domenica 28 febbraio 2021

Rosa Luxemburg, ci può essere di qualche utilità

 

Diario

28 febbraio 2021

 

La mia formazione politica deve molto alla lunga collaborazione con Lelio Basso a Problemi del Socialismo e di conseguenza con il pensiero politico di Rosa Luxemburg.

Di questa militante comunista si celebra a giorni il 150 anniversario della sua nascita. Spero che sia una buona occasione, non tanto, di celebrazione, anche, ma soprattutto di riflessione sul suo pensiero politico.

Un pensiero non da prendere come un testo sacro, ma, come tutti i pensieri che contano, come una griglia che certamente deve fare i conti con le mutate condizioni della realtà, del capitalismo internazionale e della situazione della classe operaia (dal punto di vista soggettiva, ma anche dalla sua organizzazione e dalla teoria politica che lo guida).

Di là dalle questioni contingenti del suo tempo, il militarismo, l’unificazione o meno della Polonia, ecc. i capisaldi dell’elaborazione del pensiero di R.L. possono sintetizzarsi nel rapporto tra riforme sociali e rivoluzione (titolo di un suo testo) e nel rapporto tra democrazie e rivoluzione.

La Luxemburg negava che tra riforme sociali e rivoluzione potrebbe esserci contraddizioni, o addirittura che della rivoluzione non  sarebbe stata necessità bastando passare attraverso le riforme sociali. Lei penava che le due cose erano strettamente e fortemente legate e che ciascuna sosteneva l’altra. Si riconosceva la possibilità del capitalismo di modificarsi ed anche di essere in parte modifica, ma si metteva in luce i vincoli sociali, economici e culturali della società da permettere il raggiungimento dell’eguaglianza e della libertà. Per questo era necessaria la rivoluzione che usava anche le riforme sociali.

Quella della democrazia e del suo nesso con la rivoluzione è un altro punto fermo della sua elaborazione che la porterà anche a polemizzare con Lenin a proposito della forma partito e dei soviet. Cioè l’estensione della democrazia reale costituisce, secondo lei, uno degli elementi fondativi di ogni rivoluzione.

La cosa che mi sembra di un certo interesse, ragione per cui un ritorno a Rosa Luxemburg non sarebbe inutile, è che in modo confuso quei temi appaiono anche nella discussione del nostro paese. Mi pare che, per esempio, il tema della democrazia appaia evidente ogni qual volta affiora qualche discussione e riflessione sulla democrazia diretta, sui super poteri decisionali del governo, sulla messa in mora del parlamento, ecc. Non tutto ha lo stesso peso né tutto è risolvibile con scelte naif di democrazia diretta, ma è certo che la dilatazione della democrazia costituisce un passo verso la rivoluzione. Che cosa oggi possa significare rivoluzione e quale forma debba prendere la marcia per la sua realizzazione sono altre questioni, né la nostra può fornire un chiave.

Che oggi non si fa che parlare di riforme sociali è una banalità, ma cosa si debba intendere per riforma sociale, quale nesso costruire sull’insieme delle riforme sociali nel disegnare una nuova società è materia oscura.    

 

 

venerdì 26 febbraio 2021

Draghi e la capacità di governo

 

Diario

6 febbraio 2021

 

Per quanto bisogna essere cauti, il governo fa i primi passi, ma come diceva mia nonna “il buon giorno si vede dal mattino”. Dall’uomo al comando “plurichiesto”, noto per la sua indubbia competenza,  ad uso a trattare con i potenti della terra e nello stesso tempo a comandare, c’era da attendersi,  fin dall’inizio, delle scelte da farci restare con la bocca aperta. Niente di tutto questo, non solo,  ma mi pare si possa leggere in filigrana una strategia non adeguata a governare un paese.

Se hai un obiettivo solo, fosse anche ambizioso e di grande rilievo, come salvare l’euro, puoi indirizzare tutte le forse disponibili verso questo obiettivo, ma se governi un paese dove sono rilevanti, un po’ alla rinfusa, il controllo dell’epidemia, il crescente numero delle famiglie in difficoltà, la scuola (apertura e sicurezza), il calo dei consumi, il blocco dei licenziamenti, la disoccupazione in aumento, la capacità di arricchirsi di alcune categorie sfruttando la pandemia, i giovani che non studiano e non lavorano, i femminicidi, il consumo di droga, l’arrivo degli immigrati, la partecipazione a missioni di “pace” nel mondo,  le aziende in crisi, ecc. ecc. allora l’algoritmo diventa  molto complesso, non meccanico e automatico e necessità di una forte capacità di … governo.

Il motto andreottiano “a pensar male si fa peccato ma si indovina”, mi fa ribrezzo, per il suo cinismo e per l’assoluto disprezzo per il genere umano, ma senza pensar male, ma guardando alle scelte del presidente Draghi, si ha l’impressione che abbia messo a fuoco delle questioni privilegiate, mentre per il resto del ventaglio delle competenze e dei compiti di governo si sia “abbandonato”  alla tradizione. Non vi è dubbio che la lotta al virus e la messa a punto di un piano di spesa per le risorse che verranno dalla UE siano importanti, importantissimi, ma anche il resto riveste una rilevanza che non può essere dimenticata.

Mi sembra, per esempio, che il presidente Draghi abbia dimostrato una certa indifferenza per le indicazioni fornite dai partiti, per la nomina dei ministri. Non si può dire che si tratti del governo dei migliori. Ha badato ad alcune scelte che stavano nelle sue priorità, ma anche qui facendo perno su “amicizia e fedeltà” e su non meditati consigli. Per non parlare della questione dei vice ministri e sottosegretari, tutti bravi e soprattutto dotati di competenze multiple (il passaggio da un ministero ad un altro non contava). Una marea di nomine, risolvendo il problema della complessità delle questioni attraverso la numerosità dei responsabile. Brutta strategia.

Ma c’è un punto che mi ha meravigliato oltre misura, la nomina di Francesco Giavazza a consulente della Presidenza del consiglio. Il Prof. Giavazza ci allieta spesso con i suoi editoriali super liberisti, né mi pare che le sue precedenti consulenze (al governo  D’Alema  e al governo Monti) hanno lasciato il segno. La sua posizione è contraria ad ogni intervento dello Stato in economia, un liberista senza rete. Non è chiaro perché Draghi abbia scelto a suo consulente un professore di idee vecchie e non piuttosto uno dei tanti brillanti economisti con un forte senso di realismo.

