lunedì 30 giugno 2014

Politica industriale: idee confuse e fallimenti assicurati



Diario 256

Politica industriale: idee confuse e fallimenti assicurati

Le iniziative anti crisi del governo italiano si caratterizzano per un fallimento dopo l’altro. Per esempio il bonus per favorire l’occupazione giovanile che prevedeva 100.000 nuove assunzioni si è fermato a 22.000 assunti (poco più di un quinto dei previsti). 

Non sono né i bonus, né nuove norme (per quanto flessibilità introducano) che possono far aumentare l’occupazione, ma questa semplice e banale constatazione dai nostri governarti (e da molti esperti) non viene presa in considerazione.

Si può ripetere, quanto scritto tante volte, che fino a quando non si affronti seriamente e globalmente il peso della finanza internazionale e la sua influenza sull’economia reale (quindi anche sull’occupazione) la “crisi” che attanaglia tutte le economie non potrà trovare soluzione, ci possono essere dei momenti di quiete (non di crescita e sviluppo) ma tutto resta dipendente dalle convenienze della finanza internazionale. 

Detto questo è certo che le singole economie possono e dovrebbero fare qualcosa per attenuare e mitigare le conseguenze della crisi. Possono operare allargando il welfare, ma viste le “regole” che non si vogliono tradire ciò aumenterebbero il debito sovrano, o tentare di promuovere lo sviluppo di qualche settore produttivo in modo da attenuare la disoccupazione (quella giovanile in particolare). O meglio ancora usare i due criteri insieme, con perspicacia e intelligenza. 

L’iniziativa del governo Renzi, sembra individuare la politica industriale come contributo significativo per contrastare la situazione di crisi. Sembra una buona cosa, ma forse è mal consigliato, infatti  la lettura degli strumenti che si intendono mettere in atto fanno capire che ci avviamo ad un altro fallimento assicurato. L’idea che nuove norme che rendano meno amministrativamente gravose le attività economiche (su diversi piani, da quello amministrativo, a quello della flessibilità occupazionale, e, magari, sulle norme di salvaguardia dell’ambiente e della salute), nonché una semplificazione nell’accesso al credito, possano sprigionare occupazione avrebbe del miracoloso (il miracolo è la speranza di questo paese). L’idea che la “grande” capacità imprenditoriale della “piccola” impresa sia il nostro futuro potrebbe far ridere, questo senza disconoscere sia alcune possibilità che alcuni casi eccellenti (appunto casi).

Una politica industriale può usare diversi strumenti che possono essere usati singolarmente o anche insieme in modo coordinato (mi se scuserà per la semplificazione).

L’azione diretta dello Stato attraverso sue imprese che si assumono l’onere di sviluppare settori strategici. Questo è stato per molti anni il ruolo dell’IRI e dell’ENI, ma poi averle assunte come porti dove ancorare imprese private decotte, nonché la famelica azione dei partiti ed infine il liberismo imperante hanno distrutto un’esperienza, molto importate, di economia mista, apprezzata e studiata come un caso significativo di sviluppo in un paese con scarse risorse naturali ma capace di intelligenza industriale e anche politica.

Un altro strumento che lo Stato utilizza per fare politica industriale e quello della domanda pubblica che indirizzata in determinati settori stimoli la crescita tecnologica, l’innovazione e lo sviluppo occupazionale. La domanda di armamenti, per esempio in USA e in Cina, costituisce uno strumento di politica pubblica che ha determinato e determina una serie di innovazione che poi travalicano il settore militare per investire i settori pacifici. Ovviamente non sto sperando in una politica militarista nel nostre paese, ma forse una politica di domanda in altri settori (per esempio alla strumentazione ospedaliera o a quella farmaceutica, ecc.) che fosse concentrata, governata e finalizzata potrebbe essere uno stimolo di sviluppo tecnologico e occupazionale. Il caso come sia stato gestito il tema dell’energia alternativa è la dimostrazione di come non deve farsi.

