mercoledì 6 dicembre 2017

Emergenza fascismo

Diario
6/12/2017

Non credo che la povertà, la diseguaglianza, la disoccupazione, l’assenza di prospettiva, ecc. portino al fascismo, così come non incamminino le masse verso il comunismo; si tratta di una condizione “favorevole” dove possono attecchire forme diverse della politica, ma perché questo avvenga, è necessario un alimento ideologico.
Tale alimento assume come ricostituente la mancanza di memoria e l’ignoranza. Un paese senza memoria non assume contro corpi dal passato. Abbiamo ancora davanti agli occhi il calciatore che per festeggiare il gol fatto alla squadra avversaria, il  Marzabotto, giocando a Marzabotto, non trova di meglio che avvicinarsi alla sua curva sfoderando un saluto fascista e mostrando il simbolo della Repubblica sociale, stampata nella maglia che teneva sotto quella della sua squadra. La giustificazione? “Non sapevo niente della strage di Marzabotto fatta dai fascisti e dai tedeschi”. L’ignoranza come giustificazione. E che dire del carabiniere che esponeva sul suo letto la bandiera del Reich. Egli studia storia all’università, e ritiene di aver fatto una leggerezza (e tale deve essere stata giudicata dai commilitoni e dai superiori che non hanno mosso ciglio).
La cosa più preoccupante è da una parte una certa indifferenza generalizzata di fronte ai molti fenomeni di manifestazione, spesso anche violenti e intimidatori, di gruppi che si dichiarano di fede fascista o addirittura nazista (si tende a minimizzare il fenomeno).
Alcuni  partiti politici, non sia mai detto, criticano tali manifestazioni,  ma contemporaneamente strizzano  loro  l’occhio pensando di poter lucrare elettoralmente sul fenomeno. Del resto non possono che criticare blandamente perché essi stessi trasmettono parole d’ordine di stampo fascista: razzismo, insopportabilità per le differenze (drogati, omosessuali, ecc.), esaltazione dell’individualismo, la violenza come soluzione, egoismo sociale, ecc. Si tratta della  Lega di Salvini (che pare diversa da quella di Bossi), di Fratelli d’Italia della Meloni, il gruppo di Storace, ecc. Mentre altri navigano nell’equivoco, come Forza Italia, che con i fascisti ha una lunga frequentazione e che con i partiti di Salvini e della Meloni è alleato. Ancora equivoca è la posizione di 5*, che dipende da chi parla, dalla lingua che usa, e dal periodo.  Anche su questo terreno è ondivago.
Dichiaratamente contrari sono i partiti e movimenti di sinistra anche se nel clima del paese qualche proprio membro possa esprimersi scorrettamente.
Il tutto finisce per avvelenare  il clima sociale del paese, ed è in questa atmosfera maleodorante che si picchiano gli immigrati, che si bruciano i senza casa, che si invadono le riunioni delle associazioni impegnate nell’accoglienza (come a Como) per leggere proclami più o meno farneticanti. Razzismo e violenza sono le cifre di questo clima: il diverso per colore della pelle, per scelte sessuali, per scelte politiche non può che essere l’oggetto di vessazioni. È questo il clima che accentua il maschilismo violento, anche se questo ha anche altre radici.
Un clima che tende a trasformarci tutti in “miserabili”, e che influenza tutti, come dimostrano, i casi di amministratori del PD che hanno espresso valutazioni razziste (riportati con nomi e cognomi dalla stampa). Questa non vuole essere una polemica verso il PD, ma solo la dimostrazione del gravità del veleno che circola nella società.
La sottovalutazione del fenomeno pare pericolosa e il clima sociale ha pochi altri nutrimenti (una manifestazione ogni tanto non serve). Ma poi cosa è il fascismo? si domandano i giovani; cosa è stato? questione già risolta, rispondono i “grandi”,  mentre la penna e la voce di alcuni commentatori sono al servizio della minimizzazione. Del resto, ripeto,  in un paese senza memoria nessuno ha paura del passato, questo non esiste.
Insomma mi pare si possa parlare di una emergenza fascista, forse la più grave tra quelle che sentiamo nominare quotidianamente. Non sto parlando del pericolo di una iterazione del fascismo mussoliniano, ma di qualcosa di diverso e forse di peggio, mentre  preoccupa una certa indifferenza generalizzata di fronte ai molti fenomeni attraverso i quali questa emergenza si manifesta.  
Certo si può tentare di eliminare il disaggio sociale che costituisce terreno favorevole per una adesione a valori di destra estrema e violenta, ma non pare che siamo sulla strada giusta nonostante le ottimistiche dichiarazioni governativi, e poi non basta, è il clima culturale che va aggredito. Una manifestazione ogni tanto non basta; sembra positivo che dirigenti del PD iniziano a dirsi  preoccupati.
Una battaglia politica permanente e consistente va condotta contro i partiti che stabilmente si collocano nella scia del fenomeno (razzismo e violenza), e che questa scia di fatto alimentano con le loro dichiarazione di minimizzazione. Qualsiasi cautela e calcolo verso questi, pensando anche a possibili necessari accordi post elettorali non farebbe che alimentare il clima avvelenato. Contro il fascismo, in ogni sua forma, manifesta o travestita, non ci possono essere tentennamenti né calcoli opportunistici.
Alle  organizzazione di estrema destra, che paiono potersi contare in 15 raggruppamenti (ma probabilmente di numero superiore)  non può essere concessa nessuna agibilità politica, sono portatori dichiarati di razzismo e di violenza, che esercitano, per esempio negli stadi o organizzando ronde punitive contro immigrati, senza tetto o comunque “diversi”.
Si tratta inoltre di gruppi molti dei quali intrattengono relazioni strette con la criminalità organizzata e la “fede politica”  costituisce cemento per loschi affari illegali o criminali.
Esistono gli strumenti amministrativi  e giudiziari per colpirli, ma deve svilupparsi una forte iniziativa politica e culturale. Solo utilizzando tutti i tasti è possibile cancellare l’emergenza fascismo.



sabato 2 dicembre 2017

È morto Franco Azara


Diario
1 dicembre 2017

Nei giorni scorsi è morto Franco Azara al quale mi legava la militanza a Il Manifesto.
Franco non era un uomo semplice, tutt’altro, con lui era più facile litigare che andare d’accordo, ma il suo contributo in molte delle battaglie che Il Manifesto, organizzazione politica, ha condotto  a Venezia, a Marghera e nel resto del Veneto, è stato sempre importante. Non sempre ha condiviso le scelte nazionali dell’organizzazione soprattutto in termini di alleanze. Quando il movimento si è sciolto ha cercato ancora di restare legato al giornale, ma dopo un poco ha lasciato. Ha organizzata una sua attività economica, è ha vissuto la politica da lontano senza mai allontanarsi dagli ideali della sinistra.

Anche tra di noi abbiamo molto battagliato, ma eravamo legati da affetto.       

venerdì 24 novembre 2017

Quel che ci tocca: Berlusconi o 5*?