Il prof. Caffè, per quanto l’ho conosciuto e discusso con lui nel suo studiolo in facoltà (mi spiace solo dell’esiguità del numero degli incontri, per colpa mia) scuote le testa riflettendo sull’uso che dei suoi  insegnamenti fa il suo allievo Draghi.      

   

domenica 14 febbraio 2021

E ora ?

 

 

Diario

14 febbraio 2021

 

I rituali sono stati tutti compiuti: la consultazione, l’accettazione, la lista dei ministri, il giuramento, la foto, le visite istituzionali, lo scambio della campanella, il primo consiglio dei ministri. Abbiamo il I Governo Draghi. Sono anche state indicate le priorità di lavoro (non i programmi di questo governo): vaccinazione, …. E ora?

Non ero un entusiasta del governo Conte, ma bisogna riconoscere che se siamo, in termini di salute, tra i paesi migliori d’Europa, Conte ed i suoi ministri qualche merito devono averlo, ma ci si può aggregare a tutte le autorevole voci osannanti il Governo Draghi? Io ho qualche resistenza, che proverò, brevemente a illustrare.

Non mi piace che tutta la polpa economica sia in mano ad un ristretto gruppo (Franco, Cingolani, Colao e, ci metto anche, Giorgetti) di stretta osservanza draghiana (so che è brutto scriverlo, ma mi perdonerete l’estrema sintesi). Tutti bravi, non voglio dire, ma una maggiore articolazione mi avrebbe soddisfatto di più. Non amo Grillo, ma non mi è piaciuto che questo sia stato imbrogliato, un ministero per la Transizione economica che non contenga lo sviluppo economico mi pare monco, anche se Cingolani presiederà, così è stato detto, un comitato interministeriale per controllare (?) il tasso ecologico do ogni decisione ministeriale. Può darsi che Grillo si sia spiegato male, ma se non fosse così la giusta autonomia del presidente del Consiglio stride con l’accoglimento della proposta Grillo. Non mi piace che i prescelti tra i partiti che non facevano maggioranza con il Conti II non siano stati scelti, a mio modo di vedere,  con mano felice. Non mi piace che oltre al denunziato squilibrio maschi donne sia altrettanto  la prevalenza di personalità del Nord rispetto a quelle del sud (non ne faccio un problema di campanilismo, ma di attenzione a questa parte del paese in grande sofferenza). Non mi piace che alla Carfagna, che è anche brava, sia stata di fatto assegnato il mezzogiorno che mi sembra troppo e denota una scarsa attenzione a questa parte del paese (immagino che Draghi veda risolta la questione del mezzogiorno all’interno della soluzione nazionale, è un vecchia ipotesi ma non è così).

Potrei continuare ma credo che basti, mentre sarà necessario continuare a riflettere sulle linee programmatiche del governo, di questi non si sa molto, si dice,  per rispetto al Parlamento. Aspettiamo.

 

 

giovedì 11 febbraio 2021

Gli amici li scelgo io

 

 

 

Diario

11/02/2021

 

Vi invio questo mio pensierino prima che il Professore Mario Draghi salga al Quirinale, ma sono fortemente deluso (non penso che queste mie riflessioni possono mettere in discussione l’ascesa, presente e futura del professore, ci vuol altro, ma la delusione è stata molto forte). Competenza, rilevanza internazionale, ecc. non si possono negare, ma gli uomini sono fatti di altro.

Mia nonna mi diceva sempre “ricordati che i parenti ci sono dati, mentre gli amici li scegliamo noi”. Era un saggio avvertimenti, di cui ho fatto tesoro, di stare molto attento alle mie frequentazioni.

È ovvio che durante la sua vita e la sua lunga professione il prof. Draghi ha incontrato persone di cui avrebbe fatto molto volentieri a meno stringere la mano, tanto meno intrattenere un rapporto di amicizia.  

Proprio per questo mi ha scandalizzato, sconcertato e deluso l’avere constatato che nell’incontro tra il Prof Draghi e Silvio Berlusconi ci fosse un alto tasso di amicizia. Si sono incontrati dei vecchi amici, solo il virus non ha permesso un abbraccio fraterno tra i due.

Io non mi aspetto molto da Draghi, ma quanti l’hanno visto come una sorta di giustiziere contro gli sprechi, come un fermissimo oppositore ad ogni corruzione, come un attento sostenitore delle regole, penso siano rimasti delusi. O forse la memoria corta, troppo corta, evita di ricordare chi sia il cav. Berlusconi.

Certo Draghi doveva incontrare Berlusconi, questo si presentava come un “capo partito” al presidente incaricato, ma uno spettacolo di freddezza ci avrebbe rincuorato, mentre la dimostrazione di amicizia, oltre ogni etichetta, ci ha deluso e preoccupato.  

  

martedì 9 febbraio 2021

Post-Pandemia? il futuro è ancora nelle città

 


Commento al libro di Giandomenico Amendola


 (Apparsa sulla CittàBene Comune, Casa della Cultura, Milano)

Il libro curato da Giandomenico Amendola, L’immaginario e le epidemie (Mario Adda Ed., 2020), è tutto costruito su “una modalità di rappresentazione che diversamente dalla razionalità, spesso invocata per affermare l’oggettività della percezione, non ha come obiettivo l’astrazione o la prova inconfutabile ed universalmente accettata” (p. 7). Questo nella convinzione che “la nostra esperienza è filtrata, consapevolmente o meno, dall’immaginario” (p. 8) che altera la nostra percezione della realtà in modo ancora più pervasivo e deformante quando ci troviamo di fronte a fenomeni che non trovano una spiegazione razionale, come può essere – o, meglio, come è stata nei secoli passati e come lo è anche ai nostri giorni – un’epidemia.