Un’altra modalità di intervento potrebbe essere quella progettuale, individuare, a ragion veduta, dei settori nel quale varrebbe la pena che il paese, in ragione di precise circostanze, si prefissasse di acquisire nuove capacità, a questo scopo si potrebbero indirizzare e coordinare attività di ricerca, attività di innovazione tecnologica, attività industriale e organizzativa, ecc. In questo ambito le possibilità sono notevoli, per esempio fingendo che la “moda” sia ancora un settore italiano, si potrebbe avviare un progetto finalizzato ai  nuovi materiali; alle bonifiche e disinquinamento; ecc.

Va detto che molte iniziative sparute, singole, spesso asfittiche per mancanza di risorse ma soprattutto di una prospettiva ben delineata, sono avviate ma ... manca una politica industriale che non castiga l'iniziativa di singoli ma li colloca in una dimensione che garantisce loro crescita e giusta collocazione.  

Certo tutto andrebbe accompagnato da iniziative nel credito. Non in forma generale e generica ma finalizzato; mentre una politica fiscale differenziata, non sarebbe inutile.

Certo si possono avanzare seri dubbi sulla capacità della “nostra macchina pubblica” (e politica) di immaginare e gestire operazioni di questo tipo, il che illuminerebbe come velleitarie ogni iniziativa, ma forse le risorse umane non mancano. 





domenica 22 giugno 2014

Immunità: di immunità si può morire

Diario 265

Immunità: di immunità si può morire



Fa scandalo l’introduzione dell’immunità per i futuri senatori. Essi saranno non solo non eletti direttamente ma anche immuni. Quindi un sindaco o un presidente di regione o un consigliere regionale, sarebbero “immuni” anche per i reati commessi non come senatori.

Non ho mai stimato il senatore Casson (la sua insensibilità istituzionale mostrata nel candidarsi a sindaco di Venezia mentre era pubblico ministero nella stessa città, me lo ha reso sempre alieno), ma oggi non posso che essere d’accordo con lui: l’immunità va eliminato sia per i senatori ma anche per i parlamentari. Dello stesso avviso Calderoli, persona per la quale ho molto antipatia e poca stima (suo il porcellum), ma oggi è un altro giorno. Per altro questa immunità è figlia di nessuno, il governo, a detta dei suoi membri, non la volevano, altri l’hanno chiesto (sul chi? mistero), ma il governo non si è opposto anche perché, come dichiarato dal ministro Elena Boschi, si tratta di questione non centrale. Caspita se è centrale, ministro, lo è molto di più che non le modalità di elezione dei senatori.

“Svoltare”, secondo la formulazione di Matteo Renzi, non significa soltanto modificare alcune regole, ma soprattutto ripristinare l’uguaglianza tra i cittadini; questi infatti hanno la consapevolezza, non a torto, che il ceto politico goda di privilegi. L’immunità dei deputati e senatori è uno di questi privilegi e non il minore (come la cronaca ci ha insegnato).

Eliminare questo privilegio, ministro Boschi, è principio di eguaglianza dei cittadini davanti al legge. Lei la ritiene una questione non centrale? La sua affermazione ci fa capire che la sua “bravura” e “capacità”, che molti le riconoscono, è priva di sensibilità democratica. Se ne aveva il sospetto, la questione dell’immunità è una conferma.

Ma cosa può succedere se al Senato nella votazione della riforma del Senato se l’immunità per i senatori non passasse? Pare che si delinei una forte, numericamente forte, opposizione. Non solo il M5*, non solo (spero) i senatori di SEL ovunque collocati, ma anche i pochi di scelta civica, una parte del PD (quanto consistente non è chiaro, e questa è questione diversa rispetto alla modalità di elezione dei senatori), i senatori a vita, ecc.

Ministro Boschi nonostante la sua abilità, il suo ottimismo e la sua sicurezza mi pare che sta conducendo la barca della riforma a sbattere contro uno scoglio. Che falla sarà? Non è prevedibile, ma è certo che anche con un po’ d’acqua in stiva l’equilibrio della barca rischia.

giovedì 19 giugno 2014

La sinistra potrà sopravvivere?

