamo condiviso tante idee e tante riflessioni, anche l’amore per il mare.
Massimo aveva messo al primo posto della sua vita la politica. Una forma specifica della politica: come qualcosa da vivere quotidianamente, come impegno verso la società e non verso se stesso, non la ricerca del potere, ma la lotta per la conquista di libertà ed eguaglianza per tutti. Un atteggiamento questo portato avanti con determinazione, a scapito dei propri interessi, quasi da lesionista. E' stato promotore di molte iniziative, la sua capacità di "mettere insieme" persone e pezzi della sinistra è stata fondamentale nella costruzione del Comitato Vietnam, una delle organizzazioni più vivaci e meno settarie dell'articolato movimento degli anni '60 e '70 a Milano. Non abbiamo mai militato nello stesso partito, né nella stessa organizzazione, ma era come se lo fossimo.
Avrebbe potuto fare un’ottima “professione” politica e istituzionale, la sua rettitudine sarebbe stata una garanzia per tutti ma, dirigente e funzionario della Federazione del PCI di Pavia, non si piegò al conformismo richiesto.
Ha spinto la realizzazione di molte iniziative politiche di diffusione della conoscenza: ha sostenuto Sapere la rivista diretta da Alfredo Maccacaro e Giovanni Cesareo; è stato uno degli animatori della fondazione del supplemento alla rivista Abitare denominato SE Scienza ed esperienza.
Ha collaborato con Silvio Leonardi  al Centro di analisi sulla struttura economica italiana, della Fondazione Feltrinelli.
Sul piano professionale, tra le altre cose, va ricordato la condivisione, per alcuni anni, dello Studio di Guido Veneziani; ha diretto, con la collaborazione di Daila, la catalogazione del patrimonio storico della Sardegna; svolte ricerche per la regione Toscana e la provincia di Sassari.
Tuttavia da più di quaranta anni il suo impegno crescente è stato per il CIRIEC (Centro italiano di ricerche e di informazione sull’economia delle imprese pubbliche e di pubblico interesse) sezione italiana dell'associazione internazionale sull'economia pubblica. Prima come collaboratore di Alberto Mortara, vice presidente e segretario generale, e alla morte di Mortara (1990) il Consiglio lo ha chiamato a sostituirlo. Al CIRIEC ha impegnato le sue migliori capacità, anche quando l'economia pubblica ha perso qualsiasi appeal e molti soci (imprese pubbliche, enti pubblici, comuni, regioni, ecc.) hanno allentato il loro interesse e la loro partecipazione, mettendo l’istituzione in mal partito. La determinazione di Massimo è stata fuori dall’ordinario, nelle difficoltà, sempre screscenti, ha provveduto al trasloco del Centro e della sua rilevante biblioteca, ha continuamente ricucito l’interesse dei soci, ha cercato e trovato spesso risorse per le iniziative (ricerche, pubblicazioni, la rivista). Nelle difficoltà crescenti il suo impegno è stato sempre maggiore, dedicando a questa istituzione tutto il suo tempo ed anche risorse personali. Riteneva un obbligo sociale e politico che il CIRIEC continuasse a vivere, sentiva come un obbligo nei riguardi di Mortara evitare la chiusura del Centro. La collana dei libri CIRIEC, iniziata da Mortara  porta anche il segno di questo impegno, così come aver dotato il  centro di una rivista permanente (Economia Pubblica) in sostituzione di un modesto “bollettino” è il risultato della sua affiliazione al CIRIEC.
Massimo mi mancherà, mi mancheranno, dopo la morte di Daila, le cene tra noi due, nelle quali esercitava la sua abilità culinaria; che erano da noi amate, ci piaceva essere a tu per tu a discutere dei casi politici del nostro paese, malignare, ricordare, ma anche reciprocamente prendendoci in giro per le rispettive  manie, lui era patologicamente ordinato e questo era oggetto di ironia, ma con quella che lui diceva essere la sua dote  all'autocritica e all’autoironia, riconosceva questa mania, ma l'ammantava di preziosità. Del resto la sua emeroteca e la sua biblioteca, di grande valore sociale e politico, è figlia di questa pignoleria.
Manca e marcherà alle sue figlie, ai suoi nipoti, alla sorella, ai parenti e ai suoi amici.  Ci ha lasciato uno dei migliori frutti di un’esperienza politica complessa, che ha riconosciuto nei “movimenti”  l’alito di un futuro di libertà e giustizia; un uomo dagli interessi ampi, di grande determinazione ma non settario.    

