sabato 23 agosto 2014

La criminalità organizzata entra in contabilità nazionale

Diario 266

La criminalità organizzata entra in contabilità nazionale

La valutazione del reddito nazionale costituisce da sempre un problema non solo statistico ma anche teorico; Pigou sottolineava che se avesse sposato la propria cuoca il reddito nazionale sarebbe diminuito, a quello, infatti, veniva a mancare l’apporto del salario della cuoca, anche se con molta probabilità avrebbe speso di più per la moglie.
Oggi l’operazione che si sta facendo è inversa a quella denunziata da Pigou, non si sposano le cuoche, ma  si  incrementa il valore del PIL con una valutazione economica delle attività criminali: prostituzione, commercio di stupefacenti, commercio di armi, tratta di organi, ecc.
Dal punto di vista statistico, forse un’operazione giustificabile, ma è certo che si tratta di una modifica che investe aspetti sostanziali della convivenza. Proviamo a indicarne alcuni, dai più banali ai più complessi.  
Intanto l’aumento del PIL farà diminuire la pressione fiscale, ma si tratta di una pura illusione contabile: le attività criminali continueranno ad esercitarsi in “nero”, mentre la quota dei soggetti che pagano le tasse, senza nessuna modifica nei loro esporsi fiscali, avranno l’impressione di pagare meno in rapporto alla nuova valutazione del PIL.
Siccome non esiste un’anagrafe delle attività criminali la stima del loro contributo al PIL sarà di tipo parametrico: sulla base dei reati scoperti e perseguiti si valuterà l’ammontare delle risorse di queste attività. Non ho dubi che i nostri statistici abbiano individuato parametri significativi, ma come si valuterà l’efficienza dell’attività repressiva? Se aumentano i reati perseguiti si stimano in riduzione i reati (e i relativi redditi) non scoperti? Ma non è detto che esiste questa relazione inversa.
Ma se i redditi di queste attività entrano a far parte del PIL e permettono al paese di stare all’interno dei parametri imposti dalla UE, non conviene chiudere un occhio su queste attività? Tanto queste, al contrario delle attività legali ma sommerse (che entrano già come stima nel calcolo del PIL), non potranno mai emergere. In quest’ottica mi pare naturale che la discussione per la legalizzazione delle droghe leggere (prescindiamo da una valutazione di merito) sarà molto raffrenata, si rischierebbe di prosciugare un apporto al PIL.
Se queste attività vengono riconosciute come economicamente significative (produttrici di reddito, di occupazione di indotto, ecc.) ne dovrebbe derivare che un certo livello di WS dovrebbe essere riconosciuto ai membri di questa associazioni criminali. Così per esempio la manifestazioni dei familiari dei criminali arrestati che denunziavano che le casse del loro privato ws erano vuote, (una sorta di INPS garantita dalle associazioni criminali a favore dei familiari degli arrestatati) meriterebbe un intervento dello stato?
Non si tratta di essere o di fare l’anima bella, ma certo avere da una parte una legislazione che sanziona, anche pesantemente (vedi l’affollamento delle carceri), alcune attività, a torto o ragione, ritenute illecite e criminali, e dall’altra farsi belli con il PIL che ne contempla l’aspetto economico, qualche distorsione la procura. Va bene che il denaro non ha odore, ma non esagererei: questa nuova quota del PIL  oltre ad avere il tanfo della sopraffazione, gronda sangue. Tutte cose che dalle stanze degli uffici di statistica non si sentono né si vedono.   
  

  

sabato 16 agosto 2014

Angelino Alfano: l’inconsapevole violenza del linguaggio

Diario 262



Angelino Alfano: l’inconsapevole violenza del linguaggio

“Vu cumprà” per indicare extracomunitari, termini usato dal Ministro degli Interni, Angelino Alfano, trova giustificazione nella registrazione del lemma nella Treccani (assunta, in una visione piccola borghese, come il monumento e l’Alta Corte della lingua e della cultura del paese, con il presupposto che ogni sostantivo, aggettivo o verbo registrato in questa opera possa essere usato impunemente).

Una giustificazione, quella del ministro, che gli permetterà di definire come puttane un gruppo di donne che manifesti per gli asili nidi. Più ricca, semanticamente, sarà la definizione che userà per un corteo sindacale contro la cancellazione dell’artico 18 dallo statuto dei lavoratori: una massa di puttane, cornuti e froci. Mentre un suo collega di partito, non consenziente, sarà definito icasticamente come uno stronzo. Tutti lemmi registrati dalla Treccani e quindi utilizzabili.

