venerdì 29 novembre 2013

La mancata convalida



Diario 235

La mancata convalida


La formula con la quale il presidente del Senato ha chiuso la questione della permanenza di Silvio Berlusconi tra i senatori, nel suo stile burocratico, mi è sembrata favolosa: “la mancata convalida del senatore Silvio Berlusconi, proclamato eletto nella Regione Molise”.

Bisogna dire che lo stile burocratico in questo caso appare una felice pietra tombale su una questione che aveva accesso gli animi (e la stampa e le TV) negli ultimi mesi. Silvio Berlusconi e le sue vestali e i suoi poeti, meno i suoi avvocati, ha ammannito un delirio di accuse alla magistratura, continue proclamazioni di innocenza rivendicando una vita all’insegna dell’onestà e irreprensibilità di un cittadino modello, la pretesa di una grazia impossibile e la rivendicazione di una rappresentanza di milioni di elettori che avrebbero dovuto renderlo “intoccabile”. Tutto questo è altro ancora, trova il suo compimento nella “mancata convalida”. Non nella “decadenza”, non nell’”espulsione” dal Senato, ma un semplice atto amministrativo di “mancata convalida”. Una beffa per il mancato senatore (non l’ex), e una certa leggerezza nell’animo tra chi non lo ha mai apprezzato (e tanto meno votato).

Il comizio finale, davanti a pochi sostenitori (non si sa quanto volontari), la sfida al freddo (psicologico e atmosferico) con semplice giacca e un dolce vita (ma sembra anche questa un recita, se fosse vero che sotto aveva una muta di neoprene da sub), è sembrato poco credibile proprio nella parte in cui si è impegnato a “restare in campo” per combattere e vincere. Non credo, e non vorrei, che fosse arrestato. La parabola politica di Silvio Berlusconi è finita, ma sarebbe finita anche se “martirizzato” con un arresto. Secondo le previsioni del suo amico Putin se fosse arrestato la prima settimana un milione di persone protesterebbero in piazza, nella seconda settimana cinquecento mila e in tre settimane tutto sarebbe finito.

A me pare che l’avventura del centro destra sia incamminata su binari diversi, anche se non sono chiari quali. Silvio non ha più da offrire un corpo taumaturgico, né un programma, e per quanto scassata sia la società italiana, per quanto corrosa dal ventennio berlusconiano, non si può accontentare di poco credibili surrogati. Quanti applaudono ancora Silvio, insieme ridono delle sue bugie: sull’evasione fiscale, sul bunga-bunga, sulle amate minorenni, ecc. Chi pensa ad una “rivincita” mi pare vittima dell’illusione berlusconiana.

Per quanto assistenza possa offrirgli il suo medico personale, appare provato, ha necessità di un successore, fosse anche una controfigura. Ma dell’eredità familiare non pare poter contare, la figlia maggiore si è sfilata dalla politica; la maggiore della seconda nidiata, che qualche anno fa segnava con forza una differenza rispetto al padre oggi pare appiattita su “papà”, sembra avere aspirazioni politiche, ma paiono velleitarie. Della sua corte non c’è nessuno da prendere, né la Santanchè, né Verdini, né Brunetta, combattenti ma poco credibili. La selezione delle “facce nuove”, come se fosse una selezione per il “Grande fratello”, non penso possa dare niente a questo livello.

Certo che liberati da Berlusconi ci resta il berlusconismo, bestia pericolosa anche per la sinistra o centro sinistra. Ma in questo campo quello che sembrerebbe ragionevole appare flebile e non all’altezza. In sostanza i guai politici di questo paese non sono finiti, che se si aggiungono ai guai economici, diciamo che il futuro appare ancora nero.

Non capisco come presidente del consiglio e ministro del tesoro non ridano di se stessi; almeno con i numeri qualche conoscenza dovrebbero averla: ecco che si inventano una nuova privatizzazione, prescindiamo se giusta o sbagliata, prescindiamo se questo sia il momento giusto, ma dei 12 miliardi che secondo ottimistici calcoli otterrebbero, la metà, 6 miliardi, andrebbero per la riduzione del debito, cioè una cifra da prefisso telefonico, il debito diminuirebbe di circa lo 0,3%. Non fa ridere? O meglio, piangere?     

      

lunedì 25 novembre 2013

Retoriche, ma non bastano



Diario 234



Retoriche, ma non bastano




Non appena nel nostro paese un avvenimento catastrofico, atmosferico o di altra natura, produce vittime e danni, ecco che, a torto o a ragione, le retoriche, sempre uguali a se stesse, ci condiscono la vita. Così è avvenuto dopo l’ultimo disastro in Sardegna. 

La prima è un atto d’accusa, formulato in modo più o meno generica, che ci richiama alle colpe e responsabilità “umane”, e nel caso specifico degli italiani, non meglio definiti se no per il loro vincolo di sangue/terra, e per la “casta” politica (come se questa vivesse in un vuoto sociale). Non si tratta di entità astratte ma di un clima sociale e politico che ha permesso che si realizzassero le condizioni di base per di ogni disastro (cementificazione, seconde case, regimentazione dei fiumi, ecc.).

La seconda è il rimedio: manutenzione del territorio, piccole opere, rilancio di professionalità artigiane e tradizionali, ritorno all’agricoltura.

In ultima l’esaltazione delle grandi possibilità del nostro paese: le sue bellezze, il suo ambiente, la sua qualità storica-artistica, il suo paesaggio, i suoi prodotti della tradizione, e chi più ne ha più ne mette. La loro valorizzazione potrebbe farci ricchi e felici (tutti?). 