Diario
19/11/2017



Siamo a questo punto: dopo le prossime elezioni il paese sarà governato o da una coalizione guidata da Berlusconi, o dal movimento 5*. Cosa è peggio lo lascio decidere a voi. La sinistra o il centro sinistra non ha possibilità di entrare in graduatoria, ma su questo dopo.
Intanto la neopresenza invadente, come è nello stile dell’uomo, di Berlusconi che organizza, tratta, elargisce consigli a Salvini della Lega e alla Meloni del raggruppamento fascista. Quello che appare sconcertante non è tanto una qualsiasi strategia di “presa del potere”, ma come i mezzi di comunicazione di massa (e gli stessi alleati) abbiano memoria corta, cortissima. In sostanza Berlusconi è nato ieri ed è un perseguitato perché non può candidarsi secondo i risultati processuali e la legislazione vigente nel nostro paese. La storia di Berlusconi è cancellata: nessuno ricorda la corruzione di un senatore, nessuno ricorda le leggi ad personam che hanno cancellato fattispecie penali dai nostri codici nei quali era incappato lo stesso expresidente del consiglio a quel tempo presidente del consiglio, nessuno ricorda altre leggi ad personam  di riduzione di pena e aumento della prescrizione  per reati nei quali era coinvolto sempre lo stesso. Nessuno ricorda i possibili rapporti con la mafia di cui si è parlato e per il quale un suo stretto collaboratore e amico è stato condannato eincarcerato. Nessuno si ricorda della sua vita privata, delle “cene eleganti” e dei possibili rapporti con minorenne. Tutto cancellato.
In contrapposizione a Berlusconi si muove il movimento 5*, accreditato di novità, di essere fuori dai giochi di potere, tutto dedito al bene del paese. Credibile, solo un poco, molto poco; le esperienze di governo che suoi rappresentanti hanno fatto, solo a livello locale, sono disastrose e non aliene da pasticci, per essere gentili, o da manovre poco chiare, falsi in bilancio ecc. Questo a livello locale, dove tutto doveva essere più semplice, immaginiamo cosa possa succedere a livello nazionale.
Per dirlo in modo tradizionale il paese si trova tra l’incudine e il martello. So che alcuni dei miei amici che leggono questo diario in questa situazione si dicono concordi nell’appoggiare il movimento 5*, personalmente mi pare pazzesco. Tra un populismo reazionario e fascista e un populismo governato da un qualche algoritmo faccio fatica a scegliere.
La sinistra, senza altra qualificazione, mi pare fuori gioco: non solo perché questo è sostanzialmente un paese di destra, e per molti versi anche peggio, ne danno testimonianza le aggressioni continue subite dagli extracomunitari, l’insopportabilità crescente per gli immigrati,  la corruzione dilagante anche ai bassi livelli, il potere maschilista, ecc. Tutto il paese si può descrivere in questo modo? Non di certo, ma questa considerazione appare una giustificazione, ci consoliamo pensando alla solidarietà della chiesa e di molti cattolici, ci consoliamo pensando al volontariato (all’interno del quale sono stati denunziati violenze sessuali), e a tante altre cose buone, il tono principale del paese non è dato da queste cose accettabile e buone (non è un caso che il buonismo è diventato un’accusa denigratoria), ma di tutte le cose prima descritte.   La sinistra senza altra qualificazione non può vincere perché questo è il Paese ma anche  per i suoi ritardi, per le sue divisioni, per i suoi personalismi. In un paese che di mala grazie sopporta un Papa appena più consapevole delle cose del mondo e lo sente come un estremista comunista, in un paese che sostanzialmente considera un modesto presidente del consiglio come una figura emerita, solo perché non baldanzoso e cauto, una sinistra senza qualificazioni non ha possibilità di convogliare su di sé un consenso massiccio. Ci sarebbe bisogno, allo scopo,  di una nuova ondata di politicizzazione di massa, ma perché questo accada bisognerebbe che fosse di senso comune la natura del meccanismo economico vittorioso, la sua trasformazione, il fatto che degrada i lavoratori, che non dà speranza ai giovani e sfrutta le risorse lasciando per il futuro un piatto vuoto. Un sistema economico vincente nelle sue diverse forme e ormai globale. La sinistra in un solo paese (paragrafando ben altre situazioni, non si dà), come dimostrano i risultati elettorali americani ed europei più recenti.
Se questa fosse la situazione vale la pena di interrogarci se un’alleanza di centro-sinistra sia possibile e se questa possa essere vincente.  Andiamo per ordine.
Un’alleanza di centro sinistra non è un’alleanza per il comunismo e neanche per il socialismo, ma può essere un’alleanza progressista che si faccia carico della situazione delle persone in carne ed ossa e a queste offra soluzioni “mediate” ai propri bisogni, significa non una maggiore ma finalmente una politica di equità, che possa proibire l’accumulazione smodata di risorse finanziarie, che colpisca pesantemente i lasciti ereditari, che attivi una tassazione fortemente progressiva, che si impegni per la scuola e la formazione, che sviluppi economie di solidarietà, che punti all’innovazione tecnologica diffusa, un progetto per il mezzogiorno del paese, che cerchi di liberare i cittadini dall’invadenza di potentati nella loro vita personale, che metta in moto meccanismi in grado di evitare la formazione di caste immuni da ogni giudizio popolare e della legge, ecc. Insomma una civile società “giusta” fatta di uomini liberi e nella quale prevalga il diritto e non il potere.
Per questa alleanza un centro c’è già: è il PD (e così facciamo riposare l’on. Casini). Non sembri un’offesa; le dichiarazioni del suo leader e del suo gruppo dirigente definiscono una politica di centro e per alcuni versi anche populista: la dichiarazione per una riduzione della tassazione, per esempio, la politica del lavoro che solo di sponda può essere considerata favorevole all’occupazione, i benefici accordati agli esportatori all’estero di capitali, ecc. Certo un partito di centro fa anche cose buone, per esempio lo jus soli, l’attenzione alle periferie, il sostegno ai più disagiati, ecc.
Ammettiamo che la sinistra-sinistra riesca a quagliare una sua struttura, oltre esiste il gruppo di Pisapia, forse è recuperabile il gruppo di Montanari e Falcone (colpiti da individualismo estremo), tutta questa costellazione potrebbe stringere con il PD una alleanza di centro-sinistra. E se in grado di darsi la carica potrebbe anche sconfiggere sia Berlusconi, Salvini e la Meloni sia 5*. Ma quest’esito è improbabile, ma, anche  mi pare possibile ad alcune precise condizioni.
Un raggruppamento di questo tipo richiede discontinuità (tutti lo dicono)i. Detto papale papale: Matteo Renzi non raccoglie il consenso dell’alleanza. Diciamo ancora più brutalmente gli altri non si fidano di Renzi (compreso Pisapia che oggi chiede la presenza di un “garante”); il giovane segretario del PD non ha lesinato motivi di diffidenza: a cominciare con lo “stai sereno” rivolto a Enrico Letta poco prima di scaricarlo, ma a seguire, il pasticcio della riforma costituzionale con l’arrogante referendum, il rifiuto di considerare le molte osservazioni dei “compagni” sulle molte leggi a partire del jobs acta, le fiducia sulla legge elettorale, ecc. ecc. Credo che Renzi sia animato da una forte ambizione, questo non è male di per sé, ma se crede a quello che dice, cioè che lui lavora per il “paese”, deve prendere atto che questa assenza di fiducia gli consiglia un passo indietro (a favore del paese), una passo indietro vero, non una furbizia (tipo il capo del governo lo decidiamo insieme dopo le elezioni), anche se fosse convinto di essere il “migliore”. Non credo che dall’altra parte ci sia una brama di potere personale, nel raggruppamento più conistente non credo che Bersani aspiri al governo, le sue performance non sono state brillante, forse è stato un buon presidente di Regione, ma come ministro lasciamo perdere, né tanto meno D’Alema, l’aver messo la sua intelligenza al servizio di furberie lo rendono impresentabile.
Ora senza pensare a rinnovamenti giovanilistici, né a riferimenti alla “società civile”, penso che oggi chi può fare il miracolo di guidare un’alleanza di centro-sinistra sia Pietro Grasso. Credo che sulla base di un programma chiaro e ben definito, sia sugli indirizzi che sulle cose immediate da fare, un’alleanza che raccolga la sinistra-sinistra, le altre sparse membra e il centro, il tutto guidato da Pietro Grasso quale presidente del consiglio pre-indicato possa anche vincere. Possa, non è certo.
È quello in cui molti di noi speravano, sicuramente no, ma la scelta è brutale: questa possibilità possibile o piuttosto  una governo Berlusconi+i fascisti o un governo 5*? Ma c’è di più in assenza di un centro sinistra dal risultato molto consistente, l’esito elettorale  negherà la maggioranza a chiunque, e allora quali alleanze? Il pallottoliere da molte soluzioni. Evviva! siamo tornati al peggio della I Repubblica.      

  

giovedì 31 agosto 2017

Rossana Galdini, Terapie urbane.


Rossana Galdini, Terapie urbane. I nuovi spazi pubblici della città contemporanea (Rubettino, 2017, pp. 168, 14 euro).
da ASUR, 2013


