sabato 27 giugno 2015

La specie umana si estingue



La specie umana si estingue

Diario n. 292

Un gruppo di scienziati di Stanford, Berkeley, Princeton e del Messico hanno pubblicato uno studio serio, a detta di altri scienziati, sull’inizio di una nuova estinzione, la sesta della storia della terra, che coinvolgerà anche la nostra specie. Lo studio in sostanza si basa sull’analisi del ritmo con il quale le specie si sono estinte, un ritmo che pare oggi enormemente aumentato.
Si può sempre dubitare della “voce” degli scienziati, soprattutto se si tratta di una voce sgradevole, ma a me pare che lo studio conferma una “banale” verità: così come frutto casuale della selezione naturale l’uomo è destinato a scomparire (può accelerare o rallentare questa fine, ma il destino sembra segnato).  
La previsione di una sesta estinzione di massa ci pone alcune questioni, o meglio mi pone alcune curiosità che è possibile definire anche banali e che forse non dovrebbero interessare una specie estinta, ma tant’è, curiosità sia.
La prima, che vira all’ottimismo, pone il problema se l’estinzione si manifesterà prima o dopo che la nostra specie avrà iniziato a colonizzare nuovi pianeti. Se avvenisse prima di questa conquista non avremmo questioni, ma se per caso si dovesse manifestare dopo, da una parte lodi alla salvezza (forse) della specie,  ma insorge immediatamente un problema: il criterio di selezione degli uomini e le donne facente parte dei colonizzatori? Un problema di selezione si pone non possiamo spostare miliardi di uomini e donne (quanti a quel tempo?) Si sceglierà secondo qualche forma democratica? Una sorta di primarie a scarsa partecipazione? Un sorteggio (che sarebbe la forma giusta, ma dubito che si arrivi a questo)? Saranno tutti scienziati? Ci saranno i più potenti, i più ricchi, i più ardimentosi, i più ingegnosi?  Ciascuno di questi gruppi presenta vantaggi e svantaggi, ma come decidere? La specie sarà tanto saggia da evitare di introdurre tra i coloni i rappresentanti delle diverse religioni (ammesso che a quel tempo ne esistano ancora) onde evitare il riprodursi delle specifiche guerre? E con gli aspetti sessuali come la mettiamo, se bisogna fare una proiezione degli umori di oggi sicuramente sarà stato scoperto il gene dell’omosessualità (figuriamoci se non lo si … “scopre”) e i portatori di questo gene saranno lasciati a … terra. Per altro credo che la stessa selezione sarà fatta per la fertilità. Ma quella che sarà costruita nella nuova colonia sarà una società di eguali o si riprodurranno differenze di potere, di ruolo di ricchezza? Insomma mi pare che sarà un problema complesso; meglio essere già morti.
Sempre gli scienziati ci raccontano che dopo questa estinzione ci vorranno alcuni milioni di anni perché la vita torni a fiorire sulla terra, perché sempre in ogni estinzione un 4% di specie si salva, certo specie come dire … inferiori almeno per  dimensione (microrganismi, germi, ecc.), quindi una nuova selezione naturale ma non possiamo essere certi che si ripeta il “miracolo” della nascita dell’uomo. Probabilmente sarà un’altra specie, ma con quali facoltà? Sicuramente di organizzazione, le formiche sono candidate primarie, ma forse anche di intelligenza. Ma allora la curiosità (stupida) è: sarà una specie che, con capacità che non possiamo immaginare, sarà in grado di ricostruire la storia della terra e quindi anche la storia della nostra specie? La specie umana, con lacune, con errori ma con sistematicità una operazione di questo tipo l’ha fatta. Ci piacerebbe, non so perché, che anche il nostro passaggio su questo pianeta fosse studiato, magari per non commettere gli stessi errori (questo sarà proprio difficile).
L’elenco delle curiosità potrebbe continuare ma a questo punto un dubbio:  è sicuro che si debba aspettare alcune centinai di miglia di anni perché questa estinzione si manifesti? Forse no, non solo non ci si cura con efficacia di controllare o di influire positivamente sui cambiamenti climatici ed ambientali, il che accelera il tempo dell’estinzione. Ma mi pare che allegramente, intonando anche canti di gloria a qualche divinità, o innalzando la bandiera di specifici interessi, l’umanità si avvia a scannarsi vicendevolmente.
Abbiamo pensato, ottimisti, che le guerre potevano essere archiviate come una pratica desueta, ma mi pare che non sia proprio così.
Da una parte non sarà proprio così per la virulenza che certe guerre assumeranno per rivendicare il diritto a qualche bene assolutamente necessario: cosa potrà essere nei prossimi anni, non molto lontani,  la guerra dell’acqua o per l’acqua?  Così come saranno virulente le lotte di chi tutto ha perduto contro quelli che tutto hanno accaparrato. Certo questi ultimi saranno potentemente armati, avranno eserciti a loro difesa, tecnologie avanzatissime, ma contro milioni di uomini e donne disperate sarà dura. Certo massacri di massa, a confronto dei quali quelli della seconda guerra mondiale (con annessi e connessi) ci sembreranno giochi infantili. Anche perché non saranno guerre e combattimenti in campo aperto, con coorti di tipo romano o con reggimenti come quelli di Napoleoni, una delle forme prevalente di lotta sarà il terrorismo, ma ancora non abbiamo visto niente, quando dalla auto bombe si passerà agli ordigni chimici o, alla fine, ad ordigni di tipo nucleare, allora il più è sarà già avviato.
Così come i contrasti di “potere” geopolitico di potenze nucleari, fino a quando si limiteranno ad abbaiare e passeranno a mordere. Il confronto USA (ed Europa) da una parte e Russia dall’altra cosa promette? E quello tra USA (Giappone) da una parte e Cina dall’altra, quali regali ci farà? E il gioco politico di Teheran in Medio oriente dove porta?
Mi pare si possa dire che il periodo della “guerra fredda” poteva essere considerato gravito di pericoli, il multi policentrismi di potere di oggi pare pronto a sgravare tempeste di fuoco.
Sarebbe bello poter dire: facciamo appello alla saggezza della specie, alla sua volontà di sopravvivere e sperare che le macchine alle quale si è data  corda possano essere fermate. Si può sperare e ci si può impegnare per questo obiettivo, ma è difficile capovolgere una struttura di potere fondata sulla diseguaglianza per affermare l’eguaglianza nella distribuzione delle risorse, nell’accesso ai beni, nella distribuzione del lavoro, nell’equità e la libertà. La fine della ricchezza di pochi a vantaggio del benessere di tutti, è difficile, è complicato, ma questa è la strada se volessimo allontanare di qualche migliaio di anni la sesta estinzione di massa.   
           