Ogni retorica, come è noto, non è completamente campata in aria, pesca nella realtà in modo parziale. 

È certo, per esempio, che c’è una responsabilità degli italiani, ma quale? la smania per la seconda casa, rimanda a modelli culturali e sociali; avere supportati partiti e personalità assolutamente inadeguati a governare il paese, affascinati da imbonitori più o meno “onesti”, ci parla della fuga dalla responsabilità suggerita (un uomo al comando). Infondo l’idea forte era, di fatto, un semplice slogan “arricchitevi” (le tasse ingiuste, ecc.), per questo obiettivo si è sacrificato onore, gusto, cultura. Ma se questo era l’obiettivo allora l’attività dei corruttori e dei corrotti aveva una finalità condivisa; la mano libera agli speculatori era un mezzo. Anche la criminalità organizzata, svolge la sua parte: si tratta di “attività produttiva” che dà da mangiare e il superfluo ad un “esercito”; parte dell’“industria” italiana, a proprio beneficio, alla criminalità organizzata, “branca produttiva e sociale”, si affida per i suoi smaltimenti. Non è una colpa rifiutarsi di continuare a fare l’agricoltore o il contadino, attività povere e faticose. Un paese che si è glorificato di una organizzazione produttiva senza guida e autodeterminata, chiudendo gli occhi sui disastri sociali e ambientali che tali attività determinavano, ha costruito le condizioni del suo disastro, non solo ambientale. Le “condizioni generali” determinavano una finto pranzo di gala con tutti invitati, mentre latitavano scelte industriali adeguate e innovative, i modelli imprenditoriali (nella piccola e nella grande impresa) presentavano un tanfo feudale (nonostante le importanti lotte sindacali, giudicate appartenere al secolo scorso). Il mancato sviluppo ha determinato una situazioni per cui non poche fonti di sostentamento risultavano inquinate, in senso specifico, in senso sociale, in senso illegale fino a criminale.

Ed ecco è la volta delle “grandi opere” da criticare. Certo che se ne sono fatte di inutili e anche dannose, ma molto spesso la loro inutilità riguarda il non averle portate a termine, mentre potevano essere efficaci per migliorare le condizioni di vita delle popolazioni implicate. Il paese ha bisogno di “opere grandi” (non di grandi opere): la manutenzione del territorio non può non essere un “opera grande”, per le risorse da impiegare, per le tecnologie innovative da usare, per il recupero di antiche professionalità scomparse ma da aggiornare. Il recupero del “sapere” tradizionale, non va messo in opposizione e in alternativa al sapere scientifico. Non la ripetizione ci salverà ma l’innovazione.

Il rigetto di ogni innovazione tecnologica e scientifica che sembra attraversare tutta la nostra società, appare pericoloso e insensato; sicuramente ci vuole criterio, ci vuole attenzione, ci vuole conoscenza, e quant’altro, ma se il paese vuole andare avanti dobbiamo guardare criticamente ma consapevolmente all’innovazione, alla scienza, anzi proprio questa dovrebbe essere la nostra opzione e il nostro orizzonte. La “scienza” (antica e moderna) ha costituito un avanzamento importantissimo per la specie umana. I disastri ci parlano del futuro e non del passato, non si tratta di fare passi indietro, ma di fare i giusti passi in avanti. 

I rimedi e la sottolineatura delle grandi possibilità del nostro paese sono delle forzature, spesso pericolose e di fatto inconcludenti, ma soprattutto indifferenti agli effetti che certe scelte possono determinare.

Pensare al nostro paese come il “paradiso perduto” da riconquistare, l’Eden da “valorizzare” (ecco il termine scandaloso) non porta molto lontano. Il patrimonio storico e culturale va curato, manutenuto, preservato, prima di tutto per la nostra cultura, non per farne una merce e un prodotto da marketing. Se si volesse il “ritorno” alla campagna, bisogna sapere che sarà un’agricoltura diversa, non quella dei nostri avi; soprattutto chi “ritorna” o si avvia per la prima volta ai campi, ha necessità e diritto di essere parte di una “metropoli”, non una metropoli di 10 o più milioni di abitanti, ma di una metropoli territoriale in grado di offrire servizi di natura e qualità metropolitana (non possiamo pensare ad un ritorno della dicotomia città/campagna). E qui il paesaggio cambia, altro tema. La specie ha guadagnato maggiori grati di libertà (le sperequazioni sono il problema); scelte individuali possono seguire desideri, convinzioni, opzioni dei singoli. Non bisogna avere avversione per chi sceglie di farsi in casa la salsa di pomodoro, o il pane, o coltiva il suo orto (urbano), ecc. ma pensare che questa sia la strada per il nostro sviluppo e per cambiare la società complessiva non è convincente. 

La retorica della valorizzazione (è sempre questo il tema) delle nostre “produzioni” alimentari e tradizionali appare insopportabile; il marketing che finisce per fare da padrone. Non è scandaloso che qualcuno con intraprendenza e capacità costruisca “catene” di negozi che valorizzano i nostri prodotti, che negozi di questa catena si aprono a New York o Pechino, ecc. si tratta di una attività commerciale, ma non sarà questa la strada del nostro sviluppo (quante famiglie e individui possono quotidianamente “fare la spesa” in queste catene?). 

