sabato 31 ottobre 2015

Vecchia e nuova questione urbana

Vecchia e nuova questione urbana
Francesco Indovina

da A. Becchi, C. Bianchetti, P. Ceccarelli, F. Indovina, La città del XXI secolo. Ragionando con Bernardo Secchi, Franco Angeli, 2015


1. La città e l’economia: da determinante a determinata
La città è stata sempre collegata all’economia: anche la prima città nota sorge e si sviluppa sulla base di un'innovazione tecnologica che aumenta la produttività della terra e del lavoro e permette, per questa strada, l’accumulo di un surplus e quindi l’articolazione sociale e la prima divisione del lavoro. Sono note nell’antichità e dal medio evo, fino ad oggi, le città porto, le città mercato, ecc.
Tra città ed economia la relazione è molto stretta al punto che è possibile affermare che la città genera l’economia (nelle sue diverse fasi storiche). Senza determinismo, perché con l’evoluzione e il progresso sociale si muovono dentro, contro e a favore della città, altre forze e si costruisce un pensiero “autonomo”  di organizzazione della città.
Evidentemente questo rapporto non assume sempre la stessa forma: dentro questa relazione le condizioni locali (risorse, tradizioni, esperienze, intelligenza organizzativa), nonché i rapporti con altre città (economie), ed ancora la forma di istituzionalizzazione del governo e del potere, influiscono a determinare variazioni, similitudini e difformità di tale rapporto.
Si può affermare, con una rilevante semplificazione, che la città ha una forte influenza nel determinare la propria economia. Si intende sostenere che sono le specifiche e varie condizioni urbane a influenzare e strutturare l’economia della città; il  livello di relazioni esterne, il livello tecnologico, la struttura sociale, il livello di ricchezza complessivo e dei singoli, le conoscenze scientifiche e altro ancora, non sono marginali nel dare corpo ad una specifica economia. Dall’altra parte ciascuno di questi aspetti influenza ogni altro e la città nel suo insieme, in un rapporto di relazioni circolari che fanno grandi certe città o che ne fanno decadere altre. L’estrema semplificazione di quanto detto non può, infatti, eliminare il fatto che l’organizzazione urbana tenda a determinare la sua economia, con differenze di luogo e di epoche.
La città, in quanto tale, per molto tempo, per molti secoli,  non fa problema: è la sua organizzazione che è determinante per la sua economia. Fondamentale appare la sua struttura fisica/morfologica (dove è insediata nel territorio e in quale territorio e in quale relazione con altri territori), mentre  la modesta  suddivisione funzionale e sociale dello spazio è l’esito di un’economia non pervasiva e la sua struttura sociale stabile garantisce il perpetuarsi della sua stessa economia e della struttura sociale corrispondente. Non si sostiene che si è di fronte ad una città pacificata, spesso conflitti interni devastano la città, spesso strati subalterni si “ribellano”, ma molto spesso il conflitto si indirizza, fino alla lotta armata, verso altre città, per la conquista di un territorio, delle risorse relative, per mettere in ginocchio un’economia concorrente, ecc.
La cosa rilevante che piace sottolineare è che mentre la città è determinante per lo sviluppo di una qualche forma di economia che si relazioni con l’esterno, non tutta la città (le sue forze sociali) sono coinvolte specificatamente nell’ambito di questa economia, non solo perché esistono fasce consistenti di “autarchia” , ma anche perché accanto al sistema economico principale sopravvivono sistemi economici autonomi e indipendenti, circuiti secondari potremmo chiamarli, che nello scambio interno, nella cooperazione e nella reciprocità trovano la loro sopravvivenza.
Tutto questo vale fino all’affermarsi del modo di produzione capitalistico: con il capitalismo tutto cambia, è la produzione capitalistica che determina la condizione urbana. Mi si faccia grazia di questo passaggio brusco, non intendo una rottura definita ad un tempo individuabile, ma un processo, che pur tuttavia ha avuto dei punti di accelerazione (ne cito uno su tutti, il grosso processo di immigrazione della “manodopera liberata” dalla campagna nelle città, dove sorgeva un “mercato del lavoro” dai caratteri assolutamente nuovi e diversi rispetto a quello della campagna, che mercato non era.).
Quando si fa riferimento al modo di produzione capitalistico, non si intende soltanto il “lavoro in fabbrica”, ma il ciclo completo del capitale (produzione, riproduzione, valorizzazione). Non è quindi con l’occhio alla fabbrica che si afferma che il modo di produzione capitalistico si impone sull’organizzazione della città, ma guardando piuttosto al ciclo completo del capitale. Così quando indichiamo che il capitale impone la sua legge sulla città, non intendiamo un determinismo banale, ma misuriamo questa imposizione con quello che contrasta o corregge questa volontà di dominio e questa oggettiva necessità (come si vedrà più avanti).
Quello che importa mettere in evidenza è un passaggio, che semplifico: dalla città che determina l’economia, all’economia che determina la città. E se in precedenza l’interpretazione della città partiva dalla città stessa ora è il processo di produzione capitalistica che permette la lettura della nuova condizione urbana. Se la città prima non faceva problema ora essa fa problema, diventa  questione urbana, non cioè la semplice analisi delle condizioni di organizzazione della città, dei suoi aspetti critici, della sua struttura, ma piuttosto la tematizzazione di come il capitale si proietta sulla città, come esso determina la città, la sua organizzazione e quale effetto produce la divisione sociale imposta dal capitale sulla città. Nella fase pre-capitalista, seguendo in parte Polanyi, l’economia riguarda i mezzi e i rapporti attraverso i quali gli individui raggiungono i loro obiettivi di vita e di riproduzione sociale, questi sono definiti di “reciprocità” e di “redistribuzione”. Sono le regole sociali e di potere che determinano il meccanismo di scambio secondo i bisogni. Di conseguenza in questo lungo periodo la città è determinata da volontà sparse;  insomma la città non discende da una “scelta” specifica relativa alla sua organizzazione economica. Altri sono gli aspetti che determinano l’organizzazione dello spazio urbano,  la “difesa”, per esempio,  – mura, porte, torrioni, ecc., - ma anche la forma assunta dalla vita politica – l’agorà, il foro, per esempio,- i culti religiosi, le attività ludiche, ecc. 
Al contrario, con l’avvento del capitalismo e con l’affermarsi dello scambio di mercato, alla base dell’organizzazione della città sta una scelta funzionale al processo complessivo del capitale; questo non vuol dire che necessità ludiche, religiose, ecc. siano disattese, ma esse rientrano all’interno del processo complessivo del capitale e segnatamente della riproduzione  della forza lavoro; né scompaiono gli elementi di “potere”, ma essi assumono l’aspetto di “regole generali”.
Non si intende dire che prima la città era un esito casuale, ma piuttosto che era  un esito di “come andavano le cose” (si potrebbe scrivere “naturale” se questo termine non avesse significati contraddittori) mentre con il capitalismo si impone la scelta: forma, organizzazione, meccanismi di rappresentanza, ecc. sono il risultato di scelte consapevoli (nella sostanza) perché niente deve sfuggire alla valorizzazione del capitale. È a questo punto che la città fa problema, cioè emerge come questione urbana, che interpreta contemporaneamente l’organizzazione di sé e la dipendenza dai rapporti sociali di produzione capitalistici.
La relazione tra capitale e città che ha impegnato molti studiosi, appartenenti a discipline diverse (Max Weber o Alfred  Marshall, per esempio), ed è affrontata nel secolo scorso in numerosi studi di impianto marxista, prevalentemente italiani e francesi[1],  apparsi, cioè, in paesi dove  più forte era l’influenza del pensiero di Marx. In quest’ambito il problema troverà una sua più completa trattazione nel testo di  Manuel Castells, La questione urbana[2]. In questo saggio la relazione tra il processo di produzione capitalistico e l’organizzazione dello spazio (urbano e regionale) è analizzata in dettaglio e la questione urbana assume sia connotato scientifico ed epistemologico, sia, soprattutto, acquista dimensione politica[3].
Il capitale nella sua forza prometea tutto investe e travolge;  tutto definisce nei suoi termini di convenienza. Ma attenzione,  nello stesso tempo crea i suoi antagonisti e dà forza ai suoi antagonismi (ideologici, culturali e sociali) che mettono un freno alla sua voracità, altrimenti assolutamente priva, per propria natura, di autocontrollo, nella convinzione che il suo affermarsi e il suo penetrare in tutti i nodi della società non potrà che determinare progresso.
Non si crede necessario sottolineare che il modo di produzione capitalistico sia un processo dinamico e continuamente in trasformazione, mentre si assume come stabile la sua logica di valorizzazione. Le modalità di produzione e realizzazione potrebbero essere mutevoli nel tempo e nello spazio, ma omogenea la finalità di valorizzazione. Senza dire che  il suo sviluppo è dipeso anche da quelle forze antagonistiche che ha generato (questione che qui si tralascia) e che hanno, appunto, permesso di frenarne forza e voracità determinando anche livelli di progresso sociale e civile.