Diario 264

  • La sinistra potrà sopravvivere?
  • Tutti d’accordo, tutti contro tutti
  • Le manovre presidenziali                                                                     
  • SEL:  si discute o tramonta?
  • L’imbroglio della garanzia della Cassa Depositi e Prestiti




La sinistra potrà sopravvivere?
Con un articolo di Marc Lazar, il quotidiano La Repubblica (19 giugno) affronta il tema della  sopravvivenza della sinistra europea. I sostanziali magri risultati della “sinistra” nelle recenti elezioni europee (ad eccezione del PD in Italia) sono l’occasione di questa discussione.
La sostanza è: il mondo è cambiato e la sinistra no, in questa situazione potrà questa sinistra sopravvivere?
Il punto di vista sostenuto da Lazar tiene molto l’occhio sulla situazione francese, ma generalizza. In sostanza ecco le motivazioni esplicative (riassunte ma spero non tradite): carenza di organizzazione che combatta la disaffezione dalla democrazia e dalla partecipazione; difficoltà a riconquistare credibilità a fronte della diffidenza verso la classe politica; la scelta degli elettori a cui fare appello in via prioritaria; quali politiche pubbliche adottare a fronte della trasformazione del capitalismo; mancanza di identità del socialismo del XXI secolo; quale sia il leader in grado di affrontare le nuove forme della politica.  
Certo si tratta di questioni non di poco conto, ma forse c’è dell’altro. Alcuni autori, infatti,  in testi  brevissimi, tendono a sottolineare altri aspetti.
Alain Touraine individua nella necessità della difesa dell’individuo (non individualismo), e quindi nella difesa dei diritti umani, la chiave di una possibile ripresa del socialismo. Per Massimo Salvatori la ripresa non può che essere strettamente collegata alla lotta alle diseguaglianze. Marco Revelli fa riferimento ad una identità antiliberista. Guido Craine fa appello alla necessità di attivare due gambe per far camminare l’idea socialista: la prima è ridare fiducia ai cittadini nella democrazia, la seconda è l’equità sociale.
A me pare (non ho nessun titolo se non quella di una lunga militanza), che la questione di fondo sia la “natura” della società. Credo che nella crisi del welfare state e nel conseguente aumento delle  diseguaglianze economiche vada trovata il nocciolo della crisi del socialismo. Il WS è stato considerato intanto come statico, mentre la sua dimensione politica (e sociale) presupponeva un suo dinamismo, una sua continua crescita, inoltre sulla base della crisi fiscale dello stato si è iniziato a limarlo, in alcuni casi a tagliarlo con l’accetta. Si tratta di un fulcro fondamentale della crisi dell’idea socialista (o comunista, non del comunismo reale), proprio perché metteva in discussione una prospettiva sociale e politica, offuscando  la prospettiva di un futuro migliore.
In questa frattura si insinua il capitalismo del XXI secolo che afferma con forza una società delle diseguaglianze e quindi il suo dinamismo non è più fondato sulle lotte sociali ma sull'invidia,  sul rosico e sulla capacità di accaparramento.   
Le diseguaglianze sociali sono il germe di una società ingiusta che non sempre produce rigetto, ma
molto spesso corruzione sia intellettuale che fattuale. Oggi le diseguaglianze sono crescenti  in modo insopportabile (non che ci sia un livello di diseguaglianza sopportabile, ma insomma), e maturano all'interno dell’economia finanziaria.
Se il socialismo non deve morire deve aprire un fronte di conflitto con il capitale finanziario, contro le diseguaglianze e per lo sviluppo del WS e la crescita economica adeguata al tempo (se poi la “nuova politica industriale” fosse quella annunziata in questi giorni dal governo, allora potremmo  dormire sonni pieni di demoni).
Tutto molto facile a dirsi, lo so bene, ma pieno di difficoltà, ma un po’ di strumenti concettuali sono disponibili.   