L’editoria culinaria e le numerosissime trasmissioni televisive di cucina, non costituiscono una moda del momento, ma la trasmissione di un modello di vita e di società: riportare le donne al loro ruolo tradizionale: espulse dal lavoro o impossibilitate ad entrarci, ecco il ritorno ai fornelli (del resto mai abbandonati, ma oggi torna la “missione”). 

Si è, non solo l’Italia, in una temperie di trasformazione economiche che richiederebbero una guida verso grandi cambiamenti, senza di questi la speranza è poca. Cambiamenti nella struttura sociale, nella distribuzione della ricchezza, nell’articolazione del potere. In attesa che questa strada sia imboccata qualcosa si può e si deve fare: prima di tutto una politica nei riguardi del “debito sovrano”; certo una politica per l’ambiente, per il patrimonio e le città, ma anche una politica industriale, una politica per la ricerca scientifica e tecnologica, per la scuola, per lo sviluppo in un “nuovo” regime economico. 

Ma se capisco qualcosa, niente di tutto questo è all’orizzonte. Né pare convincente, forse è addirittura repellente, la prospettiva di essere uno degli Eden per una classe di ricchi sempre più ricca e leggermente allargata, che esclude la grande maggioranza della popolazione (locale e mondiale). Un'illusione reazionaria.
   

      

La generazione innocente di Matteo Renzi

Nuovo articolo su idadominijanni

La generazione innocente di Matteo Renzi

di Ida Dominijanni
E' dura da dire, visto lo stato in cui ogni giorno il Pd mostra di versare, eppure anche stavolta, alla fine, il principale erede della defunta democrazia dei partiti è riuscito ad allestire un congresso ''vero'', con contenuti, poste in gioco e profili di leadership riconoscibili. E malgrado l'intero percorso sia stato viziato da regole traballanti e assurde – tutte: dal tesseramento aperto e pertanto corrotto al populismo del gazebo che consente a chiunque di votare per il segretario di un partito -, alla fine chi andrà a votare l'8 dicembre potrà farlo con cognizione di causa, salvo essere completamente assordato dalla grancassa mediatica che suona pressoché all'unisono per il sindaco di Firenze.
Oscurato, per l'ennesima volta dal 1989 in poi, dalla finta rappresentazione politico-mediatica di un derby fra ''nuovo'' e ''vecchio'', per l'ennesima volta il conflitto è invece sulla direzione dell'innovazione. Non c'è, fra i tre contendenti, chi non si dichiari per il cambiamento: il punto è come cambiare. L'uscita dal ventennio berlusconiano, che è stato anche il ventennio della sconfitta e della subalternità della sinistra, è il problema comune: il punto è come se ne esce. Si deve alla sterzata che Gianni Cuperlo ha impresso negli ultimi giorni alla sua battaglia, affilando la polemica con Renzi, che i termini di questo ''come'' si siano chiariti. Se per Renzi uscire dal ventennio significa portare a compimento l'innovazione che il Pd (anzi il Pds-Ds-Pd) ha lasciato a metà e farla finalmente finita con la genealogia della sinistra, per Cuperlo uscire dal ventennio significa correggere radicalmente la rotta di questa ventennale innovazione, ritrovando e rilanciando quella genealogia. Meno sinistra per Renzi dunque, più sinistra per Cuperlo. Più neoliberismo in salsa blairiana per Renzi, abbandono della ricetta neoliberista, responsabile della crisi economico-finanziaria, per Cuperlo. Meno partito e più democrazia del pubblico e dell'applauso per Renzi, più partito e più partecipazione organizzata per Cuperlo. Meno rappresentanza dell'insediamento sociale tradizionale della sinistra per Renzi, più per Cuperlo. E così via. Chi dei due è più innovatore? Dipende, è ovvio, dalla lettura del ventennio e degli errori della sinistra durante il ventennio. Per Renzi il Pd ha perso e rischia di perdere perché troppo legato alla sua provenienza originaria; per Cuperlo perché l'ha abbandonata.
Sarebbe un gioco da ragazzi rintracciare, dietro i due contendenti di oggi, le due visioni del Pd che si contendono il campo fin dalla sua nascita, e se lo contendevano già nel Pds-Ds, con relativi leader di riferimento: un gioco da ragazzi che tuttavia basterebbe a sfatare la leggenda metropolitana secondo la quale l'innovazione di Cuperlo sarebbe ''zavorrata'' da D'Alema e quella di Renzi invece volerebbe leggiadra senza zavorra alcuna (''rottamandi'' di ogni tipo, e perfino uno come Pippo Baudo, sono saltati sul carro del sindaco di Fitrenze). Meglio concentrarsi invece su un punto che fa la differenza rispetto al passato. E la differenza, in un congresso che comunque sancirà un forte ricambio generazionale ai vertici del Pd, la fa la postura dei tre contendenti – Renzi e Cuperlo, ma anche Civati – per l'appunto sulla questione generazionale.
Un anno dopo le primarie per la premiership che lo videro sconfitto da Bersani, e quindici giorni prima della sua più che probabile conquista della leadership del partito, la cifra più vera della corsa di Matteo Renzi resta quella della rottamazione. Che ha perso qualunque valenza pratica, il carro di Renzi essendo per l'appunto affollatissimo di esponenti delle generazioni precedenti, ma mantiene intatta la sua valenza simbolica. Che sta non solo e non tanto nel giudizio liquidatorio del sindaco su chiunque l'abbia preceduto (con continui svarioni nei riferimenti storici dei suoi discorsi), quanto nella concezione della propria generazione di cui si fa portatore. Anche nel suo intervento alla Convenzione di stamattina non avrebbe potuto essere più chiaro. La sua è la generazione ''di quelli che siamo cresciuti a figurine e serie tv, ma che malgrado la scuola ce lo impedisse siamo riusciti a innamorarci di un libro o di un quadro». Una generazione dunque tre volte vittima, dei padri che l'hanno allevata ''a figurine e serie tv'', della scuola che ci ha messo un carico da undici nel peggiorare le cose, della politica che ha sfigurato la democrazia e via discorrendo. E due volte eroica, perché malgrado tutto questo sopravvive a un destino di abbrutimento leggendo qualche libro e visitando qualche museo e si candida a salvare il paese che l'ha distrutta. Pertanto è arrivato il momento ''di poter dire una volta per tutte che adesso tocca a noi, e che non siamo disposti ad aspettare''.
Questa concezione risentita di una generazione (auto)vittimizzata, innocente perché figlia degli errori altrui e quindi irresponsabile per definizione, cresciuta ai margini e in diritto di accedere al centro del sistema insediandosi direttamente nella stanza dei bottoni, è il vero punto di senso comune, la vera base ideologica di massa, che determina il successo di Renzi, nonché il suo vantaggio sulla qualità evidente di uno sfidante immune da questa concezione come Gianni Cuperlo. Ed è un punto stupefacentemente sottovalutato nel dibattito pubblico, che invece di contestarlo o quantomeno di problematizzarlo lo blandisce e lo legittima.
Una spinta generazionale di tal fatta non può essere il trampolino del superamento del ventennio berlusconiano, perché ne è precisamente l'effetto. E' l'effetto della biopolitica neoliberale, che per decenni ha costruito artatamente e pour cause la guerra generazionale fra pensionati e precari, fra garantiti e non garantiti, fra la fragilità (costosa) dei vecchi e la baldanza dei giovani. Ed è l'effetto (lo scrive, fra l'altro, Civati nel suo documento congressuale, che, sia detto per inciso ma non troppo, è il migliore dei tre sia sulla questione generazionale che sulla questione di genere) dell'evaporazione della funzione paterna incarnata da Berlusconi, una funzione che consisterebbe in primis nel garantire non la guerra ma il passaggio del testimone fra le generazioni.
E' questa la ragione profonda, più profonda delle pur cruciali ricette di politica economica, della continuità di Renzi col ventennio che si candida a chiudere. Assai più discontinua e innovatrice è la postura di chi ha uno sguardo più lungo sul passato, non crede che il presente e il futuro comincino con la propria data di nascita, e delle generazioni precedenti vede sì gli errori ma anche la storia e la tradizione di cui sono state e sono portatrici, e rispetto alle quali non si sente innocente e non si assolve. Jacques Derrida diceva che è così che si eredita, scegliendo che cosa prendere e che cosa lasciare, non per diritto divino a subentrare nello scettro del comando. Ma purtroppo per Renzi Derrida non si scambiava con le figurine e non recitava nelle serie tv.