2. La questione urbana problema politico
L’organizzazione urbana, con l’affermarsi del capitalismo, diventa, come detto, un problema politico, cioè questione urbana e determina la necessità e definisce le condizione della politica urbana, cioè di una scelta consapevole e finalizzata dell’organizzazione dello spazio: scelte politiche intorno alla “gestione”, alla distribuzione delle funzioni, ai diversi livelli della rendita, alla differenziazione sociale dello spazio, ecc. La determinazione del modo di essere della città, la sua struttura e organizzazione sono sempre più viste come una variabile del processo economico; un processo economico che essendo molto dinamico, in tutti i sensi, ha bisogno che la città continuamente si adegui, e sia disponibile a tale adeguamento. La struttura fisica della città, per quanto resistente, non appare più come un ostacolo al cambiamento, essa deve assumere le caratteristiche di malleabilità (la difesa della sua struttura morfologica e storica diventa anche essa oggetto di conflitto politico e sociale).
Ma attenzione non si parla di una “città fabbrica”, formula che costituisce una inadatta semplificazione: la città moderna (quella del capitale), per quanto dal capitale determinata,  non appare e  non risulta  completamente riconducibile  al capitale. Certo gli interessi di questo sono fondamentali e costituiscono una guida per l’organizzazione dello spazio, ma nella sua realizzazione l’organizzazione dello spazio deve fare i conti con l’articolazione sociale, con gli antagonismi che il capitale stesso genera, con le ideologie e le idee che in ogni specifica fase si affermano, e devono avere un sguardo al contesto. Al di là della microvisione del singolo capitalista, la politica dell’organizzazione dello spazio  dovrà fare i conti con i conflitti, espressi e latenti, con il modificarsi del contesto, con la riproduzione dell’organizzazione sociale, in una visione ampia e dinamica focalizzata al cambiamento. Non può essere nudo segno del capitale.
Così nel secondo dopoguerra il contrasto geopolitico tra blocchi, la pregnanza di analisi economiche e sociali più moderne e realistiche, nonché la necessità di evitare i danni sociali e politici del primo dopoguerra  (disoccupazione di massa, inflazione, conflitti, fascismi, ecc.), spiegano l'affermarsi di  una politica socialdemocratica, o keynesiana se si preferisse, che dà forma e corpo al Welfare State[4] e che investe principalmente la questione urbana. Sicuramente l’affermarsi di tale indirizzo politico non è omogeneo in tutti i paesi (o in tutti i capitalismi): in alcuni il WS ha avuto una dimensione pervasiva in altri meno, ma sicuramente ha messo in campo una serie di “provvedimenti politici” che hanno toccato la questione urbana (la politica per la casa, l’assistenza e le pensioni, i servizi sanitari, ecc.) e posto limiti all’aggressività, anche sociale, del capitale. Nei diversi paesi, cioè nei diversi capitalismi, tali opzioni sono state accettate o combattute (a viso aperto o in modo sotterraneo),  secondo i livelli di sviluppo e di organizzazione politica degli antagonisti.
Negli anni ’80, continuando questa estrema semplificazione, cambiati gli equilibri mondiali, messe in evidenza le prime concrete avvisaglie della crisi fiscale dello Stato[5] e un mutamento delle opzioni politiche in Inghilterra e Usa, si deftermina un diverso quadro politico, che va sotto il nome di thatcherismo, dal nome della primo ministro inglese Margaret Thatcher, caratterizzato da un liberismo estremo e da un altrettanto estremo individualismo.  Nella filosofia della Thatcher la “società” non esisteva, esistevano solo gli individui, e questa visione ispirò la sua politica, liberista senza riserve e limiti (deregolazione, tassazione indiretta, vendita del patrimonio pubblico, riduzione della spesa pubblica, liberalizzazione finanziaria, ecc.). Tale indirizzo politico, così come il precedente, divenne il sub-strato ideologico di ogni governo dei paesi di antico sviluppo (Europa, Usa, Canada, Giappone).
La questione urbana, in questa temperie, fu travolta: povertà, slum, degrado, riduzione dell’intervento pubblico, riduzione dell’assistenza, una drastica divisione sociale dello spazio, ecc.[6]; questi sono stati gli esiti. La deregolamentazione (del potere pubblico)  è stata applicata con più o meno vigore in tutti i paesi sviluppati, così come la liberalizzazione dei processi e dei meccanismi finanziari, cosa che ha facilitato la finanziarizzazione dell’economia, la nascita delle “bolle finanziarie” e la crisi degli anni 2008. L’apertura del mercato mondiale e la libera mobilità del capitale, hanno modificato le radici dello sviluppo produttivo e generato un meccanismo di valorizzazione del capitale fondato sulla finanza (un capitale senza casa, fabbrica e uffici). 
La crisi fiscale dello Stato, con l’accentuarsi della crisi dei debiti sovrani e i nuovi assetti del capitale finanziario, ha richiesto  una nuova politica di mediazione che potesse trovare un impiego all’enorme capitale finanziario. Si è trattato, nella logica del sistema, di trovare nuove possibilità alla valorizzazione del capitale, cioè una politica che più che di mediazione assumesse l’aspetto di una politica di mobilizzazione del capitale.
In sostanza la vittoria (a livello sociale e istituzionale) della politica liberista degli anni ’80 ha creato da una parte l’esaltazione dell’individuo con, di fatto, la distruzione o la messa in crisi di tutti i corpi intermedi e  la riduzione del conflitto, che privo di  corpi intermedi, manifesta  capacità di grandi mobilitazioni di corto respiro e sbocchi rivoltosi, dall’altra ha ridotto, prosciugandone le risorse, la capacità di intervento pubblico. In questa situazione ha preso corpo e tende a svilupparsi una nuova forma politica che potremmo chiamare social-liberista, una politica che non cerca di affrontare le questioni sociali strutturali in campo (la disoccupazione, l’immigrazione, la casa, l’invecchiamento della popolazione, la salute, la povertà, ecc. e soprattutto il super potere della finanza internazionale) ma piuttosto individua nel partenariato  pubblico-privato  lo strumento per la mobilizzazione del capitale, per sfuggire ai vincoli di bilancio pubblico, e per offrire all’opinione pubblica ricette nello stesso tempo ambiziose e spesso fasulle. In quest’ambito un ruolo fondamentale giocano i “grandi eventi” internazionali (luccichio di lustrini, improbabili architetture, previsti fantastici e irrealistici usi di spazi ed edifici a conclusione dell’evento, frotte di turisti con il naso in su, trasformazioni non necessarie né utili del territorio e della città, ma che danno corpo a sostanziosi processi speculativi, a complesse relazioni economiche-politiche, non sempre confessabili, ad attività corruttive).
Il terreno fertile per questa nuova dimensione social-liberista è soprattutto la città e l’organizzazione del territorio, mentre le questioni sociali sono sottoposte a trattamenti di sostanziale abbandono, con una riduzione sostanziale  del WS (si ripete: “non possiamo permettercelo”), in una dimensione che è sempre più mondiale, anche se le articolazioni reali delle diverse parti non sono prive di rilevanza.

3. Bernardo Secchi e la questione urbana
Bernardo Secchi è stato partecipe del punto di vista che lega l’organizzazione del territorio ai processi economici del capitale, partecipe ma con una sua particolare attenzione sia agli aspetti fisici della città che ai processi di pianificazione: “[Tutto ciò mostra] l’emergere di una nuova area problematica della quale è urgente descrivere con cura la mappa e ciò non può essere fatto che in via esplorativa, tramite tentativi e sforzi tesi ad assemblare attrezzature mentali che consentano, a costo forse di qualche non inutile riduzione, di far uscire l’analisi morfologica dalla sua tradizionale vaghezza; tesi ad evitare che tra analisi morfologica ed analisi dell’uso economico e sociale del territorio si apra un varco troppo grande e difficile da colmare in futuro senza drastici e radicali cambiamenti di rotta; tentativi, in altri termini, di utilizzare, per quanto possibile, le sollecitazioni poste dalla nuova area problematica entro un processo di accumulazione del sapere urbanistico, piuttosto che per la modifica di un paradigma” (Secchi, 1986)
Di questa attenzione al “piano”, al continuo tentativo di un suo adeguamento alle novità del xx secolo, alla dimensione del suolo, sono testimonianza la ricca attività comunicativa operata attraverso le riviste Urbanistica, del quale come è noto è stato per molti anni direttore, e Casabella; non casualmente alla raccolta di questi interventi Bernardo ha dato il nome di Un progetto per l’urbanistica (1989). 
Pur conservando la sua particolare attenzione di cui si è detto, ma in modo più esplicito, nel saggio La città del ventesimo secolo (2005) riconnette il processo di costruzione della città ai processi economici, ma tende a far prevalere con una maggiore autonomia gli aspetti spaziali rispetto a quelli economico-sociali, fino ad attribuire agli aspetti spaziali un ruolo non secondario nell’attuale crisi. Ma di questo si dirà più avanti.
In uno dei suoi ultimi lavori (Secchi, 2014) la sua sensibilità sembra essersi orientata verso tematiche diverse (anche se non completamente nuove per lui). In questo volume curato da Calafati e finalizzato alla definizione di un'agenda urbana per l’Italia, in accordo alle indicazioni e raccomandazioni della UE, nel saggio introduttivo, che costituisce lo spartito del lavoro, Bernardo, dopo avere messo in luce gli importanti fenomeni strutturali, come il cambiamento climatico, la nuova geografia economica, l’invecchiamento della popolazione e la rigidità del capitale,[7] mette a tema i seguenti punti di una possibile agenda: “prendere atto dell’emergere di una nuova forma di città”; “valutare attentamente le opportunità che nascono dalle nuove forme dell’insediamento”; “riflettere attentamente sui temi della transizione energetica”; “dubitare dell’idea che la modernità e lo sviluppo siano sospinti da un numero necessariamente limitato di importanti infrastrutture, fortemente gerarchizzate”; “uscire dall’ideologia del bigness e delle economie di scala”; “prendere atto delle modifiche della struttura demografica del paese”; “ non un piano di grandi opere, ma un grande piano di piccole opere diffuse”. 
Questa tematizzazione fa emerge con nettezza la sua anima da ingegnere, detto senza ironia, ma riferendola alla sua forma mentis: visto il problema trovata la soluzione. Non è poco, ma sembrerebbe non sufficiente se lo misurassimo con quanto ha   scritto, nello stesso saggio, a proposito della “rigidità del capitale” (vedi nota 5). Non è oggetto di polemica, anche perché pare evidente che si tratti dell’espressione consapevole di un'impossibilità e impotenza che accomuna molti: poco può cambiare  senza aggredire la questione con la politica, ma questa pare fissata su tutt’altri obiettivi. 
Ma, giustamente, (Bernardo, mi pare di sentirti),  ribatti: quale politica? dove la vedi? dove la trovi?
Hai ragione e questo ha amareggiato i nostri declinanti anni.
La discussione e il confronto sarà ripreso più avanti,  a proposito dell’ultimo suo  libro La città dei ricchi e la città dei poveri (Secchi, 2013), ma prima pare necessario affrontare gli effetti dei mutamenti del capitale.