La realtà e che il Ministro Angelino Alfano è un imbecille (non se la prenda ministro e termine che si trova nella Treccani), mentre ci preoccupa che il suo violento linguaggio possa preludere ad atti di violenza più materiali

venerdì 15 agosto 2014

Chi salverà l’Europa? Matteo Renzi

Diario 261

Chi salverà l’Europa? Matteo Renzi

“Smettiamolo di dire che l’Italia sarà salvata dall’Europa. Non solo non abbiamo bisogno di essere salvati, ma siamo in condizione, facendo le riforme, di essere guida in Europa trascinandola fuori dalla crisi. Attraverso l’unica ricetta valida: la crescita”. Firmato Matteo Renzi
A Renzi non manca il coraggio e neanche l’improntitudine. Ah! La crescita, che magica parolina, o piuttosto una Fata Morgana, che si cerca di acchiappare ma sfugge tra le dita spasmodicamente tese, perché si è scambiata come reale quella che è solo un’immagine virtuale.
Si potrebbe dire che il problema di Renzi e dell’Europa sia quello di far incontrare, sposare o amarsi il capitale inoperoso con la forza lavoro non impiegata. Ma … il capitale, che ha preso forma e sostanza come  finanza, non è “inoperoso”, risulta attivo in tanti modi: la speculazione finanziaria, i debiti sovrani, la speculazione sulle materie prime, ecc. Fa soldi con i soldi, mentre la forza lavoro può restare, suo malgrado, inoperosa.
È stato scritto, riscritto, illustri economisti sono stati capace di mettere il dito nella piaga, ma chi governa, ovunque, fa orecchie da mercante, forse perché ascolta solo la voce della … finanza.
Assumiamo un aspetto del fenomeno dalle implicazioni meno drastiche. I libri e gli articoli, compresi alcuni da parte di premi Nobel, nei quali si stigmatizza la diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza (il semplificato 1% e 99%) come elemento fortemente critico per, appunto, la crescita, sono ormai un numero spropositato. Se si fosse convinti di ciò, l’unica riforma da fare sarebbe quella di intervenire (pesantemente) su questa distribuzione. Ma su questo terreno solo  “pannicelli caldi”, la paura della reazione (della stessa finanza, a livello collettivo e individuale) frena ogni ipotesi d’intervento. Lo strumento fiscale, per sua natura, solo molto parzialmente può intervenire su questa questione.  Ma intervenire si dovrebbe,  gli strumenti possono essere numerosissimi basta non  ascoltare suggerimenti interessati,  per salvare la convivenza nel pianeta,  non si tratta di bassa cucina, ma di una ipotesi di sopravvivenza (non lo si crede, ed è male).
Se Renzi volesse salvare l’Europa la discussione su questo tema dovrebbe imporre alla prossima riunione dei capi di stato, ma si può essere certi che si discuterà di flessibilità, di allentare la politica del rientro del debito sovrano,  di mercato del lavoro, di fondi strutturali, di distribuzione delle poltrone all’interno della Commissione, e similari.

Non c’è un problema tedesco, c’è una miopia complessiva, un vuoto interpretativo dei fenomeni reali, una miopia pericolosa sulle dinamiche future. Di volta in volta si possono trovare le giustificazioni: l’embargo nei riguardi della Russia, il mal tempo, la mancanza di ottimismo, ecc. ma poca strada si farà con questo passo.  

