mercoledì 19 agosto 2020

Mario Draghi a Rimini

 

Diario 19 agosto 2020

Mario Draghi non è uno sprovveduto, non poteva non sapere che la riunione di Rimini, di Comunione e liberazione,  fosse un “luogo” politico e politicizzante, né che la sua presenza aveva un peso diverso dall’altra volta quando rappresentava una “istituzione” ed ancora non poteva non sapere che la politica italiana attendeva l’espressione di una sua disponibilità. Tutto questo sapeva e ha corso il rischio: voleva esserci  ma non  voleva impegnarsi. Così ha fatto con un discorso scontato  e indeterminato, figuriamoci c’erano i giovani e anche l’ambiente, mancava il femminismo, c’erano i rischi futuri, ma anche un appello ai valori della nostra società.  

Se fosse lecito leggere il discorso tra le righe a ma pare di aver compreso due cose: l’Italia, nonostante l’amor di patria, a Draghi sta stretta, qualsiasi sia la “carica” offerta o prospetta non gli interessa, proprio in ragione di quello che pensa di se stesso. Non cerca un poltrona, per comoda o prestigiosa che sia (come la presidenza della Repubblica), ha l’ambizione di voler governare , e ha capito che il presidente del Consiglio in Italia (ma non solo) è preso tra tanti lacci, pressioni e “rispetti”, che governare con autorevolezza e decisionismo  da quel posto non pare sia possibile.

La sua ambizione, per così dire, di governo allora si sposta sull’Europa, su un centro di decisione tagliato sulle sue ambizioni, un centro di potere autonomo, efficace, e fortemente influente: il futuro ministero unico del Tesoro della UE. Mi è sembrato che  quando ha trattato di questo tema il discorso di Draghi sia diventato un po’ più puntuale. Dai fasti della BCE al ministero del Tesoro della UE, questo gli sembra un buon passo che si può fare. La sua candidatura troverebbe tutte le porte aperte, resta il dubbio che ci sarà mai una porta del ministero del Tesoro della UE aperta.  

domenica 16 agosto 2020

C'è speranza? una saggio di Bellucci

 

Diario 15 agosto 2020

Sergio Bellucci mi ha inviato un suo saggio sulla “pianificazione dell’imprevedibile” (chi volesse leggerlo si può collegare a https://mondo.info/scheduling-the-unpredictable/), uno scritto molto denso e che pone, implicitamente ed esplicitamente, problemi di grande momento.

Nella prima parte elabora una rapida rassegna delle più aggiornate teorie che si sono sviluppate a partire dall’affermarsi  delle tecnologie informatiche (connessionismo, le procedure di prova ed errore, la complessità, ecc.). L’autore sostiene che questo bagaglio scientifico e metodologico è rimasto estraneo alla sfera della politica. Detto brutalmente i “politici” operano nell’ignoranza di tutte queste novità, o al più orecchiando.
Ma non solo di questo si tratta, è l’ignoranza della popolazione che determina le condizioni di impotenza della politica e quindi costituisce  un ostacolo al cambiamento, inoltre gli egoismi individuali o di gruppo costituiscono delle barriere difficili da superare.
Nonostante queste condizioni, potremmo dire di partenza, Bellucci mette in campo, nella seconda parte del saggio, un chiara visione delle necessità di trasformazione ed esplicita la necessità di un cambiamento di sistema: un governo del sistema che miri a ridurre l’egemonia dei bisogni soddisfatti con beni e che incoraggi forme sperimentali e nuova di produzione per la creazione e soddisfazione di bisogni sociali.

L’autore esprime tutta la sua convinzione che pur in presenza di una ignoranza strutturale del personale politico, e di una ignoranza diffusa tra la popolazione dei risultati enormemente innovativi delle scienze, esistano le condizioni “oggettive”, determinate appunto dai grandi cambiamenti scientifici, per un trasformazione sostanziale del sistema economico-sociale. Sembra convinto che basti la “consapevolezza” delle grandi possibilità offerte già oggi per cambiare la società (una sorta di illuminismo estremo). “Gli economisti più accorti hanno da tempo annunziato che una crisi immensamente più grande di quella del 2008, si sarebbe aperta come un abisso sotto i piedi di un mondo che sembrava danzare sul ponte del Titanic”.

Mentre non gli pare convincente la strada che i governi sembrano seguire, ciò delle ignizioni di liquidità, in attesa di una risposta “automatica” del sistema, all’autore e a me pare che in assenza di interventi che modifichino la “macchina sociale” le speranze di un mutamento sembrano molto poche. “L’intervento necessario dovrebbe avere natura doppia”; da una parte sostenere produzioni già interne ad una logica di sostenibilità ambientale e dall’altra parte sostenere la produzione di valore d’uso. “Ora dobbiamo partire per un nuovo viaggio. La crisi non può essere affrontata con i precedenti schemi e richiede un salto di qualità una discontinuità”.

L’autore mi pare riporti in primo piano il dramma dell’epoca presente: la consapevolezza della necessità di modifiche radicali nel modo di produrre, di consumare e di distribuire la ricchezza prodotta, mentre individua le possibilità reali di questi cambiamenti, così come potrebbero essere suggerite dai progressi scientifici,  esprime  la coscienza di un deficit di capacità nell’individuare i modi, o se si preferisse i passi,  di questi cambiamenti e i soggetti in grado di organizzare tali cambiamenti. Su questo terreno sono di più i balbettii che non le parole limpide che vengono pronunziati da chi questo cambiamento dovrebbe guidare.  Si tratta di un buco nero del processo e del progetto sociale che non lascia intravedere una strada chiara per il “nuovo viaggio”, ma piuttosto ci mostra una umanità proiettata verso un burrone, dove il buco nero dei nostri egoismi non ci lascia scampo.  

Ma non ci perdiamo d’animo la soluzione forse c’è anche se stanchi occhi non la vedono, dove l’incontro virtuoso del progresso scientifico e la mobilizzazione della popolazione costruiranno una vera alternativa. E se così non fosse, non abbiamo molto da fare.