4. Le nuove tendenze (del capitale e della città)
Come conseguenza del mutamento profondo della natura e struttura dell’economia capitalistica e della sua pervasività a livello mondiale,  è possibile, relativamente al tema che qui interessa, individuare una serie di effetti che si proiettano sulla città (e sull’organizzazione spaziale).
 - Sul piano culturale e ideologico, viene investita la stessa immagine e l’idea di città: la sua “compattezza” si sgretola: da una parte per la dimensione assunta da molte metropoli (una metropoli di più di 30 milioni di abitanti rende obsoleta l’immagine tradizionale di città e forse anche quella di metropoli),  e dall’altra parte per quella che è stata chiamata l’esplosione urbana,[8] che definisce una forma di organizzazione urbana a maglia larga, chiamata talvolta metropoli territoriale, qualche volta città di città, che assume l’assenza della compattezza e della tradizionale morfologia urbana non come un ostacolo alla determinazione della “condizione urbana”.
- Sul piano delle politiche urbane è possibile constatare che la dimensione di alcuni processi di inurbamento rapido e intenso (in certe metropoli, soprattutto dell’Africa e dell’Asia, si tratta di centinaia di migliaia di persone l’anno), contro i quali non vale nessuna politica di freno, determinano un forte aumento della sperequazione tra le parti di queste concentrazioni urbane: parti centrali sfavillanti e immensi territori intorno, abbandonati alla “creatività” individuale. D’altra parte le forme di intervento pubblico, nei paesi ricchi, sono ridotte al minimo e fortemente condizionate dai processi complessivi del capitale e dal suo coinvolgimento nei processi di trasformazione. Appare prevalente  una riduzione dell’intervento pubblico di indirizzo collettivo, che si presenta frammentato e determinato, più che nel passato, a premiare certe dimensioni di interessi particolari (economici e politici), mentre una parte consistente della popolazione va alla deriva.
- Dirompente appare l’effetto sulla realtà fisica e sociale della città. Dilatazione della città, ma contemporaneamente rarefazione dei servizi collettivi, realizzazione di enormi periferie (anche quando non sono presenti slum, bidonville, ecc.) che definiscono una distribuzione dei servizi sempre più diseguale e che peggiorano le condizioni di vivibilità della città e di vita di fasce crescenti di popolazione. Enorme mobilità automobilistica, che disegna, soprattutto nei paesi sviluppati, una rete di infrastrutture che danno luogo ad un paesaggio urbano inedito. La diversificazione sociale sempre più intensa, da una parte la povertà dilagante, forme di economie incongrue, sfruttamento dei bambini, dei giovani e delle donne, il dilagare di forme organizzate o meno di criminalità, violenza crescente, e dall’altra parte la ricchezza, i quartieri del lusso, le case ipersorvegliate.
La questione urbana ha oggi questa dimensione e il suo territorio, anche quando ci appare molto diversificato, a livelli diversi presenta gli stessi connotati (i livelli non sono indifferenti). Ma se, come è, la questione urbana fosse strettamente collegata con il ciclo completo del capitale, con le trasformazioni di questo dovremmo fare i conti.
Anche se alcuni punti focali possono essere considerati fermi, nonostante screzi e polemiche tra economisti, la dinamica futura è difficile da delineare anche perché le dinamiche si presentano non omogenee né tra i paesi europei, né tra i paesi sviluppati, né tra i paesi di nuovo sviluppo, né con i pesi più arretrati. È  ormai convinzione generale che la ricchezza si concentri sempre più in poche mani; così come sembra vana la speranza di tornare, nei paesi sviluppati, ad una piena occupazione. Il capitale trova sempre meno impiego nella produzione materiale e le nuove tecnologie (si pensi alle stampante 3D, per esempio) configurano crescenti livelli di forza lavoro non mobilizzabile, mentre quello che sembrava il sogno di tecnici privi di realismo e di ragionevolezza, la fabbrica senza operai, già si realizza in situazioni come quella cinese, dove la manodopera non dovrebbe mancare. La così detta “uscita dalla crisi”, non solo nel nostro paese, sembra sempre più una favola, e gli appelli alla necessità di un “nuovo” modello di sviluppo trovano voci autorevolissime. Ma quello che non pare convincente in tutto questo parlare del “nuovo” modello di sviluppo (ovviamente sostenibile) e che trova un centro propagandistico nell’Expo di Milano,  è che esso sia realizzabile via buona volontà e soluzioni tecniche. In realtà quello di cui c’è necessità per “pensare” un nuovo modello di sviluppo è un nuovo modello economico e sociale, un nuovo modo di produzione e distribuzione, nuovi rapporti sociali di produzione e di potere. Anche se, ovviamente, il famoso 1% nelle cui tasche si  concentra la ricchezza è disponibile ad atti di generosità, come creare fondazioni che possano intervenire in diversi parti del mondo per contrastare fame, violenza, malattie e ignoranza, non è pensabile che si vada oltre; la virtuosità di questa generosità, infatti, contrasta con la virulenza dei processi economici a livello mondiale del capitale finanziario, che interviene per lenire, con atti di solidarietà e filantropia,  dopo aver prodotto il disastro.   
È  a questo punto che conviene fare i conti con l’ultimo libro di Secchi (2013), dove  si affrontano questioni cruciali della questione urbana.
Come fa Secchi in questo suo lavoro ci si soffermerà sulla situazione dell’Europa, anche se consapevoli che il mondo è molto più grande e articolato di quanto sia l’Europa, e con l’impressione che la centralità di questo continente sia ormai agli sgoccioli o, forse, è già tramontata. È probabile  che  proprio in questo continente si avranno le maggiori devastazioni prodotte dalla crisi economica e sociale attuale. Si può anche sostenere che questa  fragilità sia il risultato dell’inconsistenza delle politiche di tanti governi e della UE, ma non è escluso che poco o niente sia possibile fare a questo livello senza affrontare i nodi ai quali si è fatto cenno in precedenza.