Tra le questioni che riguardano la città contemporanea sicuramente si trovano quelle relative allo spazio pubblico; i termini più ricorrenti sono quelli della sua crisi, della necessita di un rifondazione del concetto, della riflessione sulla loro progettazione oggi, ecc. In tutte queste riflessioni è possibile evidenziare un punto mai completamente risolto: è la forma e struttura degli spazi pubblici che ne determinino l'uso o piuttosto è il tipo di organizzazione sociale e di organizzazione della vita quotidiana che determina l'uso che degli spazi pubblici si fa. Che sia in una falsa alternativa  è evidente, ma tale reciproca relazione mette in evidenza come non sia possibile trattare la questione degli spazi pubblici nell'ambito delle idee astratte di organizzazione della città o l’occasione per applicare modelli più o meno realistici.
La piazza è sempre là, uguale a se stessa, ma nel tempo l'uso che ne è stato fatto si è notevolmente modificato ed è stato strettamente collegato ai bisogni che quella collettività esprimeva in una determinata stagione storica; una funzione sembrava decadere ma poi la stessa in forma diversa si ripresentava. L'appropriazione politica di quello spazio pubblico sembrava scomparsa con il mutare della comunicazione politica, ma all'improvviso essa accoglie migliaia di uomini e donne, di ragazzi e vecchi che sentivano l’improvviso  bisogno di esprimere con la presenza del corpo la loro domanda politica, il loro disaggio, la loro voglia di cambiamento. La piazza, spazio pubblico emblematico, mostra tutta la sua disponibilità alla flessibilità. Si tratta di tema importante sui si tornerà anche perché costituisce uno dei tratti principali del lavoro di Rossana Galdini.
È proprio la ricchezza dei punti di vista, l'articolazione dei ragionamenti e dei riferimenti che rende interessante questo testo. L’autrice ci pone di fronte alla coniugata differenza tra “spazio pubblico” e “spazi pubblici”, essendo questi ultimi la materiale organizzazione dei primi, o ancora la distinzione tra luoghi e spazi. Con riferimenti ricchi e appartenenti a campi disciplinari diversi, l'autrice conduce in un percorso di definizioni, di ipotesi progettuali e di osservazioni che rendono chiaro quanto sia centrale nel discorso sulla città la questione degli spazi pubblici, tanto che è possibile affermare che senza “spazi pubblici” non vi è città. Non si tratta solo di una modalità di organizzare le relazioni spaziali, ma anche quello di dare corpo alla socialità, costruire le possibilità materiale perché la colloquialità urbana possa esprimersi, espandersi, dare senso alla città.
Osserva l'autrice che: “ non sempre esiste una diretta conseguenza tra la presenza di uno spazio materiale è la creazione di uno spazio relazionale. Molte volte lo spazio formale e il suo progetto facilitano la realizzazione di spazi relazionali aperti, dell'incontro, del dialogo, altre volte sono percorsi immateriali, relazioni interpersonali che creano spazi pubblici informali”. Un'osservazione questa che apre a molte questioni, che vanno dalla progettazione, alla previsione di bisogni presenti e futuri, alle modalità attraverso le quali far partecipare le persone alla costruzione degli spazi pubblici (collettivi), al ruolo della tecnologi nella ridefinizione degli spazi pubblici, alla loro privatizzazione, alla perdita di ruolo della sfera pubblica nella vita quotidiana e quindi al deperire dello spazio e degli spazi pubblici e all’emergere, fino a quando non saranno investiti da una crisi di ruolo, di spazi privati ad uso pubblico.  Tutte questioni importanti ma spesso contraddittorie, che vengono nel testo esplorati mettendo il luce punti di vista diversi, collegando la dinamica della “questione” all'evoluzione della società, degli stili di vita prevalenti.
Si tratta di una trattazione quanto mai ricca e documentata, un testo con una forte componente didattica, l’assenza di banalizzazione e la ricchezza dei riferimenti hanno lo scopo di sollecitare la riflessione, anche per l’attenzione posta agli strumenti adottati più recentemente nel tentativo di reinventare gli spazi pubblici adatti alla nostra epoca..   
“Accanto all'opinione diffusa del declino dello spazio pubblico, si è diffusa, parallelamente, anche l'ipotesi di una sua reinvenzione, supportata da motivazioni differenti come l'ispirazione all'idea di estetizzazione della scena urbana, alla tematizzazione degli spazi, alla trasformazione recente di molte città in set turistici, o, al diffuso bisogno di creare e ricreare spazi di interazione e luoghi di socialità”. L'autrice mette in campo tutto il suo interesse e la sua capacità esplorativa, soprattutto, sulle nuove metodiche di intervento; così esplora l’Everyday Urbanism, il Tactical Urbanism, il Temporary Urbanism, l’Ago puntura urbana, il Do it Yourself Urbanism.
A me pare, ma si tratta di un punto di vista molto soggettivo, che queste metodiche possono finire per  mettere in discussione  senso e significato di spazio pubblico. Si tratta di  metodiche che in misura più o meno grande comportano il coinvolgimento della popolazione nella progettazione o anche realizzazione e gestione degli spazi pubblici. La partecipazione dei cittadini costituisce, insieme, una necessità, un’opportunità e di una ragionevole attenzione ad alcune modifiche della società. Ma si tratta anche di una questione problematica. Il mio atteggiamento non è contro la partecipazione ma questa non può essere nominata e proclamata senza senso critico, come spesso avviene in tanti “innamorati”.
Intanto la partecipazione dovrebbe rendere espliciti i bisogni della popolazione, le necessità che complessivamente o in gruppi, più o meno grandi esprimono. Tuttavia se la crisi degli spazi pubblici fosse  interpretata come l'esito della frantumazione sociale, la società liquida, per fare riferimento ad una interpretazione che gode molti consensi, allora  ogni aggregazione di popolazione finalizzata alla definizione  di un bisogno comune non potrebbe che essere considerata temporanea, caduca, e non tale da essere assunta come riferimento per la costruzione di spazi pubblici che rispondano a bisogni espressi. È la caducità di tali bisogni, non esito di un aggregato sociale stabile, a rendere inagibile tale domanda come programmatica.
Se da una parte sembra difficile che la frammentazione della società possa essere assunta come riferimento, con tutte le conseguenza che si riverberano sul problema degli spazi pubblici, dall'altra parte la società esprime disagi che una buona organizzazione degli spazi pubblici potrebbe attenuare, e ancora esprime, anche se in modo contraddittorio, esigenze di socializzazione che spesso esplodono contro ogni previsione. La società pur nella sua frammentazione, nel prevalere di un individualismo distruttivo di ogni senso di appartenenza, continua ad esprimere bisogni di collettività. È proprio l'espressione individuale di questi bisogni che non appaiono stabili e si esprimono in forma individualistica che spesso non può permettere processi di aggregazione.
La risposta consapevole a questo stato di cose è l'individuazione dello “ spazio flessibile”  come opportuno è necessario. Gli spazi pubblici flessibili costituiscono la frontiera più avanzata della progettazione della città; spazi che si prestano ad essere adattati secondo bisogni e necessità espresse. Questa enfasi sulla flessibilità lascia intendere che gli spazi pubblici della tradizione urbana, usiamo questo termine generico, fossero caratterizzati da rigidità. Ma è proprio così?  Non credo. La piazza, assumiamo questo spazio emblematico, è stata ed è ancora, mercato, luogo di manifestazioni politiche, campo di gioco e spazio sportivo, vi si fanno anche corsi di cavalli e partite di calcio, palcoscenico per manifestazioni artistiche e culturali, luogo di socializzazione, parcheggio di auto, luogo adatto per i venditori ambulanti,  spazio per manifestazioni religiose o di preghiera. E chi sa quanto altro ancora. Non sono così stupido da pensare che tutte le piazze siano uguali e così flessibili, ma voglio sottolineare che in generale gli spazi pubblici sono per loro natura flessibili, ed entro ceri limiti possono essere utilizzati a scopi diversi. Non nego che esistano spazi specializzati e non flessibili, penso alle corsie preferenziali per le tranvie, per esempio, o ancora agli spazi specializzati per specifici sport, tutto vero, ma in generale gli spazi pubblici si presentano in larga parte già predisposti ad usi diversi. Da questo punto di vista l'invenzione della gente, dei giovani è molto superiore a quanto previsto da progettisti e amministratori. Non sono gli spazi ad essere rigidi, ma molto spesso è l’amministrazione e la politica che mette ostacoli alla flessibilità. Quale è stato il contributo della street art nel modificare il senso di alcuni spazi? Si pensi a cosa potranno presto diventare le  gradi rotatorie di cui oggi è disseminato il paese come preso da un  virus?
Non sto dicendo che tutti gli spazi pubblici si presentano con un alto tasso di flessibilità,  credo che molta attenzione a questo aspetto vada posto nella progettazione di nuovi spazi pubblici (da questo punto di vista, tuttavia,  mi spaventa l'idea progettuale  che dovrà programmaticamente  essere fissata sulla flessibilità).  Non è lo spazio che sarà flessibile ma l'uso che le persone ne faranno.
Quello che in realtà si sta perdendo, ed è positivo, è l'idea prevalente di spazi pubblici monofunzionali, anche se di alcuni di questi ci sarà ancora bisogno. La città sempre più si apre ad esperienze diverse, a culture estranee, a bisogni modificati e in continua  evoluzione, gli spazi pubblici che della città costituiscono l'ossatura portante, dovranno adattarsi a questa situazione ma a partire dalla loro reale natura: substrato da cui è possibile esercitare il diritto alla città, elementi che danno senso alla condizione urbana, luogo dove si esercita una possibilità di espressione sociale e individuale. Saranno necessari aggiustamenti ma non mi pare che la strada giusta sia quella di inseguire una frammentata domanda è l'esercizio di un individualismo rivendicato come diritto.  Nella partecipazione frammentata, nella volontà del piccolo gruppo di realizzare un proprio punto di vista, va colto il dato di arbitrarietà e di egotismo.
Il testo di Rossana Galdini di questo e di altro ancora si occupa. Che ci vogliano dei “nuovi spazi pubblici” come recita il sottotitolo del libro è necessario, che nuovi esperimenti andranno fatti è pur vero, ma assumiamo che la città è in continuo cambiamento e che questo non sarà tanto l'esito di un progetto audace, ma la creazione delle possibilità che il nuovo possa realizzarsi e che i vincoli che imponiamo, o che abbiamo la pretesa di imporre, non riescano a trascinare nell’ignavia la capacità creativa della popolazione e che questa dovrà misurarsi con le contraddizioni nel suo seno.
Un testo da studiare per i suoi molti filoni seguiti, non già una ipotesi preconfezionata ma una vera ricerca tra le molte ragioni, i molti esperimenti, tenendo  ferma la relazione tra città e spazi pubblici.
Francesco Indovina