venerdì 26 giugno 2015

La stupidità reazionaria al governo di Venezia, ma non solo

La stupidità reazionaria al governo di Venezia, ma non solo

Diario n. 291

Il neo sindaco di destra di Venezia,  presentato come imprenditore serio e sicuro interprete del meglio di una destra costruttiva, ha dato il primo esempio della sua stupidità e del fatto che l’anima reazionaria alligna e non demorde.
Ha deciso che una serie di libri dovevano essere cancellati dal catalogo delle scuole primarie e delle materne.  Si tratta di libri che in forma pacata e con linguaggio adatto ai bambini di quell’età,  rendono conto della realtà della vita, e cercano di cancellazione gli stereotipi prevalenti.
Libri proibiti. Neanche la Chiesa ha più l’elenco dei libri proibiti; Hitler è morto e con lui anche i roghi dei libri ( il sindaco ha per caso  letto o visto il film Fahrenheit 451), aveva cominciato con i libri e ha continuato con ebrei, oppositori, malati, gay, ecc.  No certo Bruignaro non è Hitler, ma lo stile somiglia.
Il guaio di questo paese disastrato è che Brugnaro non è un caso isolato, in tutto il paese cresce l’opposizione a che i bambini siano adeguatamente informati di che cosa è la vita, i sentimenti, l’amore e la possibilità di famiglie diverse.
La stupidità e l’orrore sta nel fatto che in questo modo avendo i bambini come compagni, figli di un unico genitore, figli di coppie omosessuali, sigli nati in modo non naturale, inculcano in questi bambini  la diffidenza verso questi “strani” loro compagni, fino al disgusto. Questa la chiamano educazione.
Il family dey non spaventa per la difesa della così detta famiglia naturale, ma solo perché è portatrice di disprezzo e di odio. Ma la realtà è diversa, non la guardano, o se la guardano, non potrebbero  evitarlo,  cercano di scongiurarla nascondendo ciò che a loro non solo pare “diverso” ma disgustoso.
Molti danno molto fiducia a Papa Francesco, sarebbe bello che la sua parola si alzasse certo a difendere la sua dottrina, ma che spendesse parole sagge di tolleranza e di libertà (dove è finito il libero arbitrio?).
E’ troppo, e non ci spero,  ma si può pretendere una parola da parte del presidente del consiglio e dal ministro della Pubblica istruzione.
Questa dei libri sembra una piccola cosa, ma non lo è, inoltre dalle piccole cose evolvono le grande tragedie: il clima nel nostro paese e in Europa mi pare stia maturando in questa direzione. Fermiamolo prima che sia troppo tardi.
Spero che cortei di madri, padri, “regolari” e “irregolari”, con i figli e le figlie, i giovani, le maestre, i lavoratori della scuola e no, cattolici democratici e laici, mettano in campo le  loro ragioni della formazione cosciente dei bambini, e che da qui possa iniziare una campagna che blocchi questa caccia alle streghe neanche verso i comunisti, ma solo verso le ragioni dei valori democratici, della laicità e dell’educazione.


lunedì 22 giugno 2015

Antologia europea


Antologia europea

Diario n. 290
22 giugno 2015


Così un po’ alla rinfusa:

  • L’Ungheria intende innalzare un muro per evitare l’infiltrazione degli immigrati (avevano per caso dato un contributo alla costruzione del muro di Berlino?);
  • La Francia chiude la frontiera di Ventimiglia per non fa passare i rifugiati politici immigrati dall’Africa, questi dormono sugli scogli in riva al mare (civiltà);
  • Cameron e Hollande all’Expo di Milano, gustano cibo, sorridono, stringono la mano di  Renzi, ma ambedue si dichiarano contrari alle “quote”, che non sono quelle della produzione del latte ma quelle della divisione tra gli stati Europei degli immigrati dall’Africa (si chiama solidarietà);
  • La destra xenofoba ha grande successo nell’Europa del Nord (entra nei governi di quei paesi).  Il nord Europa da “modello” di stato sociale ad avamposto del razzismo (dove la speranza?);
  • Ci hanno spiegato che tagliare le poche pensioni alte è inutile per il bilancio dello Stato, bisogna tagliare le moltissime pensioni basse, a partire da questa “legge della diseguaglianza”, quando i tecnocrati europei vogliono imporre alla Grecia il taglio delle pensioni forse non sanno o non dicono che vogliono condannare all’inedia alcuni milioni di persone (certo professano fedi cattoliche o protestanti, ma che importa, non hanno altro Dio che il Bilancio);
  • Capi di Stato, Ministri economici, tecnocrati, esperti, specialisti e uscieri, riunione dopo riunione, mesi dopo mesi, per imporre alla Grecia la miseria (un tempo si diceva pagherete, pagherete tutto, ma vale ancora?)
  • C’è una nuova road map per la riforma della Comunità europea. È bello, ci si trova di tutto, finanche un rafforzamento del consiglio europeo sui rischi sismici, ma di riforma politica c’è poco. almeno così pare di capire. La governante, come si dice, di fatto non muta forse avrà maggiori strumenti ma a riparo di ogni ingerenza politica e dei popoli.    

domenica 21 giugno 2015

Grandi e inutili. Le grandi opere in Italia

Antonio  Fraschilla
Grandi e inutili. Le grandi opere in Italia
Einaudi, 2015, pp. 163, € 17

