domenica 29 marzo 2020

Niente come prima



 Recensione su Alfabeta 2, 2011

La globalizzazione, la finanziarizzazione dell’economia, portata alle estreme conseguenze, le difficoltà della deliberazione democratica ha esprimersi in modo sensato e assennato, nonché la crisi che tiene in scacco molti paesi e rende inefficaci tutte le politiche per contrastarla, insinuano il sospetto che forse qualche cosa di rilevante è avvenuto. Alcune domande sono chiare: è ancora compatibile la democrazia con il capitalismo? È possibile ancora produrre politicamente delle risposte in grado di garantire i più invece dei pochi? Le forze che si oppongono allo stato delle cose presenti, gli indignatos, per semplificare, pur capaci di grande comunicazione, di grande visibilità e di notevole mobilizzazione,  perché pur avendo individuato il “nemico”, non riescono ad incidere?
È  davanti ai nostri occhi il mutare profondo della natura del capitalismo; ma non riusciamo a vederlo: guardiamo ma non vediamo. Nel corso degli ultimi anni (trenta forse), anche per effetto dello spappolamento del socialismo reale, nonché della metamorfosi della Cina, il mercato, nella coscienza generale, è stato assunto come il “regolatore” generale e necessario, mentre il capitalismo (il capitale come  rapporto sociale) emergeva come unica possibili prospettiva sociale. Ci si è rifiutati di indagare sia sugli effetti discriminanti prodotti dalla regolamentazione del mercato, che sulla geografia e architettura della società prodotta dal capitale.
La prospettiva dei partiti della sinistra, in generale, non incarna l’ipotesi, che diventa sempre più una necessità, di una società fondata su altri valori e, soprattutto,  su diverse forme di organizzazione sociale; il massimo dell’aspirazione è una sorta di “umanizzazione” del sistema, e lo chiamano riformismo. Ma il  “sistema” risulta refrattario alle loro buone intenzioni, anzi di esse approfitta per ingrassare.
Non è in discussione l’apporto che il  sistema capitalistico ha fornito alla trasformazione del mondo e della società,  né la sua capacità di produrre ricchezza e innovazione, tuttavia è  forse giunto il momento di guardare il Minotauro negli occhi rifiutandogli il contributo di sangue. Ma chi è Teseo? Chi è Arianna?
Giorgio Ruffolo, mette in campo la capacità del capitalismo di trasformarsi, e per questo prospetta la possibilità che il capitalismo abbia i secoli contati, è immagina  “che il capitalismo dia un’estrema prova della sua duttilità trasfigurandosi, in un fase finale più pacifica, in una formazione di sviluppo meno turbolento, ben temperato”. Un capitalismo in grado di negare se stesso e che assumesse motivazioni diverse da quelle sue proprie: l’equilibrio, la produzione non quantitativa, il rispetto del limite, la cooperazione sociale, la felicità, ecc. (perché chiamarlo ancora capitalismo?). Anche Ruffolo pensa che si tratti di una “improbabile” ma non “impossibile” prospettiva, in caso contrario, in assenza di una vera alternativa, non resta che entrare in un’era dei torbidi che può durare secoli.
A Luciano Gallino una auto trasformazione del capitalismo gli appare impossibile e improbabile, e analizza il finanzcapitalismo come una macchina sociale mostruosa per la sua estensione, la sua capacità di penetrare in ogni grumo organizzativo, per la relazione stretta che ha costruito, più che nel passato con la politica e la sfera di decisione pubblica. È proprio questa relazione politica/finanza che rende incontrollabile e incontrollato il capitalismo finanziario, la politica è “divenuta ancella” della finanza. Lo scambio di personale dalla finanza al governo e da questo alla quella  è una costante, e determina una forma mentis che finisce per riconoscere nell’interesse della finanza ogni azione economica e politica.
Il finanzcapitalismo a differenza del capitalismo tradizionale (industriale) non accumula capitale producendo merci e servizi, ma attraverso il sistema finanziario; detto in altro modo, fa soldi con i soldi. Si tratta di una trasformazione profonda dalle molteplici conseguenze.
Fondamentale è la creazione di “massa monetaria”,  operata dalle banche, queste non gestiscono ma creano moneta attraverso i prestiti, soprattutto mutui e prestito al consumo (senza rispettare di fatto la “riserva di garanzia”), ma soprattutto attraverso la dilatazione dei derivati. Le risorse finanziarie così “create” sono otto-dieci volte il Pil mondiale. Inoltre la creazione di numerosi “fondi di investimento” servono per catturare risparmio e soprattutto come base, da moltiplicare all’infinito con tecniche di “finanza creativa”, per speculare. La  Borsa non svolge più la funzione di raccolta di risorse per finanziare le imprese, ma è sempre più simile ad un Casinò, inoltre una parte cospicua delle contrattazioni finanziarie avvengono in mercati secondari. Le banche  hanno abbandonato, di fatto, la loro funzione di raccogliere risparmio e fornire risorse in prestito a famiglie e imprese, per dedicarsi ad attività finanziarie. Dato il rendimento delle attività finanziarie anche le imprese “industriali”, le maggiori,  sono diventate attive nel settore finanziario (per dirne una che riguarda il nostro paese, ci si può domandare  se Marchionne sia un manager industriale e non piuttosto un finanziere).
Inoltre gli investitori istituzionali sono diventati una grande potenza che detiene una quota rilevante delle grandi imprese mondiali e ne definiscono i comportamenti e impongono una redditività molto alta dell’investimento. Bassi salari, alti ritmi di lavoro, bassa sicurezza, minimi diritti sindacali, ecc. non sono che l’espressione del potere della finanza sull’industria.  In sostanza, anche con l’aiuto delle nuove tecnologie, si  innalza il tasso di sfruttamento, si cancellano per quanto possibile ogni diritto sindacale, fino all’indifferenza per la vita e la salute dei lavoratori. Delocalizzazioni, ricatti occupazionali, forme moltiplicate di contratti, ecc. sono gli strumenti adottati. Tramonta ogni possibile idea di individuare e assegnare una qualche responsabilità sociale agli investimenti.
La reazione sindacale a questa situazione, in generale alla ricerca di accomodamenti, rende esplicito un pericoloso dato culturale: l’avere assimilato gli interessi del capitale finanziario a quelli del “lavoro”; un incapacità di lettura della realtà che rende impotenti. 
Bisogna tuttavia riflettere come in aggiunta all’accresciuto tasso di sfruttamento la popolazione viene ulteriormente tosata attraverso le politiche di equilibrio di bilancio pubblico, che non sono altro che strumenti per garantire le pretese del capitale finanziario. In questo caso la cecità della politica è drammatica (l’esempio greco, insegna), essa si affida ai “tecnicismi”, mette in mora di fatto la democrazia e sacrifica ad entità astratte, potenti ma  che potrebbero essere sconfitte se si assumessero per il nemico del futuro, e finisce per alimentare la speculazione. 