mercoledì 2 agosto 2017

L’abusivismo cresce e i condoni pure. Viva il locale



Diario n. 348
1 agosto 2017-08-01

Circa il 18% delle costruzioni realizzate nel 2015 risultano abusive. Il dato è in continua crescita. Il 20% dei fabbricati costruiti non rispetta le norma urbanistiche. Le regioni campioni dell’abusivismo sono: Sicilia, Campania, Calabria, Molise, con percentuali di abusi intorno al 50%.
Si tratta di un esito congiunto di disattenzione e inettitudine delle autorità, dei connubi tra certe amministrazioni e la speculazione edilizia con annessa corruzione e dalla prevaricazione della criminalità organizzata.  
Questo tuttavia è niente in confronto a quello che ci prepara il futuro, infatti, accanto al sostanziale blocco dei condoni a livello nazionale, si sta sempre più sviluppando una politica di condoni selvaggi regionali e locali, all’insegna della riduzione del consumo di suolo.
Se da una parte è ovvio che il suolo va risparmiato, lo slogan consumo di suolo zero, che presuppone o meglio che lascia intendere la salvaguardia dell’agricoltura e ovviamente dell’ambiente, a me pare priva di senso, rispetto alle dinamiche urbane e alle trasformazioni delle città e alle dinamiche della stessa agricoltura.  Certo i vuoti vanno riutilizzati, lo si sostiene dagli anni ’70, i terreni interstiziale devono essere recuperati, ma l’affermazione (disegno di legge approvata dalla Camera) sul consumo di suolo avrebbe bisogno di maggiore riflessione, maggiori analisi, qualche fondamento teorico, ecc. Il guaio è che si è trasformato in uno slogan che mostra oggi tutta la sua pericolosità.
Per risparmiare suolo alcune regioni condonano le mansarde trasformate e finanche le cantine. Ove queste ultime  fossero incompatibili con gli standard di abitabilità si “suggerisce” di scavare e/o togliere soffitti per guadagnare i necessari centimetri di altezza. Questo avviene, per esempio, in Abruzzo, terra sismica, dove i terremoti spesso disastrosi e cruenti niente hanno insegnato alle autorità.
In Lombardia e Lazio i sottotetti possono essere condonati se trasformati in abitazioni.
La Campania, Regione gestita dal “compagno” Vincenzo de Luca, ha in corso di gestazione una legge che di fatto evita ogni demolizione di edifici abusivi (immagino perché così si risparmia suolo).  
Chiudiamo con la Sardegna (governata dal centro sinistra) dove la nuova legge urbanistica in approvazione dal Consiglio regionale di fatto riduce drasticamente i vincoli posti dal piano paesaggistico circa l’inedificabilità  di una fascia di territorio inferiore a 300 metri dalla costa.  
Questa vicenda, e altre ancora, fanno giustizia del luogo comune (comune anche alla sinistra) secondo il quale il miglior governo è quello più fisicamente vicino ai governati: il “locale” come luogo della mobilizzazione popolare e per il raggiungimento dei migliori obiettivi. Il locale sembra quanto mai permeabile ad interessi locali non sempre legittimi e spesso contrari ad ogni criterio di buon governo. Ma la vicenda chiama in causa direttamente Gentiloni e De Rio che hanno la possibilità e il potere di impugnare questi provvedimenti perché contrari all’indirizzo nazionale. Lo faranno? c’è da dubitare.

Non convince che per risparmiare suolo bisogna incrementare l’abusivismo edilizio e condonare ogni abuso ed ogni costruzione irregolare. 

domenica 16 luglio 2017

Guarire dalla violenza fascista

Diario n. 347
16 luglio 2017

Alcuni anni fa mi aveva impressionato lo stupro che due ragazzi, facenti parte di un’associazione di volontariato (che si occupava di malati o forse di anziani), avevano esercitato su una loro collega (amica?) facente parte della stessa associazione. A quel tempo un pensiero ingenuo mi aveva colto: come mai dei ragazzi dediti all’aiuto di altri fossero stati presi dall’impeto violento di non rispettare una donna loro compagna? Il cinismo violento del maschio sembra che non trovi ostacoli né ideologici né di pratica di vita.
Questo episodio mi è tornato alla mente leggendo del più grave fatto avvenuto a Parma.
In quella città la notte del 12 settembre 2010 si festeggiava la ricorrenza di una vittoria antifascista (1922) che aveva contrastato l’intenzione degli squadristi di Italo Balbo di espugnare un quartiere rosso della città. Ebbene in quella ricorrenza e festa antifascista, nei locali della RAF (rete antifascista) tre compagni (?) stuprano per una intera notte una compagna lasciandola su un tavolo del circolo. I tempi sono cambiati i tre si divertono anche a filmare la scena. La ragazza per pudore non dice nulla, i compagni del circolo coprono con l’omertà pelosa gli autori della violenza.
Anni dopo un’indagine della polizia, per altri fatti, scopre in un vecchio telefonino il filmato (i tre sono arrestati e ora condannati). Si potrebbe dire una normale storia di violenza contro le donne. Ma non è così, c’è dell’altro.
I compagni della RAF emarginano la ragazza perché alla fine collabora con gli “sbirri” (alla violenza  si aggiunge il linguaggio mafioso).
Avrei capito, ma non condiviso,  se il gruppo RAF, immagine di una società futura, forte di una propria ideologia di libertà e di antagonismo allo stato, avesse processato i tre, magari condannandoli  all’evirazione chirurgica o chimica, o li avesse, almeno,  espulsi dal “collettivo”. Niente di tutto questo solo la difesa omertosa dei membri maschi.
Se neanche l’antifascismo militante riesce a liberarci della cinica e ignobile violenza fascista quale speranza? non ci sono scuse né politiche, né psicologiche, ma solo bassa connivenza.

Un altro pensiero ingenuo: il piccolo gruppo non solo politico ma anche costruito su una identità sociale o culturale o ideale, come adesso è la “moda” politica, è il luogo più adatto per liberarci individualmente e collettivamente? io penso di no, solo l’apertura ampia, il nuotare nei contrasti e scontri collettivi può essere la nostra scuola di civilizzazione.         

sabato 24 giugno 2017

Ivan Blečić e Arnaldo Cecchini - Verso una pianificazione antifragile.