In una diversa sede avevo proposto la distinzione tra “grande opera” e “opera grande”. Le prime appartenevano alla categorie delle opere che non avevano nessuna giustificazione funzionale, come per esempio (citato da Fraschilla)  un campo di polo in una zone del paese che non conosceva neanche lontanamente questo sport, o ancora la cui giustificazione era trovata in un risultato diverso da quello funzionale dell’opera, come quando per giustificare il ponte sullo stretto di Messina ci si riferiva al richiamo turistico, che data la sua bellezza, il ponte (una delle meraviglie del mondo) avrebbe esercitato (per fortuna quell’opera non è stata mai iniziato nonostante i miliardi spesi). La principale giustificazione di queste opere è rintracciabile nella disponibilità di risorse finanziarie che per via politica venivano assegnati a progetti del tutto ingiustificati e molti sicuramente inutili. Le opere grandi, al contrario sono quelle che presentano una stretta relazione tra la loro funzionalità e l’esistenza di una necessità. Sarebbero opere grandi, per esempio, la messa in sicurezza delle nostre scuole, o, secondo un richiamo ricorrente, interventi di salvaguardia idrogeologica per molti territori, comprese grandi città come Genova o Firenze, che finiscono sotto un mare di fango non appena il tempo atmosferico si mostri più inclemente del solito e che, va sottolineato, non ha comportato nel recente passato solo danni materiali ma anche morti. Per non parlare delle opere di “adattamento” che i cambiamenti climatici richiedono.
La caratteristica fondamentale di molte di queste opere pubbliche non è solo la loro inutilità, non sono solo i danni ambientali che spesso producono, ma anche il fatto che spessissimo esse risultano incompiute. Possono essere tali perché fisicamente non portate a termine, perché portate a termine non completamente o non in modo adeguato (il campione di questa categoria è l’autostrada Salerno-Reggio Calabria), o perché non completate negli arredi e finiture, o perché, dato la loro cervellotica destinazione nessuno vorrebbe gestirle, una gestione comunque assolutamente costosa e fuori da ogni dimensione economica.
Sulle opere incompiute esiste una notevole documentazione, per esempio il sito  www.incompiutosiciliano.org presenta l’indicazione regione per regione e con indicazione del comune di questi mostri di cemento abbandonati. Così come il Ministero delle infrastrutture segnala l’esistenza di 700 di opere pubbliche incompiute avvertendo, tuttavia, che si tratta di un dato parziale, poiché alcune regioni sono in ritardo con le comunicazioni.
Il libro di Antonio Frachilla nuota, per così dire, in questo mare di opere incompiute, finite ma non funzionanti, necessarie ma non terminate, ecc. Si tratta di uno spaccato non ignoto (la ricerca alla voce opere incompiute su google   fornisce 64.000 risposte), ma impressionante e reso vivo dalla puntale organizzazione della materia e dalla scrittura chiara, dagli esempi documentati che l’autore fornisce.
Il libro ci fa toccare con mano ospedali non finiti e mai entrati in funzione anche per la loro dimensione ciclopica rispetto alla popolazione da servire; lo stesso per palazzetti dello sport talvolta non accessibili, ma comunque incompatibili, per eccesso, rispetto alle popolazioni di riferimento o agli sport esercitati nella zona (il caso del campo di polo sembra un’invenzione satirica, ma anche un velodromo appartiene a questa categoria); strade non finite; invasi per l’acqua, necessari, non finiti; autoporti, richiesti dai trasportatori, progettati in numero eccessivo, alcuni a 6 km di distanza tra di loro, e comunque mai terminate; teatri lasciati incompleti, ma con le poltroncine; ecc. Insomma un campionario che lascia anche chi consapevole con la bocca aperta per la meraviglia e che in un certo senso fa giustizia di un luogo comune di un Sud sprecone e incapace e un Nord efficiente ed efficace, il libro documento che non è questione di latitudine, la malerba alligna ovunque, anche se nel Sud e più florida (in Sicilia in particolare).
Ma come se non bastasse queste opere sono delle sanguisughe, per loro vengono continuamente richieste risorse per essere portate a termine, per essere adeguate, per la loro manutenzione, ecc.
Per ciascuna di queste opere, il testo, documenta la posa della prima pietra, per molti anche il taglio del nastro che definisce la fine del lavoro; il danno si sposa con la voglia di apparire di ministri, sottosegretari, sindaci, assessori regionali (sempre), una fiera delle vanità che prende in giro le popolazioni, che spreca risorse, che spesso guasta anche il territorio.
Non si fa fatica a pensare che questa allegra gestione abbia previsto spreco, corruzione, e l’intervento spesso della criminalità organizzata, con conseguente incerta qualità delle realizzazioni come appare oggi che 1/5 delle strade di Sicilia sono interrotte per effetto di cattiva costruzione e di uso di materiali scadenti.
La lettura di questo testo suggerisce alcune riflessioni:
1.      Non si tratta soltanto di assenza di governance, ma assenza di ogni controllo di spesa. Sul decentramento regionale della spese bisognerà forse riflettere, così come merita attenzione la modalità con cui si progettano le opere pubbliche, sui controlli di merito, relative alla loro effettiva necessità, alla loro corrispondenza con i bisogni, alla loro fattibilità e alla loro esecuzione (certo se questi controlli saranno affidati a cricche come quella che collaborava con Bertolaso, allora non ci sono speranze);
2.      Gli appalti sono un tema complesso, si sa, ma sicuramente la loro forma deve essere modificata. La difesa della “concorrenza”, come si dice, deve essere resa più efficace ma deve essere liberata dal facile ricorso (Tar, Consiglio di Stato, ecc.), che finisce per bloccare per tempi interminati le opere;
3.      Che il completamento dell’opera non rappresenta un indice di buona riuscita, né la loro efficienza ed efficacia e operatività. Un opera può essere finita, può risultare anche pregevole, può anche funzionare, ma può risultare del tutto inadeguata. Il caso dell’aeroporto di Perugia, molto documentato nel testo di Fraschilla, è la dimostrazione di questo assunto. La sua fattibilità era giustificato sulla base di un traffico  passeggeri del tutto non prevedibile, come i fatti hanno dimostrato, da qui il declassamento.
4.      Un  ultimo punto mi pare di maggior rilievo, dato l’andazzo assunto dalla politica e dal consenso con il quale, in genere, viene proposto e accolto un grande Evento. I grandi Eventi, non solo nel nostro paese, quando tutto va bene producono sprechi, delusioni rispetto alle attese e danni. Non mi riferisco, tanto per fare un esempio, ai campionati mondiali di nuoto, quando alcune opere sono state consegnate anni dopo lo svolgimento delle gare, alcune piscine non sono risultate di misura corretta, ecc. e molte sono abbandonate; non mi riferisco al G8 alla Maddalena, di cui è nota la “speranza” e la “delusione” oltre ai danni; né mi riferisco alle Universiadi in Sicilia, caso meno noto,   mi riferisco ad un caso “positivo”, le Olimpiade invernali di Torino, documentato, come gli altri, nel libro. Le Olimpiade di Torino sono stati un successo di efficienza e di efficacia, ancora si fa riferimento al “piano strategico” messo a punto in quell’occasione che è diventato un caso di studio, ma tuttavia anche in questo caso non sono mancati errori, facilonerie, previsioni sbagliate. Sono  state costruite opere senza studiare il loro uso post-Olimpiadi, cioè in assenza di una pianificazione efficace. Si potrebbe dire che le  attrezzature non utilizzate,  abbandonate e  spesso vandalizzati, rappresentino “danni collaterali”, ma la dizione ha lo stesso significato del linguaggio di guerra. I grandi Eventi sono molto problematici da programmare e da gestire;  il dopo Evento lascia non solo l’amaro in bocca ma opere inutili e non utilizzate che erano previste (o immaginate) di utilità collettiva, alcune destinate a finalità economica, a centri di ricerca avanzati, ad uso sportivo, ecc. ma che nella realtà lasciano in campo una forma nuova: l’archeologia dell’evento. Si sente parlare di una candidatura di Roma alle Olimpiadi, dovrebbero far venire i brividi al Governo e al Sindaco, ma non è così.  È buona regola candidarsi a quello che si sa di saper fare, in questo ambito non siamo capaci, ma fingiamo di saper fare.
Il neo Ministro delle infrastrutture, Graziano Delrio, ha dichiarato la fine delle grandi opere, ma l’Italia ha bisogno di opere grandi, si spera che di questa distinzione sia consapevole. Mi pare, e questo sarebbe positivo, che abbia parlato di una strategia nazionale sulle infrastrutture approvata dal Consiglio dei ministri. Ma il paese non ha solo bisogno di infrastrutture di trasporto (l’elenco fatto circolare prevede 25 opere tutte legate alla mobilità), c’è bisogno d’altro.
Il testo di Antonio Fraschilla si legge con piacere ma anche con rabbia, risulta che non si fa quello che si dovrebbe e si fa spesso l’inutile, o meglio si comincia e non si finisce e spesso si fa male. Una lettura didattica di formazione.

Francesco Indovina

giovedì 18 giugno 2015

La ricerca del capro espiatorio, il controllo dei lavoratori, una società autoritaria


La ricerca del capro espiatorio, il controllo dei lavoratori, una società autoritaria