5. Una conversazione con Bernardo Secchi che sarebbe stata possibile
Caro Bernardo, la tesi principale che esponi in questo tuo ultimo lavoro é molto forte e meritevole di approfondimento, anche perché se ho capito bene, proponi un rovesciamento dei termini: non è la crisi economica e sociale che si riverbera sulla città, ma la questione urbana come causa di questa crisi. Sono d’accordo con te che il “territorio non è puro specchio della società e tantomeno questa non è puro specchio dell’economia”. L’uso dell’aggettivo puro mi ricorda le polemiche che abbiamo sostenuto con quanti, nostri amici di Potere operaio, proponevano l’interpretazione della città fabbrica, e come, anche per contrastare quella interpretazione e dare corpo ai molteplici aspetti della questione urbana e delle relative lotte sociali di quegli anni, abbiamo dato corpo alla rivista cittàClasse  (titolo proposto, se non ricordo male da Paolo Ceccarelli e accettato come “perfetto”). Il fatto che non sia puro specchio, nella mia interpretazione significa che lo specchio, pur sporco da altri elementi , mostra  nel suo riflesso la sostanza.
Tu sai quanto io apprezzi il rovesciamento del senso comune, ma ho l’impressione che questa volta in questa tesi ti sia spostato troppo. Tu scrivi che “la tesi principale di questo libro è che le diseguaglianze sociali sono uno dei più rilevanti aspetti di ciò che indico come nuova questione urbana e che questa è causa non secondaria della crisi che oggi attraversano le principali economie del pianeta”. La prima parte di questa tua formulazione mi trova  d’accordo, mentre non mi convince la seconda parte, causa non secondaria scrivi, e sebbene non affermi che sia l’unica causa, comunque a questa dai molto peso.
Una prima questione ti pongo con una domanda banale: tu pensi che se la città non fosse permeata dalle diseguaglianze sociali non avremmo avuto la crisi? O in altra forma, come non poteva essere investita dalle diseguaglianze sociali la città, dato che la crisi ha portato ad una forte redistribuzione della ricchezza a favore dei pochi e contro i molti? Francesco: “Negli anni più recenti il territorio e il tempo sono però apparsi teatri di eventi tra di loro irriducibili, che la prossimità spaziale e la successione temporale non riuscivano a collegare, articolare e spiegare. Le specificità geografiche, storiche e culturali dei differenti luoghi (…) hanno assunto il carattere di elementi di resistenza nei confronti di più generali leggi di movimento dell’intero sistema economico, sociale e politico e della loro pervasività”.  (Secchi, 1987). Riconosco che nel momento in cui scrivevi queste parole queste stesse potevano essere condivise, ma era il 1987, oggi come tu stesso hai riconosciuto, la situazione è completamente mutata. Certo, Francesco, infatti ho scritto:  “l’eccesso di accumulazione finanziaria e il suo distacco dalla produzione, come l’eccesso di accumulazione immobiliare, ma anche la mobilità internazionale del capitale, di dollari in cerca di rendita, renderanno assai difficile, se non si riuscirà a disegnare un diverso percorso di crescita e sviluppo, raggiungere i livelli di occupazione e di benessere degli anni sessanta e settanta del secolo scorso” (Secchi, 2014). I livelli di benessere e di occupazione non sono quelli di allora e non sono più raggiungibili, non mi pare poco come effetto sulla città.
Ma nella tesi citata io riconosco un tuo pensiero forte, una specifica modalità di interpretazione dell’urbanistica, esplicitamente offerta nelle prime pagine della tua Prima lezione di urbanistica (2000) “Ne discende che l’idea di urbanistica che propongo è quella di un sapere, più che una scienza, un sapere relativo ai modi di costruzione, continua modificazione e miglioramento dello spazio abitabile della città in particolare. (…) Può sembrare poco e riduttivo, ogni termine, in questa descrizione della mia idea di urbanistica. Può sembrare allo stesso tempo limitante e poco preciso, troppo vago. Ma corrisponde esattamente a ciò che voglio dire dell’urbanistica. Essa riguarda aspetti limitati e locali del mondo che ci circonda, e contemporaneamente, è curiosa, aspetta suggerimenti e interpretazioni che degli stessi aspetti hanno fornito le diverse epoche e i diversi soggetti, individui, gruppi sociali e discipline”.  Si può convenire che l’urbanistica si occupi di “aspetti limitati e locali del mondo” e che non sta nella sua azione di cambiare la società; essa, come mi piace dire, può operare una mitigazione dei peggiori effetti del nostro modo di produzione, ma non può cambiare la società. Mi ricordo l’irrisione con cui definivamo alcune posizioni come la “strada urbanistica per il socialismo” (e forse eravamo poco generosi non verso l’idea ma verso le persone). La “continua  modificazione e miglioramento dello spazio abitabile della città” mi paiono essenziali per cercare di intervenire sugli effetti della crisi, ma non sulle cause, e so che su questo sei d’accordo, ma allora in che senso la “questione urbana è causa non secondaria della crisi che oggi attraversano le principali economie del pianeta”?
Se avessi cercato con attenzione nel mio recente testo (La città dei ricchi e la città dei poveri) avresti forse potuto trovare qualche risposta quando scrivo “L’emergere oggi di una specifica questione urbana articolata attorno a temi tra di loro difficilmente separabili, come quelli delle diseguaglianze sociali, del cambiamento climatico e del diritto all’accessibilità mostra qualcosa di importante e cioè che lo spazio, grande prodotto sociale costruito e modellato nel tempo, non è infinitamente malleabile, non è infinitamente disponibile ai cambiamenti dell’economia, delle istituzioni e della politica. Non solo perché vi frappone la resistenza della propria inerzia, ma anche perché in qualche misura costruisce la traiettoria lungo la quale questi stessi cambiamenti possono avvenire”.
Voglio sottolineare questa tua ultima osservazione che mi pare sottile, soprattutto se la colleghiamo alle tue conclusioni, ma non mi convince, forse perché sono molto più scettico e pessimista di te. Certo “traiettoria” è termine in qualche modo preciso se applicato alla fisica, ma nel significato traslato nel quale lo usi è vago.
Se vado alla conclusione di questo tuo libro, che ho trovato ricchissimo di osservazioni acute, mi ritrovo nella stessa contraddizione: di essere molto d’accordo nell’analisi ma perplesso sulla prospettiva. Nell’analisi scrivi: “Raramente si vuole accettare che le politiche urbane e del territorio sono ovunque parte ineludibile di più ampie visioni e azioni di biopolitiche; che la città, da sempre immaginata come lo spazio dell’integrazione sociale e culturale per eccellenza, è diventata, negli ultimi decenni del ventesimo secolo, potente macchina di sospensione dei diritti dei singoli e di loro insiemi. Questa politica, come tutte le politiche, ha richiesto una ideologia e una retorica: l’ideologia del mercato e la retorica della sicurezza”.
E facendo riferimento ad un rapporto del National Resource Committee (Our Cities. Their Role in the National Economy) presentato nel 1937 al presidente degli USA, nel quale le città erano riconosciute come fondamentali per la ripresa dell’economia degli USA,  “per la grande quantità di capitale umano che vi si trova, distribuito in un largo spettro di competenze”, da cui l’opportunità di predisporre  “un grande piano di attrezzature pubbliche, di recupero dei quartieri più poveri, di costruzioni di abitazioni”,  ne deduci che le città, per le stesse ragioni, sono anche oggi una grande risorsa. “Le città e le grandi aree urbane sono ancor oggi una risorsa: una risorsa riciclabile e rinnovabile, che meriterebbe maggior attenzione da parte delle politiche nazionali e sovranazionali”.  Che meriterebbe maggiore attenzione, d’accordo, ma non merita attenzione anche  ricordare che, nonostante le notevoli risorse utilizzate negli USA, quel paese ha dovuto attendere l’ampliamento della spesa in armamenti per uscire effettivamente dalla crisi? Non nego che la politica di espansione della spesa pubblica ha avuto effetti positivi. Ma oggi la situazione sociale e politica è paragonabile a quella?
Non mi riferisco a te, ma considero cinico ogni ragionamento che assume la crisi come un’opportunità, non solo per la mancanza di rispetto verso quanti da questa crisi sono colpiti duramente, ma perché non è una retorica che può funzionare. L’assenza di coesione negli antagonismi, una filosofia di individualismo estremo, la mancanza di corpi intermedi, l’insicurezza sociale non militano per una forte ripresa politica ed economica di obiettivi di trasformazione. 
Nelle ultime righe sostieni di “intravedere i sintomi e le potenzialità di tale trasformazione”, ma la tua lucidità ti fa dire “può darsi che nel prossimo futuro le cose vadano sempre peggio”. Io credo sia così, ma questo non implica l’abbandono della riflessione e dell’azione.
Caro Bernardo, io credo che il tuo lascito sia importante, e lo sia soprattutto questo tuo ultimo lavoro su La città dei ricchi e la città dei poveri. Io l’ho preso da un lato, ma a sguardi diversi può dire anche altre cose. Leghi la tua riflessione alla professione e alla disciplina, così alimenti una speranza, che, nonostante il pessimismo, condivido.