(da Archivio di studi urbani e regionali; La città bene comune, Casa della cultura Milano, 2017)
Il saggio di Ivan Blečić e Arnaldo Cecchini - Verso una pianificazione antifragile. Come pensare al futuro senza prevederlo (FrancoAngeli, 2016) - si raccomanda per più di un motivo: è intelligente, puzza di originalità, non è accomodante e stimola punti di vista imprevisti. Non è la solita lamentazione intorno alle difficoltà della pianificazione, né se ne prospetta l'abbandono - già questo sarebbe un motivo di grande apprezzamento - ma si propone di costruire un punto di vista nuovo sulla natura della città e le sue dinamiche.
In apertura gli autori denunziano tre limiti del loro lavoro: aver posto attenzione alle città occidentali, non aver considerato il ruolo del conflitto sociale e aver fatto riferimento più alle "azioni di governo delle trasformazioni urbane" che alla strumentazione e alla tecnica di piano. A me pare che l'ultima piuttosto che un limite sia un giusto atteggiamento che fa i conti con la realtà della pianificazione: non applicazione di modelli astratti ma, piuttosto, "governo delle trasformazioni urbane". Della prima non merita parlare: le situazioni urbane mondiali tendono a una diversificazione di cui non sembra potersi intuire la logica, mentre più omogenee appaiono le città occidentali. Invece, il non aver considerato il ruolo del conflitto sociale e la dinamica degli interessi contrastanti nelle trasformazioni urbane, può effettivamente essere considerato un limite. "Conflitti" (in tutte le forme ed espressioni) e dinamica urbana appaiono legati da strettissime relazioni. Si potrebbe azzardare che vivono in simbiosi: le dinamiche urbane sono figlie dei conflitti e questi ultimi nascono nell'alveo delle dinamiche urbane. A me pare che i due autori, anche se non esplicitamente, proprio nella formulazione della loro tesi in realtà abbiano fatto riferimento ai conflitti. Seppur in una visione individualista - quando, per esempio, affermano con decisione che "la gente fa di testa propria" - essi di fatto si riferiscono a quei conflitti che in varia forma e con diversi esiti generano dinamiche urbane.
Blečić e Cecchini si muovono lungo la corrente che individua come scopo del progetto l'adattamento "della forma alla funzione", un progetto possibile solo se c'è "un soggetto che consapevolmente si pone e persegue degli obiettivi". Ma, la relazione tra adattamento della forma alla funzione e la necessità di una soggettività che si ponga degli obiettivi applicata ai sistemi sociali non è priva di significative implicazioni. Tra queste c'è l'imprevedibilità degli esiti dovuta alla natura dei sistemi sociali, all'azione e all'intenzione dei soggetti sociali. È a partire da queste considerazioni che i due autori formulano un lungo elenco di idola (il riferimento è a Francesco Bacone) che tanta parte hanno nella "scarsa efficacia" della pianificazione e gestione del territorio. Nonostante quello che appare, o meglio che si crede, la pianificazione non ha rappresentato un corpo stabile e immobile di regole, principi e strumenti. Da sempre la sua scarsa efficacia - per dirla con i nostri autori - ha spinto a continui aggiustamenti, a considerare nuove ipotesi, nuove interpretazioni. Qualcuna di queste ne ha messo perfino in discussione la necessità e l'utilità al punto da determinare, molto più spesso di quanto non si creda, una struttura di pensiero poco utile, degli idola in parte identificati e descritti dai nostri autori. Non vorrei soffermarmi su ciascuno di questi (sono 12) ma elencarli sì, perché da un lato sono espressione dell'attenzione e dell'acume degli autori, dall'altro perché la semplice loro elencazione dovrebbe o potrebbe fare arrossire qualche pianificatore per la sua affezione ad alcuni di questi (va detto, non parlo di errori, ma di convinzioni e diffuse credenze che questi comportino risultati negativi). L'elenco comprende: Il dogma della continuità; La fallacia dell'estrapolazione; L'assunto della retroattività dei principi morali; La pretesa dell'universalità - spaziale e temporale - dei comportamenti; L'oblio degli effetti contro-intuitivi; La sindrome del defroqué; L'ipotesi dell'agire razionale; La querelle riduzionismo vs olismo; La querelle bottom-up vs top-down; La querelle quantitativo vs qualitativo; Il "buon dottore"; Le intelligenze sono multiple e non trasferibili; Misurare non è valutare, valutare non è decidere; Troppo tardi per smettere (una delle ragioni dei disastri della pianificazione). Per ognuno di questi idola, gli autori forniscono anche una ricetta per la loro cura "attraverso la concezione del progetto come processo che si svolge a molti livelli e coinvolge molti attori, e non come il prodotto di una mente razionale che disegna in modo fermo e razionale la strada del futuro".
Le ricette - com'è noto - sono sempre impastate con l'idola della semplificazione. Non sfuggono a questa regola neanche quelle degli autori che, pur nella loro linearità argomentativa, tralasciano molte questioni, la principale delle quali - mi pare - sia un sostanziale sorvolare sulla questione del potere o dei poteri. Tralascio tuttavia questo argomento, per arrivare al nocciolo del saggio che mi pare molto interessante. Gli autori ci guidano verso una distinzione che nel loro ragionamento appare centrale: gli oggetti, sistemi, organismi, ecc. possono essere distinti in fragili, robusti e antifragili. Sono fragili quelli che subiscono negativamente gli effetti delle modifiche dell'ambiente; una tazza di vetro se cade a terra si rompe, non sappiamo quando, ma nel lungo periodo è molto probabile che ciò avvenga. Mentre robusto è un oggetto che non viene sostanzialmente modificato da eventi che avvengono nell'ambiente. Così, mentre "cadere" per un bicchiere genera una catastrofe, cioè la rottura dell'oggetto, se cade un'incudine, questa non si modifica ma resta intatta. Tuttavia, robusto non è il contrario di fragile, come non lo sono durevole, resistente, resiliente, ecc. "L'opposto di essere fragile - scrivono gli autori - sarebbe qualcosa che eventi, perturbazioni, fattori di stress, volatilità, disordine - dunque il tempo - in generale non nocciono e però nemmeno lasciano com'è. Sarebbe piuttosto qualche cosa che può, perlomeno in alcune circostanze, guadagnare, migliorare, ossia prosperare nel disordine". La parola adatta, allora, secondo gli Blečić e Cecchini è: antifragile.
Gli autori identificano la città come un sistema antifragile, nel senso che nel disordine essa può perfino migliorare. Possono cioè presentarsi dei "cigni neri" - espressione che Blečić e Cecchini riprendono dal saggio di Nassim Nicholas Taleb -, ovvero eventi con scarsa probabilità di avvenire ma, nel caso, con notevoli conseguenze. Mi pare, però, che la città si presenti come antifragile non solo per l'esistenza dei "cigni neri" - che in generale non è possibile né prevedere, né controllare - ma per le dinamiche delle sue stesse variabili. Mi viene comodo, per provare a spiegarmi, far riferimento a quanto sottolineato in precedenza circa la relazione simbiotica esistente tra conflitto e città: il primo crea disordine, mette cioè in discussione l'ordine esistente e la città è costretta a migliorare, ma tale miglioramento determina nuovo conflitto. La nozione di antifragilità attribuita alla città pare dunque convincente, anche se appare utile un'altra precisazione. La Città, cioè la specie città, l'idea di città, può effettivamente essere considerata antifragile, mentre le singole città possono essere fragili: non migliorare nel disordine ma perire. I motivi possono essere esogeni ed endogeni: l'incapacità (soprattutto nella prima fase della storia della città e nell'epoca attuale) di fare i conti con la disponibilità di risorse; distruzioni belliche (che possono tuttavia trasformarsi in occasioni di miglioramento); cataclismi naturali; epidemie, "piaghe"; ecc.
Ma qui sorge un altro problema: la fragilità e la robustezza sono caratteristiche che distinguono oggetti o sistemi, ma lo è anche l'antifragilità? In altri termini, mentre le prime due sono caratteristiche degli oggetti o dei sistemi, l'antifragilità appare piuttosto come una possibile "condizione". Una città sarà cioè antifragile se "curata" con intelligenza e amore, mentre in assenza di questa attitudine di governo una città può risultare fragile. Non è casuale se alla nozione di antifragilità sia connessa la possibilità di miglioramento. Una possibilità, non una certezza, perché devono essere presenti le condizioni affinché quella potenzialità diventi effettiva. Sollevare questo problema non ha il significato di mettere in discussione il contributo, anche di metodo, di questo testo. Piuttosto quello di far notare come nell'antifragilità sia contenuta un'azione consapevole per realizzarne le potenzialità. In modo diretto e indiretto i due autori hanno messo in luce questo aspetto e non è casuale che la seconda parte del testo sia dedicata alla pianificazione antifragile.
L'aver impostato il testo sull'antifragilità della città, mette in chiaro come la dinamica urbana sia collegata al disordine, un disordine che eventualmente migliora. Il governo della città, quindi, dovrebbe ritenere preziosi gli elementi di disordine (il passare del tempo, ma non solo) e intervenire con mano intelligente e amorosa per non distruggere gli elementi dinamici e migliorativi della città e, nello stesso tempo, tentare di creare le condizioni per uno sviluppo creativo della popolazione. Secondo gli autori, infatti, i connotati di una pianificazione antifragile sono: evitare di fare quel che è nocivo; cercare di costruire una visione condivisa e garantire una certa azione autonoma delle forze sociali. In quest'ultimo ambito pongono però dei paletti, dei punti fermi e fanno sfoggio di buon senso "pianificatorio", avendo sempre presente la realtà che è spesso contraddittoria e che "in ultima istanza - secondo gli autori - suggerisce di intervenire solo quando e dove è necessario, con massima economia e sfruttando il più possibile tendenze 'naturali', facendo il più possibile scelte aperte e reversibili. Ciò d'altro canto non vuol dire abbandonare l'idea delle regole. Al contrario. Ma occorrono regole e vincoli che siano generali, sovraordinati e sottratti alle contingenze e convenienze di breve periodo".
La pianificazione antifragile trova nei cittadini non solo quanti dovranno sopportare le scelte di pianificazione, ma i soggetti attivi nella determinazione degli obiettivi. Si tratta, dunque, di mettere in campo nuovi strumenti in grado di coinvolgere i cittadini, con particolare attenzione a quelli più svantaggiati. Quello degli "scenari" potrebbe essere lo strumento adatto per costruire un punto di vista condiviso, mettendo in luce quelli desiderabili e quelli da evitare. L'approccio teorico che i due autori propongono per definire meglio la loro ipotesi programmatoria è quello della capability approach, ovvero delle capacità urbane. Di ogni comunità "si tratta [cioè] di stabilire, e possibilmente di isolare, come e sino a che punto le loro capacità complessive - che ovviamente dipendono da molti altri fattori a-spaziali e non legati al loro ambiente fisico - sono determinate da fattori eminentemente urbani, legati al funzionamento della città e dell'ambiente urbano". L'esempio dei parchi a cui ricorrono gli autori - uno dei tanti che si potrebbero fare - chiarisce bene questa problematica: non si tratta soltanto di determinare la quantità di verde necessaria per la specifica città ma, piuttosto, di individuare le opportunità e gli ostacoli che permettono o frenano le persone a "ricrearsi in luoghi naturalistici". In altri termini - se mi posso produrre in una traduzione - il problema sta nel negare operatività ad approcci che privilegino "quantità", secondo parametri quanto articolati si voglia ma comunque astratti e non misurati nella specifica condizione urbana, e affermare invece la necessità di realizzare funzionamenti urbani adatti agli individui più svantaggiati. Questo perché se fossero positivi per gli individui più svantaggiati a maggior ragione lo sarebbero per gli altri dotati di maggior capacità urbana. Questo approccio è certamente condivisibile anche se non privo di difficoltà applicative. Altre volte ho affermato che il compito della pianificazione e dell'organizzazione della città è quello di mitigare le condizioni più svantaggiate, non essendo nella natura del piano modificarne l'origine. Non si fa fatica a riconoscere nell'approccio di Blečić e Cecchini un atteggiamento più universalistico, che è facilitato dall'avere espunto dal loro lavoro la matrice dello svantaggio sociale, risolta - semplifico - nella capacità urbana.
Per concludere, il testo mi sembra molto interessante per i problemi che direttamente o indirettamente pone ai pianificatori e a chi ha responsabilità di governo della città. Tuttavia, che siano state messe a punto soluzioni complete ai problemi sollevati, non si può dire. Del resto, in chiusura del libro, i due autori ci invitano a un "arrivederci" per il lavoro che resta da fare. In altre parole, le novità introdotte nella riflessione di Blečić e Cecchini sono molte, ma non mi pare che siano tutte convincenti. Qui ho cercato di mettere in luce alcune obiezioni, la necessità di approfondimenti, ecc. anche per evitare che l'elaborazione dei due autori diventi non un modello di approccio teorico ma uno strumento standardizzato (cosa che gli stessi autori - credo - non vorrebbero). È importante, infatti, ricordare che dentro un dato sistema socio-economico le logiche che regolano il funzionamento delle città sono abbastanza omogenee. Si potrebbe forse dire che si tratta di un' "unica logica", con poche variazioni, mentre la concreta realizzazione della singola città, pur rispondendo alla stessa logica, si presenta diversa da ogni altra (in ragione del sito, della storia, dello sviluppo economico, delle tipologie di produzione, ecc.). Si ha invece l'impressione che nel testo questa "logica" venga se non cancellata almeno messa tra parentesi: la città viene cioè "osservata" nella sua antropologica realtà, ma non viene affrontato il tema dei meccanismi generativi, degli interessi contrastanti, dei conflitti e, spesso, dell'indisponibilità individuale. Per fare un solo esempio, l'uso del termine "attore" sembra rimandare alla deprivazione dei singoli individui di ogni propria componente sociale, cosa che nella realtà non è. Dunque, personalmente ho trovato la lettura del testo molto interessante. Soprattutto, ho apprezzato la capacità di prospettare una modalità di osservazione non usuale e che provoca nuovi pensieri. E un testo, si sa, vale proprio per i pensieri che è capace di generare. Come, in concreto, si possa poi organizzare una pianificazione antifragile resta un problema aperto che ha la necessità di ulteriori approfondimenti, ricerche e sperimentazioni. L'importante è non fermarsi, non guardarsi allo specchio: il lavoro fatto è significativo e interessante, quello da fare è ancora tanto.