Diario n. 289


Dopo l’andamento disastroso per il centro sinistra e il PD delle elezioni regionali (disastroso anche in alcuni posti dove si è vinto), nonché il capitombolo nel ballottaggio dei sindaci, si è alla ricerca del capro espiatorio.
Di questo si discute apertamente o meno, di questo mi hanno scritto alcuni, pochi, amici dopo l’ultimo mio diario. Il colpevole è presto trovato: la sinistra radicale. A parte il fatto che di “sinistra radicale” non si vede ombra né si sente odore, e mai possibile che il PD non abbia fatto errori? E se non trova alleati tra quelli “naturali” qualche colpa deve pur averla.
Un altro colpevole, questo è dell’ultima ora, è individuato nelle primarie, che sembra non vadano più bene. Personalmente non mi sono mai piaciute, che chi passa possa eleggere il segretario di un partito al quale non è iscritto e per il quale magari non simpatizza non mi pare espressione di democrazia ma solo di confusione mentale. Ma non può essere che le primarie vadano bene alcune volte e non vadano bene per altre, abolirle mi pare cosa saggia.
Gli errori che il PD ha commesso sono errori di arroganza, si dice; il successo alle europee ha ubriacato il gruppo dirigente attuale. Ma che sogno: da un populismo vittorioso ad un populismo sconfitto. Si può ancora articolare il discorso dicendo: ha sbagliato la campagna elettorale (vero), ha sbagliato i candidati (verissimo), ha sbagliato … i conti.
Ma anche così articolato, è proprio questo il resoconto corretto?
Detto francamente mi pare che se il governo si comporta come si è comportato sulla legge elettorale (l’Italicum ormai fa paura, allora si trattava di una legge elettorale di convenienza?), sulla riforma dello Senato, senza ascoltare non i boicottatori ma gente sensata e saputa che metteva e mette avanti i rischi di una soluzione raffazzonata, se si comporta come si comporta sulla riforma (poteva essere diversamente?) della scuola, che sempre più appare un inganno per i contenuti, per la struttura, per chi ci lavora stabilmente e soprattutto per i precari, ma, soprattutto, per questa trovata di ieri del consiglio dei Ministri di rendere liberi le aziende di controllare i propri dipendenti con i mezzi offerti dalle tecnologie nuove (telefoni, PC, TV, computer, tablet ecc.),  allora francamente meglio che questo governo vada a casa il più presto possibile.
Questa del controllo dei lavoratori mi sembra scandalosa al punto da meritare l’opposizione non solo di chi si crede, pensa o è classificato di “sinistra” o “progressista”, ma anche di chi sia soltanto, e anche tiepidamente, democratico.
Sempre più è scandalo a livello internazionale l’uso che Potenze e grandi imprese fanno dei nostri dati rubati e prelevati a  nostra insaputa (ogni volta che usiamo uno strumento quest’uso viene registrato), ma ora arriviamo a legittimare anche il controllo “spicciolo”, fabbrica per fabbrica, ufficio per ufficio.
Ci si consola, in genere, con il pensiero che non abbiamo niente da nascondere, ma intanto non sappiamo se il nostro comportamento che oggi ci pare normale lo sarà anche domani (in un cambiamento i dati accumulati ci inchioderanno), ma soprattutto è l’uso che di questi nostri dati si fa.
Il controllo dei lavoratori introdotto presuppone, anche questo, che per i loro comportamenti non hanno nulla da nascondere, ma l’azienda che uso farà di questi dati? Si dice serviranno ad organizzare meglio il lavoro e ad aumenterà la produttività, o forse (dubbio pleonastico) serviranno a  selezionare chi è meglio che venga licenziato (non esiste più, di fatto, neanche la giusta causa) perché legge un certo giornale o rivista, perché ha opinioni politiche e ne parla, perche guarda con concupiscenza un/una collega (di cui il direttore o la direttrice sono gelosi), perché mangia troppi grassi e si appesantisce e per questo rivendica più spazio (una sedia più comoda, un posto di lavoro meno angusto, ecc.), o perché mostra i sintomi di una malattia (come l’ingrossamento dell’addome che indica  una gravidanza, ritenuta dall’impresa una malattia), ecc.
Questi provvedimenti mi dicono che bene hanno fatto gli elettori a punire il PD; forse quelli che verranno saranno razzisti, ma quelli che ci governano hanno una visione della società repellente e autoritaria. Difendiamoci dagli uni e dagli altri.


domenica 14 giugno 2015

Nuovi sindaci in Spagna

Nuovi sindaci in Spagna

Diario n. 288
14/6/2015

Le immagine dell’insediamento dei nuovi sindaci di Barcellona e Madrid, espressione del terremoto elettorale prodotto da Podemos, rendono felici ma insieme invidiosi.
Accanto alle due donne popolo festante, non giudici, non carabinieri, non malavitosi. La loro elezione non è avvenuta senza polemica, ma la polemica è stata politica non criminologica.
Non sostengo che in Spagna non alligni la male pianta della corruzione (figuriamoci anche la famiglia reale vi è coinvolta, e poi la globalizzazione significa qualcosa) ma solo che un’iniziativa politica progressista ha sconvolto quel panorama. E da noi? Se si pensa che quello che in Spagna ha fatto Podemos in Italia lo tenta la razzista Lega o la populista 5*, allora viene tristezza.
Non sostengo che in Spagna sarà tutto facile, la reazione sarà potente e userà tutti i mezzi, perché sono messi in discussione gli equilibri sociali ed economici. Ma mi pare ci provano con serietà e politicamente in modo corretto.

Dobbiamo sperare che anche in Italia avvenga qualcosa di simile? ma un movimento progressista avrebbe bisogno di un miracolo di Lazzaro. 