6. Una prospettiva
Per concludere questo testo si assume la prospettiva positiva di Bernardo Secchi (anche 2010) per misurarne, da un diverso punto di vista, il potenziale. Una città, ben organizzata, con una rilevante ed equa distribuzione spaziale di servizi collettivi, con trasporti che ne aumentino la permeabilità, con rilevanti spazi verdi, con un sistema di reti che garantiscano igiene e drenaggio, con aria pulita e che attraverso politiche pubbliche tenda a ridurre le differenze economico-sociali e promuova occupazione è una città che contribuisce a combattere la crisi. C’è in questa formulazione, che traduce alcuni dei discorsi di Bernardo Secchi,  un rifiuto netto del catastrofismo e la convinzione, come egli spiega, che solo una “nuova alleanza” disciplinare (non solo urbanisti con economisti e sociologi ma anche con geografi, geologi, idraulici, ecologi, ecc.), possa realizzare la città di cui c’è bisogno.
Se da una parte una nuova alleanza disciplinare può sicuramente migliorare l’intervento di trasformazione, non credo che sia sufficiente. Consapevolmente o meno, potenti forze sono oggettivamente mobilitate a che la città declini: si potrebbe forse avanzare la tesi che nella sua nuova forma il capitalismo non ha “bisogno” della città, così come è conosciuta. Le peggiori distopie che ci sono state offerte dalla filmografia (per esempio Fuga da New York) e da tantissimi racconti di fantascienza ci possono venire in mente, ma la realtà futura ci appare meno drammatica ma meno fantastica.
La relazione tra capitale e città, si è visto, è stata caratterizzata dal prevalere  della produzione capitalistica sui modi di essere della città. Pur non potendo eliminare le contraddizione che esso stesso produceva, il capitale aveva bisogno della città (concentrazione di manodopera, rapporti tra le varie industrie, servizi di trasporto, mezzi per la riproduzione della forza lavoro, ecc.), e quindi si adattava “politicamente” al suo continuo cambiamento ma anche alla sua conservazione, disposto a qualche “sacrificio” (per esempio in termini di stato sociale). Questo è valso fino a quando la valorizzazione del capitale è stata legata allo “sfruttamento” attraverso la produzione materiale, ma cosa succede quando la valorizzazione del capitale diventa prevalentemente finanziaria?
C'erano state delle avvisaglie, dei sintomi, ma non si è stati in grado di coglierli: quando alcune città si sono trasformate in “città di servizi” si doveva riflettere (ma non si poteva, mancava l’immaginazione) sul fatto che il capitale specializzava alcune città  per i suoi nuovi interessi, mentre sembrava poco interessato alle altre. Non sostengo che si è trattato di un processo consapevole, ma esso è stato oggettivo e seguiva una sua logica.
Quando il capitale diventa prevalentemente (10 a 1) un capitale senza fabbriche, senza uffici e senza operai, quando la sua valorizzazione è prevalentemente  finanziaria, allora il rapporto con la città e il territorio si modifica. Il capitale passa dallo sfruttamento alla razzia e per far questo utilizza direttamente gli apparati statali, che, da una parte, lo devono sostenere nei momenti di disastri (per esempio fallimenti di banche) e, dall’altra parte, devono “tosare le pecore” per poter pagare gli interessi dei debiti sovrani e  garantire la finanza che anche i debiti privati saranno onorati.
Il capitale, nella sua globalità, oggi non sembra aver bisogno di masse di operai da sfruttare, di organizzare fabbriche, ma soltanto di algoritmi intelligenti che permettano di realizzare diecine di migliaia di transazioni finanziarie al minuto, di rapaci esperti di finanza in grado di inventare sempre nuovi strumenti oggettivamente truffaldini. Esistono ancora le produzioni materiali, ma esse non sono significative rispetto all’intera valorizzazione del capitale, esse servono a rispondere a domande essenziali o a domande sociali di esibizione, ma soprattutto servono a costituire le greggi da tosare (parzialmente soddisfatte da redditi apparenti prima della tosatura)
Nello stesso tempo le nuove ricorrenti tecnologie determinano possibilità di produzioni con l’impiego di sempre minore di forza lavoro. La fabbrica senza operai di cui si è detto è un esempio estremo, mentre il robot familiare sarà la nuova frontiera del lusso. Ma l’innovazione non sposta posti di lavoro dalla produzione materiale ai servizi, perché anche questi sono investiti dagli stessi processi, e quando si spulciano le pubblicazioni sulle  “nuove professionalità” future si scopre che i “servizi”, molto spesso, recuperano l’etimologia del termine (prestare opera ad un padrone) o si sbizzarriscono in fantastiche previsioni[9].
In realtà si fa fatica a prendere coscienza di  questa nuova realtà del capitale, non per caso le politiche più avanzate per “uscire” dalla crisi , di fatto, propongono delle soluzioni che ipotizzano ancora  che il processo di valorizzazione del capitale sussista   ancora  nella “produzione”  materiale (il ridicolo estremo è la presentazione della salvaguardia ambientale come un’occasione di business).
In questa nuova fase del capitalismo che cosa stanno diventando le città, quale evoluzione futura è possibile immaginare per loro?
Intanto la città non è più la grande concentrazione di lavoro e capitale. Tale resta ancora nei paesi di nuovo sviluppo, ma anche in questi casi la tendenza al decentramento, alla frammentazione produttiva e l’innovazione tecnologica  ridurranno questa concentrazione. In realtà in città si ha sempre più la concentrazione di forza lavoro senza capitale; la forza lavoro resta una variabile urbana, ma la sua caratteristica principale per il futuro, a meccanismo economico-sociale immodificato, sembra essere  la disoccupazione o forme di occupazione marginale e insicura. Il capitale produttivo, facendosi forte delle nuove tecnologie che ne permettono la gestione e il controllo anche a distanza, è emigrato in spazi non urbani o alla ricerca di vantaggi competitivi (salari più bassi) di breve durata. La “fabbrica” sostanzialmente non è più un oggetto urbano. Le prove a contrario che possono essere portate a questa affermazione non tengono conto delle tendenze in atto. Il capitale finanziario, come è noto, non ha bisogno di una casa, esso è estremamente mobile e spesso puro “nome” o, se si preferisce, pura annotazione contabile.
La mancanza del rapporto capitale/lavoro concentrato  nella città, con tutti gli elementi di collaborazione e di conflitto che questa duplice presenza ha generato in passato  (e che ancora genera occasionalmente), determina una modificazione sostanziale della natura della città: non più luogo di produzione ma solamente luogo di consumo. Si osservi che il conflitto sempre più raramente investe il rapporto capitale/lavoro e sempre più quello tra popolazione e governo (nazionale e locale), assunto come il responsabile della situazione, come se il capitale fosse stato espulso dall’orizzonte della contestazione; è probabile si tratti di un esito della sua “invisibilità”.
 Ma se fosse vero che è stata la classe sociale “media” (qualsiasi cosa con questo termine si identifichi e rappresenti) che ha alimentato l’incremento del consumo fino all’affermarsi di quella che è stata definita l’era del consumismo,  questo ora sarebbe un problema, dato l’assottigliarsi di questa classe. La macchina del consumo, inoltre, tende a viaggiare a bassa velocità, data la contrazione dei redditi per il crescente prelievo fiscale necessario per soddisfare gli impegni che gli Stati hanno assunto verso la finanza internazionale, contraendo  i debiti sovrani per effetto della crisi fiscale dello stato e per il pagamento dei debiti “privati” contratti dalle famiglie (mutui, carte di credito, ecc.).
Le trasformazioni del capitale, ovviamente, inducono rilevanti trasformazioni sociali, la prima delle quali è costituita dalle crescenti diseguaglianze, che pur basandosi su diseguaglianze  economiche, si proiettano, ovviamente, nel campo della cultura, della professionalità, delle opportunità, delle relazioni e della salute.
Tali diseguaglianze incentivano la divisione sociale dello spazio e la segregazione, una divisione dello spazio che ricopia sulle differenze sociali anche differenze nella dotazione dei servizi collettivi, nell’accessibilità e, anche, nella disponibilità e qualità dei servizi privati. Non si è più di fronte a quelli che un tempo si erano classificati come quartieri dormitorio, ma piuttosto a zone di degrado alle quali si contrappongono le zone riservate ai ceti ricchi (zone più o meno circondate da muri, come le gated community). Ma, contemporaneamente, mentre il luogo dove si abita è determinato dal mercato (che mette ciascuno al posto suo), cioè dai prezzi delle abitazioni, questi luoghi sempre meno costituiscono i centri di vita, soprattutto per le nuove generazioni. I giovani spesso si aggregano nei luoghi di residenza (fino a formare delle “bande”), altri considerano insopportabile la propria condizione, nell’uno e nell’altro caso  valicano i confini spaziali definiti dalla propria condizione socio-economica e cercano di usare la città tutta, invadendo anche i luoghi che un tempo erano resi a loro inaccessibili dal condizionamento sociale.
Paradossalmente quello che prima era il contenuto ideologico dell’apparato città (la città di tutti, la città è libertà, ecc. ) diventa dato fattuale, trasformando l’ideologia in programma di vita. Un fenomeno che si può considerare per molti versi positivo (rottura dello schema sociale imposto), una sorta di democratizzazione della città, ma che configura modi di vita epidermici, formali più che sostanziali (liquidi direbbe Bauman) e spinge i ceti ricchi a rinchiudersi sempre più nei loro quartieri e di fatto a rifiutare la città. Bisogna inoltre aggiungere che questa situazione in molte città è aggravata dall’arrivo di immigrati che non trovano quelle opportunità che si aspettavano e che vanno ad ingrossare la quota di popolazione senza lavoro o con lavori marginali.
La città moderna, pur caratterizzata da contrasti sociali ed economici, pur diversificata, spesso piazza di conflitti, risultava un mix variegato e ricco, talvolta esplosivo, mentre la città contemporanea con la sua rafforzata  tendenza alla polarizzazione accompagnata dalla frammentazione sociale, appare costituita  da ceti sociali non comunicanti neanche conflittualmente e rischia il deperimento della sua qualità fondamentale: la convivenza.
Infine le condizioni ambientali proprie della singola città, nonché gli effetti dei cambiamenti climatici con la moltiplicazione di eventi estremi, rendono più complessa la situazione delle città e abbassano notevolmente la loro vivibilità (benchè non in modo omogeneo in ogni sua parte; il proverbio dice che “piove sempre sul bagnato”).
Su questo amalgama così complesso plana la questione della sicurezza. L’insicurezza ha qualche fondamento oggettivo: la miseria, la disgregazione sociale, la solitudine sono territori di cultura per azioni illegali e criminali, ma più di quanto non si creda essa costituisce un costrutto sociale (politico)  che addebita al “diverso” (immigrato, di altra religione, barbone, gay, ecc.) la propria condizione; il che da una parte genera, appunto, insicurezza e paura e, dall’altra parte, fa maturare la coscienza del “giustiziere” (ronde, bande di “castigatori”, ecc.), che rende ancor meno sicura la vita urbana. Costrutto politico che devia l’attenzione dei singoli e dei gruppi sociali dai reali e più importanti problemi.
In questa situazione sarebbero necessari crescenti interventi pubblici (nelle attrezzature urbane, nei servizi, nell’edilizia, ecc.) mentre questi tendono a contrarsi in ragione delle sempre minori risorse disponibili da parte  della pubblica amministrazione; il WS urbano è ovunque in sofferenza e non appare neanche sufficiente per una politica di contenimento. Gli appelli, spesso intellettualmente elaborati ma in realtà banali, all’esercizio della propria singola volontà per affermarsi e contribuire a contrastare la crisi, se da una parte invitano ad una valutazione delle proprie potenzialità, che è sempre cosa buona, dall’altra continuano ad esaltare l’individualismo estremo al grido di battaglia “arricchitevi” (un’illusione che fa venire in mente altre esperienze e altri disastri).
Questi paiono i connotati principali della condizione urbana oggi. Mentre in alcune situazioni la realtà si avvicina a quella descritta, in altre sembra lontana, ma appare come muoversi in questa direzione. Il dato di movimento, comunque, pare questo.
In una situazione che può scoraggiare e spingere all’inerzia e ad un’attesa messianica (foriera di disastri politici di cui si è fatto esperienza) operare si deve, ma operare significa assumere in tutta la sua complessità la realtà. Fino a quando non interverranno provvedimenti politici tesi a frenare (eliminare) la voracità del capitale finanziario, fino alla costruzione di un nuova forma di produzione, la realtà nella quale ci si trova ad operare nella città è quella descritta e ogni ipotesi di intervento deve assumere la consistenza di tale realtà nella consapevolezza della sua parzialità. Quello di cui ci sarebbe  assolutamente bisogno sarebbe  un nuovo protagonismo istituzionale che sappia fare scelte selettive ed adeguate alle necessità.
Nessuna singola città potrà contrastare il meccanismo di valorizzazione del capitale al quale si è fatto cenno, ma ciascuna amministrazione dovrebbe operare in controtendenza. Sembra prevalere oggi, per esempio, un indirizzo di restringimento dei meccanismi democratici, mentre in parte della popolazione si fanno esperienze di protagonismo politico. Primo compito sarebbe quindi quello di forzare i limiti della democrazia delegata per allargarla verso forme di democrazia diretta e verso forme di responsabilizzazione diretta dei cittadini nella gestione di beni collettivi. Un esempio: la tendenza ad attivare forme di gestione diretta di aree pubbliche sembra una buona strada. Gli “orti urbani” sono una di queste, si deve riconoscere che essi hanno alcuni aspetti positivi (eliminare aree incolte che si possono trasformare in discariche, mobilitare professionalità diffuse, garantire una gestione ambientalmente corretta e la “sorveglianza”, dotare la città di spazi verdi attivi, ecc.); eppure li trovo equivoci, perché suggeriscono anche un ritorno all’autoproduzione per il proprio consumo, una forma arcaica e pre-moderna di vita.
La pressante razzia del capitale finanziario inaridisce le disponibilità di risorse da parte delle amministrazioni pubbliche, qui gli equivoci tendono a non dare ragione alla necessità di guardare con durezza la realtà. L’idea che la carenza delle risorse pubbliche possa essere “sanata” da partenariati pubblici/privati non tiene conto che gli investitori privati guardano ai servizi collettivi come una fonte molto lucrosa di investimento (uno studio della Deutsche Bank indicava i servizi pubblici di molte città italiane come occasione di lucrosi investimenti privati) e che per la collettività non si tratta mai di un buon affare (i casi virtuosi sono molto pochi).  È più facile, come già osservato, che il partenariato si concretizzi per la realizzazione di “grandi eventi”,  che determinano non necessari processi di trasformazione urbana e territoriale, e che hanno per i “finanziatori” un ritorno diretto in termini di profitti e un ritorno indiretto in termini di riconoscimento pubblico.
Una situazione simile si manifesta nel settore delle abitazioni: scarsissime risorse pubbliche investite, mentre il settore privato di produzione edilizia si indirizza sempre più verso l’edilizia di lusso dove è crescente la domanda. I ricchi di oggi si comportano come quelli che uscivano dalla povertà ieri: la roba era l’obiettivo e prima di tutto la casa. Così loro comprano case di lusso in ogni posto, a torto o ragione, ritenuto simbolico di status: Manhattan, Dubai, Londra, ecc.
Se così fosse, si tratterebbe,  allora,  di usare le risorse scarse (si dice così) per colpire le situazioni di maggior sofferenza. Oggi il punto più grave sembra quello della iniqua sperequazione sociale, è in questo settore che le amministrazioni devono intervenire.
La questione urbana è sicuramente anche una questione urbanistica, e se la nuova alleanza disciplinare, proposta da Secchi, può aiutare gli urbanisti a prospettare migliori progetti di città, ciò non determina automaticamente una migliore città. Come argomenta Oriol Nel.lo [10] la domanda che la popolazione manifesta è per maggior città ma anche per una diversa città. Maggiore e diversa non è poco.
Il presente, sottolineava Marx, ma non è l’unico, è una combinazione di passato, presente e futuro. Gli elementi del futuro, in nuce, sono tra di noi, sia in termini di vere e proprie nuove esperienze sia in domande solo parzialmente soddisfatte. Sono proprio queste schegge di futuro che meriteranno l’attenzione, l’intelligenza progettuale e la capacità immaginativa degli urbanisti. Non sto parlando dell’invenzione fine a se stessa, non sto parlando di una qualche idea per alimentare la sperimentazione senza fondamento, ma mi riferisco ad un'analisi attenta dei connotati specifici della nuova questione urbana, dei tentativi che, indipendentemente, gruppi di cittadini fanno per costruire un nuovo uso della città, del peso che la crisi ha su individui, famiglie e gruppi, sulla necessaria convivenza, non sempre priva di contrasti, tra persone con diverse esperienze di vita e di cultura; e ancora  un'analisi della necessaria condivisione dello spazio urbano, e della nuova “forma” da dare allo spazio pubblico (squisito tema da urbanista), del contrasto da portare alla divisione sociale dello spazio, della necessaria dotazione di servizi omogenei nelle singole parti di città, delle nuove forme di mobilità, della nuova struttura demografica.
Questi elementi sono nuovi? Sicuramente no, ma assolutamente nuova è la forma in cui  il singolo fenomeno si presenta oggi; si potrebbero fare molti esempi, come l’accresciuta quota di popolazione anziana, il modificarsi dell’uso dello spazio pubblico e segnatamente della piazza, la questione dell’abitazione che torna all’ordine del giorno, la visibile presenza di culture diverse che pongono  domande di diverse tipologie spaziali, il peggioramento dell’ambiente, che richiede interventi eccezionali e di adattamento.
La crisi economica non è una buona situazione per costruire più e migliore città, né l’organizzazione dello spazio è una adeguata diga per frenare lo sfaldamento della società prodotto dalla trasformazione del capitalismo, ma il lavorare su queste tematiche può far maturare la consapevolezza che il vortice delle trasformazioni del modo di produzione del capitale potrebbe trasformarsi  in un tornado di grande distruzione.