Francesco Indovina



martedì 6 giugno 2017

I conti sbagliati

Diario n. 346
6 giugno 207



Tutti i commentatori, e non solo, sono convinti che si andrà a votare a settembre (mese della maggior parte dei disastri); lo vogliono i partiti dell’accordo elettorale, lo vuole Matteo Renzi, nonostante tutte le affermazioni precedenti.
Tutti si domandano perché? ad eccezione del “buon” Gentiloni, agnello sacrificale. C’è solo una ragione: la legge elettorale.
Il meccanismo che le due Camere del parlamento si apprestano a votare in gran fetta, come è noto, prevede uno sbarramento al 5%, che il vorrebbe dire lasciare fuori dal parlamento (dati dell’intenzione di voto di maggio) i rappresentati di almeno il 13% degli elettori che hanno dimostrato di avere intenzione di votare (a questa percentuale andrà aggiunta la quota degli astenuti e di quanti votano scheda bianca o nulla). Insomma ci si avvicina al 50% degli aventi diritti. Si può esultare: abbiamo raggiunto una democrazia matura.
Tutto pacifico? Ma neanche per sogno! Da qui la voglia e il desiderio di andare subito al voto. Se fosse tutto pacifico non sarebbe necessaria nessuna accelerazione, ma siccome nell’area di quanti sarebbero privati di  rappresentanza c’è movimento (i cespugli, come dispregiativamente sono chiamati i partiti che non raggiungono il5%), siccome esiste una massa di non rappresentati che cerca rappresentanza, il calcolo sbagliato è allora quello di anticipare al massimo il voto, per evitare che i movimenti in atto si consolidano. Ma qui sta l’errore: l’acceleratore potrebbe essere un potente coagulante.
Per esempio potrebbe mettere le ali ai piedi dell’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia (che potrebbe ottenere un’ulteriore spinta dalla eventuale vittoria dei laburisti in Gran Bretagna). È noto che l’impresa di Pisapia è ardua e densa di ostacoli: programmatici, differenze di prospettive, idiosincrasie personali, ecc. Ma ridurre i tempi potrebbe facilitare l’impresa. In questo caso non solo raggiungere il 5% sarebbe molto, ma molto facile, ma questa lista punirebbe il PD, soprattutto, e in parte 5*.
A anche a destra le cose si muovono; Alfano è in affanno, sicuro, ma anche lui è alla ricerca di soluzioni: il movimento di Parisi? la discesa in campo di Ciriaco de Mita? Gli stessi deputati e senatori verdiniani, ormai senza capo? Non so, ma certo anche in questo caso l’accelerazione potrebbe essere un buon viatico, con il risultato di colpire Forza Italia e 5*.
La fretta, come diceva mia nonna, fa i gattini ciechi. Per questo i conti dei partiti dell’accordo elettorale mi sembrano sbagliati.
Tutto questo, nell’uno e nell’altro caso, sembra avere poco a che fare con i destini (parola roboante) del nostro paese.

  

domenica 28 maggio 2017

Movimenti e istituzione

Diario n. 345


Durante questo mese di maggio ho avuto molte occasioni di discutere in pubblico del rapporto movimenti e istituzioni (e connessi), lo spunto era sempre il libro di Oriol Nel.lo Città in movimento (ora apparso in traduzione italiana presso Edicampo editore, Roma). Le discussioni pubbliche sono sempre molto stimolanti, interventi diversi suggeriscono pensieri diversi, punti di ista particolari possono mettere in crisi i tuoi, ma sono anche insoddisfacenti, non c’è mai abbastanza tempo per approfondire determinate questione e aspetti. E’ questo il motivo che mi spinge a dedicare questo diario alla questione.
L’esperienza spagnola, ovviamente, è stata sempre al centro o come sottofondo alla discussione. Se essa spinge all’ottimismo, non è priva di problemi. Ma di questa non vorrei parlare solo ricordare che negli ultimi due anni le maggiore città spagnole (da Madrid a Barcellona, Valenza, ecc.) sono governate da sindaci che sono stati impegnati nei movimenti che si sono sviluppati negli ultimi anni in Spagna (gli Indignati). Movimenti che non sono riusciti a modificare la natura delle maggioranze di governo sia nazionali che regionali, ma che hanno conquistato le maggiori città Questo è un problema. Ma lasciando da parte la Spagna e in particolare la Catalogna dove incombe un possibile referendum sull'indipendenza, vediamo qualche tematica generale.
Intanto la definizione di “movimenti sociali urbani” copre tipologie di iniziative molto diverse, molti di questi originano da una posizione politico-ideologica, mentre altri costituiscono la reazione allo stato delle cose su singoli aspetti. Questa non vuole e non deve essere considerata una distinzione di “valore”: partire dalla realtà o da una visione della società costituiscono da sempre due modalità di iniziativa (il passaggio dal sé al per sé è una delle fondamentali dinamiche politiche). Detto questo tuttavia non si può disconoscere che sul piano politico generale le “motivazioni” espresse o implicite non sono prive di conseguenze. Un punto di vista politico-ideologico (politico-ideologico generale non partitico) costituisce una buona premessa per l’unificazione di questi movimenti. Cioè possono presupporre una dinamica che porti a porsi la questione del potere (istituzionale e no) all'interno della società.
Movimenti contro gli sfratti, per la casa, per una scuola migliore, per il lavoro, per l’ambiente, ecc.; o movimenti di costruzione diretta di spazi di socializzazione, attività di costruzione di spazi verdi, di sistemazione di zone, la costruzione di orti urbani, la nascita delle banche del tempo, la costruzione di spazi culturali, ecc.; movimenti contro la costruzione di opere pubbliche, contro processi di gentrification, ecc., sono tutti importanti ma appartengono a famiglie diverse e talvolta possono essere tra di loro incoerenti. Ma tuttavia tutti dimostrano una volontà attiva e una sorta di assunzione di responsabilità.
La possibilità di “successo” di ciascun di questi diversi movimenti e rivendicazioni è legata alla loro unificazione (sostanziale ma anche formale) in un grande movimento generale, senza di questo alcuni vincono, molti perdono, alcuni sembrano vincere ma in realtà perdono… Ma per questa unificazione sono indispensabili i “corpi intermedi” che oggi non sono latitanti ma sembrano scomparsi. Qualcuno mi ha fatto osservare che la pratica del movimento, il conflitto, la presa nelle proprie mani di obiettivi, la pratica della democrazia diretta sono comunque importanti e sedimentano consapevolezza e coscienza politica. Tutto vero, ma è necessario guardare alla nostra esperienza: negli anni ’70 in Italia (e non solo) vivacissimi erano le esperienze di conflitto sociale urbano, e quelle che hanno avuto modo di connettersi in “corpi intermedi” (anche in nuove loro espressioni, penso per esempio all'Unione inquilini), hanno raggiunto degli obiettivi, ma quello che qui interessa è riflettere come quell'esperienza di ampio raggio ha sedimentato poco se fosse vero che la stagione politica successiva non potrebbe essere annoverata tra la più progressista e democratica.
Non vale nascondersi dietro il dito: i movimenti in Italia non hanno trovato un interlocutore ed anche le formazioni di sinistra (a quel tempo si dicevano extraparlamentari) sono state capaci di divisione e non di unificazione, disperdendo esperienze, impegno, e volontà.
Quello che sta succedendo in Spagna in questi anni è diverso (almeno mi pare): prima, durante e dopo il movimento degli “indignatos” esistevano e si sviluppavano movimenti sociali urbani, ma gli indignatos ponevano la necessità di un cambiamento sociale, sia gli indignatos sia i movimenti sociali (non faccio né penso ad una contrapposizione) hanno saputo, trovato, costruito… una espressione politica unitaria, base di successo.
Il rapporto dei movimenti sociali con le istituzioni non può prescindere da una presa del governo. Ma i movimenti devono sapere, sanno, che non esistono governi simbiotici, al massimo governi amici, i governi hanno delle logiche di equilibrio (anche se riformisti) che non permettono una loro adesione completa ai movimenti. Ma quest’ultimi devono usare con intelligenza politica l’amicizia dei governi (e se questa amicizia manca, usare mezzi convincenti per neutralizzarne l’azione). Il cambiamento è insieme facile e complesso, dipende dall'unità di obiettivi che si riesce costruire tra istituzioni e movimenti, dalla capacità del movimento di non farsi abbindolare  e delle istituzioni nel valorizzare le istanze del movimento.
Insomma è necessario tanto e buon lavoro.