mercoledì 13 novembre 2013

La crisi dà le carte, la piramide va in frantumi (dario 233)





La crisi dà le carte, la piramide va in frantumi



Gli analisti incrociano i dati e “scoprono”: che i ricchi sono diventati più ricchi e che i ricchi sono anche un po’ aumentati di numero.

Questo significa che la crisi ha distribuito le carte e mentre a pochi ha dato una scala reale ad altri, i molti, ha dato una coppia di due. I pochi hanno ritirato piatti ricchi, i molti hanno perso la loro posta.

Forse l’ho già scritto ma voglio ripeterlo. Tutti abbiamo in mente il triangolo che rappresenta la struttura economica sociale: in basso ci stanno quelli che hanno meno, i poveri, e a mano a mano che si sale si trova chi di ha di più fino al vertice dove ci stanno i pochi ricchi. Tutti sappiamo che tanto maggiore è la distanza tra la base e il vertice tanto più la distribuzione della ricchezza è “squilibrata”, le “diseguaglianze” molto accentuate. Possiamo immaginare, come si ripete continuamente da più fonti, che dentro la crisi c’è stato un spostamento di ricchezza dal lavoro al capitale. Quindi ci si immagina che la distanza nella immaginaria piramide tra base e vertice sia aumentata. Ma questa descrizione forse coglie solo una parte della realtà.

Proviamo ad immaginare che la mano di un gigante (la crisi) stringa la nostra piramide in mezzo, facendo schizzare pochi verso l’alto e molti verso il basso, e trasformando la nostra piramide in una specie di clessidra (anche se le due parti non sono uguali). Questa sembra una descrizione metaforica più realistica. Ma se così fosse le conseguenze sociali e politiche sarebbero gravissime.

Intanto si ha la tendenziale scomparsa del “ceto medio”, certo di atteggiamento conservatore ma possibile alleato con la classe operari per progetti di trasformazione. Il “ceto medio”, la sua analisi, la sua collocazione sociale e politica ha costituito nel passato uno dei temi fondamentali della sinistra (per esempio era un tema affrontato a più riprese dalle rivista di sinistra, Problemi del Socialismo, Rinascita, Società, ecc.); il tema delle alleanze si coniugava rispetto a questa realtà (oltre che a quella cattolica). Non era un nemico, ma neanche un amico, ma poteva diventarlo. 

Oggi il tema è scomparso perché il ceto medio tende a scomparire e la sinistra è già scomparsa. 