Il finanzcapitalismo, per mezzo dell’incontrollata creazione di moneta, oggi è impossibile valutare la “moneta in circolazione”, ha fatto esplodere il rapporto tra debito e Pil dei paesi sviluppati,  ha dilatato i debiti sovrani, e ha avvolto l’economia globale in una “rete di debito” che condiziona famiglie, imprese, istituzioni e Stati.  Viaggia da crisi a crisi verso una concentrazione massima della ricchezza e ad una non improbabile implosione dagli esiti incerti (il tema dell’apprendista stregone è ricorrente nelle analisi del capitalismo finanziario).
 “Per il momento un siffatto esito finale – una forma aggiornata di fascismo, sostenuta da una larga parte del popolo come uscita dalla crisi – anche se tutt’altro che impossibile, appare ancora abbastanza lontano. Tuttavia non si può ignorare che da tempo numerosi governi hanno imboccato la strada di un crescente autoritarismo , in cui molti elettori si riconoscono”. Insomma il futuro appare tutt’altro che roseo sia sul piano economico che su quello politico, anche perché Gallino motiva il suo scetticismo sul fatto il finanzcapitalismo produca degli anti corpi per il suo superamento, ipotesi avanzata da altri studiosi. Una sua auto riforma appare improbabile perché esso costituisce una formazione economico-sociale che permea dei suoi valori la società e che ha costruito un rapporto biunivoco con la politica.
Francois Morin, constatato che “la globalizzazione dei mercati monetari e finanziari è arrivata a una tappa decisiva: quella della dell’interconnettività mondiale di tutti i suoi segmenti, controllabili così dalle grandi banche internazionali… permettendo, su una scala finora sconosciuta, il gioco speculativo mondiale”, prospetta un mondo senza Wall Street e le piazze finanziarie. Messa in luce la potenza economica e politica della grande finanza (e delle grandi banche), nonché gli effetti(negativi)  sul lavoro, l’ambiente, le imprese, le istituzioni nazionali e internazionali e i governi, l’autore suggerisce una via d’uscita che preveda sia un’apertura di dibattito a livello della “disciplina economica” in modo da rompere il monopolio dell’economia standard, e in sostanza abbandonare l’idea di una “scienza economica” per ritornare all’economia politica, sia un ripensamento dell’azione  politica, sia la trasformazione della logica finanziaria con un rafforzamento dell’economia sociale e solidale e la costruzione di nuovi rapporti di proprietà nella gestione delle imprese e del loro rendimento. L’analisi, anche se molto più sommaria, corrisponde a quella di Gallino, ma Morin è molto dettagliato nelle sue proposte di trasformazione su ciascuno dei singoli aspetti, fino a prospettare un governo mondiale. Le possibilità che queste riforme si realizzino è fondata sull’ipotesi di una prossima “crisi sistemica di vasta portata”, dalla quale si potrà uscire, appunto, con un mondo senza Wall Street (o con un diverso scenario non definito ma che credo sia di tipo autoritario).
Giorgio Ruffolo esplora la storia della moneta e la sua funzione (unità di conto, mezzo di scambio e riserva di valore), per portarci all’oggi: “la più recente crisi è stata provocata da una massiccia creazione di moneta endogena”. Si tratta di un mutamento del capitalismo dagli esiti sconvolgentemente negativi.  Proprio gli esiti del capitalismo finanziario rendono esplicito come la moneta sia  insieme “potente ma senza guida”. Guidarla si deve; l’unico modo è fissare i prezzi della moneta e del credito (tasso di cambio e tasso d’interesse) che dovrebbe tornare ad essere una funzione politica. Si tratta di una rivoluzione “inconcepibile all’interno dell’attuale mondo politico e morale”.
Tuttavia, Ruffolo individua cinque direttrici di marcia nella direzione della “rivoluzione”: abbandono dell’assunto dello sviluppo (non una economia stazionaria, ma  una economia finalizzata ad obiettivi di compatibilità ecologica, benessere sociale e programmazione); redistribuzione della ricchezza sia all’interno dei paesi ricchi che tra questi e quelli poveri; intollerabilità politica ed etica della “plutocrazia mondiale” che accumula moneta; la rinascita del mercato.            
Il libro di Ruffolo, non riguarda direttamente la crisi attuale ma la moneta, che ricondotta alla sua funzione gli si restituisce il suo potere al servizio dell’economia e non di una economia al servizio di un potere.  
I quattro libri di cui ci siamo occupati, in modo diretto o indiretto, costituiscono delle analisi dei connotati della crisi che ha investito il sistema mondo. Sono stati individuati, con precisione e acume, i soggetti attivi di questa crisi, la loro forza e la loro capacità di difesa; sono stati messi in luce i meccanismi con i quali essi operano,  è in modo esplicito è stato identificato il costo economico, ecologico e sociale che la popolazione mondiale sta pagando. Le relazioni tra mondo del capitalismo finanziario e le funzione di governo (la politica) sono state identificate, non solo come una sorta di permeabilità reciproca affidata ad una sfera di “professionisti”, ma come, più gravemente,  meccanismo di formazione di un unico pensiero e modo di operare.
È impressionate, come la lettura trasversale di questi testi mette bene in chiaro che le risposte che i governi (a livello nazionale e internazionale) elaborano e attivano  sono inutili e spesso, forse in buona fede e  inconsapevolmente,  giocano a favore della finanza speculativa.                          
Né i “tecnici”, perché imbevuti di una “dottrina” cieca, né i “politici”, perché vittime di schemi obsoleti, sembrano capaci di capire la mutazione del capitalismo, e non sembra si rendano conto di come la nascita del finanzcapitalismo abbia modificato contenuti e meccanismi dei processi economici, e che al governo con i loro provvedimenti, gli uni e gli altri, non fanno che tosare i popoli per offrire comodi giacigli alla speculazione. Se ci fosse una crisi di sistema l’esito, con molto probabilità non sarebbe progressista ma reazionario e autoritario, o invece si entrerebbe in un’epoca di grandi turbolenze.
Un’alternativa è possibile? Forse, ma oggi non pare alle porte, perché sembriamo, complessivamente,  incapaci di vedere quello che avviene sotto i nostri occhi, il vento si è portato via gli strumenti per capire, e chi capisce e si mobilita non sembra ancora capace di una iniziativa politica all’altezza della questione.




Luciano Gallino, Finanzcapitalismo, la civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino, 2011, pp. 324, 19
Francois Morini, Un mondo senza Wall Street, Tropea, Milano, 2011, pp. 157, 15€
Giorgio Ruffolo, Il Capitalismo ha i secoli contati, Einaudi, Torino, 2009, pp. 295,
12€
Giorgio Ruffolo, Testa e croce, una breve storia della moneta, Einaudi, Torino, 2011, pp. 176, 17€  
                            

sabato 28 marzo 2020

Cristina Bianchetti, Spazi che contano


Cristina Bianchetti, Spazi che contano, Donzelli editore, 2916, pp. 119, 24,00 €
Da ASUR, 2017