Amendola, nell’introduzione al volume, disegna un reticolo ricco e convincente del problema delle epidemie e di come queste siano state “trattate” – nel senso di assorbite e rielaborate – nell’immaginario sociale. Su tale maglia si innestano poi una serie di saggi di diversi autori – Antonio Ciuffreda, Rino Caputo, Andrea Leonardi, Fabrizio Violante, Silvia Surrenti, Letizia Carrera – che approfondiscono argomenti specifici attingendo dalla letteratura, dall’arte, dal cinema, dalla storia. Il curatore riflettendo sulla situazione attuale – cioè sull’epidemia di coronavirus che flagella l’Italia, l’Europa e il mondo intero – nota che alcuni nostri atteggiamenti non sono dissimili da quelli dal passato, cioè da quelli di secoli nei quali scarse erano le conoscenze scientifiche (rispetto a quelle di oggi) e molto carente la medicina. Il riferimento principale è alla peste del Seicento che colpì l’Europa (quella descritta da Manzoni per Milano e da Defoe per Londra). Tra le costanti Amendola evidenzia alcune costanti come la mancanza di una terapia, l’incertezza sul periodo di durata, la ricerca del colpevole che ha dato inizio alla pestilenza. Su tali aspetti oggi come allora l’immaginario collettivo si è spesso scatenato dando luogo alla costruzione di scenari improbabili, eppure per molti strati della popolazione credibili, come dimostra la loro rapida diffusione, estremamente favorita dalla rete. Saranno capitate anche al lettore situazioni come quella di cui io stesso sono stato personalmente testimonio che provano quanto la tesi di Amendola sia convincente. Ero nella sala d’attesa del mio medico, si era ancora all’inizio del contagio e non erano attivi i divieti attuali, eravamo in cinque o sei, quando uno dei presenti, con la sicumera del fanatico, ci ha spiegato che l’epidemia era causata dalle attenne per aumentare la velocità della rete Internet (5 Giga). Nessuno ha provato a replicare o a chiedere qualche plausibile, razionale o almeno ragionevole spiegazione sui nessi tra due cose evidentemente prive di ogni collegamento. Quelle affermazioni, al contrario, in quel clima di paura e insicurezza misto a credulità e ignoranza, stavano già facendo breccia nell’immaginario dei presenti.

Dunque, tra le due epidemie ci sono sicuramente elementi comuni. Per esempio, in termini di salute pubblica, il tema del distanziamento sociale che a quel tempo assumeva i connotati del lazzaretto, oggi quelli dell’autoisolamento prescritto dalle norme imposte dalle autorità. Ma anche – più simili ai lazzaretti – quelli di quegli hotel riconvertiti in centri di ospitalità per i malati di Covid-19. O, ancora, le mascherine che oggi trovano una giustificazione sanitaria precisa mentre nel Seicento assumevano l’aspetto di vere maschere con grandi nasi che venivano riempiti da sostanze che avrebbero dovuto – così si credeva – precludere l’entrata dei “miasmi” e dell’aria infetta nell’organismo e quindi evitare il diffondersi della malattia. Oppure, per citarne ancora una, quella delle credenze pseudo-religiose che, oggi come allora, non escludono che la vera causa dell’epidemia sia l’esito della “collera divina”, un castigo per il comportamento peccaminoso degli umani. Invece, ciò che sembra maggiormente caratterizzare la situazione contemporanea è che “l’immaginazione è dominata dai media. L’informazione televisiva e quella su Internet e i social è monopolizzata dal virus”. La quantità di informazioni e la continua ricerca di nuove informazioni allo scopo di placare l’ansia, in realtà – secondo Amendola ma anche secondo chi scrive – determina maggiore spavento. Una situazione nella quale la narrazione della realtà è fatta di voci, di “si dice” e da false notizie. Questa spettacolarizzazione della pandemia è accresciuta dalle affermazioni di tecnici, scienziati, politici, la cui narrazione non sempre è coerente e comprensibile. Col risultato che alcuni credono e altri no a cose vere e false e ciò che si determina è una situazione confusa nella quale, sostanzialmente, prevalgono ansia e incertezza.

 

Antonio Ciuffreda nel suo saggio (Cronache e racconti della peste, Firenze, Roma e Napoli) ci porta ad esplorare come in queste città, ma per accenni anche a Milano, l’epidemia di peste che imperversò in Europa nel Seicento, fu interpretata e combattuta come  questione di interesse “pubblico”, come oggi potremmo dire, ma che le soluzioni adottate non sempre sono state efficaci. La diffusione dei lazzaretti, il seppellimento dei morti fuori dalla città, la formazione di fosse comuni – non solo per i più poveri ma, in relazione al numero dei morti, senza distinzione di censo – di fatto risultarono inefficaci, soprattutto perché non si conosceva esattamente la natura della malattia. Un morbo con il quale, in realtà, la popolazione europea conviveva da lungo tempo, anche se la sua virulenza si presentava ad ondate. L’epidemia, tuttavia, determinò sconvolgimenti sociali non solo per il numero di morti ma anche perché finì per incidere su abitudini consolidate. E se in alcune città la ricerca degli untori costituì una parte rilevate dell’atteggiamento popolare e delle autorità, in altre, come a Roma, la questione non si pose. Va anche segnalato che le epidemie sono state l’occasione non solo per instituire apposite strutture di cura e/o confinamento sociale, come i lazzaretti e gli ospedali, ma per la costituzione di apposite istituzioni di tutela e di potere. 

La conclusione – che qui riporto per inciso: “la questione dell’uso di sostanze stupefacenti a fini artistici, per così dire, esula quindi dal rapporto tra letteratura e malattia. Questi due termini, invece, possono essere considerati come due aspetti fondamentali di quella grammatica più complessiva che è il nostro orizzonte antropologico culturale” (p. 69) – costituisce la chiave di lettura del saggio di Rino Caputo (Letteratura e malattia: un contagio permanente). L’autore in questo testo ci conduce attraverso una rapida – e non poteva essere diversamente – esplorazione della letteratura e del suo rapporto con la malattia, a partire da Tucidide fino a Gadda. Del resto, lo scopo non poteva essere quello di richiamare tutti gli autori che in qualche forma avevano trattato il tema della malattia, quanto, piuttosto, quello di mettere in luce come la condizione della malattia, o se si preferisse del malato, sia stata sempre elemento costitutivo del panorama antropologico al punto da pervadere la letteratura in ogni epoca.  