Riferimenti ai testi di Bernardo Secchi
- 1986,  “Una nuova forma di piano”, in Urbanistica, n.82,
- 1987,  “Territorio economia e società”, in Urbanistica, n. 86
- 1989,  Un progetto per l’urbanistica, Einaudi, Torino
- 2000,  La prima lezione di urbanistica, Laterza, Bari
- 2005,  La città del ventesimo secolo, Laterza, Bari
- 2010,  “A new urban question” in Territorio, n. 53
- 2013,  La città dei ricchi e la città dei poveri, Laterza, Bari
- 2014,  “Per un’agenda urbana e territoriale” in A.G. Calafati (a cura di) Città tra
              sviluppo e declino, Donzelli, Roma





[1]              Per una breve bibliografia sul tema vd. Calabi, l’introduzione a Castells, La questione urbana, Marsilio, 1974
[2]              Manuel Castells, La questione urbana, Marsilio, 1974
[3]              Il testo di Castell ha avuto una rilevante influenza sulla mia generazione e il tema, in quella sede delineato, ha costituito, nella Scuola di Venezia, la base di sempre maggiori approfondimenti scientifici e di riflessioni politiche, come questione inerente l’intervento di organizzazione del territorio. Di quella scuola Bernardo Secchi faceva parte pur
con proprie sottolineature.
[4]              “Le politiche di welfare sono così poste al centro di un secolo lungo ma discontinuo, cui danno forse un contributo originale. Che esse abbiano profondamente inciso sulla città fisica e sulla sua immagine non può essere messo in dubbio: i programmi di edilizia economica e popolare, ad esempio, cercano ovunque, in questo periodo, di costruire una città pubblica che anche ostensivamente si opponga alla città privata; attrezzature urbane, asili, scuole, ospedali, parchi e giardini, terreni e attrezzature per lo sport costruiscono una nuova geografia della città; le nuove infrastrutture della mobilità  modificano gli idioritmi, le temporalità di ciascun gruppo e individuo, danno luogo ad una nuova percezione e concezione del tempo e dello spazio e trasformano radicalmente le domande che ciascuno pone alle politiche della città” Secchi, 2005)
[5]                J. O’Connor, La crisi fiscale dello stato, Einaudi, 1973
[6]              Nei film di Ken Loach, per esempio,  vengono spesso messe in scena le tragedie umane di questa fase storica in Inghilterra. 
[7]              “Considero questo un punto importante e vorrei fare una citazione testuale:  “l’eccesso di accumulazione finanziaria e il suo distacco dalla produzione, come l’eccesso di accumulazione immobiliare, ma anche la mobilità internazionale del capitale, di dollari in cerca di rendita, renderanno assai difficile, se non si riuscirà a disegnare un diverso percorso di crescita e sviluppo, raggiungere i livelli di occupazione e di benessere degli anni sessanta e settanta del secolo scorso” (Secchi, 2014).
[8]              A. Font, F. Indovina, N. Portas (a cura di),  L’explosio de la ciutat, COAC publicacion, Barcellona, 2004 (in italiano: L. Fregolent, F. Indovina, M. Savino, ( a cura di ) L’esplosione della città, Compositori, Bologna, 2005 
[9]           Di quante  guide specialistiche in viaggi galattici ci sarà bisogno?  o di Responsabile della gestione e dell’organizzazione della vita digitale, o di  Broker del tempo, o ancora di   Assistente sociale per social network? 
[10]            Oriol Nel.lo ,  Ciutat de ciutats. Reflexions sobre el procés d’urbanització a Catalunya, Barcelona, Empúries, 2001;   Ordenar el territorio. La experiencia de Barcelona y Cataluña, València, Tirant lo Blanch, 2012.

Una nuova retorica: la crisi come opportunità

Una nuova retorica: la crisi come opportunità
Francesco Indovina

da L. Fregolent e M. Savino, Città e politiche in tempi di crisi, Franco Angeli, 2014