martedì 9 giugno 2015

Se il Festival di Trento vira a sinistra

08/06/2015
da WWW.sbilanciamoci

Scontro al vertice/Al centro del Festival dell'economia di Trento i temi delle disuguaglianze e della mobilità sociale. Da qui dovrebbe ripartire una politica di sinistra
Non ho resistito alla tentazione, forte, di andare a Trento per la decima edizione del Festival di Economia, questa volta sul tema “mobilita’ sociale”. Scrivere un serio resoconto di queste cinque giornate con una novantina di incontri e dibattiti richiederebbe troppo spazio, tenterò una sintesi, forse troppo personale. Il tema della mobilita’ sociale si è rivelato molto interessante, direi anche drammatico, di fronte al crescere della disuguaglianza e mi colpisce negativamente (un altro segno dei tempi) la scarsa attenzione della stampa e dei politici. Matteo Renzi, appassionato di presenzialismo è venuto a fare la sua comparsata, ma senza nessun impegno e Piketty lo ha allegramente sfottuto dicendo: “Renzi e’ venuto a informarci che l’austerita’ finira’ a settembre.” Renzi poi ha proseguito ed e’ andato a trovare i soldati italiani in Afganistan per assicurarli che ci resteranno ancora.
Fare i nomi di tutti gli intervenuti riempirebbe una pagina, ma almeno i premi Nobel come Joseph Stiglitz e Paul R. Krugman non posso trascurarli. Importante e incoraggiante e’ stata la forte e costante presenza di moltissimi giovani, quelli che piu’ soffrono delle diseguaglianze crescenti. Una presenza di giovani cosi attenta e impegnata da far dire a David Autor, direttore associato del dipartimento di economia del prestigioso Mit che una presenza del genere e su argomenti cosi complessi era impensabile negli Stati Uniti.
Di fatto e anche nella sostanza dello sviluppo di questo Festival i lavori sono stati aperti dal premio Nobel Joseph Stiglitz sulla crescente e inarrestabile disuguaglianza sociale che ha il suo massimo – ribadisce Stiglitz – negli Stati Uniti ( ma l’Italia non e’ da meno collocandosi al terzo posto nella graduatoria mondiale delle diseguaglianze dopo Usa e Gran Bretagna). Negli Usa un normale lavoratore in termini di potere d’acquisto guadagna meno di quarant’anni prima. Questo fenomeno della crescita delle diseguaglianze e’ strutturale e la politica non ha fatto niente per impedire o almeno frenare questa deriva in un mondo dove i ricchi diventano sempre piu’ ricchi e i poveri sempre piu’ poveri. Questa crescita delle diseguaglianze ( a meno di una rivoluzione del tutto improbabile) toglie forza alla politica e ci porta –come in questi tempi – al rischio di liquidare l’euro e alla crisi dei paesi dell’Europa del Sud. A questo proposito Lucrezia Reichlin, nel dibattito sul futuro dell’euro e l’estinzione del debito ha affermato che la Grecia avrebbe potuto essere salvata a poco prezzo nel 2010. Piu duro e’ stato Piketty che mentre la Grecia e’ schiacciata dal debito, nel 1945 il debito della Germania che era pari al 200 per cento del Pil fu azzerato.
Siamo in una situazione nella quale il risparmio non solo paralizza la politica, ma fa crescere il debito e porta al default.
Sono tornato a Roma, un po’ prima che il festival si concludesse, stimolato ma anche un po’ confuso. Certo, all’ingrosso, sono ancora piu’ convinto che l’attuale capitalismo e’ il dominio di pochissimi e che la disuguaglianza cresce e si moltiplica: anche dall’apparente bene nasce il male.
Gli Stati Uniti sono la societa’ di massima disuguaglianza e anche in Italia siamo su questa strada: l’attuale diseguaglianza e’ in crescita e prospetta barbarie. Ma di fronte a tutto questo che fare? E qui lamento la scarsa attenzione che la nostra stampa e anche i nostri politici e intellettuali hanno avuto nei confronti di questo festival. Come liquidare tutte le false speranze di ripresa alle quali ci raccomanda di non dare troppo peso anche il nostro governatore della banca d’Italia?
Innanzitutto cercando di capire e illustrando la situazione presente, come hanno fatto a Trento. E non dovrebbe essere neanche molto difficile.Alessandro Portelli lo ha brillantemente spiegato nella sua lezione “Sogni americani: dal Grande Gatsby a Bruce Springsteen”. Portelli facendoci ascoltare poi traducendo il celebre cantante americano ha indicato come si ritrovano in quelle parole gli insegnamenti di Stiglitz.
Dobbiamo sforzarci di mettere in piena luce, anche in piccoli gruppi l’insegnamento di Trento. Illustrando e mettendo al primo posto il tragico e socialmente suicida crescere della diseguaglianza. Mettendo anche noi, una volta di estrema sinistra, in evidenza il grave problema della liquidazione in corso del ceto medio. Pensando a nuove forme di lotta da parte dei lavoratori dipendenti che una volta erano la forte classe operaia e che oggi sono derisi e calpestati. Ponendo, e soprattutto studiando, la questione dei giovani. “Sbilanciamoci” ha gia’ fatto un positivo lavoro con il Workers Act : dovremmo organizzare riunioni per illustrarlo e dare ai lavoratori la speranza che si puo’ cambiare, che debbono tornare a essere protagonisti.
Siamo in una crisi sociale e politica ma, lo sottolineo, anche di cultura. I Nobel in questa occasione ci hanno aiutato - non a caso questo decimo Festival si e’ collocato a sinistra. Ci hanno servito la palla. Ora tocca a noi. Non possiamo dimenticare che senza un fondamento di seria cultura la sinistra non sarebbe mai emersa. E oggi la sua crisi economica e sociale e’ fondamentalmente di cultura, nella nostra attuale incapacita’ ( anche poca voglia) di studiare e capire i processi economici e sociali.

domenica 7 giugno 2015

Roma, la corruzione, le parole


Roma, la corruzione, le parole 

Diario n. 287


Ennesima grande retata a Roma. Lucravano anche sulla miseria

L’opinione pubblica dovrebbe essere contenta dell’ennesima retata romana di politici, imprenditori, amministratori, ecc. per corruzione. Questa fa seguita a quella di qualche tempo fa.
Ma come può reagire l’opinione pubblica, la gente, l’uomo della strada a questa ennesima notizia? Sono ipotizzabili i seguenti  modi: contento e felice. Finalmente si fa pulizia. Oppure: tutti uguali, tutti i partiti implicati, la politica fa schifo. All’ottimismo della prima reazione si contrappone un qualunquismo giustificato della seconda.
Io credo, non ho elementi di sostegno, che la reazione prevalente sia: va bene, chi sa ancora quante cose da scoprire! Uno scetticismo che si fonda sull’arroganza e sullo spirito di impunità che caratterizza questi personaggi (e forse gli altri).
Solo la convinzione dell’impunità giustifica le tracce, ma che dico tracce, lasciate dagli inquisiti della corruzione. Nessuna cautela, nessun accorgimento, tutto detto e dettato al telefono, tutto scritto nelle delibere.
E ributtante che una parte, consistente, della truffa lucrasse sulla miseria, sulla povertà, sugli immigrati chiusi nei centri di accoglienza.
Sono sicuro che quanti implicati, senza implicare la Chiesa,  sono tutti cattolici, chi non lo è in Italia, ma si tratta di una fede di facciata, che non determina comportamenti conseguenti, ma piuttosto può servire per fare meglio gli … affari.

Le parole, le aspirazioni, gli strumenti
Ho trovato la pubblicazione della ricerca demoscopica fatta fare da La Repubblica sul “linguaggio del nostro tempo”, cioè sulle parole che agli intervistati suscitavano speranza di futuro o allontanamento dal passato. Certo nello scegliere le parole non necessariamente l’intervistato avanzava un ragionamento, ma piuttosto indicava un sentimento, una sensazione.
Si potrebbe essere tranquilli i nostri concittadini, da questo campione rappresentati, hanno molti buoni sentimenti, tra le parole del futuro troviamo l’ambiente, combattere la disoccupazione, premiare il merito, la ripresa, la qualità della vita, le riforme, il bene comune, Papa Francesco. Insomma i nostri concittadini si muovono in una dimensione di speranza e di un futuro di alta qualità.
Ma chi legge, qualche ragionamento deve farlo, se questi sono i sentimenti positivi bisogna che si dia corpo a chi, a quale istituzione, a quale potere affidare questa speranza. I sentimenti dei nostri concittadini in questo sono altrettanti drastici buttano al macero i partiti, i politici, i sindacati, lo Stato, e neanche il Presidente della Repubblica e la Chiesa stanno molto bene.
Se si potesse scherzare guardando a queste due liste l’unica possibilità di realizzare la società sperata sembra assegnata ad un miracolo di Papa Francesco, o forse, come intravede Ilvo Diamanti che presenta e commenta questi dati, ad un uomo forte.
Certo si potrebbe dire che in realtà queste parole, in positivo o negativo, rispecchiano luoghi comuni, ciò è possibile, ma i “luoghi comuni” contano, hanno peso, muovono masse, determinano volontà di voto, ecc. Non a caso un tempo “la battaglia culturale” era una priorità proprio per modificare i luoghi comuni, non a caso spesso si sente parlare della necessità di una “rivoluzione culturale”, ma anche questi ormai sono … luoghi comuni.

   

The city and its crises

The city and its crises*

 Francesco Indovina

Since the crisis of the city is above all a crisis of resources, it seems appropriate to start by referring to a text that was very successful when it was published (in 1973 in the U.S.A. and in 1977 in Italy): James O’Connor’s The fiscal crisis of the State. The author maintained that the fiscal crisis of the State, caused by growth in public expenditure without an equivalent rise in revenue, was not the result of some abnormality in the system, or the outcome of bad administration, but constituted a need for “monopoly capitalism”. Nowadays we can safely, and with good reason, expand the author’s point of view: the reference should no longer be to “monopoly capitalism” but rather to “financial capitalism”.
O’Connor’s conclusion, which Federico Caffè adopted as his own in the introduction to the edition of 1979 of the essay, was: “To conclude, in the absence of a socialist perspective able to propose alternatives for every aspect of the capitalist society […], trade union militancy, organisers and activists will continue to proceed in a relative theoretic void. […] what it is felt is required is a socialist perspective that will make the effort to redefine needs in collective terms. In actual fact, even if the working class were to manage to nationalise the whole share of national income absorbed by profits, the fiscal crisis would reappear in a new form, unless both social investment and social consumption were redefined as well as individual consumption and individualist life models”.
Times have changed, conditions have undergone great transformation and the forms of fiscal crisis of the State have taken on new, more dramatic aspects, but both the reference to the “theoretic void” and the need for a socialist perspective fit for the present time still seem to be valid.