Andrea Leonardi riflette invece sul rinnovamento dell’età barocca quale – scrive – “ulteriore spunto di riflessione sui temi della fragilità umana e dell’ineluttabilità del trapasso” (p. 73). È proprio questa tematica che guida l’esplorazione dell’autore, che a partire dal Tintoretto (San Rocco e gli appestati), ci fa attraversare l’arte del Seicento seguendo come filo conduttore il tema della morte. Uno scenario artistico dove la peste, paradossalmente, contribuì a costituire una condizione per un generale rinnovamento dell’arte. 

Dopo aver presentato alcuni dei principali film che presentano narrazioni post apocalittiche, Fabrizio Violante ci introduce invece a una serie di film che hanno attinenza con la pandemia attuale e mostra come, fin nei particolari, l’immaginazione cinematografia abbia pienamente centrato i caratteri del nostro presente. “Gli autori del cinema horror e catastrofico – spiega –  si [sono] spesso dimostrati dei cronisti di guerra in tempo di pace” (p. 113). L’autore chiude la sua riflessione sul tema dell’isolamento con un interrogativo che, a pensarci bene, apre la strada a una questione di fondo che forse andrebbe affrontata a livello collettivo: “Come insegnano anche i più disastrosi film a tema pandemico – scrive Violante –, dopo la tempesta del contagio segue la quiete di una vita finalmente normale. Normale?” (116). In altri termini – aggiungiamo noi – che cos’è la normalità? Siamo proprio certi di voler tornare alla normalità pre-pandemica? Non sarebbe invece il caso di cogliere questa occasione per ripensare la nostra condizione di normalità?

Ripercorrere le misure di sostanziale isolamento adottate nella pesta seicentesca e accostarle, anche se in modo sommario, ai provvedimenti assunti per contrastare l’epidemia attuale è quello che fa Silvia Surrenti nel suo saggio (Il contagio, la cura ed il distanziamento sociale).  Le similitudini tra ieri e oggi sono impressionanti: in mancanza di cure specifiche, allora come ora, massima attenzione veniva posta all’isolamento dei malati dai sani nelle città. L’invenzione italiana dei lazzaretti, poi copiati in tutta Europa, costituisce emblematicamente lo strumento principe dell’isolamento. Anche la ricerca delle persone ritenute portatrici dell’infezione – ieri i poveri o oggi soprattutto gli stranieri – ci dice che, in fondo, nella cultura sociale le cose non sono cambiate di molto. In questo saggio appare di notevole interesse la questione dell’odore. Si credeva che la malattia avesse un odore che derivava dalla teoria miasmatica che caratterizzava molte città: miasmi da evitare trasferendosi in luoghi più salubri, ieri sulle colline toscane (Boccaccio) oggi nelle seconde case, o da evitare con maschere che contenevano aceto, mentre oggi abbiamo le nostre immancabili mascherine. Comunque, la malattia aveva nell’immaginario collettivo una puzza che, in genere, corrispondeva a quella dei poveri, mentre oggi si sperimentano, per ora con scarsi esiti, i cani per la ricerca, con il loro fine olfatto, dei malati nelle stazioni e negli aeroporti.

Il connubio tra città e malattia viene da lontano, sostiene Letizia Carrera nel suo saggio (Epidemie, città e immaginario urbano). La città è stata costruita a scopi difensivi immaginando che i pericoli restassero “fuori le mura”, ma quel nemico senza volto rappresentato dall’epidemia approfitta proprio della città per mietere le sue vittime. Per questo nemico invisibile non esistono mura e la città pare la condizione ideale per la sua diffusione. Solo a metà dell’Ottocento, quando John Snow “realizza la sua famosa ricognizione del percorso di contagio del colera nella Londra del XIX secolo” (p. 138), si affermano i principi dell’igiene personale e di quella urbana, l’unico modo per combattere i microrganismi che causavano le epidemie. L’affermarsi dell’idea di “città sana” fa emergere – nota Carrera – che “le città sono rigorosamente due”, quella della borghesia e quella degli slum. Una situazione che a Londra viene “creata” attraverso la realizzazione di nuovi tessuti urbani, mentre a Parigi sono gli interventi di Haussmann a darle corpo. L’idea che la città sia pericolosa in quanto malsana entra così nel senso comune. La tubercolosi assume il ruolo emblematico della malattia figlia della città malsana e a quella  si associa la sifilide come emblematica della città corrotta. Insomma, il male città si costruisce nell’immaginario collettivo anche se, tra Otto e Novecento – come la storia dell’urbanistica insegna – la città resiste, si modifica, si diffondono istituzioni per la cura e l’igiene, si moltiplicano gli spazi aperti, i parchi, ecc. Insomma, le pestilenze – e, più in generale la malattia o, meglio, la paura della malattia – contribuiscono a modificare le città, e si cercano soluzioni funzionali all’igiene urbana pur non venendo meno l’esistenza di quelle “due città” che sono una contraddizione non della città ma della società. Lo stesso, secondo l’autrice, sta avvenendo con l’attuale pandemia e così i luoghi che eravamo abituati a vedere affollati diventano rarefatti, poco frequentati, perché sconsigliati o persino vietati. E, rispetto all’immaginario sociale, siamo alle solite perché si rafforza l’idea del male città

 

Per concludere, quello che il volume curato da Giandomenico Amendola fa emergere con chiarezza – la ragione ultima per cui questo testo è di particolare interesse – è che le epidemie, passate e presenti, finiscono col mettere in discussione l’idea stessa di città che, per la sua stessa conformazione e per la sua natura di aggregato sociale ove gli scambi tra le persone si moltiplicano, appare come il luogo ideale per la diffusione del contagio. Questo libro è dunque una buona occasione per riflettere sui condizionamenti che genera la malattia anche a livello dell’organizzazione urbana. I singoli saggi tematici si intrecciano tra di loro e con il discorso introduttivo di Amendola offrendoci molteplici chiavi interpretative del presente e delle nostre attuali reazioni. Tra queste – anche se a giudizio di chi scrive è destinata a stemperarsi – un’idea di rifiuto della città a favore dei centri minori delle aree interne. Al contrario, è mia opinione che la città cambia e resiste, per ovvi quanto chiari motivi. Perché, in primis, così come nel Novecento, è ancora il motore della produzione della ricchezza, il centro dello sviluppo e dell’innovazione culturale, il meccanismo che favorisce la socialità, il luogo ove più normale è il riconoscimento dell’altro, compreso il diverso, dove si organizzano le forze sociali per il cambiamento: anche il cambiamento della città stessa. L’incontro tra le persone, occasionale o di prassi, la coesistenza in un determinato luogo, è nutrimento della comunità e della democrazia. La colloquialità urbana – chiamiamola così – e il dibattito pubblico sono un’opportunità importante del vivere quotidiano, per costruire la memoria individuale e collettiva, per creare un’opinione pubblica consapevole, matura, colta, e anche per esercitare le passioni. Ora, per tornare alla pandemia attuale è vero che nelle città, soprattutto nelle grandi città, è più facile contrarre il contagio perché si incontrano molte persone, si frequentano luoghi e mezzi di trasporto pubblico affollati, sono molteplici le occasioni di contatto. Ma è altrettanto vero che nelle città si trovano gli ospedali più attrezzati, è più attiva una catena sanitaria a cui fare riferimento (autoambulanze, pronto-soccorso, centri di ricerca che si occupano di salute, ecc.). Insomma, nella città si trovano tutt’e due le facce della medaglia: cosa che non dovremmo dimenticare nel ragionare sul futuro dopo la pandemia.