Con questo suo ultimo lavoro Cristina Bianchetti continua, così a me pare, la sua esplorazione sulla fine dell’epoca moderna e sugli effetti di tale evento sul “fare” urbanistica.
Vorrei iniziare queste brevi note con una citazione del precedente lavoro (2011) della Bianchetti (Il novecento è davvero finito, sempre Donzelli editore); allora scriveva: “Un importante trasformazione nel regime economico e politico ha provocato (a partire dagli anni ottanta) lo smantellamento del regime keynesiano dei trent’anni successivi alla seconda guerra mondiale… Nei trent’anni di neoliberismo seguiti ai trenta gloriosi è cambiato il modo di insediarsi di famiglie, individui e imprese. È cambiato il territorio e il suo essere condizione nei processi di produzione, accumulazione e distribuzione di valore. È cambiato il rapporto del territorio con la politica: una politica che nel passato sapeva stare nel territorio e che oggi gioca il territorio contro la politica… Sono cambiate le grandi questioni pubbliche legate all’emancipazione, alla giustizia, alla politica della vita, riportate alla necessità di regolare preferenze, interessi, motivazioni personali. Naturalizzate in una dimensione che rimanda specificatamente all’individuo. Viene meno, in questa riduzione del pubblico all’individuale, il carattere politico, antagonista che esse avevano. Quel che si mobilita, nel mutare delle condizioni di sfondo, è una diversa accezione dei valori di riferimento. Cittadinanza, benessere, equità, funzionalità assumono declinazioni differenti che nel passato. Spesso una declinazione giuridica e regolatrice che li rende impegnativi in modo diverso”.
Il volume più recente indaga proprio queste trasformazioni, viste in se stesse e in relazione al territorio e alla sua progettazione (o mancata progettazione) dello stesso. L’autrice riconosce che una pianificazione funzionalista, cioè una pianificazione che assegna precisi ruoli e funzioni, non solo allo spazio ma anche agli individui e alle famiglie, nel neo-liberismo si scontra con le trasformazioni prima indicate, ma all’autrice non fa velo il “cambiamento”; dei nuovo moduli e modelli, usi e forme di regolazione, vede l’inadeguatezza (alla convivenza, direi) e anche una forma diversa di funzionalismo.
C’è un punto logico-interpretativo sul quale sarebbe necessario convenire. La pianificazione funzionalista non mai ha raggiunto pienamente i suoi obiettivi; sicuramente esprimeva il potere egemone e aveva chiare le relazioni tra territorio e accumulazione capitalistica, costruiva spazi conformi, ai quali il mercato dava “legittimazione democratica”, tuttavia questa regolamentazione è sempre risultata parziale. Ma non si tratta di incompetenza progettuale, ma della vivacità e vitalità della città, dall’essere un campo di contraddizioni, uno spazio espressivo di desideri, di volontà, di speranze e di angosce non coerenti. La città-fabbrica, che collegava la produzione tayloristica e l’operaio massa all’organizzazione della città è una metafora che non ha saputo cogliere la realtà della città. La condizione urbana per sua natura non è piegabile ad una solo dimensione, essa è plurima sul piano sociale, economico, culturale e politico, esprime progetti diversi non sempre compatibili, in questa situazione non solo sono notevoli le contraddizioni ma sono anche forti le tensioni nell’uso e nell’appropriazione dello spazio. Un territorio funzionalizzato costituisce una maglia, una rete, un perimetro, definiamolo come si preferisce, ma esso è continuamente forzato, è in continuo subbuglio.
Non condivido l’adesione dell’autrice alla tesi (di Bagnasco, ma non solo) secondo la quale il fordismo portava alla coincidenza industria/società; la trovo troppo schematica  e nega articolazione e ricchezza (di umori e interessi) della società, ed è solo con la fine del fordismo che l’individuo si è trovato non solo ma isolato. Marginalità, povertà, isolamento, diseguaglianze, alienazione, ecc. sono state anche modi di essere del potere fordista, questo non negando la forza di coesione, di lotta e, spesso, di vittoria dei lavoratori.
Il ruolo pubblico, negativo e positivo, è stato fondamentale nell’epoca fordista, per facilitare garanzie e opportunità, ma lo è anche (anche se sembra non saperlo) in epoca neo-liberista. È evidente che tanto più debole è il “potere” di regolazione (pubblica) tanto più numerosi, articolate e varie saranno le forzature.
Un ragionare in questo modo, dovrebbe liberare i mei colleghi urbanisti dall’angoscia del fallimento dei rispettivi progetti, ma non dovrebbe costituire un’opportunistica disponibilità a fare con faciloneria. I cambiamenti analizzati dalla Bianchetti sono reali, ma essi chiedono, ai fini di una convivenza civile, libera ed equa una migliore pianificazione.
Nel libro che si assume come occasione di discussione l’autrice in qualche modo, e con la sua lingua, mi pare condivida quel punto di vista logico-interpretativo, non a caso scrive: “sottovalutazione dell’adattamento come meccanismo che permette alla città di funzionare; della sregolazione; della familiarizzazione tra individui e spazi che deriva dalle forme d’uso parziali, inventive, distorte. La città reale funziona per incoerenza e temporalità”, ma mi pare che questa riflessione è inerente la fase neo-liberista, mentre “incoerenza e temporalità hanno operato, in forme diverse, anche nei “gloriosi trenta”.
La tesi, molto interessante, della Bianchetti è che, nel neo-liberismo, si è finiti per ricadere in un nuovo  funzionalismo, denominato “funzionalismo umanista” (con una forte componente moralistica), che tende alla semplificazione, che (spera) di sciogliere nodi, mentre in realtà ha finito per perdere la grana fine del territorio e dei processi reali.
L’autrice confuta la capacità operativa del nuovo funzionalismo su tre piani: perché non riesce a fronteggiare il sovrapporsi di familiare ed estraneo (lo spazio è familiare o estraneo, intimo o esposto; inondato di luce, igienizzato; in realtà è anche oscuro, patologico, irrazionale, alienato); perché non riesce a trattare il corpo come canale di transito, operatore di relazioni complesse con lo spazio (i soggetti sono scarnificati e trattati come silhouette, mentre, avverte l’autrice, “quanto più il corpo interagisce con lo spazio, tanto più lo comprende. È l’intrico delle relazioni tra corpo e spazio che rende lo spazio conoscibile e trasformabile”); perché non riesce a misurarsi con le forme molecolari, sconnesse, micro della sovranità e del conflitto (la sovranità e la capacità di decidere sottratta ai singoli si esprime in piccole “bolle”, azioni ristrette che ogni volta  appaiono (o si credono) risolutive anche sul piano “locale” e che invece risulta soddisfacente sul piano dell’ego.