1.   The conomic crisis
 If we wish to refer to the economic crisis we must necessarily try to outline its features.
That it is not a question of a, let us say, short-term crisis seems very clear and this has been stated by many, just as it appears equally clear that the “policies” adopted to overcome it seem to be totally inefficient. But this inefficiency cannot be attributed only to the aberrant austerity policies which, imposed by Germany, have characterised the interventions of the group of European Community countries (an indirect confirmation exists of the relation singled out by O’Connor). The instruments proposed fit into “tradition” and do not seem to grasp the novelty of the crisis; this is the reason for their inefficiency. The negative outcome is the result of a refusal to look directly at the nature of the crisis that is afflicting all economies (including those not adopting austerity policies). Just as virgins were offered to the Minotaur to keep it happy, so men, women and entire countries are offered in sacrifice to the crisis, while no Theseus can be seen on the horizon who will be able to kill the beast.
The economic crisis is the offspring of a systemic change in capitalism. It was not the excess of credit that led to the “bubbles” which caused the crisis as they burst; the excess of credit is the effect, not the cause, while the latter was to be found in the new (speculative) way of accumulation of wealth issuing from the production system. Within the logic of the functioning of the social relations of production in capitalism explanations are found for the continuous increment in “capital” to the detriment of “income”, and it is in this outcome that the base of the current crisis is to be found, which corresponds to a change in the substance of capitalism. The accumulation of capital appears to continue to occur according to the well-known formula ‘money-commodity-money’ (M-C-M), but actually the larger part has separated itself from this mechanism to create growth in capital without the production of commodities. Money has become the direct means to produce other money (we could write M-M). The value of World Finance is ten times greater than World GDP.
 At the origins of the modern age, merchants, or the richest of them, acted as a “bank” and lent money to kings, princes, emperors, etc. for their adventures (mostly warlike) in exchange for a tax, often exorbitant, or for trade concessions or other advantages. Modern financiers do the same today (including some State financiers, like China); they lend to States, regions and municipalities, encourage the middle classes to get into debt (house mortgages, consumer good finance schemes, etc.) and cover themselves against certain insolvency (the famous “bubbles”) by inventing financial mechanisms (derivatives) to find who they can unload their insolvency on.
It appears obvious that this is a route leading to suicide of the social system itself, which we call capitalism; we are not saying that we are at the end of capitalism, but that the structural conditions are favourable for a change in the social regime (while political subjectivity in this direction is lacking – who, how, what, when – for ideological reasons). Buffer measures can be taken, and are, in a contradictory way, being taken, which do not reverse the tendency underway but may constitute “rest” stations along the route of the crisis train; but the convoy goes on.
For example – and this has to do with the specific theme of the city – not understanding that the crisis is not the offspring of the public finance break-up (sovereign debts), but that this break-up was born of the needs and impositions of finance, which constitutes a power in itself, and has deprived all national dimensions of strength. When national politicians are incapable and corrupt, they let their hand be taken by international finance; when they are capable and not very corrupt, they practically put themselves at its service, laying claim to both the objectivity of processes and the alleged future improvement in the situation of peoples. After colonial occupation the whole world has been colonised by financial capital. The supranational political institutions that should protect peoples against the excessive power of finance, protect the latter against peoples, also because these institutions have techno-structures at their disposal that often come directly from the financial institutions.
Common sense also suggests – and this holds not only for public finance but also for families – that debts paid with other debts cannot be the solution: the debt actually ends up taking on such a size that it will never be possible to settle it. The example of Greece, which, despite having obtained a reduction in their debt, will not manage to pay what is left, and will therefore be punished further with new restrictions, is a demonstration of how the mechanism revolves on itself.
 The so-called “chain letter” is not just the expedient of those who want to cheat their clients by paying old clients’ interest with new clients’ subscriptions (like Bernard Madoff), but a benchmark that has been revived, though in a different form, at all levels of international finance.  Creative “finance” and its specific instruments, which, though resisted, are continually renewed, are used by international finance that has determined a new economic structure in which it adds to “wealth” production by direct exploitation of workers, peoples being shorn to pay debts, and “builds” a world of depression and ever greater inequality. The ‘financialisation’ of the economy and the speed of technical progress are clenching the world social-economic system in a deadly grip, in which superfluous capital and superfluous labour do not find (and cannot find, the way things are) real employment.
Real economics, in this picture, seems like an appendix to financial economy, at the same time insignificant and useful. Useful for accumulating those resources that the contraction of demand still permits, to then be “withdrawn” by finance; insignificant because it is an increasingly modest share of total “wealth” (which actually does not exist, but whose existence is determined by the decision to “want to settle debts”).
Awareness is increasing in many observers that the social pyramid of various countries is undergoing deep tensions and changes. The middle class has become greatly compressed, an outcome that is taking away one of finance’s privileged “markets” (this was the class that supplied the various forms of demand for getting into debt: house mortgages, loans for consumer goods, etc.), while the market of the old and new rich does not guarantee general accumulation. The compression of the middle class, moreover, produces a fracture in continuity between the different social strata, often compromising, but also a source of conflict and contrast, of development and organization of mass struggles.