 

venerdì 5 febbraio 2021

Politica? dove sei?

 

Diario

5 febbraio 2021

 

Nell’ambito di questa consultazione che Mario Draghi sta conducendo, emergono dei temi che lasciano perplessi, o meglio mi lasciano perplesso. Alla rinfusa si tratta “del perimetro della possibile maggioranza”, del ricorrente tema, soprattutto nei commenti, del “fallimento della politica”; della tipologia del governo “tecnico” o “politico”; di un interesse “superiore” al quale tutti si dovrebbero piegare e al quale si piega anche Giorgia Meloni con la distinzione tra provvedimenti utili a paese e no, i primi godendo anche dall’appoggio di Fratelli d’Italia.

Tali dilemmi o angosciose domande (esagero) nascono non dal fallimento della politica ma dalla sua inconsistenza. Non credo che sia giusto ritornare alle categorie del ‘900, molta acqua è passata sotto i ponti, ma non si può pensare che la società (fosse anche liquida) abbia perso ogni elemento di distinzione al suo interno. Il concetto di “bene comune”, a me non pare discriminante ma equivoco. Facendo un po’ di retorica: cosa c’è di comune tra lo speculatore di borsa e il contadino disoccupato della Calabria? Si osservi che quando si innalza a bene primario e comune la salute introduciamo delle differenziazione nel difenderla, prima medici e sanitari, poi quelli con più di ottanta anni, poi i carcerati, ecc. ecc. Insomma se si guarda con occhi puliti la società non si può non vedere che essa è divisa i gruppi e sottogruppi, ciascuno con interessi proprio e spesso al proprio interno articolati.

I partiti hanno avuto il compito di amalgamare questi gruppi, rendendoli omogenei nei loro interessi e quindi nelle loro domande politiche, ma se ciascun partito pretende di rappresentare tutta (o quasi) la società  non ha interessi da rappresentare (di là dalla formulazione usata, che non potrà che essere generica, appunto “bene comune”) e quindi non ha domande politiche da mettere sul tavolo della consultazione. E ci si rifugia nel generico come  l’ambiente (ma le soluzioni per l’ambiente sono indifferenti per i singoli gruppi sociali?  Basta chiedere alla Confidustria) si può ottenere il massimo consenso nell’indeterminatezza dei contenuti.

Allo stato attuale data la genericità delle richieste politiche, intendendo non legando le richieste alle strutture della società (come per esempio i giovani, tutti uguali?), il tentativo di Draghi sembra poter andare in porto, ma questo non libera la politica italiana della sua inefficacia, anzi.

 

mercoledì 3 febbraio 2021

E' arrivato

 

Diario 3 febbraio 2021

 

Il tanto evocato Mario Draghi si è concretizzato nelle sale del Quirinale. Che si tratti di uomo di qualità non fa conto discuterne, anche se nella sua carriera si può cogliere qualche errore, ma chi non ne commette. Che sia un uomo di “potere” è altrettanto certo, e come tale è ad uso comandare, certo saprà anche mediare tra interessi forti, non è chiaro se saprà mediare tra interessi “politici” molto spesso deboli. Questo è un problema per l’incarico che ha ricevuto.

Un “governo”, anche un governo Draghi avrà bisogno e necessità di una maggioranza che lo sostenga. Una maggioranza da costruire. Ma costruire una maggioranza oggi non è cosa semplice e quando e se si riuscisse il suo grado di omogeneità sarebbe un indicatore di “tenuta”.

Non credo che il continuo appellarsi del bene comune del paese possa essere assunto  come un indice di omogeneità. I partiti non sono tutti uguali, non solo l’ideologia specifica di ciascuna è diversa, ma anche il riferimento sociale, di uomini e donne, costituiscono un  elemento dissociativo.

Le forze formalizzate che oggi, ma tutto può cambiare tra un minuto, appoggino un governo Draghi sono: Italia Viva; gli Europeisti; e forse i Responsabili. Contrari Fratelli d’Italia, il M5*. Hanno problemi il PD e Liberi e Uguali, che magari li supereranno. La destra potrà frammentarsi con Fratelli d’Italia da una parte e Forza Italia dall’altra, mentre la Lega avrà un forte travaglio che la può portare alla frammentazione. Draghi ha capacità per modificare questo quadro? Può utilizzare a questo scopo il “programma”  che solo se annacquato potrà servire allo scopo, ma Draghi non credo che voglia aggiungere acqua al poco vino. Un altro strumento è quello delle “poltrone”, ma non credo che il presidente incaricato sia disponibile a tanto.

Potrei sbagliarmi ma non credo che il tentativo di Draghi corra veloce, vedo tante difficoltà. Chi ha lavorato in questi mesi a sfasciare tutto in attesa del salvatore, non si è reso conto che sfascia, sfascia non resta che poco da ricomporre.

 

martedì 2 febbraio 2021

 

Sogno

18 novembre 2020

 

Scena prima

Una specie di aula di tribunale, che somiglia molto ad un’aula scolastica. Si discute un processo contro due giovani, un ragazzo e un ragazza.

I due sono accusati di assassino, il ragazzo di avere ucciso la madre con un colpo di fucile, sparato a brucia pelle, all’altezza del collo; la ragazza di essere sua complice e di appartenere ad una non molto definita setta.