Il rapporto tra familiarità ed estraneità, tra corpi e spazio e tra sovranità e conflitto sono descritti come fondamentali per avere una rappresentazione e una interpretazione sufficientemente realistica della condizione urbana oggi. Senza questa consapevolezza il progetto assume connotati “evasivi, consolatorie o ideologici”. 
Mi pare di poter condividere, per quello che vale, questa impostazione, tuttavia mi pare necessario anche cercare la “radice” di questa situazione.  Il rapporto familiare/estraneo, corpo/spazio, sovranità/conflitto, nel testo analizzati in dettaglio e con ricchissimi riferimenti, non sono, secondo il mio parere, caratterizzati da una soggettività libera, indipendente e priva di condizionamenti. Non si tratta di riportare in auge quelle che vengono definite “vecchie ideologie” (o più modernamente “narrazioni”), ma neanche dimenticare le loro lezioni fondamentali. Non sostengo che uomini e donne siano delle marionette le cui parole, passi, movimenti e azioni, non siano espressione di una propria volontà, ma non posso non pensare che esistono interessi specifici, che esiste una più o meno vasta egemonia culturale, che esistono debolezze (economiche, sociali e culturali) dei singoli, e che il manifestarsi dei modi nei quali le tre precedenti relazioni si manifestano (in concreto) costituiscono molto spesso dei costrutti sociali. Per esempio, la concezione che, in generale, si ha dell’estraneo e della sua relazione con la familiarità non è pensabile che come esito di un costrutto sociale (e politico), che magari “usa” l’estraneità per altri fini.  Trovare queste radici non costituisce la soluzione, ma rappresenta la possibilità di una concettualizzazione ricca che può permettere una riconoscibilità dei processi in atto e indicare, così, come si possa intervenire in modo (parzialmente) risolutivo, senza coartare l’individualità, ma al contrario permettendogli di esprimersi al meglio in un contesto di convivenza e di maggiore libertà.
L’autrice sottopone ad acume critico il manifestarsi, dentro il neo-liberismo, di quello che possiamo chiamare il nuovo vocabolario della condizione urbana e dei modi come si esprime la “costruzione” della città. È apprezzabile che l’autrice anche adoperando la sua fine critica cerchi, tuttavia, di salvare, per così dire, elementi positivi che da queste nuove pratiche possono derivare. Per quanto mi riguarda mi sembra troppo generosa e ottimista.
Per esempio è messa in luce come l’abitare è sempre più segnato da nuove virtù: cooperazione, e condivisone danno luogo a nuovi spazi.  A Bianchetti il “vicinato” non sembra un’alternativa alla metropoli, piuttosto la riproposizione di una famigli, ma guarda a questi episodi con interesse perché li intrepreta come “ribaltamento di valori e gerarchie della città moderna”.
Così come lo stare entre nous “mette in scena una provocazione quella di una nuova urbanità che avviene fuori dalla polis”; anche se in queste esperienze riconosce folklore, vanità e leggerezza , crede che finiscano per “assumere un carattere politico” uno scandalo rispetto all’abitare della città moderna. Ma trattandosi di episodi molto parziali, meriterebbe una riflessione e delle analisi circa la relazione (funzionale?) che si determinano tra il “vivere tra di noi” e i modi dell’esistenza della città moderna che non viene vanificata da questi episodi. Forse esiste una relazione di funzionalità tra queste forme e il meccanismo economico che governa la città moderna (detto in modo sintetico e un po’ grossolano, non si tratta forse di uno “scaricare” su individui e famiglie la soluzione di problemi ai quali il Pubblico non sa dare risposte concrete?)
Una lunga citazione permette di mettere in chiaro il pensiero dell’autrice e esprime il nocciolo teorico e programmatico del testo: “Rimango convinta che un ripensamento dell’urbanistica, dei suoi temi, dei suoi progetti possa molto avvantaggiarsi dalla riflessione sulla tensione tra individualismo e condivisione; tra felicità privata e aggressività; tra chiusura in sé stessi e bon voisinage; tra sostegni burocratici dello Stato e protezione sociale ravvicinata, tra welfare tradizionale e welfare fondato sull’impegno volontario, l’altruismo, il dono; tra paternalismo del pubblico e neo-paternalismo della condivisione; tra i giochi stretti della Self Building City e quelli larghi del progetto abitativo contemporaneo. … Ciò che essi mettono in evidenza è a livello micro il perpetuarsi di alcune grandi questioni con le quali l’urbanistica si è misurata nel Moderno… Questi giochi, come già detto, non sono innocui. E sul piano spaziale hanno importanti conseguenze poiché perpetuano asimmetrie, differenziali di proprietà, di accessibilità, di diritto.”    
Quella che emerge è una concezione tutta politica dell’urbanista, una modalità di intervento che pur avendo come oggetto principale l’organizzazione dello spazio non dimentica che questa spazio è occupato e usato da donne e uomini, con le loro preferenze e con i condizionamenti delle loro azioni derivanti da collocazione sociale, economica e culturale, e ancora che in questa fase storica tende a prevalere un individualismo che si traduce in progetti e realizzazioni non omologhi. Non so se l’autrice condivide completamente l’opinione che oggi più di ieri l’urbanistica non consista nell’applicazione di modelli, più o meno perfetti, quanto sul governo delle trasformazioni. Solo in questo modo l’organizzazione spaziale (e quella sociale) possono sfuggire all’occasionalità e contraddittorietà dei comportamenti e dei progetti di vita. Se democrazia, trasparenza, equità, solidarietà e convivenza fossero le guide di tale governo allora le emergenze e le novità di cui questo libro si occupa potrebbero non affermare una sorta di anarchia autarchica, ma la consapevolezza di contribuire a fare società, con le sue contraddizioni ma anche con le sue ricchezze.
Il testo della Cristina Bianchetti, di cui ho cercato di dare conto, a me pare un contributo importante per ragionare sulla “fase” attuale (sociale, economica, culturale e urbanistica) e sulle possibili vie di uscite.
La lettura di un testo non prescinde dalle idee del lettore, sebbene non facilissimo ho goduto di questa lettura per le assonanze che mi è sembrato di cogliere. Soprattutto c’è un aspetto che mi è sembrato rilevante, forse l’ho già detto ma voglia ripeterlo, colpisce l’attenzione dell’autrice nell’esame i singoli aspetti in cui si manifesta nella città e nel territorio il neoliberismo, né ha anche analizzato teoria e filosofia, ma ha mostrato una indipendenza e un acume critico di grande valenza senza farsi trascinare e traviare, se posso permettermi, dalle novità (che pur esercitano un grosso fascino su molti ricercatori). Un gran bel libro.       
      