Tutti d’accordo, tutti contro tutti
Renzi, Berlusconi, Salvini, Grillo, prove di accordo “costituzionale”, ma in realtà dietro l’accordo forse c’è l’avvio di una guerra di posizione.
Berlusconi si sbraccia per il mantenimento dei patti, ma nello stesso tempo lancia il “presidenzialismo”, che di fatto mette in discussione l’impianto della riforma. Che gioco è? Nello stesso tempo il falco Brunetta mette in campo una serie di “divergenze” sulla legge elettorale e sulla riforma del Senato. Una distribuzione di ruoli diversi? O l’estrema confusione in quella parte politica, l’una o l’altra non costituisce una buona garanzia.
Grillo esprime una sua disponibilità a trattare sulle riforme costituzionali. Bene. Mette in campo una riforma elettorale proporzionale (una testa un voto), che ha tutto il mio incondizionato accordo ma si tratta di una proposta che collide totalmente con la riforma già approvata dalla Camera dei deputati. E allora? O Grillo non conosce il testo approvato, o la proposta del M5* è un tentativo di far suonare le campane silenti dopo la batosta delle europee. O molto semplicemente si tratta di un modo per ricollocare il M5* nell’ambito della prassi parlamentare dopo il periodo del No, No, No… non si tratta con nessuno. Gli umori che esprime Grillo (proporzionale a parte) non mi piacciono, hanno un tasso di autoritarismo e una inconcludenza politica insopportabile. Va detto, tuttavia, che il M5* costituisce (o costituiva?) di fatto l’unica opposizione presente in Parlamento e questo è salutare, l’opposizione fa bene alla democrazia e al dibattito politico.
Salvini, che si fa forte di un modesto peso complessivo della Lega, si dimostra d’accordo sulla riforma del Senato e del Titolo V che ridà competenze legislative alle regioni. Che, si fa per dire, si presentano come limpide ed efficiente istituzioni.
Renzi ha fretta, tanta fretta, vuole sedersi alla presidenza del semestre italiano della UE con le riforme in tasca (o quasi): fissa una data di scadenza il 3 luglio. Ma la fretta, quasi mai è una buona consigliera (né lo è la sua Ministra alle riforme che invece costituisce un eco-renziana).
Nodi, i nodi esistenti sono molti, possono essere risolti da un accordo strappato a Berlusconi e al… PD, ma i problemi restano. Sulla legge elettorale il Presidente del consiglio sembra più duttile: ritiene il 40%  dei voti ottenuti alle europee come messi in cassaforte (io sarei più cauto), e quindi sembra disposto ad accettare, appunto al 40% dei voti, la soglia minima per il premio di maggioranza. La soglia di “entrata” è portata al 4%, tanto che importa ragiona il presidente del consiglio. Sembra anche disposto a cedere sulle preferenze o sui collegi minimi.
Sulla riforma del Senato le cose sono più complicate perché le divergenze sono più articolate. Non c’è un’opposizione che voglia ripristinare il bicameralismo, ma non tutti condividono l’assenza di una elezione diretta dei senatori. La elezione di secondo grado pone problemi complessi di equilibrio e di rappresentanza, mentre la nomina di un numero di senatori (5 o 21) da parte del Presidente della Repubblica convince pochissimo. Renzi ha messo a tacere le sue opposizioni interne con la “forza”,non mi sembra la trovata di un grande leader.
La mia impressione è che la fretta farà i gattini ciechi: la riforma andrà in porto, ma risulterà piena di questioni non risolte e lascerà degli strascichi.       
 
Le manovre presidenziali                                                                     
A lato della riforma costituzionale,  ma a quella strettamente intrecciata, sono visibili le manovre per la Presidenza della Repubblica: Napolitano potrà durare ancora un po’ ma non troppo.
Casini fa le sue mosse, tutte tese ad acquisire riconoscenza da parte di Renzi. Basterà? credo di no.
Ma da quando circola l’idea che i tempi sono maturi per una presidenza al femminile, mi sembra che si  possa interpretare l’attivismo “convergente” della senatrice Finocchiaro, come finalizzato anche a questa possibilità. 
Due soluzioni del tutto insoddisfacenti, per ragioni uguali e politiche. C’è di meglio, anche fuori dalle due Camere.