I due vengono condannati a morte.

Discuto con il giudice della pena che mi pare ingiusta, soprattutto per la ragazza.

 

Scena seconda

In una stanza, non si capisce chi ci sia, sicuro in un angolo i due ragazzi in attesa che venga eseguita la condanna. Non piangono, sono un po’ amorfi, come se nulla di quello che sta succedendo fosse di loro interesse.

I due vengono presi e portati in altro locale, dove, presumibilmente verranno preparati e predisposti per la condanna.

Io entro, insieme a quello che risulterà un operatore, in una piccola stanza, quasi uno sgabuzzino, pieno di aggeggi elettrici: fili, manopole, ecc.

Vengono abbassate delle manopole e dei fili iniziano come a friggere, e il segno che l’elettricità colpisce i due condannati. Quello collegato con il ragazzo si ferma presto, segno che il ragazzo è morto, mentre la parte della ragazza continua ad andare avanti ancora un po’, ma poi anche il suo si ferma. 

 

Si potrebbe dire giustizia è fatta, questo nel sogno non c’è.

 

 

 

Sogno

13/1/2018

 

Scena 1

Una ragazza piange nella camera vicina. Apro la porta su un divano una ragazza (forse la Giulia, figlia di Flavia) piange. Mi avvicino chiedendole cosa abbia, per un po’ non risponde poi mi assale con insulti per il contenuto di una mia intervista,  nella quale avevo parlato della mia vita, dell’indifferenza verso le donne che dicevo di amare, della mia fortuna e bellezza, tirando in ballo anche mia madre che sarebbe stata felice quando entrando in un posto tutti mi ammiravano. (altro ancora, che non ricordo ma che in sostanza fornivano di me un quadro spregevole,  ecc.).

Negavo di aver mai concesso una intervista e soprattutto di questo tono, ma lei mi sbatte in facci la rivista del Consorzio Venezia Nuova dove l’intervista è stampata.  Non capisco cerco di ricordare fatti e discorsi e poi mi ricordo di essere andato a trovare  Marco (un funzionario del Consorzio) e forse di avere detto in quella occasione qualche scemenza.

 

Scena 2

Un passo in dietro.

 Io e il professore Cescon siamo convocati da tale Marco (che poteva essere Miracco)che aveva delle cose importanti da dirci. Entriamo nel suo ufficio ci fa accomodare, fa una brevissima telefonata, e poi comincia a cazzeggiare con me della mia vita. Non so perché ma sono preso da un impeto egocentrico e mi metto con divertimento a parlare di me, un po’ raccontando un po’  inventando.

Nella sua poltrona il Prof. Cescon sta zitto, e quando chiede perché siamo li, Marco gli risponde che ne avremmo parlato dopo.

 

Scena 3

Capisco di essere caduto in un intrigo o in un tranello, no ne capisco lo scopo ma tutto mi appare chiaro. La breve telefonata che Marco aveva fatto non serviva ad altro che ad aprire la comunicazione in modo che altrove (un altro Marco, responsabile delle pubblicazione) avrebbe potuto registrare tutto. Se da una parte mi è chiaro il meccanismo dall’altra mi è oscuro lo scopo di tutto questo.

 

Scena 4

Mi precipito all’Arsenale negli uffici del Consorzio Venezia Nuova. In contro Marco, quello che mi aveva ricevuto, l’insulto, gli chiedo perché, cerca di sminuire la cosa, dice che si tratta di uno scherzo. Lo minaccio che sarà uno scherzo che pagheranno tutti molto caro. Giro per gli uffici alla ricerca del secondo Marco, la segretaria mi dice che non c’è, si trova a Roma. La prego di chiamarmelo al telefono ma non risponde.

Intanto tutti passano ed hanno una risatina ironica sulla faccia.

Un signore, vestito di grigio chiaro, di una certa età ma non vecchio, mi chiede cosa è successo, io gli racconto tutto ed allora lui dice che è il direttore di una banca, che ha come cliente il Consorzio e mi invita ad andarlo a trovare.

 

Scena 5

Decido che è tempo di fare una denunzia e mi avvio verso il tribunale, con me cammina Flavia, alla quale chiedo quale sia la sede della banca del direttore che mi aveva invitato. Me la mostra è proprio accanto al Consorzio.

Con Flavia attraversiamo Venezia, una Venezia molto degradata, facciamo ponti e calli. Flavia compra della verdura.

Io devo andare verso piazzale Roma al tribunale, siamo verso il ponte dei sospiri e mi stacco da Flavia perché devo telefonare a Felicia, Flavia mi fa cenno che si tiene lontano. Ma al telefono nessuno risponde.

 

Scena 6

 Sono al tribunale, solo. Chiedo del PM di turno, mi dicono che è occupato e di aspettare. Mentre aspetto mi siedo ad un tavolo di fronte ad un cancelliere, e gli racconto tutto.  Lui conferma la gravità della cosa, che ha aspetti penali e civili (risarcimento). Ma che andrà fatta presto un denunzia.

A questo punto mi viene in mente che forse avrei bisogno di un avvocato, ma rifletto che non conosco nessun avvocato, i pochi che conosco (di nome) sono tutti professionisti legati al Consorzio. Penso allora che forse Flavia che conosce tutti potrebbe suggerirmi qualcuno.  

La domanda è: perché nel sogno mi sono preoccupato tanto? La cosa mi sembra grave in termini di relazione tra le persone e reciproca fiducia, ma il contenuto reale forse è insignificante. Quello che forse ha maggiormente inciso nel prendermi a cuore la questione è il pianto iniziale della ragazza (forse Giulia), effetto di un film sentimentale (Le amiche nemiche)visto la sera prima? Ma!

 

Sogno

4/9/2920

Sono un giornalista, sono io ma ho un aspetto diverso, sono più alto, con i capelli neri. Sono davanti ad una villa perché voglio intervistare un grande architetto americano.

L’entrata della villa è chiusa da un cancello lungo, non alto, di ferro, come se fosse un’entrata di un garage.  Suono nessuno risponde, risuono e aspetto.

Dopo un po’ di tempo l’architetto americano, che ha l’aspetto di un famoso giocatore di tennis, si avvicina al cancello e mi chiede cosa voglio. Gli spiego che vorrei intervistarlo.