Inoltre, e fa il paio con la precedente osservazione, sta per essere frantumata la continuità sociale: la piramide segnava delle differenze sociali ed economiche ma descriveva una società nelle quali i singoli strati erano in continuità con gli altri strati (superiori e inferiori). Una continuità che dava alla società dinamismo e nella quale ciascuno cercava di raggiungere lo strato superiore; che ci riuscisse, in questo ragionamento, non è importante, quello che vorrei cogliere è il dinamismo, la spinta, le motivazioni, ecc. Inoltre la continuità rendeva sensibili verso chi meno aveva, il che costituiva spinta ad una socialità dei diritti. È chiaro, non mi riferisco alla volgare dizione “siamo tutti nella stessa barca”.

I diversi strati erano magari tra di loro conflittuali, ma anche contigui e quindi potenzialmente alleati, potevano trovare momenti e occasioni di accordo per il cambiamento. 

Se così fosse, non voglio farla troppo lunga, la situazione che si sta creando ha notevolissime conseguenze, oltre che sociali, anche politiche. L’incapacità politica, di qualsiasi forza che volesse misurarsi con la realtà sociale per un proprio “progetto”, dipende, credo, anche da questa situazione. Quella che viene chiamata frammentazione sociale, individualismo, solitudine, ecc. è uno degli effetti della rottura di quella che ho chiamato continuità sociale. 

Non c’è soltanto il 99% contro l’1%, ma soprattutto quello che si può cogliere è la lotta dell’1% contro il 99%; e quell’1% ha una grande capacità (economica) di mobilitare la repressione, l’imbonimento, potentissimi apparati ideologici sia per combattere ogni ribellismo (e magari incanalarlo nella violenza non politica) sia per far prevalere una ideologia che renda questo cataclisma come … naturale. 



lunedì 11 novembre 2013

Venezia, chi la salva? (diario232)





Venezia, chi la salva?

Il mio breve intervento su le grandi navi a Venezia ha suscitato interesse e reazioni. Due amici mi hanno scritto, ripropongo i testi con un mio commento.


Ma tu non eri di sinistra? Uno che voleva abolire i privilegi e rendere accessibili a tutti i medesimi beni, persino quelli posizionali? A che titolo vorresti negare a quanti nel mondo lo desiderino di vedere Venezia? So bene che non potranno apprezzarla come l’hai apprezzata tu e come l’hanno a suo tempo apprezzata Simone de Beauvoir e Sartre negli anni Trenta passeggiando alle quattro di notte a piedi scalzi per le calli deserte, ma tant’è, chi sei tu per prescrivere le modalità di percezione della bellezza, per presumere che quella giusta sia la tua?
La dialettica dell’illuminismo ha sempre un versante totalitario…
Un abbraccio da Marco


Caro Marco, mi fai torto e soprattutto ti fai torto. Da dove ricavi che io volessi esaltare i privilegi e proibire a quanti vogliono visitare Venezia l’accesso alla città, né pensavo di imporre una modalità specifica di godere della sua bellezza (la memoria non mi inganna, ma c’è stato un tempo nel quale frequentavi assiduamente, per ragioni di lavoro, Venezia e ne godevi la bellezza; e oggi perché le tue visite sono così rare?) .
È strano che lo dica tu che hai fatto della bellezza delle città la maggiore (l’unica?) componente. Non credo di doverti ricordare che la città è fatta di tante cose, delle sue bellezze costruite (anche bruttezze), della gestione della cosa pubblica e dei comportamenti di chi l’abita o la visita. Venezia è bellissima ma il tasso di invivibilità è altissimo e crescente. 40 mila abitanti stabili e 20-22 milioni di turisti fanno una miscela degradante ed esplosiva (basta frequentare i vaporetti per capire come la situazione può generare in violenza).
Proprio perché vorrei abolire i privilegi mi preoccupo. Ed è questa la ragione della mia critica a che ha governato questa città. Perché, non è difficile immaginare, che prima o poi sarà posto una qualche limitazione all’afflusso, e lo strumento sarà, come è nella natura della nostra società, economico. Sarà un ticket, sarà una imposta di soggiorno, o qualsiasi altra modalità la fervida fantasia dei nostri “esperti” sapranno individuare, per limitare l’afflusso. Sara allora che l’accessibilità a Venezia sarà solo per i privilegiati. Un bene raro può essere discriminato attraverso il regime dei prezzi o razionato. Il secondo fa scandalo, ma lo preferisco, il primo fa discriminazione e privilegio.
Un saluto e grazie.



Caro Francesco,
sulla questione generale delle grandi navi in laguna l’unica posizione univoca è: basta il passaggio delle grandi navi nel bacino di S. Marco.

Poi le differenze si articolano da quella dei “No Grandi Navi”, che le vorrebbero estromettere tout cour, a quelle che propongono diverse soluzioni per il loro transito in laguna. Riassumendo:
- proposta Orsoni (Sindaco) con accesso dal canale dei petroli e ormeggio a Marghera;
- quella dell’Autorità portuale (Costa) con percorso canale dei petroli, canale Contorta (da scavare) e ormeggio Marittima;
- quella di VTP (Venezia Terminal Passeggeri) e altri, passaggio dietro la Giudecca (con canale da scavare) e ormeggio Marittima;
- quella De Piccoli (ex vice sindaco) con ormeggio in bocca di porto a San Niccolò (usando anche manufatti del Mose).