 
SEL:  si discute o tramonta?
Il voto sul decreto fiscale ho diviso i parlamentari di SEL; niente di grave, ma è la crisi di SEL, che preoccupa.
Una crisi, come si dice, che viene da lontano, dall'incapacità di rifondare una prospettiva comunista adeguata al XXI secolo, sfuggendo dalle mode, dall'inseguimento ora di questo ora di quel movimento (ed è ancora il meglio) o di agitare prospettive politichese, senza affrontare le trasformazioni del capitalismo e della società, ma facendosi forte di un “dover essere” che data la sua dimensione appariva più che velleitario. Il relativo successo della lista per le europee poteva essere la buona occasione per rifondare un discorso che affrontasse i nodi strutturali del processo economico sociale della “nuova” società e facesse i conti con i fondamenti teorici.
Entrare nel PD o starne fuori a questo punto è indifferente, almeno così mi pare e soprattutto inutile dal punto di vista politico generale.

L’imbroglio della garanzia della Cassa Depositi e Prestiti

Ricevo dal mio amico Angelo un’analisi su una questione oggi cruciale anche per l’apertura di una procedura di infrazione della UE)

E' possibile stare a sentire politici e grandi giornalisti accreditati, presso tutti, come esperti, discettare su problemi non da poco senza che nessuno di loro accenni alla sostanza delle cose.
 Questa mattina, nella trasmissione della "la 7"(19giugno), Alan Friedman lamentava il ritardo nei pagamenti dei debiti dello Stato verso i propri fornitori, debiti per i quali il Governo ha già deliberato che sia "la Cassa Depositi e Prestiti" a fare da garante alle banche, affinché queste anticipino ai fornitori quanto dovuto dallo Stato.
 Ma il capitale della CDP è di 3,5 miliardi più utili di 2,3 miliardi, mentre i debiti dello stato ammontano (dicono, ma nessuno ne è sicurissimo) a 75 miliardi. Volete sapere a quanto ammonta la "cassa e disponibilità liquide" della CDP? traendo il dato così come è scritto nel suo bilancio (31.12.2013), risulta di 3.530 euro (lo ripeto in lettere a scanso di equivoci; "tremilacinquecento euro"). Meno di quanto, forse, l'ultimo impiegato della CDP tiene in casa per le spese correnti.
 Mi si obietterà che la liquidità reale è sui conti che la CDP ha nelle banche. Ma se avesse conti a credito il saldo a credito del conto bancario sarebbe tra le liquidità. Ma alla voce banche c’è un attivo di 14 miliardi 851 milioni di euro, e un  passivo di 24 miliardi 8 milioni.
 La CDP gestisce tra l'altro, in quanto titolare,  i risparmi che gli italiani hanno depositato presso le poste, quindi di chi sono i soldi su cui si rivarranno le banche in caso di mancato pagamento alla scadenza del credito finanziato ai fornitori dello Stato? Avete indovinato.
 Ma che bisogno c'è, se il debitore è lo Stato, che questo venga garantito dai soldi dei cittadini italiani? E gli impiegati, quando vi invitano a fare buoni del tesoro o libretti postali, non vi dicono che sono depositi sicuri in quanto garantiti dallo Stato?
 Vediamo, allora, come funziona e soprattutto quale ne è la logica: i cittadini hanno i propri depositi garantiti dallo Stato ma i loro depositi garantiscono i debiti dello Stato.  Sembra qualcosa di molto confuso ma a ben guardare non lo è affatto. Il gioco è questo: io Stato non pago i debiti verso i fornitori perché non ho soldi allora, in base alla garanzia prestata,  li paga la CDP con i soldi dei cittadini. A questo punto lo Stato dovrebbe, in base alla garanzia fornita ai depositi postali dallo Stato, restituire ai cittadini quanto utilizzato per pagare le banche. Ma se lo Stato non ha i soldi che succede? Ecco: i fornitori sono stati pagati dalle banche, le banche sono state pagate dai cittadini e i cittadini sono restati con i depositi garantiti dallo Stato, che già li garantiva, ma che non ha un euro.
 Ma attenzione. Vi diranno tutti che sia di fondamentale importanza che i fornitori dello stato vengano pagati perché così si riavvia la "crescita" senza la quale siamo perduti. Ma allora, perché la CDP non finanzi direttamente i fornitori dello Stato senza passare attraverso le banche così, almeno, gli interessi che, senza rischi, guadagneranno le banche li guadagnerebbe la CDP?