 Si irrita, “le solite domande sui miei amori, le fidanzate, le moglie, non ne posso più”, spiego che non sono interessato a questa roba, quello che mi interessa è il suo lavoro. Mi pare si rabbonisca. “aspetti” ed entra in casa.

Passa un bel po’ di tempo, e all’improvviso vedo una macchina con lui dentro che va via. Mi metto di fronte e costringo la macchina a fermarsi, le chiedo dell’intervista e mi risponde di aspettare, dopo di che va via.

 

Ora sono dentro al suo studio, grandi sale, grandi disegni alle pareti, modelli di città tridimensionali appese ai muri. Un vero studio di architetto.

Mi fa segno di seguirlo e mi porta davanti ad un gran pentolone posto su un fuoco dove bolle e ribolle uno strano liquido di cui non capisco la natura.

“vuole vedere il mio lavoro, stia qui zitto e fermo”, prende da alcuni recipienti delle piccole palline, mi paiono di plastica, di diverso colore, ma soprattutto rosse, blu e verde, e le getta dentro il pentolone e continua con un grande legno a rimescolare.

Ad un certo punto affiorano degli oggetti. Prende il primo si tratta della pianta di una città, che riconosco subito come quella di Palermo, sulla quale volano aerei, parte della città è distrutta. Mi spiega che si tratta di uno studio fatto sulla città di Palermo e dei bombardamenti che la città aveva subito durante la seconda guerra mondiale. La pianta e come costruita con tanti fili di ferro, diversamente colorati, ma che forniscono una visione chiara. In più gli aeroplani che la sorvolano sono  realistici e spaventosi. La cosa eccezionale è che non si tratta di un’opera tridimensionale, ma è piatta e pure la tridimensione si vede e percepisce.

Mi da le altre due opere, più piccole della precedente, mi spiega di cosa si tratta ma sono tutto preso dalla prima che seguo poco.

(c’è un pezzo dl sonno abbastanza inconsistente, nel quale sono su un aereo e sorvolo,credo Palermo, ma sono sull’aereo come se fosse una barca, mi sporgo, passo su un altro aereo, ecc.).

Ora sono nel mio studio è sto montando la mostra dei tre pezzi. Su un foglio bianco,non so se di carta o di altro materiale, sistemo al centro, la figurazione di Palermo, mentre ai fianchi scrivo un commento. Non so cosa ho scritto, ma  l’insieme è molto elegante. Così faccio con le altre due opere.

Ora sono io, come sono ora, o meglio qualche anno fa, sono seduto davanti al noto architetto è gli chiedo se per caso nella sua organizzazione non ci fosse un posto per un ingegnere esperto di organizzazione. Se ci fosse spazio io sarei disponibile.

Mi dice che si può sperimentare per cinque mesi e poi decidere. Alla paga di 1.000 dollari al mese. Rispondo che farei felice ma a quella condizioni non posso accettare, con 1.000 dollari al mese non riuscirei sopravvivere. Allora mi chiede cosa vorrei, io rispondo 5.000 dollari al mese. Si può fare mi dice.

Così ci mettiamo d’accordo che nei prossimi tre mesi finirò le lezioni che faccio all’università, migliorerò il mio inglese, e poi potrò prendere servizio da lui. Tutto bene. Esco dallo studio felice e molto contento.

 

 

 

 

Sogno

23 ottobre 2017

 

1 scena

Non so se io o una persona non nota mentre io sono l’osservatore, equivoco che si mantiene durante tutto ll sogno, il racconto del sogno viene fatto in prima persona.

Sono in mare, attaccato ad uno di motorini che trascinano i sub, mi diverto a guardare i fondali, e mi faccio trascinare allegramente.

Continuando a girare finisco per quasi sbattere contro un veliero di foggia antica. Alzo gli occhi e un signore con abiti settecenteschi mi rivolge la parola. Anzi mi vuole assoldare per un’impresa che descrive mirabolante.  Mi mostra la fotografia di una statua, una specie di Laocoonte, dove è evidente che manca un pezzo. Mi spiega che il pezzo mancate si è perso in mare ed io dovrei essere incaricato di trovarlo.  

 

2 scena

Sono in un monastero, che è pure un ospedale per la cura di particolari malattie. Il mio ufficio è alle spalle dell’ufficio del priore del monastero, dentro l’ufficio si sente un buon profumo, ma non saprei dire di cosa. Sono seduto alla mia scrivania, leggo, maneggio carte quando la porta si apre ed entra il signore, sempre in costume, delle scena precedente. Egli mi invita a prepararmi per un viaggio di 11 mesi, un viaggio molto straordinario.

 

3 scena

La scena 3 si svolge su una o più navi, ma di questo ho poca memoria .

 

4 scena

Siamo in un  festino (la festa fa riferimento al quadro di Velasquez, la menina). C’è un sacco di gente, molti sono ubriachi, alcuni  giocano a bocce con bocce in pietra dura. C’è sempre il signore  in costume, che a un certo punto lascia la stanza.

 

5 scena

Il solito signore toglie la firma dal conto (non è chiaro di che conto si tratta), la ricerca è stata vana, il pezzo della statua non si è trovata. Ma ecco che emerge nella scena la sposa, essa sbraita, si lamenta è più o meno distante, è sdraiata su una specie di conchiglia di metallo che gira, è sdraiata ma in modo tale che si vede anche il suo pube, che ha la forma di una  fontana, e un flusso continuo sgorga da questo pube, segno di fertilità. Un uomo, lo sposo,  si lancia sulla donna sdraiata l’abbraccia e le chiede se lo ama.

 

6 scena

Affacciata ad un poggiolo su un canale di Venezia, una donna (io? Non è chiaro) si sporge e lascia cadere in acqua due pistole, di foggia antica legate tra di loro. Le getta via affinché la polizia non li trovi. Ma scopre che in mano le è rimasto un piccolo cannone di ottone, di forma tozza, allora decide di smontarlo, perché in tanto ha visto che la gente dalla calle la guarda con curiosità e poi vede tre guardie, di foggi antica con il cappello a tricorno, questi sembrano avvicinarsi  e si avviano a salire nella casa dove si trova. Freneticamente cerca di smontare il cannone che intanto è diventato un mobile verticale, è stretto un metro per 30, quando lo apre scopre che è pieno di mattoni forati, che assolutamente  deve togliere, non riesce ma a un certo punto il mobile cade sulla calle e si sfascia.