Semplificando:
la proposta Orsoni crea conflittualità tra l’attività portuale industriale e quella crocieristica; entra appena nel merito di questo problema;
le proposte dell’Autorità portuale e di VTP presuppongono nuovi scavi nel corpo della laguna;
la proposta De Piccoli sembrerebbe quella in grado di conciliare gli estremi. Ma, anche questa ha bisogno di essere approfondita.
Sui danni recati dal passaggio delle grandi navi in laguna ogni parte in causa porta elementi pro domo sua, quindi, al limite poco utilizzabili se non in un dialogo tra sordi. C’è un fatto ormai inconfutabile: la crocieristica a Venezia ha creato un indotto economico notevole, ha creato migliaia di posti di lavoro, e su questo punto nessuno può dissentire. Non è stata un’operazione nata dalla bacchetta magica, sono anni che questo fenomeno è andato aumentando per colpa o per merito (punti di vista) degli amministratori locali. Ora si dovrà trovare una soluzione che salvaguardi l’ambiente lagunare e garantisca il lavoro. Non ci sono scorciatoie integraliste. Tertium non datur.

Invece, provo a esprimere il mio personale modo di vedere in questa vicenda. Premetto la mia contrarietà estetica sulla vista di questi mostri giganteschi che umiliano la dimensione di Venezia, lo skyline delle sue costruzioni storiche, poggiate su sedimi che non ne permettevano lo sviluppo verticale, sull’equilibrio sostanzialmente orizzontale delle acque e dei manufatti.

Però vedo un problema che sta a monte della querelle sulle grandi navi, che anzi, da questa viene offuscato. Il moto ondoso. Questo fenomeno, ingigantito dall’aumento inammissibile del carico turistico nella città, è il vero colpevole dei danni alla laguna e ai manufatti che emergono. Ha distrutto ormai il 60% delle barene minacciando di mutare la laguna in un golfo marino, minaccia le fondazioni di rive, case, palazzi, costringendo ad una continua costosa manutenzione delle aree emerse, inibisce qualsiasi tradizione lagunare di mezzi non motorizzati.
Con l’accrescersi del turismo sono aumentati i mezzi per trasportarlo. Sono 1.200 oggi i motoscafi gran turismo, i taxi acquei, le barche per il trasporto delle merci. Questi mezzi veloci solcano ogni giorno canali interni alla città ed esterni della laguna? Si possono ormai limitare o fermare?
Ecco che ritorniamo nuovamente al problema delle grandi navi.

80.000 turisti al giorno visitano mediamente il centro storico, devono essere trasportati e nutriti, sciamano per la città, comprano nei negozi, mangiano, dormono negli alberghi. Gli esercizi commerciali, gli hotel, i ristoranti vanno giornalmente riforniti. A questo si devono aggiungere i 58.000 residenti con le loro necessità.
Un esercito di persone, a cui fanno seguito le salmerie, invadono Venezia, una valanga di merci da distribuire giornalmente. Su un tessuto urbano fragile e non più in grado di assorbirle.
Ecco qual’è il grande problema di Venezia, di fronte al quale anche quello delle Grandi Navi diventa piccolo.  Ciao Sandro

Caro Sandro, sono d’accordo, le grandi navi sono insopportabili ma non sono il problema principale della città, o addirittura l’unico. Il tema è quello dell’uso della città, di questo bene dell’umanità, che si sta cercando di difendere anche dalle acque alte, ma che non si difende dalla mancanza di idee per governarne i flussi turistici.

A me sembra che la situazione ormai è irrisolvibile. L’avere abbandonato a se stesso il turismo, non avere cercato di governarlo, ha ormai creato tanti e tali interessi che sarà difficilissimo scalzarli. Riprendendo quanto scritto da Marco, sono questi i privilegi consolidati, che sfruttano un “bene dell’umanità” senza porsi il problema della sua difesa e conservazione.

Questo è lo spettacolo che va in scena, non mi sento di applaudire.
Ciao e grazie 



Uscere, bidello, ministro (diario 231)





Uscere, bidello, ministro

Mi pare che il Parlamento abbia riconosciuto che il Ministro Cancellieri non ha commesso reato con la segnalazione, alle autorità carcerarie, dello stato di salute della sua amica Ligresti. È discutibile la scelta operata dal Parlamento e la questione non può essere chiusa così. Non si tratta di sapere quanti e nei riguardi di chi il Ministro è intervenuto. L’aspetto del ministro, da questo punto di vista, pare convincente: non è tipo da lesinare interventi umanitari. Ma il problema non è questo.

Come è noto i parenti ci sono dati dalle relazioni di sangue che legano ai genitori e agli altri membri della famiglia. Può quindi capitare che nella cerchia dei parenti ci possa essere una pecora nera, e tanto più stretto è il parente tanto più il suo comportamento colpisce e in qualche modo coinvolge.

Ma gli amici, come è noto, li scegliamo noi. Ci si può sbagliare: il gentile signore, affabile, simpatico, buono e caritatevole in realtà nasconde un abilissimo ladro, o un efferato assassino. Ci si sbaglia e si può rimediare troncando qualsiasi rapporto.

Ma si pesca nel torbido (fosse anche un torbido psicologico) quando consapevoli della poco onestà di una famiglia con questa si stringe amicizia. Certo ci sono le preferenze individuali: è simpatico e chiudo un occhio; non credo ai delitti che gli vengono attribuiti; è il vicino di casa; ecc. Anche questo è comprensibile. Ma questa comprensione vale per tutti? Non credo.