I curatori di questo volume hanno costruito quella che è insieme  un’indagine e una riflessione sugli effetti della crisi nel governo degli enti locali, con particolare attenzione alla problematica del  governo del territorio. Hanno usato diverse tecniche come le interviste ad alcuni assessori, e hanno raccolto anche  il parere di esperti sui singoli aspetti. Le interviste riguardano 15 città, medio e grandi,  nella loro maggioranza città del centro-nord; gli assessori intervistati sono risultate 8 donne e 7 uomini. Tale composizione delle città hanno probabilmente influito sui risultati (Bari, Napoli e Palermo, sicuramente città importanti e cariche di problemi, non possono essere assunti come rappresentativi della situazioni urbane del sud e del meridione). Questa osservazione non vuole mettere in discussione i risultati di questo lavoro, del resto non era intenzione dei curatori fornire uno spaccato statisticamente rappresentativo, quanto piuttosto affondare l’occhio su alcuni casi, alcuni tra i più complicati (non si pensi solo a Napoli o Palermo, ma anche a Genova e Roma), per esplorare il comportamento e le scelte di governo urbano attivate in presenza di una profonda crisi e di conseguenza una non marginale riduzione delle risorse disponibili. Va riconosciuta ai curatori la sicura fatica che hanno dovuto fare per raccogliere e far raccogliere le 15 interviste  (la reticenza dei politici è massima quando si tratta di interloquire con studiosi, minima quando si parla alla “stampa”). I risultati ottenuti, che paiono notevoli, sono all’altezza dello sforzo fatto.       
Il lavoro merita grande attenzione; di una esplorazione di questo tipo  si sentiva la mancanza, ma anche la necessità. Anche se dall’indagine  emergono  atteggiamenti politici diversi, che vanno assunti non solo come le opinioni degli assessori, ciascuno con il proprio bagaglio non solo professionale ma anche politico, ma anche come l’espressione della capacità e delle modalità diverse di intervento delle singole  amministrazioni, nonché dei rapporti di forza esistenti all’interno della singola città. Le scelte mettono in luce una sorte di filo comune del discorso sul governo della città, come se la crisi avesse, in qualche modo, semplificato gli atteggiamenti anche se complicato l’operatività. Si evidenzia, anche, un atteggiamento comune critico nei riguardi dei “tagli” e la ricerca di soluzioni che riducono al minimo i disagi della popolazione in relazioni agli stessi tagli. L’Ente locale, per quanto grande sia la città, costituisce il primo gradino che il cittadino in difficoltà sale. È alla sua porta che si   bussa quando un servizio non funziona o si riduce, quando il padrone di casa dà lo sfratta e quando il bisogno supera la speranza. L’Amministrazione locale (il sindaco) vicino ai propri cittadini fa parte della retorica politica, ma di fatto essa, volente o nolente, è il loro più prossimo referente.  Un pressione che cresce con le difficoltà delle famiglie; quando tutto va bene la casa dell’Ente locale è poco frequentata, ma quando le condizioni economiche delle famiglie peggiorano, quando nella scuola finiscono per mancare gli strumenti essenziali, quando … anche il piccolo disaggio diventa insopportabile, allora la richiesta di intervento all’Ente locale diventa pressante.
Non meno importante, nel volume, appare la parte nei quali studiosi ed esperti hanno focalizzato aspetti significativi nell’attuale intemperia su singoli settori nei quali l’amministrazione è coinvolta. Vanno dalle infiltrazioni criminali nel governo del territorio, alla nuova fiscalità locale, all’immigrazione e ai sui problemi, alle difficolta del mercato immobiliare, alla scarsa propensione dei privati a investire, all’”abitabilità”, alle aree dismesse ecc.; contributi di diverso taglio approfondimento ma che  costituiscono un arricchimento su questioni, per così dire, canoniche del governo degli enti locali o su aspetti nuovi che la crisi mette in primo piano. Tanto più le famiglie entrano in un circuito di disagio, tanto più la Chiesa (non la fede) e il Municipio (non la politica) costituiscono i referenti principali, sia come fonte di “aiuto”, sia come strumento per il  desiderato cambiamento.        
La sintetica, ma molto densa,  introduzione di Ada Becchi sull’origine della “specifica” crisi italiana costituisce un contributo molto interessante, nel quale vengono individuati i meccanismi propri e specifici e le figure di riferimento che hanno contribuito a definire e sostanziare la crisi del nostro paese. La Becchi, come è solita fare, rigetta le facili interpretazioni, magari molto di moda e di successo, per fornire un quadro di verità diversa. Il quadro tracciato appare condivisibile nel suo impianto e nelle sue line complessive, anche se, sarebbe possibile dissentire sul  poco peso concesso  alle profonde modifiche che sono intervenute negli ultimi anni nella struttura stessa dell’economia capitalista, e su gli effetti che sull’economia e sulla società italiana ha avuto e ha il debito sovrano. Sulla prima questione il testo appare, nella sua formulazione, come il rifiuto delle facili interpretazione della crisi e  fine del capitalismo, una “moda” che tuttavia non produce, se fosse un’ipotesi realistica, contromisure. Sulla seconda  pare che manchi una riflessione più adeguata al problema. Il testo si chiude con  molto pessimismo, che si può condividere a pieno: mancanza di strategia, di volontà e di immaginazione, sia politica che economica, non danno molte speranze.
Dalle parole degli assessori delle città considerate sembra di poter rilevare che la “crisi”, considerata con preoccupazione, sia assunta quasi con ottimismo, un’opportunità. Si tratta di un punto di vista contraddittorio ma pur tuttavia comprensibile a condizione che esso produca un’operatività all’altezza dei problemi e che soprattutto non diventi una nuova retorica. La crisi è sofferenza, la crisi è assenza di speranza, la crisi moltiplica il disaggio, la crisi contribuisce a spostare i rapporti di forza dentro la società, la crisi aumenta le sperequazione, la crisi alimenta il ribellismo di destra, la crisi riduce la democrazia, non può essere un’opportunità, può modificare gli atteggiamenti e le politiche ma deve soddisfare esigenze nuove, e misurarsi con situazioni politiche molto diverse, e deve contrastare condizioni che non immaginavamo potessero ritornare, sia sul piano sociale che su quello politico.  
Il rilievo dato alla riduzione delle risorse è generalizzato, è da qui che nasce una nuova e diversa operatività. La ridotta pressione sulla città della produzione edilizi privata e delle grandi operazioni speculative è salutato, in generale, come positivo (non so capire se si fa virtù di una situazione immodificabile). Ma attenzione se l’intervento privato nella e sulla città poco ha avuto a che fare con l’interesse della popolazione  e con la vivibilità stessa della città, e se esso ha avuto per lo più connotati speculativi, ha costituito, tuttavia, uno dei fattori dinamici dell’economia della città. Lontano da me ogni valutazione positiva delle grandi operazioni immobiliari, ma va tenuto conto che la loro assenza costituisce un fattore di rallentamento dell’economia della città (si pensi, per esempio,  a Roma dove il peso dell’attività edilizia e preponderante) e dell’occupazione (senza accettare il trito refrain “quando l’edilizia va tutta l’economia va”). Tutto questo sarebbe  perfetto se a questa carenza di iniziativa privata fosse possibile sostituire un altrettanto importante, sul piano quantitativo e qualitativo intervento pubblico.  In sostanza  il circuito vizioso della produzione edilizia si intreccia con il suo aspetto virtuoso dell’occupazione. Ma questo intreccio è il risultato  delle politiche sbagliate del passato. I comuni dall’espansione edilizia hanno ricevuto risorse e hanno, molto spesso, chiuso gli occhi sul tipo e finalità di questa espansione, ritrovandosi poi cariche di problemi; una riduzione dell’attività edilizia privata è vista come salutare per la città, ma così vengono a mancare consistenti risorse. Un perverso intreccio costruito nel passato con cinica determinazione, presenta oggi il conto.
È a questo proposito che da più parti si avvia una riflessione sull’errore sostanziale costituito dal fatto che le risorse delle amministrazioni locali risultavano legate all’ampliamento dell’edificazione e all’allargamento  dell’urbanizzazione (oneri di urbanizzazione). Non più una riflessione dei soliti studiosi  che hanno messo in luce da anni questo problema, ma esito di un errore che è diventato carne viva dentro la crisi, e gli amministratori se lo ritrovano nei  loro bilanci.
È’ costante e generalizzata l’osservazione sulla inadeguatezza del “piano”, sulla necessità di un suo rinnovamento in grado di rispondere meglio alle aspettative e necessita della società. È ragionevole pensare che, sicuramente, molti amministratori  si trovano in difficoltà a gestire in una fase di crisi un “piano” elaborato in una fase di crescita economica; da questo punto di vista (e non solo) la critica al piano appare fondata, ma pericolosa se essa significa mancanza di governo delle trasformazioni. Da tempo si prospetta la necessità di passare dal “piano” alla “pianificazione”, cioè ad uno strumento di governo urbano che coordini i diversi aspetti e i diversi settori di intervento (attraverso politiche definite) e dove quello delle destinazioni d’uso delle aree sia solo un aspetto. In questa direzione sembrano muoversi alcune amministratori, ed è positivo, soprattutto in una fase di crisi e di necessaria dilatazione dell’intervento pubblico con risorse scarse.
L’intervento pubblico sembra dilatarsi ma anche si assottigliarsi; la scarsità, la possibilità molto ridotta di possibili partenariati pubblico/privato, determinano una estensione territoriale degli interventi pubblici ma costituiti prevalentemente da interventi di ridotta dimensione e che cercano di rispondere ad esigenze avanzate dalla popolazione. In un certo senso si manifesta una capacità di ascolto molto superiore del passato, soprattutto perché il canto delle sirene dei grandi interventi tace e si sentono le voci di protesta di quanti pesantemente colpiti dalla crisi. Non potendo operare in estensione, l’intervento pubblico sembra sviluppare  una maggiore attenzione alla qualità e al dettaglio.