 

7 scena

In una stanza con un nano o un bambino, non è chiaro, un altro uomo e stanno costruendo, lavorando con fatica, ma non è chiaro che cosa costruiscono. Poi vogliono uscire, saltano per suonare una campanella fissata in alto, nessuna risponde allora il bambino o nano mi sale sulle sue spalle e si attacca alla campanella e continua a suonare. A un cero punto dal vetro della porta vedono che sta arrivando una bambina in costume (menina) con aria sorridente e dispettosa, ha attaccato al collo una chiave, con gesti la imploriamo di aprire la porta, ma lei sorride ironicamente e apre la chiave che aveva al collo, come se fosse una scatola,  da questa esce una nuvola gialla che ci stordisce tutti.

 

8.

Dal vetro della porta vedo la moglie che sta predisponendo una bara per  se stessa; si prepara si acconcia e si taglia i capelli. Lui (forse io) vuole mettere nella bara un suo dono, un oggetto di cera, non identificato, che tiene in mano, implora che gli apra la porta, ma lei fa segno di no, gli fa capire che  deve piegarsi, fisicamente a terra per dare significato al fatto che sia un suddito e un popolo perché adesso è solo un impostore.

 

 

 

 

 

Sogno

29 ottobre

(sogno imbarazzante per il suo romanticismo)

 

Le e lui (io), sia amano, si fanno tante carinerie e coccole, sembrano felici.

Sulla base di precedenti discorsi e accordi tra i due, lui ha preparato, senza dirle niente, la casa dove andare a stare.

Si vede una bellissima casa moderna, dai colori chiari, dalle grandi finestrature che si affacciano su una zona alberata. La camera da letto è pronta, ne avevano discusso tante volte, la realizzazione corrisponde a quelle descrizioni. Un’altra stanza attrezzata è il suo studio, mentre la stanza dove sarà collocato lo studio di lei è vuota, ritiene che non possa essere lui ad organizzare la stanza del suo lavoro. Così pure il soggiorno ha pensato che doveva essere un lavoro che dovevano fare insieme.

Si incontrano, lui le porge la chiave e le spiega che la casa è pronta. Lei è perplessa, ma non tanto della casa, ma perché non è pronta a fare questo passo, non è pronta ad una convivenza (matrimonio). Vuole più tempo non è sicura dei suoi sentimenti. 

Lui ci resta malissimo, è abbattuto, addolorato, sconfortato e infelice. Tutto gli è crollato intorno. Considera questo rifiuto come la fine della loro storia. Lei lo rassicura che non è così, ma lui è ormai ne è certo.

Per dimostrale il contrario, forse per mascherare la situazione lei gli propone di fare quel viaggio che avevano programmato da tempo: un fine settimana in Corsica.

Si vede che partono, salgono sulla nave, lui sempre scuro ma meno nero. Del viaggio non si sa niente.

Ritroviamo i due  al ritorno. Devono essere stati bene, sono allegri. Si salutano, lei gli chiede se la sera si vedranno, lui nicchia e rifiuta con la scusa della stanchezza. Lei insiste, allora ci vediamo domani mattina, lui dice non so, ho un sacco di cose da fare. Si salutano. Lei è perplessa e preoccupata.

Lui va a casa, fa una doccia, guarda la televisione, legge a lungo, tardi si mette a letto, estrae dalla comodino una pistola e si spara.

La mattina Lei chiama ma nessuno risponde, è preoccupatissima. Chiama un amico comune che l’accompagni a casa di lui.

Lo trovano a letto agonizzante ma ancora vivo. Si era sparato in modo da sopravvivere se lo avessero cercato, o morire lentamente se nessuno si fosse preoccupato di lui.

Ha affidato la sua vita all’attenzione di lei, al suo amore manifesto. 

 

 

 

Sogno

15/06/2020

 

Scena prima

Sto facendo uno stupido gioco. Ho un mazzo di carte che per metà sono rosse e per l’altra metà sono nere, il mio compito è quello di fare dei gruppi ordinati che vadano dal K all’Asso, ma mancano alcune carte, in particolare dei 7 e dei 9, ma ci sono anche delle carte coperte da scoprire alla fine in qualche modo sono riuscito a realizzare l’obiettivo.

 

Scena seconda

Sono in un bosco o comunque in mezzo ad alberi. Dormo su un tavolaccio. Contemporaneamente so, non so come, che potrei essere assalito da uccelli rapaci. Sono anche vigile, così sento l’arrivo di un grosso uccello, il quale però si infila sotto il tavolaccio dove dormo e sparisce, del suo passaggio resta una grande macchia marrone sul terreno di una sua cacca, ma lui è sparito.

Nel mentre parlo, mi pare al telefono, con un’amica che mi annunzia l’arrivo di uccellacci, mi parla di una poesia che parla di morte ma che non mi legge ma che mi spedirà. Poi mi narra di un cavaliere, una specie di cavaliere antico, che era sceso nel bosco e aveva incontrato 333 nemici, che lui aveva ucciso nella misura di 332, uno si era salvato, era lui stesso.

Annunzi, racconti, un po’ sconclusionati. Non so cosa pensare.

Mi guardo intorno e vedo vicino, posato su una tavola, una tavola adatta ad essere lavorata da un falegname, un grosso uccello rapacce, fermo con l’occhio aperto e immobile. Mi alzo lentamente dal mio giaciglio e mi porto dietro l’uccello rapace, raccolto una tavola uguale a quella dove è posato l’uccello e con questa colpisco l’uccello, lo schiaccio sotto la tavola. Ma l’uccello era morto, si spappola in una nube di penne. In un certo senso sono deluso, ma anche contento.

 

Scena terza

Decido di attrezzarmi per difendermi da un eventuale attacco di uccelli. Mi armo di un “coppo”, quello che si usa nella pesca, la mia idea è che se arriva un uccellaccio lo prendo prigioniero con il coppo, e poi lo uccido a bastonate con un bastone di cui mi sono armato.

In questa configurazione sono ancora io ma da ragazzino, appunto quando andavo a pescare con il coppo, e con in testa un cappello da esploratore.