2.       The city in the crisis
The reverberation, so to speak, of the phenomena mentioned above (though briefly) on the government of the city and territory is one of the dramatic aspects of the current situation, also because the policies that are adopted end up unloading their outcomes precisely on urban organisation.
 Local Authorities have always been praised as the political link that more than any other could exercise the promotion of democracy. The “closeness” between political decision and the people should (could), in fact, constitute a virtuous relationship, making politics (the Local Authorities) more sensitive to the needs of the population and, at the same time, making it possible for the population to pay greater attention to politics and to their electoral choices (voting with their ‘feet’). It is wellknown, however, that this virtuous relationship did not work anything like as much as hoped for, with both sides being responsible, and especially due to indifference and uneasiness on the political side. The latter, basically, did not like the oppressive control of the population and did not accept that conflict, an expression of the needs of the people, could become a fundamental fact for “good politics”. The crisis of democracy is not, in effect, just national, but also local.
The worsening of the situation of cities, as an effect of the economic crisis, has actually made local politics less self-referential in some cases, due both to the obvious privations in the life of many men and women and to the growing pressure of the population and respective organisations (traditional and new, structured and casual) for decisions to be taken that would help alleviate the situations of hardship. But this change in attitude has not, generally speaking, had positive outcomes.
The hardships the population face because of the crisis are added to the structural ones produced by traditional economic mechanisms. In particular, the most important phenomena concern: poverty, unemployment, growing demand for economic support, increased demand for services, the housing issue (its absence and cost), assistance for the elderly and disabled. Fundamentally, the phase in which each one could imagine cancelling out the shortfalls arising at an urban level (dissatisfaction with services, housing situation, quality of the environment, etc.) with his own resources (a sort of privatisation of solutions), seems to be followed by a phase in which the demand for more cities, a better city and an increase in public intervention is strong and significant.
Note that relative poverty in 2013 at a national level was at 12.6% of the population, while the figure for absolute poverty was 7.9%. The data are worse for the south of Italy, and for large families and those with an elderly head of family.
That the crisis is deeper in Southern Italy is confirmed by other data: in this area the number of people in a state of absolute poverty rose by 725,000 in 2013, to reach a level of 3,072,000. The relative poverty figure also has a severe influence in Southern Italy, reaching 26%, compared with 6% in the North and 7.5% in the Centre. The worst situations are seen in families resident in Calabria (32.4%) and Sicily (32.5%), where a third of the sample is relatively poor.
This is not all: monthly expenditure fell by 4.3% between 2012 and 2013, while 65% of families reduced the quality and quantity of their purchases. Credible statistics do not exist for homeless people, forced to live on the street or in makeshift living spaces. Only the Caritas, a Catholic church facility, distributes meals and offers some beds for the night; in its reports the Caritas highlights that immigrants are diminishing in proportion to an increase in Italian citizens, that it is often a case of families and not individuals, that the Italians have a mean age double that of immigrants and are mostly unemployed, and so on. A dramatic picture (if we consider that in Orvieto and Todi, two cities of average size not considered at the epicentre of poverty, last year the Caritas distributed 30,000 meals).
 In Milan, the economic capital of the country, average monthly expenditure in 2013 was 2,874 euros, against 3,068 in 2012.
Faced with this situation, Local Authorities have less and less resources at their disposal. Whereas the reduction in State transfers continues to be constant, fiscal revenue (direct or per share of national taxes) is lower due precisely to the economic crisis and, in the economic difficulties of families and businesses, the tendency towards tax evasion is greater. Then a number of Local Authorities are in debt both with banks and suppliers (and while the former are those that impose settlement according to the commitments made, the latter tend to get postponed over time, thus contributing to depressing the economy).
Finally, the stability pact is a burden on regional boards, imposed by the European Community on Member States and passed on to the regional boards by the Italian government, introducing an expenditure ceiling also for those Authorities that had their own resources (the more virtuous local boards end up suffering greater penalisation). The result is that many municipalities (a couple of hundred) find themselves in difficulty, on the verge of “bankruptcy”. We are not just speaking about large municipalities like Naples, Catania, Reggio Calabria, Messina, etc. but also small and medium-sized ones. And if the government intervened to save Rome (with the Rome capital law), for the other municipalities it does little.
In this situation, which will certainly last a long time (each year the end of the crisis is announced but then postponed till the following year), the Authorities are in a cleft stick between limited resources and the growing demands of the population, with no capacity to intervene. “Pressure” on Local Authorities often becomes intimidation against administrators or technical office staff: wrecked cars, threats against people and their families, car tyres slashed, front doors burnt down, etc. In 2013 the ascertained cases of intimidation were almost 300 (nothing being known of those not verified). Being closest to the population, the Local Authorities end up being pinpointed as responsible for the social disasters.
It is useful to give a brief outline of the situation in many Italian cities:
• growing social polarisation and a reduction in the “middle class”. This is a condition that tends to disintegrate the “social continuity” which, though it made turning demands into conflicts more complex and less straightforward, guaranteed them a manageable political outlet;
• deterioration of collective services with increasing phenomena of exclusion of the most needy social strata, thus substantially reversing the actual purposes of those services;
• abandoning of any urban maintenance action, with consequent worsening of liveability of the city;
• deterioration of the environment (quality of the air, for example) due to a reduction in controls and to the choice of more outdated technological solutions that cause greater pollution (e.g. means of transport), etc.
 Each of these situations could be subdivided into various sub-items able to specify better the condition referred to, but for the purpose of this article the list proposed appears adequate.
At a municipal level, too, the crisis does not hit everyone in the same way, to the extent that social segments can be singled out that have obtained economic advantages, and continue to do so, from the crisis. In this situation it would be advisable to go into detail as regards the hardships, so as to define coherent political action; territorial authorities also have the knowledge to define ranges of realistic hardships.
 Segments of population exist, in fact, that for their demographic condition alone prove more at risk than others (the elderly, large families, unmarried mothers, the disabled, etc.). If the grid of economic situations (unemployed, pensioners, temporary workers, etc.) is superimposed on the previous breakdown, then the conditions of hardship are multiplied but their features become clear. The formation of a map of hardship conditions should be a reference point for organising Local Authorities’ interventions. But this singling-out operation is not always carried out.
The conditions the local boards work at concern: the universality of collective services (even if weakened by part-payments and the like), progressive nature of taxation (never respected), liability towards creditors (more or less upheld depending on the power of the creditor), administrative transparency (virtually a fantasy), proper administration (‘after’ spreading corruption), defence of common assets (often neglected and abandoned), democratic nature of decisions (subordinate to the power of strong contracting parties), responsibility for urban quality (best not mentioned). These conditions are expressed and applied in a variety of ways in the different situations and actually contribute to determining the quality of the different cities, also creating their capacity to intervene.
 “Good politics” in this situation should suggest to the Local Authorities that they increase their economic availability and aim at reducing their citizens’ claims. Neither of which is easy.
Regional Authorities, encouraged by the European Community and the government, as well as being drained by mass media pressure, picked out the sale of their property assets as the first operation to be carried out. The sale of these assets (social housing, abandoned buildings, ex barracks and factories, land and endless other kinds) is truly absurd: it impoverishes the seller (i.e. the community) giving short-lived “relief” that cannot be repeated (a part of these assets, not actually useful at an operative level and insignificant from the cultural and historic point of view, could also be sold with discernment).
But precisely because the seller is “forced” to get rid of some assets, the buyer finds he has a handful of good cards that he uses first of all to undervalue the property and then to place “straightjacket” conditions. The Public Authorities (local and national) are practically forced, in these conditions, to undersell rather than sell. But this is not enough, the buyer’s interest, as is obvious, is to transform the acquired property functionally and volumetrically, so the purchase is strictly tied to a change in intended use and an increase in size. Change in future use and volume is not a “crime” in a city that is changing, but it is nevertheless a case of very delicate operations, which change the pressure of population in that specific zone (including traffic), requiring services to be provided that were not envisaged, etc. Altogether, “changes in use” do not respect a “project for the city” but are just an opportunity to make “cash”.
With discerning politics Local Authorities’ property assets (but also national ones) could partly be reactivated for collective, social and productive purposes without the need to sell, perhaps by proposing selfrestoration and self-renovation mechanisms on the part of those who will use them in the future (housing, handicraft production, innovative businesses promoted by young people, etc.).
But the municipalities’ assets do not only consist of property, under the greedy eye and claws of finance; there are also many services that the authorities provide for citizens through their own, or participated, companies (water, electricity, refuse collection, etc.).
 It was stated in a report submitted by the Deutsche Bank to the European Commission (2011) that Italian municipalities show high potential for privatisation. This bank, as is well-known, is an expert in financial operations that dispossess peoples. Essentially, the European Union suggests this and the national government presses for it; they would like many of the services provided by local companies belonging to the municipality to be privatised, too. A trend all to the advantage of the citizens: services will be managed better, companies will achieve adequate levels of efficiency, citizens will have better services and, perhaps, will pay less for them. Moreover, the possible losses of these private businesses will not weigh on the Local Authorities’ budgets (but will end up weighing on family budgets). This efficiencyminded ideology has been contradicted by experience: private companies that took over to achieve the desired levels of remuneration for capital invested have raised tariffs or caused services to decline (contradicting the fact that privatisation is to the advantage of the people).
We cannot fail to acknowledge that management of these services has often constituted centres of waste (and not infrequently of corruption); departing from this situation, however, it would be easy to improve their efficiency and the satisfaction of families. The fiscal crisis of the organisations and the subsequent reduction in the capacity of Local Authorities to create investment in these companies have thus become the justification for boosting privatisation. It is precisely the lack of resources that tempts Local Authorities to put these companies on the market, with a consequent impoverishment both of the Authority and the citizens forced to cope with rising tariffs. We are basically faced with an attempt to take the companies providing services away from the communities, so as to make money machines of them, with no respect for meeting the needs of the people, especially the weaker strata.
The situation of indebtedness to the banks is different (‘rubbish’ bonds included) and constitutes another painful issue in their financial circumstances. Reorganisation of the debt should at least be obtained: repayment periods, reduction in rates, etc. But the contractual power of the Authorities is weak also due to the absence of central support from the State. As already said, many are the authorities on the point of collapse.
Expenditure reduction that many municipal authorities are “forced” to take into consideration causes deterioration in services and makes the economic situation worse (less employed, less consumption, more depression). To counter the reduction in expenditure some municipalities are adopting an increase in tariffs (for example at nurseries), thus causing exclusion of strata of population unable to pay possible increases.
Help for needy families is also being reduced: authentic assistance for poor families, rent contributions, “credit” vouchers, home-helps, etc. This phenomenon also tends to affect employment, with cuts in a large number of “auxiliary” staff, even if temporary (ranging, for example, from traffic controllers, refuse collectors, nursery school teachers, etc.).
Moreover, municipalities in difficulty tend to reduce investments in city maintenance (public spaces, public buildings, etc.). This non-intervention trend not only affects the quality of the city but also employment levels.
Confined between the lack of resources and pressure from citizens (electors) and lacking in instruments coded for suitable intervention, the scarcity of resources tends to prevail, namely a “cuts” policy. Consequently, the hardships caused by the critical situation tend not to be counteracted in the work of local government. There is therefore an accumulation of negative situations of the crisis upon individual citizens: unemployment, reduction in available income, etc., to which cuts in Local Authority services are to be added.
Is it possible to follow different paths to meet the needs of the people halfway? We would need to reject the “realism” ideology” (this is the situation and nothing can be done) to face “reality” (a line that some Authorities are trying to follow, albeit with some contradictions). These are the paths that should be followed:
• take resources where they are available;
• temporarily suspend the universal nature of collective services;
• develop and increase democratic mobilisation processes.
The city and its crises 119 Territorial Authorities have very limited tax-raising ability (nowadays on the increase) and are therefore not able, even if they wished, either to follow equalising, forward-looking politics and thus have an influence on growing inequality, or to collect enough resources. Various paths could be followed in this case.
If, for example, one of the factors causing hardship was the housing question (eviction, impossibility of access to the free market, etc.), the Authority could lead some initiatives for agreements with property owners, fixing lower rents, suspending evictions, etc. or, in the absence of collaboration from property owners, proceed to requisition empty houses, assigning them to the “homeless” (at agreed rents). The opening up in this case of a possible dispute should not be feared, also because it might be the opportunity to make it clear that “ownership” does not solve the problem of housing and that the reduction of social hardship in this sector constitutes a priority element in a responsible society. It would, moreover, be a case of an intervention aimed at opposing the unjust inequalities that are criticised in words both from the point of view of “civilisation” and because of their depressive effects on the economy, but which are actually on the increase.
Those measures that momentarily suspend the universal nature of the rights of citizenship assured of collective services should move in the same equalising direction. The new conception of welfare that is trying to find a way into our society envisages that collective services be guaranteed only for the “needy”, a decidedly adverse conception of the rights of citizenship which violates the principle of universality, uniformity and accessibility to those rights. What is proposed does not exclude anyone from the use of collective services but should temporarily modulate rates in relation to the economic condition of the family and the individual, especially because of the crisis. Poor transparency of the distribution of wealth creates doubts on the applicability of this principle, but the Local Authority might have direct knowledge of the economic situation of each family and try to define parameters that will be more accurate than tax statements very often are.
 Furthermore, the cost of many municipal concessions, such as, for example, stall-renting, could be modulated following an evaluation of the differences in profitability such concessions produce.
These and other similar measures may be deployed based on the wideranging group of activities and services provided by the Local Authority. In order that these initiatives do not take on overtones of arbitrariness, however, commitment is needed for considerable development in democracy, which is not to be assumed just as an instrument of “control” over who is governing, but for the positive contributions it can produce in terms of reciprocity of solidarity.
By this term we wish to denote something very different from what the simple term solidarity refers to, i.e. in this case individual members of the community taking on tasks, including management, which guarantee everyone collective continuity and quality of, for example, a service, and direct support of the action of the population following the paths mentioned above.
 Mobilisation of the population is meant, aimed at enhancing the democratic tone of a given territorial reality by means of specific instruments and initiatives. Concrete forms of “direct democracy”, with a deliberative capacity, can be linked and related to the traditional forms of “delegated democracy”, reviving the latter. Just as forms of direct collaboration in the administrative management of services and the different operative functions of a territorial board can enable greater levels of efficiency and efficacy.
Nowadays an aversion to delegated democracy, historically given, is increasingly manifest; I do not believe we can do without this form of democracy but it needs to be revived, linking it with forms of direct democracy (decisional and managerial).
Voluntary experiments that have been carried out over time are wellknown, such as the “time bank”, and also the good “council” results (think of schools), as long as these had power; just as well-known are the chances to save created voluntarily by the “farmers’ markets”, or by the autonomous organisation of the GAS (ethical purchasing groups), etc. We have no problem with the capacity of single groups to voluntarily organise themselves and be operative, but a leap in quality and quantity seems necessary, precisely because of the crisis: local Authorities can and must help these initiatives with contributions to organisation. It is not a case of a route out of the crisis or of outlining different social set-ups, but they do undoubtedly contribute and help to alleviate the discomfort.
 It is with extended mobilisation engaging the different groups in specific actions and functions at the disposal and for the use of everyone that what we have called reciprocity of solidarity comes into being.