Giandomenico Amendola, Le retoriche della città,


Giandomenico Amendola, Le retoriche della città, Dedalo, Roma 2016, pp. 168, euro 16,50
 Da ASUR, 2013


La città  è una composizione sistemica di morfologia urbana e di condizione urbana, i due elementi sono dati storicamente come inscindibili, ancorché distinguibili e che si influenzano reciprocamente. Oggi forse questo legame non è più così stretto, si aprono possibilità nuove, quello che conta, tuttavia, che in ogni discorso sulla città questa distinzione debba assumere rilevanza.   
Questo problema è molto ben in vista nel libro di Amendola, anche se tratta di questioni diverse pur sempre di città si occupa soprattutto con l’occhio del sociologo urbano. Gli interessa il discorso “sulla” città, il suo ragionare, infatti, implicitamente e anche esplicitamente si occupa della città di pietra e di quella di carne e sangue, e chiarisce come il discorso sulla città sia oggi, ma anche ieri, fortemente dominato dalla retorica, l’arte di convincere, piuttosto che quella di cercare la o le verità.
Il punto di partenza è l’importanza crescente della città, sia perché ormai luogo di maggior concentrazione della popolazione, sia perché sia affida (retoricamente) alla città la soluzione dei maggiori problemi che le nostre attuali società devono affrontare, sia perché si carica la città di innovazione economica, sociale, democratica e di sviluppo futuro. Il futuro è nella e delle città.
In un panorama di situazione urbane molto ma molto diverse: dalla grande metropoli dei paesi sviluppati a quelle dei paesi poveri, città della concentrazione e città della dispersione, città omogenee e città fortemente differenziate, città specializzate e città omnibus, il discorso sulla città non fa distinzioni di impianto, di volta in volta secondo il luogo e il tempo assume un aspetto della dinamica urbana e su questo costruisce un discorso.
Il libro che recensiamo, come già dovrebbe essere chiaro, non si occupa di città, anche se a moltissime situazioni urbane fa riferimento, ma piuttosto dei “discorsi” intorno alle città. Da questo punto di vista a me pare un libro fuori dalla norma ma non per questo, o anzi proprio per questo, di notevole interesse. Esplorare i discorsi intorno alla città ci dice molto della poca tenuta dello stesso “governo” della città, della scarsa cognizione che dei processi hanno i politici, ma soprattutto ci racconta come sul tema della città è oggi in atto uno scontro tra interessi diversi, che si combatte con i mezzi tradizionali dell’urbanistica e dell’organizzazione della città, ma nel quale ha assunto una rilevanza, che nel passato non aveva mai avuto, il discorso retorico. Certo anche in epoche diverse i “discorsi sulla città” veicolavano, attraverso la retorica, interessi diversi e spesso divergenti, ma nella fase attuale le “retoriche” hanno assunto un ruolo molto più rilevante. A questo fenomeno non è estranea una maggiore consapevolezza degli abitanti, una loro maggiore attenzione alle trasformazione e quindi la necessità di usare la retorica come strumento di convincimento.
Il lavoro di Amendola mi pare utile sotto diversi aspetti:
-         Rende esplicito che molti dei discorsi intorno alla città costituiscono manifestazione di una retorica che vuole convincere con poca relazione con i processi reali. Non voglio essere frainteso e soprattutto non vorrei che fosse frainteso il lavoro dell’autore: ogni retorica ha un addentellato sulla realtà, ma la retorica tende ad esaltare qualche elemento e, magari, lo priva del contesto dove meglio potrebbe essere interpretato;
-         Chiarisce che molti discorsi retorici sono tra di loro in contrasto e si contrappongono.
-         Finalizza la sua ricerca all’identificazione della questione urbana oggi liberata dalla retorica, si tratta di un risultato implicito ma di grande valenza;
-         Mette in chiaro che “il discorso retorico non riguarda un tipo particolare di città – come, per esempio, la città sostenibile, la smart city, o la città della cultura – ma la città in quanto tale. L’idea che il secolo appena iniziato stia portando un nuovo rinascimento urbano è tanto diffusa da sembrare ormai un luogo comune”. Ecco che il discorso retorico sul rinascimento urbano diventa luogo comune.
I discorsi retorici ai quali l’autore mette mano con acuti strumenti critici sono diversi; il trionfo della città e il city mrkketing; le retoriche della razionalità e della giustizia; la retorica della bellezza; le retoriche del piano e della partecipazione; la retorica dell’individualismo; la retorica della comunità; la retorica dell’accoglienza; le retoriche della rassicurazione; le retoriche della sostenibilità; le retoriche della Growth Machine e degli Urban Development Projects; le retoriche della cultura e della creatività; la retorica della smart city; la retorica delle emozioni.
A ciascuna di queste l’autore dedica un capitolo denso di riferimenti fattuali, nel quale si mettono in luce interessi non esplicitati e contraddizioni. I singoli capitoli costituiscono una felice medicina per quanti occupandosi di questioni territoriali  mal sopportano la continua invenzione, priva di fondamento, di teorizzazioni, progetti risolutivi, nuove strumentazione di intervento, ecc. e nei quali problemi seri e reali si trasformano, appunto, in discorsi retorici. Ciascun capitolo è inoltre dotato di un’ampia bibliografia.
A questo punto, spero di essere riuscito a chiarire il senso dell’operazione culturale e scientifica portata avanti dell’autore. Non volendo analizzare ogni tipo di retorica affrontata mi sono riservato un po’ di spazio per un commento su un  capitolo che non ho citato: Il racconto della città e i suoi problemi.
“La retorica della città è costruita e utilizzata senza risparmio perché la città è la più importante degli en jeu, delle poste in gioco decisive”. Sono i politici, magari l’uno contro l’altro che ne fanno uso, i portatori di grandi interessi economici che guardano  alle opere e alle  trasformazioni della città dai quali ricavare grandi guadagni, gli immobiliaristi, ecc. La città è sempre stata ma oggi forse lo è a maggior ragione un grosso centro di interessi economici, una torta della quale molti ne vogliono una fetta.
Dietro questi interessi spesso c’è miseria, emarginazione, squallore.
La retorica è anche l’arma degli oppositori, di quanti a ragione denunziano come le trasformazioni non riguardano il buon vivere della gente ma i portafogli di pochi.
Ma come si esercita questa retorica, a che cosa si appigliano: “quello che è costante nelle retoriche sulla città e il loro richiamarsi a idee e valori fondanti, condivisi – quindi difficilmente rifiutabili – e farne elementi connotanti ogni progetto”.  In questi discorsi tutto appare positivo, non esistono controindicazioni e soprattutto non esistono alternative. “Il nuovo contro il vecchio, l’altruismo contro l’egoismo, la lungimiranza contro la miopia”, ecc. artifici retoriche che finiscono per confondere ma soprattutto che riescono a far velo sulla realtà.
Secondo l’autore è la città stessa la fonte maggiore di legittimazione delle azioni che la riguardano. È la conseguenza del fatto che essa è corpo vivo della società, delle sue contraddizioni, delle sue miserie e delle sue opportunità, è storia e cultura, è economia, è rappresentazione deli stili di vita dei suoi abitanti, è il luogo del desiderio, del progetto individuale e collettivo, della voglia di essere. Ma tutto questo è contradittorio. Ha ragione, si può considerare la pianificazione razionale una retorica, ma la città deve essere governata.
Gli strumenti che la tradizione disciplinare dell’urbanistica e della pianificazione ci ha consegnato, hanno bisogno di fare i conti con il cambiamento, non il cambiamento della declinazione retorica ma quello che constatiamo quotidianamente, quello che si manifesta nei modi in cui si usa la città, nelle manifestazioni di rifiuto ma anche di ricerca della condizione urbana. È retorica la declinazione di una pianificazione razionale che tutto mette a posto oggi per domani, ma non è retorico l’impegno della cultura urbanistica più avveduta di rigettare una proposizione miracolistica della pianificazione per continuare a lavorare per cercare di mitigare la condizione della fasce più deboli della società, costruendo una città bella e buona (scusate la retorica), una città dinamica dalla quale non sono state espulse le contraddizioni (non è l’urbanistica che può cambiare il mondo).

Francesco Indovina

È BOLOGNESE LA RICETTA DELLA PROSPERITA’



Commento al libro di Pier Luigi Bottino e Paola Foschi
Francesco Indovina
(Città Bene Comune, la Casa della cultura Milano, 2020)