A lui questo mondo, che non ha saputo apprezzarlo come avrebbe dovuto,  non mancherà. Non può, ma se potesse, credo che avrebbe pochi rimpianti.

venerdì 4 dicembre 2015

PIL, Occupazione, Disoccupazione e zero virgola

Diario 305
3.12.2015

PIL, Occupazione, Disoccupazione e zero virgola


La mamma sorrise, il termometro segnava una temperatura di 39,9 gradi, sicuramente inferiore a quella di 40 rilevata qualche ora prima. Guardò il suo ragazzo e sorrise. Poi si guardò allo specchio e ancora sorrise, ma all'improvviso una nube nera attraversò la sua fronte: il suo ragazzo era ancora gravemente malato, quel -0,1 gradi di temperatura non significava niente.
Si, avete capito, si tratta di una metafora della situazione del nostro paese. Il nostro presidente del consiglio e il suo ministro dell'economia, non sono quella mamma, loro plaudano alle variazioni dello 0,  del PIL, ma nessuna nube attraversa la loro fronte, continuano a sorridere come delle maschere.
Qualche 0, punti percentuali del PIL o  della disoccupazione, o l'incremento degli occupati in età superiore ai cinquanta anni (il che vuol dire una regolazione di situazioni di precariato preesistenti, facilitati dagli aiuti del governo, ma che possono essere licenziati quando le imprese vorranno), la diminuzione delle persone inattive che non corrisponde ad un miglioramento della situazione familiare ma piuttosto alla fine della speranza di trovare un posto. Mentre la situazione dei giovani disoccupati continua a peggiorare, ma di questo non parlano.
Il sorriso dei nostri governanti, il loro amore per il microscopio economico (lo 0, per cento) somiglia al naufrago che preso da una reazione isterica sorride e invoca la Madonna che lo salverà mentre affoga  aggrappato ad un esile pezzo di legno.
Il governo, ma non solo lui, non ha capito nulla della crisi, continua a non capire, e spera che tutto possa tornare come prima. Vana speranza. Ma di questo si è scritto molte, forse troppe, volte.
Il segno della permanenza della crisi si legge nella decisione della BCE di aumentare e prolungare l'acquisto di titoli (dagli stati). Ma la domanda è: che ne farà alla fine? Continua a stampare moneta nella speranza di incentivare un po' di inflazione (che dovrebbe essere la salvezza) e si riempie i forzieri di titoli non esigibili ma che arrivati ad un certo punto, per rispetto alle “regole”, bisognerà sanare. Non si fa fatica a pensare chi dovrà pagare questa bolletta (inefficace). Continuano a muoversi come se il sistema soffrisse per un raffreddore (passeggero) e fingono di non vedere che ha la tisi, malattia di lunga durata ma di esito sicuro.