lunedì 16 giugno 2014

Polemiche

Diario 263




Viva il miracolo

Sull’ultimo Domenicale del Sole 24 ore, Carlo Maria Croce da una parte ed Elena Cattaneo, Gilberto Corbellini e Michele De Luca, dall’altra, hanno affrontato quello che può definirsi la sconvolgente e vergognosa, ingannevole e speculativa, mistificante e approfittatrice del dolore, storia di “stamina”. Un medico sotto accusa dalla procura di Torino, viene autorizzato a procedere ad una nuova infusioni (con spettacolo televisivo) da un magistrato di Pesaro.

Il Ministero e il Governo sono carenti, la magistratura opera nel disprezzo della scienza, la cultura scientifica nel nostro paese è bassissima e quasi nulla, la scuola dà in questa direzione un notevole contributo, ecc. Tutto vero e ragionevole, ma bisogna anche fare riferimento ad un costrutto antropologico della nostra società che più di altri, ma non la sola, crede ai “miracoli”, è proprio questa credenza che costituisce la base su cui si assidono truffatori e malfattori, approfittando del dolore di malati o dell’angoscia di genitori di bambini malati, ma soprattutto della credulità che il miracolo può sempre avvenire.


La statistica maltrattata a fini politici

Angelo Panebianco, non sopporta la vittoria di Renzi, pare un po’ livido. Renzi può non piacere, ci mancherebbe, la sua politica può apparire discutibile, lo credo, il suo vitalismo può irritare, ma piegare con tono scientifico la statistica ai propri umori, non pare corretto. Panebianco (sul settimanale Sette, del Corriere della Sera) contesta il “valore” della vittoria di Renzi con l’argomento, vero, che ha votato solo “il 58,7% degli aventi diritto” ed ecco la stoccata: “se si fosse votato in elezioni politiche (ove l’affluenza in genere supera l’80%) la percentuale di suffragi raccolti da Renzi sarebbe stata molto più bassa”.

Il nostro professore suppone che i non votanti si distribuiscono, nelle preferenze di voto, in modo diverso dai votanti, possibile, ma non esistono evidenze di questo fatto, mentre non è escluso che i due “universi” (votanti e non votanti) si somigliano molto.

Potrà accadere che Renzi prenda meno o più del 40%, ma questo dipende da motivi diversi da quelli prospettati da Panebianco.


La finestra, imbarazzante

Il 2 giugno il Presidente del consiglio ha approfittato della festa per un personale bagno di folla: ha camminato a piedi, ha distribuito strette di mano e sorrisi (non mi pare che abbia ancora baciato bambini). Tutto discutibile ma sta dentro la dimensione politica attuale, accreditata anche se non condivisa.

Ma Renzi mi ha sbalordito, quando si è affacciato dalla finestra di Palazzo Chigi a salutare la folla. Si tratta forse di ipersensibilità, così mi dice qualche amico, a me quella faccia e la mano che si agitava ha determinato uno stralunamento, una sensazione di ripulsa come segnale di un populismo autoritario.

Spero e mi auguro di sbagliare, che Renzi possa essere ben consigliato sui contenuti della democrazia, anche se l’episodio della riforma del Senato mi conferma su una possibile deriva.

Intanto solidarizziamo con Mineo e i 14 senatori autosospesesi; ma forse non basta.



Qualche “mela marcia”?

Gli scandali Expo, Mose, Finanza a Napoli, ecc. mettono in evidenza come non sono solo i politici ad essere coinvolti, ma anche nodi delicati della Pubblica Amministrazione. Certo la teoria della “mela marcia” va sempre bene, ma forse c’è qualcosa di più. I complicati meccanismi pubblici non solo non garantiscono controllo ed efficienza, e già sarebbe un male, ma sembrano adatti a promuovere la corruzione. Non si tratta solo di bonificare, ma di trasformare.