3.       Conclusions
 If people who find themselves in growing numbers in conditions of discomfort, on the one hand, hope and request global solutions (national and international), they can, on the other, immediately transform their discomfort, so to speak, into demands to the Local Authorities (the close level of government). Local Authorities, however, have been hit by the same fiscal crisis as the State, with a reduction in resources. Growing “demands” and lower “resources” constitute the claws that tend to crush the Local Authorities’ capacity to operate.
The latter are the stage upon which the devastating effects of the crisis are more obviously manifest and where, with just as much evidence, the incapacity and impossibility of giving satisfactory answers to the situation are shown. Authorities also tend to follow lines of intervention that are not only ruinous but tend to worsen the present situation (reduction in services, increase in tariffs, exclusion of maintenance, etc.) and the following one (alienation of own assets). National governments have unloaded the growing social contradictions the crisis was producing onto the Local Authorities (politics has an unbearable level of cynicism).
From what has been said, it is clear that the Local Authorities are not able either to combat the crisis, or to tackle the hardships generated by it. Yet some slight possibility of alleviating the discomfort does exist: by rejecting the prevailing pathways, opposing privatisation processes, using one’s own property assets appropriately and appealing to the social forces on the grounds of a principle of reciprocity of solidarity, administrators can mitigate the effects of a crisis, the end of which, despite the predictions, is not in view. Some Authorities are trying, but they are few.
Reference O’Connor, J. (1973) The fiscal crisis of the state. New York: St. Martin’s Press


·         da City of crisis, F.  Echardt e R. ancchez  (a cura di) ( giugno, 2015)