lunedì 16 novembre 2015

L’URBANISTICA DI FRONTE ALLA FRAGILITÀ DEL TERRITORIO

L’URBANISTICA DI FRONTE ALLA FRAGILITÀ DEL TERRITORIO
Francesco Indovina

da Ecoscienza, n. 3, 2015, ARPA Emilia-Romagna


La fragilità del territorio, il suo dissesto, smottamenti, frane ecc. trovano sempre un responsabile nell'urbanista, o meglio ancora nell'urbanistica. Certo sono stati prodotti dei piani inadeguati, sbagliati e che si opponevano poco o niente alla speculazione, ma il problema non è questo, non si tratta del fallimento dell’urbanistica, ma piuttosto della sua sconfitta. Contro l’urbanistica ha vinto l’opportunismo della politica (locale e nazionale), la voracità del settore edilizio e delle opere pubbliche, la speculazione, la convinzione diffusa che si poteva costruire ovunque, contro ogni ragionevolezza, in una situazione in cui il bisogno di una casa ha finito per giustificare l’irresponsabilità costruttiva (ci ricordiamo della teoria dell’abusivismo di necessità?). Detto questo, la situazione non cambia, non solo, ma nuove situazioni pongono problemi nuovi e più gravosi sul piano della formazione, della disciplina, del pensiero urbanistico.
I cambiamenti climatici, per esempio, con il moltiplicarsi di “eventi estremi”, pongono nuovi problemi che si sommano a quelli precedenti, ma la cui attenzione mi sembra scarsa. A questo proposito vorrei segnalare come mi pare ci si muova in modo assolutamente inadeguato, come se fossimo cinquanta anni fa e si fanno le cose che bisognava fare allora, e che non sono state fatte, e che ora forse sono “dannose”. Ma pare, per esempio, che l’attenzione al moltiplicare del verde urbano, che ha moltissime giustificazioni, non tenga conto della situazione nuova: quale sia l’effetto di tale diffusione in presenza, per esempio, delle così dette “bombe d’acqua” o delle più tradizionali alluvioni. Non sto prendendo posizione contro il verde urbano, ma sottolineo che questo oggi, in qualche modo che non so, deve tenere conto della nuova situazione. Che sia necessario un atteggiamento di adattamento, mi sembra inevitabile, e questo non vuol dire accettare lo stato di fatto, ma richiede che la ragione prenda coscienza del cambiamento e cerchi di adeguare gli strumenti per evitare danni maggiori.
A me pare che sia da sottolineare sia la fragilità delle città che quella del territorio, che le due questioni siano intrecciate è forse vero, ma ciò non toglie che si tratta di questioni diverse che hanno bisogno di tipologie d’intervento diverse; ma ancora, dire fragilità delle città è una generalizzazione che non convince, anche se le “voragini” che si aprono nelle strade urbane sono abbastanza comuni. Così come dire fragilità del territorio è diverso se riferito a un territorio di collina e montagna o a un territorio marino, non perché l’uno sia meno fragile dell’altro, tutt’altro, ma perché diverse sono le necessità d’intervento. Gli urbanisti non possono pensare che un’attenta politica delle “destinazioni d’uso” dei suoli sia la soluzione dei nostri problemi, né, ancora, che la riduzione del consumo di suolo, la difesa del paesaggio e il privilegio accordato alle piccole opere, nobili e importanti propositi, siano risolutive della situazione. Diciamolo con molto chiarezza: c’è un futuro che deve essere governato con sagacia e intelligenza, ma c’è anche un passato che deve essere risanato, messo in sicurezza, reso “amico”, e per fare questo c’è molto da fare. Diciamolo con tranquillità e con la coscienza consapevole, il risanamento del nostro territorio e delle nostre città costituisce il New Deal del nostro paese e della nostra epoca. Si tratta di fare minuta manutenzione, ma anche opere grandi (non “grandi opere”), si tratta di mettere in moto progetti di ingegneria ambientale e urbana. So che ai miei colleghi urbanisti, al solo sentire parlare di ingegneria ambientale si rizzano i capelli in testa, ma anche di questo si tratta. Non bastano i pannicelli caldi, una filosofia di adattamento vuole e pretende anche opere grandi, richiede l’intelligenza degli ingegneri, richiede di mettere mano a nuove idee. Della preparazione dell’urbanista non deve cambiare niente e deve cambiare molto. Non deve cambiare il formarsi come tecnico dell’organizzazione del territorio, oggi per il futuro, e che attraverso tale organizzazione si pone obiettivi di efficienza e di efficacia circa il funzionamento della città, fornire il proprio contributo, proprio attraverso l’organizzazione dello spazio, a obiettivi di equità sociale, combattendo  contro tendenze all'emarginazione e alla discriminazione, avendo piena consapevolezza che le scelte urbanistiche sono “scelte politiche” e che l’assistenza tecnica per la realizzazione di questi obiettivi non può essere un atteggiamento anodino. Forte deve essere la coscienza che il territorio è un bene sociale e collettivo, che molti partecipano alla sua formazione e organizzazione, ma questa deve seguire l’interesse collettivo. Alla formazione di tale tecnico, le nostre scuole di urbanistica, per quanto lo permettano istituzioni inadeguate, contribuiscono non solo con gli insegnamenti tecnici propri della disciplina, ma arricchendo la formazione dell’urbanista con economia, diritto, sociologia, matematica, storia, antropologia, statistica, ecologia ecc. Tutti strumenti per formare un’intelligenza in grado di leggere una città e interpretarne le dinamiche. Negli ultimi anni le discipline ambientali hanno trovato maggior spazio, ed è stata una cosa buona, ma è stato male che questo allargamento spesso sia avvenuto a scapito delle discipline sociali. Deve cambiare un certo atteggiamento nei riguardi della realizzazione del piano o dell’intervento urbanistico. Se da tempo è diventato senso comune che la gestione del piano (attraverso accorte politiche) è parte integrante del processo di pianificazione, sia il piano che la sua gestione hanno oggi bisogno di una impostazione fondata su un atteggiamento adattativo e che punto di riferimento per ogni intervento non possa essere ormai che l’area vasta, non solo perché sempre più (nel nostro paese con enorme ritardo) la gestione tende a competere a istituzioni (fisse o variabili) di area vasta, ma anche perché i processi a cui si è fatto riferimento all’inizio non sono governabili se non a livello di area vasta.
Un atteggiamento adattativo ha due corollari: da una parte vedere l’urbanistica come lo strumento nel suo campo di governo delle trasformazioni, che ovviamente non significa “amministrazione” delle trasformazioni, ma piuttosto governo delle forze della trasformazione verso obiettivi noti, trasparenti e significativi sul piano degli esiti. Ma, dall’altra parte, avere netta coscienza che il “futuro” non si realizza automaticamente da buoni obiettivi, ma che le incertezze e i rischi di tale futuro devono essere indagati e ove possibile contrastati. Ma per questa operazione non bastano né “danze della pioggia”, né esorcismi, né idiosincrasie sulle necessarie modifiche di assetto dello spazio. È in questa dimensione che si intrecciano relazioni fruttuose tra l’urbanistica e l’ingegneria ambientale e ingegneria del territorio, relazioni che non si possono immaginare sempre pacifiche, ma che si devono imporre come razionali e trasparenti. Le paure e i timori per i mutamenti per gli assetti del territorio devono costituire un chiaro stimolo per moltiplicare l’attenzione. Un laico atteggiamento è l’unica speranza di salvezza (in questo e in tutti gli altri campi). Sia gli urbanisti che gli ingegneri ambientali (in senso lato) durante la loro formazione devono fare esperienze in comune, partecipare insieme a progetti, misurarsi, prima di avere acquisito la “patente” di tecnico nel capirsi vicendevolmente.