Il testo La Via della Seta bolognese, di Pier Luigi Bottino e Paola Foschi (Minerva 2019), non è solo lo spaccato della storia di una città in uno specifico periodo storico. È soprattutto un esempio di politica economica urbana molto efficace che mette in luce, oggi che ce ne siamo dimenticati, quanto la “geografia” – ovvero la collocazione di una città in un determinato territorio – possa contribuire al suo sviluppo economico e sociale. Ma soprattutto fa emergere quanto intraprendenza, innovazione e lungimiranza pubblica siano doti fondamentali senza cui è improbabile che una società prosperi nel lungo periodo.
Verso la metà del 1300 alcuni artigiani, dediti alla lavorazione della seta, furono costretti per ragioni politiche ad abbandonare Lucca e si disseminarono in varie zone dell’Italia settentrionale. A Bologna – ci raccontano Bottino e Foschi – non solo furono ben accolti, ma la città favorì l’insediamento e lo sviluppo delle loro attività, avendo intravisto che la produzione della seta avrebbe potuto arricchirne l’economia. Nello stesso periodo anche molti lavoranti della lana si trasferirono a Bologna, attratti dalla ricchezza della città che, molto frequentata da stranieri (studenti, ma non solo), appariva un mercato ricco e in continua espansione. Anche a questi, con una lungimiranza che oggi fatichiamo a ritrovare nel nostro Paese, fu riservato lo stesso trattamento. Insomma, persone, competenze, tecniche venute da altrove furono intelligentemente integrate nel contesto economico e sociale per rendere più vitale e florida la città.
Il volume si occupa specificatamente dell’industria della seta: gli autori ne ripercorrono la storia dalla sua prima importazione dalla Cina (intorno al 200 a.c.) focalizzandosi sul suo sviluppo nella città felsinea. Ma la cosa che mi pare più rilevante di questo lavoro – quella per cui ho deciso di scriverne in questa rubrica – è l’illustrazione delle politiche messe in atto dalle autorità cittadine per facilitare l’insediarsi di questa produzione e l’ambiente innovativo che quegli artigiani trovarono in questa città. A chi, costretto a fuggire da Lucca, immigrava a Bologna con l’intenzione di costituire un’impresa il Comune – da sempre accogliente verso chi immigrava in città e intraprendeva attività economiche e commerciali – garantiva in dono un “tiratorium” (ambiente adatto ad asciugare il prodotto finito) e due telai. Offriva, in uso gratuito per otto anni, la casa e la bottega. Concedeva un mutuo a zero interesse per cinque anni: 50 lire bolognesi che dovevano servire per le spese di impianto, l’acquisto dei materiali necessari, il mantenimento della famiglia. Infine, cosa non secondaria, concedeva la cittadinanza e l’esenzione delle imposte per quindici anni.
Come si può constatare si tratto di una politica articolata e complessa, che anni prima era stata sperimentata nei riguardi degli operatori della lana veronesi, anche se – secondo gli autori nel volume – “di gran lunga più importante per la città fu la migrazione lucchese della seta”, come per altro sembrano testimoniare, seppur con qualche dubbio, alcune tracce lasciate nella toponomastica cittadina (per esempio, via Capo di Lucca). L’ottica delle autorità comunali non fu solo quella di espandere le attività economiche della città, ma soprattutto quella di acquisire e sviluppare nuove tecnologie. Su quest’ aspetto gli autori insistono molto e mettono anche in evidenza che se da una parte i setaioli trasferivano nuove conoscenze, dall’altra la stessa produzione poté godere di innovazioni tecnologiche che ne aumentarono notevolmente la resa. È qui che il legame tra produzione e infrastrutturazione urbana e territoriale (e dunque lungimiranza pubblica) si fa più stringente perché queste innovazioni erano legate alle vie d’acqua. È infatti proprio la struttura dei canali bolognesi a fare da acceleratore alla produzione della seta. Bologna e il suo territorio, infatti, erano solcati da una vera e propria rete di vie d’acqua che permetteva ai bolognesi di raggiungere il mare: “proprio dall’acqua il mondo di quei tempi prese la forza di riattivare il commercio e l’economia, applicando il proprio ingegno nel costruire canali in sostituzione alle strade (…). La Via della Seta bolognese – scrivono Bottino e Foschi – fu quindi soprattutto una via d’acqua, attraverso quei canali che lo spirito imprenditoriale della città aveva costruito partendo dal Reno: il canale di Reno, il canale Navile, il Po”. L’imbarcazione maggiormente utilizzata per il trasporto lungo questi canali era il “burchiello” che veniva trainato da un cavallo che seguiva un sentiero parallelo al canale stesso. Per comprendere l’importanza del trasporto via acqua si noti che, nello stesso periodo, un “biroccio” trainato da un cavallo lungo le strade non solo impiegava più tempo ma poteva trasportare solo 15 quintali di merce contro i 90 del “burchiello”. E tutto un mondo di trattorie, di posti di sosta, ecc. si organizza lungo questi percorsi dando quasi vita a una civiltà parallela.
Per la nascente industria della seta bolognese, tuttavia, i canali non furono soltanto una via di comunicazione efficiente sul piano del costo e rispetto alla possibilità, attraverso Venezia, di raggiungere i più importanti mercati europei. È da questi, infatti, che scaturisce una rilevante innovazione tecnologica volta allo sfruttamento della forza dell’acqua come forza motrice per muovere i filatoi. Infatti, “in questa città – osservano gli autori – si conosceva da secoli l’uso dell’acqua dei canali di Reno e di Savena per muovere i mulini da grano” e trasferendo questo sistema alla produzione della seta si ottenne un grande risparmio di forza lavoro e un aumento della velocità di lavorazione. Insomma, un importantissimo aumento della produttività che fece lievitare il benessere collettivo. Fino alla fine del Trecento le “ruote idrauliche” erano collocate lungo il percorso dei canali, ma il Comune, per aumentare il potenziale produttivo, concesse per fini industriali la derivazione dell’acqua dai canali. Ciò avveniva attraverso le “chiaviche”, condotti con portata d’acqua modesta ma tale da sviluppare la “forza motrice” necessaria e sufficiente per la nascente industria della seta. Tali condotti sotterranei vennero indirizzati nelle cantine degli edifici industriali dove erano collocati i macchinari che la forza delle acque faceva così muovere e lavorare attraverso le ruote idrauliche. Sulla base di questa prima innovazione se ne svilupparono altre, come l’organizzazione dell’edificio industriale, l’uso di “rocchelle” per la torsione del filo, e altre ancora su cui non è necessario soffermarsi. Tutte attività che liberavano mano d’opera che attivava nuovi filatoi in un processo di crescita continua che ancor oggi avrebbe molto da insegnarci.
Oltre praticare l’accoglienza delle nuove attività produttive e  investire in infrastrutture innovative, il Comune di Bologna mise in atto provvedimenti per difendere questa industria, per esempio, attraverso il controllo del mercato dei bozzoli. Ed è grazie a questa pluralità di azioni pubbliche che quella della seta bolognese diventò in un tempo relativamente breve una delle principali industrie della città rifornendo i mercati internazionali. Alla fine del ‘600 erano presenti a Bologna più di 300 impianti che impiegavano più di 25.000 “uomini, donne, bambini e zitelle” (si tenga conto che gli abitanti di Bologna nel periodo non supervano i 60.000).
Come si è fatto cenno all’inizio, questo testo  pare importante perché riesce a cogliere e ad evidenziare alcuni aspetti importanti di politica economica urbana, sia sul piano strettamente economico sia su quello che potremmo chiamare della costruzione di un ambiente tecnologico e sociale adatto allo sviluppo. Gli autori sottolineano a più riprese l’importanza della moltiplicazione delle conoscenze attraverso lo scambio tra popolazioni con culture e tradizioni differenti, con esperienze produttive nuove, con tecnologie prima sconosciute. Si trattò, in altri termini, di un processo di costruzione di un ambiente favorevole allo sviluppo economico fondato sull’innovazione, non soltanto sulla ripetitività di approcci già sperimentati. Soprattutto si trattò di un processo in cui l’immigrazione non venne considerata una forma di invasione, una possibile sottrazione di benessere collettivo, ma come una risorsa dalle enormi potenzialità. Ciò che – a giudizio di chi scrive – appare di grande rilievo non è dunque solo la capacità di accoglienza, ma anche la volontà di favorire i nuovi arrivati nel momento in cui si adoperano per creare nuove attività. 
Bologna diventa un centro d’innovazione. La seta bolognese esplode a livello mondiale, del mondo di allora, sia con i veli leggerissimi sia con i tessuti di maggior consistenza. Quello bolognese fu un prodotto ricercato nelle grandi piazze di Parigi, di Amsterdam, ecc., dalla nobiltà e dalla borghesia dell’epoca e diventò un elemento di distinzione (molto più di quella di Lucca da cui prende le mosse). Il libro di Pier Luigi Bottino e Paola Foschi è, tenendo conto della materia che affronta, accattivante e leggero. Le numerose illustrazioni che lo arricchiscono e lo rendono prezioso aiutano le parole a rendere viva la narrazione. Ma soprattutto, questo libro ci insegna che è nell’integrazione, nell’innovazione e nell’investimento pubblico che si trova la ricetta della prosperità.
Francesco Indovina


N.d.C. - Francesco Indovina, già professore ordinario di Tecnica e Pianificazione urbanistica all'Università IUAV di Venezia, dal 2003 insegna alla Scuola di Architettura di Alghero (Università degli Studi di Sassari). Da sempre è fautore di un approccio interdisciplinare agli studi sulla città e il territorio coniugato a un saldo impegno civile. È autore di numerose pubblicazioni e ha fondato e diretto i periodici "Archivio di studi urbani e regionali" e "Economia urbana" (già "Oltre il Ponte"); dirige inoltre la collana di Studi urbani e regionali edita da FrancoAngeli.
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.