Così le periferie non vengono sconvolti da grandi progetti di ristrutturazione (cioè di valorizzazione e di espulsione dei precedenti abitanti), quanto piuttosto da progetti di rigenerazione urbana. È, in sostanza, sulla vivibilità che sembra spostarsi, in molte delle amministrazioni indagate, l’attenzione massima. Tramontano le opere buone per il marcheting urbano, le opere alla cui realizzazione sono interessati interessi non sempre legali, opere frutto di amicizia o di corruzione, o semplicemente di stupidità amministrativa. È difficile dire se quella fase si sia definitivamente chiusa, anche nelle ristrettezze della crisi si possono individuare casi nei quali la dimensione speculativa sembra prevalere e che da luogo all’incompiuto o al perennemente in lavorazione. Un catalogo, certo incompleto di  opere incompiute si possono “ammirare” nel sito incompiutosiciliano.org; si tratta di un numero di opere inimmaginabile (la cartina con le localizzazioni è molto istruttiva), che danno luogo, secondo gli autori, non solo ad un nuovo stile architettonico, appunto, l’incompiuto, ma anche ad una tipologia e ad una “formazione culturale” di governo del territorio.
Quello dell’intervento nelle periferie sembra un dato comune e prevalente, si tratta di scelte dettate sia da una maggiore attenzione politica e sia da un atteggiamento  che non sarebbe sbagliato classificare come “opportunismo virtuoso”. Sul piano politico l’evidenza che il disaggio della popolazione, anche se generale, trova un punto di maggior coagulo proprio nelle periferie, e che spesso questo si manifesta copn forme diverse di proteste, spinge verso un intervento localizzato. Si tratta di periferie diverse nelle diverse città, ma tutte con le stigmate del disaggio sociale. Intervenire nelle periferie può essere un modo per mitigare il disaggio di tante famiglie e individui e rende anche evidente come l’attenzione politica del governo della città si focalizza dove maggiore è il disaggio. Niente grandi opere ma piccoli interventi di qualità, non ristrutturazione urbana, ma rigenerazione della città con l’attivazione di servizi, di micro servizi, di spazi pubblici, ecc.  È come se si fosse presa coscienza che il dettaglio conta. Il termine rigenerazione urbana è presentato diverso dall’intervento di riqualificazione e ristrutturazione, esso tuttavia, sembra contenere ipotesi di intervento diverse e non omogenee. Certo la rigenerazione deve fare i conti con la realtà, non può essere un modello buono ovunque, ma questo non toglie che dovrebbe essere caratterizzata da principi chiari.  
Correlato all’intervento di rigenerazione urbana è spesso  il tentativo di una mobilizzazione della popolazione: si punta  non tanto ad una generica partecipazione, quanto piuttosto l’assunzione di responsabilità diretta nella gestione degli spazi e dei servizi. Non è il caso di costruire una nuova retorica su questo aspetto, ma  assumere che in un momento di crisi, del quale l’Ente locale ha qualche  responsabilità ma soprattutto nessuna capacità di incidere, la partecipazione della popolazione alla gestione oltre che alla decisione può essere un contributo di rilievo. Se questo costruisse una nuova cittadinanza e una nuova politica sarebbe tutto da verificare;  non mi pare che nel medio-lungo periodo si possa caricare sulla popolazione delle funzioni che spesso, con dure lotte, sono state affidate ad una funzione pubblica che ha liberato famiglie e individui da impegni e da carichi. I cittadini hanno il dovere, oltre che il diritto, di interessarsi dell’amministrazione pubblica e di controllarne i diversi aspetti, passare alla “gestione” sembrerebbe un salto verso la democrazia diretta di cui tuttavia mancano le premesse teoriche e politiche (al di là della retorica). Non può essere che il mal funzionamento dell’amministrazione pubblica, o di sue parti, oltre a determinare disagi nella popolazione, richieda a questa di assumersene la gestione, non fornendo, per altro né gli strumenti (politici e amministrativi), né le competenze. L’opportunismo virtuoso, si intende dire, non deve eccedere i limiti determinati dalla responsabilità che istituzionalmente e nella prassi viene assegnata all’amministrazione pubblica. La divisione di compiti e ruoli deve essere mantenuta, almeno di rivoluzionare funzioni e ruoli. Detto questo non è inopportuno che in un momento di “crisi” e di scarsità di risorse i cittadini mettono mano alle loro competenze e disponibilità per realizzare obiettivi d’interesse generale.       
Ci sono ancora due aspetti che per effetto della  crisi vengono liberati da  i veli mistificanti che li ricoprivano. Il primo di questi riguarda la “aree dismesse”, da sempre salutate come la grande occasione per le amministrazioni locali per risolvere alcune delle carenze endemiche della città: dalla mancanza di spazi di vivibilità (verde pubblico e quant’altro), alla necessità di ampliamento dei servizi tradizionali e alla necessità di  attivarne di nuovi, per finire  alla predisposizione di abitazioni sociali o destinati a giovani coppie  o ad anziani soli.
Di tutto questo si parlava, ma poco si realizzava (tranne rari casi); le aree dismesse hanno continuato a crescere, sia quelle private (manufatti industriali prevalentemente) sia quelli pubblici o para pubblici (caserme, opifici, palazzi di uffici, ecc.), questo immenso patrimonio veniva a costituire quello che si è chiamato dei “vuoti urbani”, terminologia che alludeva alla possibilità di una ricucitura della città, sfruttando appunto tali vuoti, dando hai cittadini servizi, verde e abitazioni sociali. Si dimenticava che questo patrimonio (in senso specifico) non era costituito da “vuoti” ma era un pieno di rendita. In concreto la possibilità per l’amministrazione pubblica di far conto su queste aree è stata molto ridotta, ma dentro la crisi (virtuosa) si torna a sperare che questo patrimonio possa venire utile. Non è allarmismo rilevare che i proprietari di queste aree in passato, direttamente o indirettamente, hanno elaborato dei progetti (alcuni veramente grandi) che hanno concordato con l’operatore pubblico sulla base di pochi benefici concessi alla città (ma spesso generando grossi “affari” segnati da corruzione). Il cambio d’uso, da industriale a residenziale o commerciale, per esempio, se da una parte non poteva essere evitato, trattandosi di ciò che era indispensabile per la convenienza dell’operato immobiliare, dall’altra non portava i vantaggi per la collettività che si era sperato.
Non si capisce perché dentro la crisi le pretese dei proprietari della aree dismesse dovrebbero diminuire. In realtà è possibile proprio il contrario: la difficoltà del mercato immobiliare spinge all’attesa o se si preferisse all’inoperosità dei promotori immobiliari, ove si pensasse che una riattivazione della produzione edilizia fosse auspicabile è certo che maggiori devono essere le convenienze che l’amministrazione pubblica deve concedere. Proprio l’inverso di quello che si spera.
Data la vulgata nazionale, anche le amministrazioni locali si sono acconciate a vendere parti dei loro patrimoni. Che questa sia una politica saggia è difficile convenirne, ma quello che qui interessa è mettere in luce come, oggettivamente si potrebbe dire, gli Enti locali (e in generale gli enti pubblici) hanno dovuto rendere appetibile, come si dice, l’operazione ai privati. Insomma chi comprava doveva fare un “affare” (né poteva essere diversamente), un affare che si concretizzava in modifiche di cubatura, di destinazione d’uso, e altro ancora. Non solo un impoverimento della comunità ma anche un peggioramento della città.
Quello che pare emergere dalla storia recente dei processi di trasformazione urbana, è la inconsapevolezza (nei migliori dei casi, nei peggiori è roba da codice penale) degli enti locali del loro “potere” o spesso una consapevolezza giocata non a favore della città ma dei promotori e di se stessi. In realtà sarebbe gli enti locali a detenere il potere delle trasformazioni urbane da realizzare a  beneficio collettivo. Non sono né i proprietari delle aree, né i promotori immobiliari ad avere questo potere, ma questi dipendono dalle scelte e decisioni che, con strumenti vari, il governo della città prende. In  tutte le trasformazioni deve essere evidente il beneficio per la collettività. Non si intende dire che questo potere debba e possa  essere usato cervelloticamente o in modo autoreferenziale, né che in qualche modo non debba essere riconosciuto una remunerazione a chi le operazione di trasformazione di fatto realizza, ma tutte le cose devono stare insieme non dimenticando che i promotori hanno interesse alle operazioni di trasformazione ma che il potere di trasformazione sta in mano all’Ente locale che opera a beneficio dei cittadini e della città. E se questo potere viene mal usato non è ne per caso né per insipienza ma solo per interesse (personale).
Si potrebbe sostenere che  questo modo di operare  poteva valere in periodo di vacche grasse, quando cioè l’attività di trasformazione era rilevante, la spinta forte e, in certa misura, la concorrenza operante; oggi quando questa spinta  langue bisogna “adescare” i promotori con molte buone occasioni. Ma si osservi che, tranne pochi casi, anche in periodo di vacche grasse l’Ente locale non ha usato il suo potere, permettendo operazioni a tutto vantaggio dei promotori e poco della città, né pare convincente che la politica di trasformazione debba dipendere dal ciclo edilizio, sia nei periodi dinamici che in quelli di stagnazione,  sembrerebbe più sano per la salute  delle  città che fosse il ciclo edilizio da sottomettere ad una politica consapevole e dichiarata di trasformazione nell’interesse collettivo. 
Emerge dalle interviste agli assessori, in generale, la consapevolezza che con la crisi dovranno fare i conti, e per molto tempo ancora nonostante i reiterati annunzi di una prossima ripresa. Si nota una consapevolezza del ruolo che può giocare l’Ente locale per attenuare il disaggio della popolazione; insomma, usando una terminologia di moda, prevale il “pensiero positivo”. Pur apprezzando questo atteggiamento nasconde  un pericolo, la costruzione di un pensiero retorico: la crisi come opportunità.  Come si è già detto la crisi non può essere un’opportunità per le sofferenze che porta, non è neanche detto che ci renda migliori, potrebbe farci incanaglire, può portare ad una gestione più oculata, ad una politica più attenta, ma la retorica dell’opportunità  può finire per coprire inettitudine, inoperosità e ridurci al “piccolo” come dimensione ottimale.  La crisi non passa tanto facilmente, sta sconvolgendo la struttura sociale del paese (e di tutti i paesi), fa crescere umori autoritari, rende inoperosa la democrazia e sposta i rapporti di forza a favore dei pochi che molto hanno contro i molti che poco hanno. La crisi può essere un’opportunità se si mette mano a trasformare le nostre città, se ci si muove verso una politica dei diritti e verso l’eguaglianza. Non è detto che gli Enti locali possono fare poco su questo piano, senza velleitarismi “volere e potere”, si tratta come salmoni di nuotare contro corrente, rifiutare le banalità del fare, per fissare obiettivi di migliore vivibilità e convivenza. Se si riuscisse a fare “più città e migliore città”, allora nessuno sforzo sarebbe inutile.