Un alto funzionario dello Stato, un Prefetto, un Commissario prefettizio, un Ministro, non è uno qualunque, non è né un bidello, né un uscire (pur essendo persone rispettabilissime,sono presi ad esempio per l’assenza di potere decisionale sulla cosa pubblica), per questi sarà la propria coscienza ed intelligenza a determinare con chi accompagnarsi amichevolmente. Ma un alto funzionario dello Stato, proprio per il suo potere decisionale, per il riverbero che questo potere emana su tutta la sua vita, compresi i suoi amici, deve stare molto attento alle sue amicizie, e questo anche se il “potere” viene tenuto estraneo al rapporto di amicizia.

La famiglia Ligresti, non era solo chiacchierata, ma il capo famiglia, don Salvatore (il solo titolo di “don” dovrebbe allertare) era stato inquisito per reati gravi, nei quali entrava anche la mafia, anche se prosciolto; era stato condannato, dentro l’inchiesta di tangentopoli, e aveva perso i requisiti di onorabilità con conseguente e obbligatorio abbandono delle cariche nelle sue società.

Una famiglia dalla quale un alto funzionario dello Stato, prefetto, commissario prefettizio e ministro avrebbe dovuto tenersi lontano, ma molto lontano. Così non è stato.

Il Ministro Cancellieri era per questo che avrebbe dovuto dimettersi, ma si è preferito affrontare l’aspetto giuridico della sua telefonata. Capisco che il Presidente del consiglio era preoccupato che tolta una carta tutto il castello di carte che forma il suo governo avrebbe potuto precipitare, ma così facendo si è data un’altra mazzata alla moralità pubblica (cosa di cui non aveva bisogno).

Più alto è il ruolo occupato all’interno della Pubblica amministrazione, più alto deve essere irreprensibile la condotta del singolo, anche nell’ambito della familiarità con terze persone (è una limitazione, certo, ma compensata dalla capacità di decidere) .



Il diversivo delle grandi navi a Venezia

Premesso che le grandi navi da crociera sono orrende, premesso che il loro passaggio nel bacino di San Marco sono un obbrobrio, mi pare che tutta la questione, con un apposito movimento (No! Grandi navi), con una mobilizzazione del consiglio comunale, riunioni ministeriali, progetti alternativi, ecc. costituiscono un diversivo rispetto al degrado cumulativo della città storica.

La marea dei turisti in tutti i mesi dell’anno, in tutte le settimane del mese e in ogni giorno della settimana hanno definitivamente mutato la natura della città storica. Quelli che arrivano con le navi da crociera sono una goccia nel torrente dei visitatori.

Si può fare qualcosa? Ormai non credo, qualsiasi cosa si faccia costituisce un ulteriore incentivo all’aumento del flusso turistico. Bisognava pensarci quindici/dieci anni fa, ma amministrazioni imbelli, incapaci e velleitarie, hanno prodotto questo disastro. Salvarsi la coscienza combattendo le grandi navi, ma di effetto nullo sul degrado complessivo della “città” (o meglio della ormai “non città”) è come mettere un pannicello caldo su una cancrena.



sabato 2 novembre 2013

Solo per sorridere



Selezione di annunzi trovati nelle bacheche delle parrocchie. Solo per sorridere

1. Per tutti quanti voi hanno figli e non lo sanno, abbiamo un’area attrezzata per i Bambini.

2. Giovedì alle 5 del pomeriggio ci sarà un raduno del Gruppo Mamme. Tutte coloro che vogliono far parte delle Mamme sono pregate di rivolgersi al parroco nel suo ufficio.

3. Il gruppo di recupero della fiducia in se stessi si riunisce giovedì sera alle 7. Per cortesia usate la porta sul retro.

4. Venerdì sera alle 7 i bambini dell’oratorio presenteranno l’Amleto di Shakespeare nel salone della chiesa. La comunità è invitata a prendere parte a questa tragedia.

5. Care signore, non dimenticate la vendita di beneficenza! È una buon modo per liberarvi di quelle cose inutili che vi ingombrano la casa. Portate i vostri mariti.

6. Tema della catechesi di oggi “Gesù cammina sulle acque”. Catechesi di domani “in cerca di Gesù”.

7. Il coro degli ultrasessantenni, verà sciolto per tutta l’estate, con i ringraziamenti di tutta la parrocchia.

8. Ricordate nelle preghiere tutti quanti sono stanchi e sfiduciati della nostra parrocchia.

9. Il torneo di basket delle parrocchie prosegue con la partita di mercoledì sera, venite a fare tifo per noi mentre cercheremo di sconfiggere il Cristo Re.

10. Il costo della partecipazione al convegno su “preghiera e digiuno” e comprensivo dei pasti.

11. Per favore mette le vostre offerta nella busta, assieme al defunto che volete far ricordare.

12. Il parroco accenderà la sua candela da quella dell’altare. Il diacono accenderà la sua candela da quella del parroco e voltandosi accenderà uno ad uno tutti i fedeli in prima fila.

13. Martedì sera, cena a base di fagioli nel salone parrocchiale. Seguirà concerto.

venerdì 1 novembre 2013

Fascismo, nazismo, una rinascita (Diario 230)



Fascismo, nazismo, una rinascita

In tutta Europa si osserva la rinascita di organizzazioni che si ispirano sia al nazismo che al fascismo, con il corredo di esaltazione della forza (bruta e brutale), del razzismo, dell’omofobia, del maschilismo (che può prendere anche la piega del femminicidio),tutto condito con ipocrisia moralista.