   
    

giovedì 26 marzo 2020

E se domani ... (Mina insegna)


Diario
25 marzo 2020


(Un diario senza rete. Forse frutto dell’isolamento o dell’emergere di pensieri di altre epoche personali, che hanno continuato a pesare sui miei pensieri, ma che forse ho considerato indicibili. Ho cercato di rinnovarle, non so se ci sono riuscito. Pardonatemi)

Si fa sempre più pressante l’interrogativo su che può succedere a livello economico-sociale, una volta sconfitto il coronavirus. Le voci clamanti sono omogenee: sarà necessaria una grande ignizione di risorse da parte dello Stato, differiscono sull’entità, chi parla di 100 miliardi di euro, chi di duecento, chi di trecento, ecc. Tutto questo denaro (simulato) dovrebbe permettere il rilancio dell’economia in una società rinnovata e migliorata. Il debito pubblico, si ragione, non può essere un vincolo; lo stato deve indebitarsi e si fa finta di non sapere che il corrispondente di un debito (dello stato) e un credito (di chi?).
Il rilancio economico-sociale, certo, ma di quale economia e di quale società parliamo?
Parliamo dell’economia nella quale una piccola percentuale di “persone” detiene la maggior parte della ricchezza , mentre la grande maggioranza della popolazione deve lottare per avere una piccola quota di quello che resta, e alcuni neanche questo? Grazie no!
Mi pare che tutto questo applaudire ai bravi cittadini “che stanno a casa”, sia un velo teso a nascondere la quantità di famiglia che non ha una casa che permetta una convivenza positiva in quarantena; nasconde tutte quelle famiglie che non hanno una casa ma vivono in situazioni di fortuna e i senza casa in senso proprio. Quello che è un comportamento apprezzabile, non può nascondere una società fatta di differenze e di diseguaglianze. Vorremmo un’economia ancora con queste differenze  e diseguaglianze? Dire si o no è inutile, ma bisogna sapere che la probabilità che la vecchia economia si riproduca (anche in peggio) è molto alta. Per cambiare questa probabilità, o meglio invertirla, sono necessarie idee, forze organizzate e volontà di correre dei rischi.
Parliamo di un’economia basata su un consumismo sfrenato, per chi può, e in desideri non soddisfatti per moltissimi (certo colpa loro che hanno desideri non alla loro portata!). Di un sistema di produzione finalizzato ad alimentare un flusso di consumo apparentemente egualitario, ma in realtà basato su discriminazione, non abbiamo bisogno.
Oggi applaudiamo quelle imprese che sono state capaci di riconvertirsi per produrre maschere, respiratori e quanto l’emergenza sanitaria richiede, ma ci si deve chiedere come mai il sistema sanitario non sia stato in grado di indirizzare la produzione in modo appropriato? Non sarà forse per  i tagli che sono stati fatti al sistema sanitario nazionale, e questo per alimentare la sanità privata presentata come più efficiente ed efficace (un falso di fatto e storico).
Non vorrei continuare su questo tono, sono cose che molti sanno, anche se dimenticano, per poter dire cosa si potrebbe fare, “poche e sentite cose”. Mi soffermerei su quattro aspetti senza nessuna considerazione dei miliardi necessari per attivarli.

Sistema economico- produttivo. Non penso alla possibilità di un sistema economico-produttivo totalmente pubblico. L’articolazione, le connessioni, la spinta all’innovazione, ecc. presuppongono un sistema basato sull’iniziativa dei privati (mentre lo scrivo mi vengono i brividi), ma questo non significa senza controllo, ma chi deve controllare? Intanto lo Stato, ma non in forma burocratica e occasionale, ma in forma continuativa e creativa, deve essere il controllore-stimolatore. Inoltre i lavoratori organizzati, non credo sia opportuno parlare di cogestione, ma piuttosto di strumenti (anche di nuove strutture) effettivi ed efficaci per il controllo. L‘impresa va ritenuta responsabile, penalmente responsabile, per eventuali incidenti sul lavoro come il “padrone” (individuale o meno) deve essere ritenuto responsabile per eventuali andamenti negativi. In sostanza un sistema economico di tipo privatistico responsabile e remunerativo (si veda più avanti a proposito di fiscalità). La remunerazione del lavoro e il rispetto dei contratti e delle leggi in proposito (ore di lavoro, straordinari, ferie, condizione degli ambienti di lavoro, ecc.) deve essere massima e la loro deroga deve essere fortemente sanzionata.
Lo stato, in proprio, deve essere proprietario-promotore dei settori strategici (che cambiano nel tempo)  ed anche attraverso questi essere uno stimolo per l’intero comparto produttivo.   

Sistema di welfare state. Se si assume che il WS è un sistema di difesa e di sostegno alla buona vita dei cittadini le sue maglie devono essere allargate molto. Intanto alcuni bisogni essenziali devono entrare a far parte di questo sistema di sicurezza: non solo la salute e l’istruzione, ma anche la casa e l’ambiente, ma soprattutto il reddito. La concezione della salute deve essere fortemente allargata, non solo la cura di alcune malattie ma di tutte, non solo le medicine con il ticket, ma medicine gratuite secondo necessità. L’istruzione, in prima istanza deve essere portata fino a 20 anni, fino cioè ad un corso universitario triennale per tutti (e ovunque). Ciò comporta non solo una riorganizzazione del sistema scolastico, soprattutto universitario, ma anche dei servizi connessi (nuovi e da sperimentare). La casa, il sistema deve poter garantire la casa a tutte le famiglie (di qualsiasi tipo e dimensione), la produzione di edilizia pubblica non deve essere considerata come un “aiuto” al meccanismo economico, ma come una salvaguardia della vita dei cittadini. L’ambiente non può essere considerato a se stante, come una sorta di “riparazione” nei riguardi della natura, ma come un elemento della qualità della vita dei cittadini. Leggi, provvedimenti e quant’altro riguarda la natura non può essere un’occasione di business, come anche alcuni “verdi” sostengono, ma come strumenti di salvaguardia, di difesa e di miglioramento della qualità della vita dei cittadini. In quest’ambito anche gli sport vanno considerati come elementi funzionali di WS.
Lo stato deve garantire che tutti i cittadini abbiano un reddito.
  
Sistema fiscale. Questo è il settore che merita le più grandi innovazioni. Proprio perché si delinea un sistema complessivo a due ambiente: uno privato e produttivo, uno pubblico di garanzia della qualità della vita, è chiaro che chi produce ricchezza (il primo ambiente) deve sostenere il secondo ambiente. Non basta un sistema progressivo, ma a questo non devono essere posti limiti, l’imposta massima può arrivare anche al 70-75%, con una forte contrazione a mano a mano che si scende sui redditi più bassi, ma anche a questi lo stato chiede un contributo nella misura in cui il WS funzioni e offre le garanzie richieste. Una riforma sostanziale deve essere fatta sulle “successione”: tutti sono legittimati ad arricchirsi, onestamente e secondo le regole e per proprie capacità possono accumulare tutte le ricchezze che possono: queste ricchezze possono godersi, ma non possono lasciarli in eredità a nessuno. La legge di successione deve prevedere che tutto il patrimonio dei defunti ( liquido, case, opere d’arte, macchine e imbarcazioni, ecc.) passano allo stato, che risulta l’unico erede e che garantisce buona vita a tutti.



       