  



martedì 2 maggio 2017

Valentino Parlata

Questa mattina è morto Valentino Parlato.
La sinistra ha perso un compagno resistente, io ho perso un amico. Valentino è stato un personaggio prezioso per la sinistra, la sua ironia, la sua leggerezza, il suo disinganno, la sua attenzione ai processi reali e politici, mi, e ci, hanno aiutato a resistere nei momenti più perniciosi e a sorridere in quelli di allegria.
Valentino non demordeva mai, è stato un pilastro molto importante per Il Manifesto (giornale e movimento), ed anche in questa ultima fase del giornale lui non è stato capace di stargli lontano, ha ritenuto che fosse utile collaborare con il giornale che aveva contribuito a creare.
Uomo di sinistra, era anche bizzarro. Aveva una frequentazione di personaggi “strani”, si potrebbe dire, ma facevano parte del suo modo di essere, raccoglieva frutti in qualsiasi albero maturassero, i suoi editoriali e i suoi corsivi per questo erano sempre incisivi e uno specchio della realtà ben interpretata.

La morte di un amico dovrebbe suggerire parole alate, non ne sono capace, il dolore che sento forte è prima di tutto per l’amico perduto per sempre e poi per il terreno della sinistra sempre meno abitato. 

lunedì 1 maggio 2017

Il discorso di incoronazione di Matteo Renzi nuovo(vecchio) segretario del PD



Diario 344
1 maggio 2017

Si capisce la gioia e la soddisfazione di Renzi per avere raggiunto il 72% dei consensi nel ballottaggio per diventare segretario del PD.  Non fa velo a neo segretario il fatto di non avere avuti contendenti. È felice e basta, lo si capisce.
Ma non ha seguito il consiglio che da più parti gli veniva elargito: compostezza, contegno. Non può, non è nel suo carattere, ha considerato questo risultato un ribaltamento del referendum sulla riforma, che si tratti di dati non comparabili non interessa, non è la realtà quella che conta ma l’immaginazione.
In termini di immaginazione nel suo discorso (di incoronamento) ha esaltato il popolo che lo ha votato, è ha garantito un partito unito, aperto alla discussione, con idee diverse ma unito. Si è dimenticato di dire che dati i risultati per forza il partito sarà unito, tutti gli organi avranno una maggioranza di almeno il 72% di persone all’unisono con il segretario (le fronde renziane tremano, le così dette opposizione sanno che avranno il “diritto di tribuna”, ma niente di più). Il PD sarà unito in quanto renziano in ogni sua piega.
Il governo Gentiloni è stato richiamato all’obbedienza da Orfini, il così detto presidente del PD, che in una sua intervista ha chiarito come da oggi forte sarà il pressing del partito sul governo e come da questo pressing il governo uscirà più … forte.
Renzi nel suo discorso a parlato di tutto, non si riusciva a frenarlo, era come una bottiglia di Coca Cola agitata a lungo e poi stappata, la coca esce a fiumi, non la si può fermare, il risultato della confronto elettorale ha avuto lo stesso effetto sul rinnovato segretario.
Non merita commentare le cose dette e tanto meno le più numerose non dette, su un punto vale la pena fare qualche pulce: a proposito die Jobs Act.
Si vorrebbe consigliare a neo-vecchio segretario di andare a leggere i risultati dell’indagine curata dalla Demos Coop e commentata da Ilvo Diamanti su La Repubblica del 29 aprile.
Le indagini demoscopiche vanno usate con cautela, ma quando i risultati sono di grande dimensione qualche indicazione la danno: il 67% degli italiani intervistati crede di sapere che il lavoro nero negli ultimi 5 anni è aumentato, così come il 75% degli intervistati ritiene che sia aumentato il lavoro precario. Il 71%  ritiene che l’occupazione in Italia non sia ripartita. Il Jobs Act, definito da Renzi una riforma di sinistra, secondo l’opinione degli intervistati non gode di buon giudizio; l’8% ritiene che la legge ha migliorato il mercato del lavoro, il 32% ritiene che l’ha peggiorato, mentre un altro 32% ritiene che sia ancora troppo presto per una valutazione (il rimanente 27% è composto da un 16% che ritiene la situazione non modificata e l’11% non sa o non risponde). Certo si tratta di opinioni, ma il problema è: si tratta di un’opinione sostanzialmente negativa per carenza di comunicazione o piuttosto per esperienza diretta?
Ma c’è un punto che a me pare tragico: l’84% ritiene che i giovani di oggi avranno pensioni con cui sarà difficile vivere. Si tratta di un’osservazione (verità?) che si sente continuamente ripetere, che i commentatori, economisti, sociologi, politici, ecc. ripetono ad ogni piè sospinto; dichiarazioni ammantate da leggerezza che al contrario mi paiono connotate da un cinismo macroscopico. Sta diventando una sorta di legge di natura (sociale) contro la quale niente si può fare (e la politica?). E nessuno fa lo sforzo di immaginare in che tipo di società i nostri figli e nipoti vivranno se questa legge si affermerà.

domenica 30 aprile 2017

Dopo le primarie, che cosa?

Diario n. 343
30 aprile 2017

Fra qualche ora si chiude la possibilità di votare alle primarie del PD. Mi pare che il risultato sia scontato: vince Renzi, nonostante la buona volontà di Orlando e le continue capriole di Emiliano. È bello sapere che gli scritti a quel partito non contano niente, non possono neanche eleggere il loro segretario. Si tratta, si dice, di un atto di vera e grande democrazia, certo in qualche varia forma di populismo, ma i corpi intermedi, cioè i partiti, non solo sono strumenti importanti del nostro ordinamento politico, ma sono anche strumento molto importante nell’organizzazione sociale, canali di raccolta del disaggio del “popolo”, strumento di educazione civile, meccanismo di coagulo della società, luoghi di identità politica. Si potrà dire che si tratta di una visione vecchia; sarà, ma il nuovo (la democrazia elettronica) non mi piace e il più delle volte fornisce risultati discutibili. Ma non è di questo che volevo parlare.
Renzi segretario a furor di popolo (quanto numeroso? Vedremo), cosa farà?
Molti garantiscono che non si andrà ad elezioni anticipate, non so, fidarsi della parola di Renzi è sempre un rischio: anticipate o meno prima o dopo alle urne bisognerà andare.
Alcuni consigliano un’alleanza del PD con un blocco di tutte le sinistre guidato da Giuliano Pisapia. Sarebbe bello, a prescindere dall’alleanza con Renzi, se le membra sparse della sinistra riuscissero a ricomporsi (si può sperare, ma non crederci). Orlano il competitore di Renzi, che con il futuro segretario del PD ha governato per anni (in un posto non marginale), assicura che Renzi vuol fare l’alleanza con Berlusconi (diciamo la destra moderata), sarà. Ma Renzi è molto fantasioso c’è da aspettarsi di tutto e di peggio.
Alcuni (soprattutto Scalfari) consigliano una linea di condotta per il prossimo segretario lontana dalle corde del cuore renziano: non dovrebbe aspirare a fare il capo del governo, dovrebbe indicare una personalità diversa e occuparsi dell’Europa, della sua rifondazione (è vero che Scalfari nell’editoriale di oggi declina in modo diverso la sua proposta). Potrebbe indicare chi? Per esempio Enrico Letta, come atto riparatorio se non fosse insultante; Maria Elena Boschi, non sarebbe male un capo del governo donna, anche perché in questo periodo di sottosegretario unico della Presidenza del consiglio, ha accresciuto il suo potere e la sua rete, ma soprattutto la sua attitudine al comando-ubbidiente. Del giro renziano tranne lei c’è qualcuno altro?
Che l’Europa abbia bisogno di una rifondazione democratica è certo, ma che su questa strada si incontrano macigni è la verità. Non credo che Renzi, per il suo carattere sia disposto a cedere il governo per imbarcarsi in una impresa molto impervia e di incerto esito. Egli preferisce quello che è possibile subito.
Parliamo del futuro governo ma per fare che? Mi pare che in questi giorni vengano fuori dei bilanci dell’azione del governo (Renzi e Gentiloni) non entusiastici, sul piano del lavoro, sul piano dell’occupazione giovanile, sul piano del mezzogiorno, sul piano della scuola, ecc. ecc. Sento parlare della riduzione delle imposte, ma nessuno dice cosa bisogna tagliare in presenza di minore entrate; sento parlare di sviluppo ma nessuno ci dice che cosa facciamo con le indicazione della tecnocrazia europea (il Portogallo non pare che sia un esempio da seguire, eppure sta ottenendo importanti risultati), sento parlare della prossima (e ti pareva) uscita dalla crisi senza che di questa crisi si pensi di individuare e affrontare i punti portanti.
La sinistra unita (sempre sperando) è portatrice soltanto di una ipotesi solidaristica (importante), o anche di una punto di vista diverso sul futuro di questo paese? Brandelli di questo futuro si riescono a leggere, ma si tratta sempre e soprattutto di risposte alle emergenze (importanti), ma molti si aspettano una proposta di trasformazione o almeno di transizione.