La cosa non fa meraviglia, questo millennio si caratterizza per “fondamentalismi” (il “mercato”, le religioni, il catastrofismo ambientale, ecc.) e per una crisi economica crescente, cumulativa e mai … definitiva o finita. In questa situazione non è strano che al di là delle fascinazioni ideologiche la gente colpita nella propria condizione di vita o che vede in pericolo il proprio futuro vede una speranza nelle semplificazioni catartiche. È certo che le semplificazioni sono sempre l’effetto di una mancanza di conoscenza e di cultura, di ignoranza della storia e della realtà. Ci sarebbe lo spazio per una grande iniziativa culturale (“battaglie delle idee” un tempo si chiamavano), ma le radici di questa crisi (che è economica, sociale, istituzionale e politica) avrebbero bisogno di altro.

Per quello che interessa, la “sinistra” che fa? Discute (poco), litica (su banalità e su questione di potere interno), prende delle flebili iniziative per cose importanti e necessarie (l’Imu, il cuneo fiscale, ecc.), ma sembra di avere dimenticato che la politica è anche fascinazione (brutto termine, lo so), deve cioè moltiplicare l’adesione perché prospetta una … nuova società.

Una nuova società non è una dittatura ma piuttosto si fonda su un principio di convivenza, di uguaglianza, di libertà, di diritti affermati e operativi, di rispetto reciproco. Insomma un comunismo adeguato ai tempi del nostro sviluppo economico, culturale e sociale, che si fondi sui diritti. Ma vanno anche indicati, in modo generale, quali mezzi usare per realizzare quegli obiettivi, quali ostacoli rimuovere, quali nuovi fondamenti organizzativi e giuridici individuare e dare a questa società.

Non un neo-paradiso ma una società complessa con gradi di contraddizione (modesti) in grado di riconoscere i meriti, mentre fornisce le condizioni perché tutti possano vivere con dignità e soddisfazione (diritti); che eviti diseguaglianze e squilibri; dove il lavoro possa essere occasione di realizzazione e non soltanto sacrificio; dove cultura e scienza siano patrimonio comune; dove il valore d’uso sia prevalente, dove la cifra fondamentale sia la libertà e i diritti.

Genericità, si potrà dire, non si fa fatica a riconoscerlo, ma i principi ispiratori sono fondamentali e poi non si tratta di “disegnare” una “mia” società, ma piuttosto è un “struttura intermedia” (un tempo si sarebbe detto un partito, ma forse oggi ci vuole altro che non sia un “movimentismo” senza radici), che sulla base del lavoro collettivo, della comune ricerca e discussione possa definire in termini più precisi la proposta di nuova società, non un disegno perfetto (quando mai!), ma un chiaro percorso, un’avventura collettiva (che può essere tradotta anche in precisi provvedimenti di cui sia possibile riconoscere sia l’ispirazione sia la strada intrapresa).

Ma di tutto questo non si vede niente (o molto poco), anche perché ci si deve liberare dalla maledizione dell’ ’89: non c’è solo la società di mercato capitalista-finanziaria vincente, si può pensare e lavorare per qualcosa di altro e di meglio.

Per capire, la proposta del reddito garantito si muove nella direzione giusta se non viene assunta come un strumento per correggere un momentaneo (?) “fallimento del mercato”.

Forse non ci si rende conto che è in atto uno scontro tra modelli di società a partire da quello del mercato capitalista-finanziario liberale (e con grosse piantagioni di autoritarismo e di violenza), a quello nazifascista (che può anche essere considerato come una variante del precedente ma che sempre più assume connotati propri), a quello “religioso” (in qualche modo trascendentale), a quello del naturalismo estremo che difende la specie insieme a tutte le altre, ma in realtà ha immanente un disegno di società non proprio libertaria. Solo degli esempi. Quello che manca è il modello del comunismo all’altezza dei tempi.

Tragicamente si può anche sostenere che lo scontro tra modelli di società sia una “finzione letteraria”, perché in realtà la società globale di mercato capitalista-finanziario è capace di far convivere in sé queste diverse forme di società, magari con conflitti (anche violenti) ma non distruttivi della sua essenza e soprattutto con strumenti autoritari) Ma si tratta di mettere in campo un modello di trasformazione (il comunismo all’altezza dei tempi)che si basi su una rivoluzione sociale fondata su individui liberi e consapevoli. Una mancanza che non lascia margini a speranze anche per la “nostra” inettitudine.


Negazionismo

Un gruppo di storici ha lanciato un appello contro la legge che definisce reato il negazionismo. Mi pare una posizione fondata anche perché, come scrivono, fare una legge serve a “mettersi il cuore in pace, e non fare niente”. Se tutte le manifestazione di ignoranza dovessero essere sanzionate dalla legge si dovrebbe predisporre una legge contro i “creazionisti” o meglio contro chi nega l’evoluzionismo, contro chi nega lo sbarco sulla luna, ecc. Tutti sullo stesso piano? certo che no, ma la realtà storica non può imporsi per legge.

Di seguito l’indirizzo del sito dove volendo si può aderire.
http://www.italia-resistenza.it/in_ evidenza/negazionismo-petizione-insmli-1070/


10 Domande

Segnalo, come richiesto, l’iniziativa di Vittorio Capecchi e lo ringrazio

Caro Francesco, ho pubblicato su www.inchiestaonline.it<http://www.inchiestaonline.it> le tue 10 domande facendone un concorso (chiedendo a chi legge di formularne di nuove e diverse) ovviamente aperto all'inventore e ai suoi amici. Puoi reclamizzare il concorso a chi invii il tuo blog? Un saluto affettuosissimo Vittorio