venerdì 20 marzo 2020

L'Italia dopo il coronavirus


Diario
20 marzo 2020



In questi giorni di quarantena e di molta TV, forzata, ho sentito opinioni ponderate su come il coronavirus, migliorerà la società italiana. Opinioni che mi sembrano più speranze infondate che previsioni ragionate. La quarantena obbligata ci dovrebbe migliorare, il perché non si capisce.
Secondo questa versione saremmo più attenti al nostro prossimo, più disponibili, considereremo gli altri dei “compagni di viaggio” invece che degli antagonisti.
Insomma: saremmo più gentili con i condomini che abbiamo imparato a conoscere (ora sappiamo anche il loro nome), useremo meno l’automobile, in autobus o tram cederemo il posto alle signore e agli anziani, non lasceremo pacchi di rifiuti fuori dai cassonetti, raccoglieremo gli escrementi dei nostri cani, se qualcuno per caso ci tampona, ci rivolgeremo come se ci avesse fatto un piacere, non parcheggeremo in terza fila, nei negozi staremo attenti a rispettare le priorità, parleremo a voce bassa, al supermercato non sceglieremo la frutta e la verdura che ci pare migliore, useremo i cestini sparsi nelle città, pochi per la verità, per buttare gli scontrini, i biglietti dei mezzi pubblici, ecc., ci fermeremo innanzi alle strisce pedonali se un pedone le attraversa, non insulteremo le donne al volante, pagheremo le tasse dovute, ci comporteremo in modo adeguato al luogo, così in autobus non ci comporteremo come allo stadio, non attraverseremo un marciapiedi calpestando i “lenti”, non starnuterò senza riparo, i genitori non andranno più a scuola ad insultare maestri e professori per una cattivo voto o un rimprovero al proprio figlio, a capodanno non lancerò mortaretti e non lancerò dalla finestra suppellettili rotte, non guarderò allo straniero come un invasore ma come una persona da accogliere, ecc. ecc. potrei continuare ma ciascuno può completare la lista secondo esperienza.
Una quota notevole di cittadini già oggi hanno un comportamento consono, va riconosciuto, ma una parte manifesta la sua presenza al mondo disturbando gli altri. Ma così come la moneta cattica scaccia quella buona, così i comportamenti disdicevoli sovrastano e scacciano gli altri.  
Potrei sbagliare, me lo auguro, ma comportamenti radicati e costruiti su anni di pratica non credo possano essere sradicate in qualche settimana di isolamento e di riflessione.
Posso al contrario pensare che la fine della quarantena potrebbe manifestarsi come uno scoppio di vitalità fondato sul ripristino immediato dei vecchi vizi. Mi immagino carovane di macchine che a clacsono spiegato attraversano le nostre città per la gioia di essere scampati al morbo, certo vitalità ma anche rispetto degli altri. I ragazzi e le ragazze si porteranno in massa ai pub a bere in compagnia birra e quant’altro. Ecc.
Non sono un parruccone e posso capire queste esplosioni di vitalità, a prescindere dal fastidio che possono generare, ma poi …. tutto come prima.
Se non fosse così, chiederò scusa e promuoverò la costruzione di un monumento al coronavirus che ha educato la nostra popolazione.
   



venerdì 13 marzo 2020

La signora della BCE




Diario
13 marzo 2020


Si tratta d’insipienza? Della ricerca della prima pagina? Di una volontà perversa che interpreta male  il suo ruolo? Non sappiamo, ma sappiamo che le dichiarazioni della signora della BCE hanno prodotto un disastro nei mercati. Piuttosto che chiudere agli speculatori, che da diversi giorni operavano in tutte le borse, gli ha aperto un grande varco.

La Borsa in minima misura costituisce lo strumento della raccolta di risorse finanziarie a scopo di investimento, essa costituisce l’occasione o per garantirsi dei rendimenti sulle proprie risorse finanziarie, o, ed è l’attività maggiore, per cercare guadagni seguendo l’andamento dei singoli titoli e operando, opportunamente, vendite o acquisti dei titoli posseduti nel proprio portafoglio. In quest’ambito s’inseriscono le attività di previsione futura dei singoli titoli, cercando di speculare su tale previsione, in sostanza rischiando sulla previsione (non per nulla si dice “giocare in Borsa”). In questo gioco le tecniche sono diverse e non vale parlarne.
La cosa importante da dire è che le previsioni possono essere proprie elucubrazioni o l’acquisizione di informazioni preventive (questo è un reato). In questo gioco le dichiarazioni di “personalità”, come appunto la signora della BCE,  sono ascoltate soprattutto per gli effetti che presumibilmente produrranno.

Va anche detto che i “grandi” della finanza usano strumenti telematici attraverso i quali  in millesimi di secondi possono vendere o comprare enormi quantità di titoli che determineranno l’andamento della borsa nel proprio interesse. In questo senso gli investitori in Borsa che non dispongono di questi strumenti credono di operare con la loro “intelligenza” mentre sono coinvolti in un gioco di cui non controllano nulla.

Tornando alla signora della BCE, è chiaro che per il suo ruolo istituzionale avrebbe dovuto evitare    qualsiasi dichiarazione che peggiorava la situazione degli stati membri. Al contrario Essa ha creato un disastro non recuperato dalle correzioni successive. La signora ha considerato la BCE non un’istituzione a garanzia dei suoi “soci” (gli stati membri), ma come un’istituzione privata, una sorta di Banca Privata Centrale Europea,  indifferente, almeno si spera, sugli effetti delle proprie dichiarazioni. Dall’altra parte si potrebbe sostenere che la signora della BCE abbia operato a favore dei suoi soci, le Banche Centrali dei diversi paesi, che per “svincolarle”, da ogni influenza politica sono state trasformate  e il cui capitale è partecipato da numerosissime (in Banca d’Italia circa 100) istituzioni private. In Banca d’Italia si trovano: banche, assicurazioni, enti di previdenza, ecc.,  un coacervo dentro cui si trova di tutti anche le casse di previdenza delle varie professioni fino, per esempio, il  Fondo Nazionale di Previdenza per i Lavoratori delle Imprese di Spedizione Corrieri e delle Agenzie Marittime Raccomandatarie e Mediatori Marittimi.   

Con questa trasformazione delle Banche Centrali si è pensato di svincolarle dalla politica, trasformandone la gestione in “tecnica”. Da una parte un’illusione (questo dipende dalle personalità che la guidano) e dall’altro deresponsabilizzandole e creando un pasticcio tra interessi dei soci e quello del paese.

Nella BCE, essendo partecipata dalle Banche Centrali, il pasticcio di fatto si moltiplica e il “suo” governatore deve avere capacità di equilibrio sociale ed economico, ed una visione della funzione dell’istituzione che la signora non sembra avere. La scelta della sua sede a Francoforte sembra indicare la volontà di evitare qualsiasi commistione con le istituzioni europee politiche.

La cosa certa è che quelle dichiarazioni hanno permesso una notevole massa di speculazioni a favore di pochi.

sabato 7 marzo 2020

Un paese laico (?)


Diario
7 marzo 2020



Il sovradimensionamento dell’informazione, dei commenti, le parole degli esperti, le opinioni di tutti, ecc. sulla “infezione cinese” tolgono la parola, ma una piccolissima riflessione vorrei scriverla.
L’occasione di queste settimane mostra, a sorpresa, un paese laico. Certo ci saranno persone che in
ragione alle loro fedi chiedano aiuto e protezione a Dio, Madonne, ecc., ma non ci sono manifestazioni pubbliche e sociali di queste devozioni. La cosa più sorprendente è l’adesione della Chiesa Cattolica a questa forma di laicizzazione del popolo, il blocco delle cerimonie liturgiche in molte parti del paese, l’abolizione dell’acqua santa, ecc. non solo sono un’adesione ai consigli per combattere l’epidemia, ma anche una manifestazione di ragionevole laicità.
È possibile immaginare le processioni, i rosari collettivi, le grandi liturgie, le grandi predicazioni, l’individuazione dell’infezione quale “castigo” divino, ecc.  se non fossimo nel 2020 ma l’epidemia fosse esplosa negli anni ’50-60.
Mentre va riconosciuta e onorata l’attività delle molte iniziative che la Chiesa cattolica o  sue associazioni fanno a favore dei poveri e soprattutto degli immigrati, va visto come un miglioramento dello stato di salute della nostra società una certa riservatezza della fede.
Non importa quale sia l’atteggiamento di ciascuno nei riguardi di Dio, ma credo che tutti, credenti e non credenti, si possa convenire che la “fede” possa diventare una questione privata, possibilmente con poca ostentazione (i crocifissi che ballano sul seno di molte conduttrici televisive mi sembrano offensive per Dio, così come, ovviamente, i rosari esibiti nei comizi).
Non disconosco la legittimità della Chiesa a fare opera di proselitismo, e nel suo dna, il modo non è tuttavia irrilevante.
Se il coronavirus, oltre a tutti i lutti, i danni e i problemi che pone al paese ci restituisse l’immagine di una società laica, sarebbe un effetto collaterale non previsto ma non disprezzabile.
Detto questo sarà sempre possibile che l’eventuale intensificarsi del virus ci riproponga una tradizione di devozioni pubbliche, la paura porta sempre a Dio.