giovedì 9 marzo 2017

Il colpo d’ala dell’8 marzo

 
di   IDA DOMINIJANNI


Pubblicato su Internazionale l'8 marzo 2017
Mentre Donald Trump, e con lui i suoi fans di destra e purtroppo anche di sinistra, fantasticano un’improbabile de-globalizzazione, spunta (o rispunta) un movimento femminista che ha tutte caratteristiche di un movimento globale. Mentre i media mainstream capovolgono l’elezione di Trump nella sconfitta del femminismo perché il famoso tetto di vetro non è stato infranto neanche stavolta, spunta (o rispunta) un movimento femminista che mette il tetto di vetro suddetto all’ultimo posto della sua agenda, e al primo la vita. Mentre l’egemonia del capitalismo neoliberale vacilla ovunque sotto i colpi di una crisi ormai decennale, e ovunque ripropone per tutta risposta le sue ricette fallimentari senza trovare a sinistra ostacoli rilevanti e aprendo a destra vie di fuga razziste e fascistoidi, spunta (o rispunta) un movimento femminista che si riappropria della centralità femminile nella produzione e nella riproduzione sociale, ne fa una leva sovversiva e chiama tutti, donne uomini e altri generi di ogni paese e di ogni colore, a unirsi a questa spinta sovversiva. Sono i colpi d’ala che solo la politica delle donne è capace periodicamente di inventarsi, gli scarti imprevisti dall’agenda politica e mediatica del presente che solo la politica delle donne è capace periodicamente di produrre. E che fanno dell’8 marzo di quest’anno una giornata diversa dal solito, inedita, irrituale, inaugurale.
Ma non estemporanea. Lo sciopero delle donne dal lavoro e dalla cura dichiarato per oggi in una quarantina di paesi del mondo – in Italia dalla rete “Non una di meno”, con l’adesione dei sindacati - arriva a coronamento di un anno che ha visto i movimenti femministi al centro, e alla guida, di mobilitazioni straordinarie, su un’agenda ben più ampia e articolata di quella “di genere”. L’inizio fu il Black Monday polacco, il 3 ottobre dell’anno scorso, quando un’imponente manifestazione sotto la pioggia e gli ombrelli bloccò la legge che voleva proibire l’aborto, prima azione politica contro i governi reazionari che si sono succeduti in quel paese. Poi il Mércoles Negro contro la violenza sessuale in Argentina il 17 ottobre, convocato dalla rete NiUnaMenos, sigla migrata in Italia con la manifestazione contro la violenza del 26 novembre, tanto sorprendente per quantità e qualità quanto ignorata da giornali e tv, all’epoca troppo impegnati nello sfornare sondaggi sulla rimonta del sì al referendum costituzionale poi stravinto dal no. Infine l’immensa Women’s March del 21 gennaio a Washington e ovunque nel mondo, in risposta alla misoginia suprematista di Trump, tre milioni di donne e uomini in piazza negli Usa e due nel resto del pianeta, altro che protezionismo e de-globalizzazione: America first, ma in tutt’altra direzione da quella neopresidenziale.
Vengono infatti da quella marcia, e sono vistosamente marcate dal lessico politico radicale americano, le due parole-chiave, inclusive e intersectional, che orientano la giornata di oggi.
Inclusivo, perché l’organizzazione e la regia della mobilitazione è femminile ma apre a chiunque ne condivida le intenzioni, lasciandosi il separatismo alle spalle. Intersezionale, perché il dominio di genere si intreccia con altri dispositivi di dominio e di esclusione, di classe e razziali in primis, e domanda in risposta “l’alleanza dei corpi”, per dirlo con il titolo dell’ultimo libro di Judith Butler, di tutte le soggettività interessate.
Perché allora l’8 marzo, e perché le donne al centro e al timone? Si possono dare due risposte. La prima è che le donne e il femminismo sono state e sono l’oggetto privilegiato della rivoluzione neoliberale, e non stupisce che ne diventino il soggetto antagonista di prima fila. L’egemonia neoliberale deve molto della sua presa al modo in cui ha cercato di trascrivere la libertà politica e la padronanza sul proprio destino guadagnate dalle donne nel femminismo in autoimprenditorialità e libertà di consumo, nonché al modo in cui ha “valorizzato”- nel senso dell’estrazione capitalistica di valore - il lavoro produttivo, il lavoro di cura, l’intera vita delle donne. Non a caso la pratica di lotta scelta stavolta è quella dello sciopero: per sottrarsi a questo sfruttamento, e per mostrare – per sottrazione, appunto – quanto il lavoro femminile - visibile e invisibili, contato e non contato nelle statistiche, retribuito e gratuito – sia tanto cruciale per far girare la macchina produttiva e riproduttiva quanto sottostimato e sottovalutato, in tutti i sensi del termine.
La seconda ragione è politica, ed è tutta inscritta nella genealogia e nella memoria del femminismo. In una stagione come quella di oggi, in cui la politica ufficiale di opposizione, orfana delle sue appartenenze e strutture storiche, sembra non trovare vie diverse dalla ripetizione del passato da un lato e dalla demagogia populista dall’altro, il femminismo conosce l’arte della tessitura di un “noi” che si costruisce non malgrado ma in forza delle sue differenze e molteplicità costitutive. E’ l’arte della tessitura di relazioni libere ma non per questo volatili, che consente al movimento delle donne di andare e venire dalla ribalta della cronaca, ma di tornare sempre, imprevisto, quando e dove occorre. Non a caso si chiude con un richiamo a Carla Lonzi il testo di Non Una di Meno che convoca lo sciopero di oggi: “Il Soggetto Imprevisto ha fatto nuovamente irruzione nella politica e nelle nostre vite. Riconosciamo a noi stesse la capacità di fare di questo attimo una modificazione totale della vita”.



lunedì 27 febbraio 2017

Libertà di morire


Diario 342
27/2/2017

Non è mai finita. Ogni occasione mette il tappeto rosso perché i moralizzatori possano salire sul palco e farci la predica, indicarci la strada e imporci come vivere.
In che cosa consiste il fondamentalismo? nel voler imporre a tutti quello che si ritiene il dettato della propria fede. In che cosa consiste il laicismo? nella libertà per ciascuno di credere a qualsiasi credenza, un dettato che vale per se stesso e che non è da imporre.
Il nostro paese sarà mai una società laica? Non credo; ed è disperante.
La libertà di morire, non può che essere un diritto della persona, ma questo diritto viene negato a partire dalla sacralità della vita, non merita sottolineare come questa sacralità venga negata nella guerra, nello sfruttamento nel lavoro, nella povertà e marginalità, ecc., la condizione mortale può esserci somministrata (tutta in una volta o a poco a poco), ma non siamo liberi di decidere da noi stessi se morire e quando morire. Un diritto non obbliga, determina una opportunità (come l’aborto).
Qualche concessione viene fatta per l’accanimento terapeutico (il testamento biologico), anche qui con molte limitazioni, ma di suicidio assistito (la buona morte) neanche a parlarne. Il suicidio deve essere cruento (mala morte): spararsi, gettarsi nel vuoto, avvelenarsi, impiccarsi ecc.  
Gli amanti della vita non capiscono come il diritto alla morte in realtà esalta la vita, mette la vita nelle nostre mani, non in qualche ente supremo che dà e toglie, e ci rende più responsabili, non meno, ci fa più cauti e attenti.

Ma ovviamente non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire  

venerdì 24 febbraio 2017

Tra i cattolici i ginecologi sono tra i più praticanti


Diario 341
24 febbraio 2017

Da una recente indagine risulta che l’88% della popolazione italiana si dichiara cristiana cattolica, ma solo il 37% si dichiara praticante.
Non so se sia consolante, ma comunque genera una certa meraviglia, constatare che i medici ginecologi sono nel nostro paese il segmento della popolazione cattolica più praticante. Per cui affidiamo in mani profumate di fede le future  puerpere, mentre chi deve abortire finisce in mani avide e (spesso) anche incompetenti.
Se guardiamo ai medici ginecologi obiettori, che cioè si rifiutano di applicare la legge 194, come pubblicati dalla La Repubblica  del 23 febbraio, questi risultano il 70%. Gli anestesisti che obiettano di assistere interventi di aborto sono il 49%, mentre gli infermieri sono obiettori al 46%.
Spaventosi di dati per regioni: in Molise, Bolzano e Basilicata, sono obiettori più del 90%; superano l’80% in Sicilia, Puglia, Campania, Abbruzzo e Lazio; tra il 64% e il 76% si collocano Marche, Piemonte, Umbria, Liguria e Lombardia; intorno al 50% Friuli V.G.,  Toscana ed Emilia. Spicca la Valle d’Aosta con il 13%, regione meravigliosamente laica.
Si può immaginare che un cattolico che prende una così drastica decisione di obiettare (che gli è concesso dalla legge) all’applicazione di una legge dello Stato non lo faccia per convenienza ma per adesione piena ad un convincimento religioso, non solo ma non può essere una persona che fa parte dei “cattolici tiepidi”, che professano ma non praticano, devo sicuramente far parte della quota dei praticanti.
Se così fosse c’è da meravigliarsi che una percentuale così alta di praticanti (in alcune regioni la quasi totalità) sia concentrata tra i medici e in particolare tra i ginecologi.
Per l’esperienza personale che ho dei medici mi risultano, in generale laici (spesso atei); certo un’esperienza non è generalizzabile, ma sorprende questa grande concentrazione di praticanti in una specializzazione medica.    

Non colpevolizzo gli obiettori, fanno valere un loro diritto, così come un tempo, ma ce n’è voluto, obiettavano i giovani che rifiutavano il servizio militare perché contro la guerra (ma ero obbligati ad un servizio civile), ma ritengo che vada salvaguardato l’altrettanto sacrosanto diritto delle donne che vogliono e devono abortire. Per questo non si può non plaudire alla regione Lazio, e a tutte le regioni, soprattutto del sud che volessero seguirne l’esempio, che vuole assumere per i propri ospedali solo ginecologi non obiettori.