giovedì 14 agosto 2014

Il renzismo: improntitudine e lentezza Abolire le regioni

Diario 260

Il renzismo: improntitudine e lentezza
Abolire le regioni

Il renzismo: improntitudine e lentezza
Il renzismo ha un connotato di improntitudine che neanche i peggiori democristiani hanno mai avuto, ma non si tratta di una caratteristica solo del “capo”, e tutta la squadra di governo e no che ha assunto questo connotato.
Per esempio il consulente economico del Presidente del consiglio dei ministri,  giorni fa, quando è stato reso pubblico il dato fortemente negativo del PIL del trimestre ha dichiarato, credo per rassicurare i cittadini, che non c’era da preoccuparsi perché fra tre anni l’Italia sarebbe stata una delle maggiori economie europee.  Quante volte, a partire da Monti, ci hanno assicurato che tra un mese, tra sei mesi, che l’anno prossimo saremmo usciti dal tunnel, che già si vedeva la luce? Una luce che non illuminava mai la crisi, la crescita delle povertà e della disoccupazione, ecc., adesso il consigliere più ascoltato ci dice di avere pazienza altri tre anni. 
È improntitudine dichiarare che non ci sarà nessun manovra correttiva, quando contemporaneamente si sposta tutto sul prossimo documento finanziario. È pericolosissima improntitudine quando si dice che nel prossimo anno avremo 16 miliardi di riduzione della spesa pubblica, e nel 2015 la riduzione sarà di 35 miliardi, sia che si tratti di contrazione dell’occupazione sia che si tratti di una contrazione degli acquisti, si configura una ulteriore gelata sull’economia italiana. Quella della spesa pubblica non è la sua dimensione, inferiore a quella di molti paesi europei, ma la razionalizzazione del settore.
L’unico sprint di velocità il governo l’ha avuta sulla riforma del Senato, che a prescindere della forma data la nuovo senato, per adesso e chi sa per quanto tempo, non serve a niente, leggi e decreti saranno sottoposti a doppia lettura, quella che Renzi individua come il gran male del paese.
Sull’economia il passo è lento, quasi inesistente, mentre si annunzia una nuova battaglia sul decreto relativo al lavoro. E se la preoccupazione per un possibile scontro anche interno al PD, ne rallenta l’emanazione, resta confermato l’idea, tanto cervellotica quanto pericolosa, che una nuova legislazione farà aumentare l’occupazione.
Se conquisterà la poltrona del commissario per la politica estera Renzi pensa ad un rimpasto con un ridimensionamento della presenza del NCD, premesso che Alfano è intoccabile, sarebbe bello liberarsi di Lupi, ma CL non darà il via libera, per cui a farne le spese sarà quella che è sembrata una ministra coraggiosa cioè la Lorenzini.  


Abolire le regioni
Bisogna prendere atto che l’istituzione regionale, che trovava la sua maggiore giustificazione nell’efficacia della propria azione perché a “contatto diretto” con la popolazione da “governare”, è risultata non solo un fallimento, ma peggio un concentrato di inefficienza, di corruzione, di male affare e di sprechi. 
Il nuovo governo ha abolito le provincie, un passo fondamentale, ma molto timido. Tipico di questo governo, roboante nelle dichiarazioni ma molto modesto di risultati concreti.
Se due o tre regioni possono essere classificate, con alcune forzature, virtuose, il resto di queste istituzioni sono impresentabili. Non sono certo le istituzioni in se stesse a determinare il mal governo; non pare convincente l’dea che  oggi tende a prevalere che siano le istituzioni in quanto tali a determinare il decadimento della gestione pubblica, sono gli uomini corrotti e criminali, i soggetti prevaricatori, le corporazioni, il cancro. Del resto meno di sessanta milioni di abitanti non giustificano la divisione in 20 regioni (alcune con un popolazione da grande città). Se la Costituente ha dovuto prendere atto delle differenze locali, se ha dovuto accettare la volontà storica di indipendenza (parziale) di alcune regioni,  se la storia del nostro paese ha esalato la peculiarità di ogni contrada, oggi tutto questo è decaduto non ostante l’esplosione di un localismo micragnoso, la divisione si configura come fattore di potere, di promozione politica, di clientele, di un punto di vista tanto individualista quanto corporativo. Tutto questo ha prodotto, in generale, una classe di governo inadeguata (per non dire di peggio).
Eppure le grandi trasformazioni nell’organizzazione del territorio, le grandi possibilità offerta dalle nuove tecnologie, se sposate con un visione prospettica coraggiosa, con una rinnovata idea di governo, avrebbe potuto dar luogo ad una diversa e forse più efficace organizzazione dei poteri locali.
Abbolire le Provincie e le Regioni, per darsi nuove strutture forse più efficaci e adeguate alla realtà. Certo non lavorando sulle carte geografiche o di pennarello, con l’occhio rivolto verso singoli interessi di potere o elettorali, ma a partire dalle concrete situazioni di organizzazione del territorio, si sarebbero potuti aggregare comuni appartenenti ad un unico contesto territoriale (economico, paesaggistico, culturale, ecc.), individuando nella forma della metropoli territoriale l’elemento aggregante e capace di un governo consapevole ed effettivamente sotto un più diretto controllo della popolazione. La “città metropolitana” non un’eccezione, ma un modo normale di organizzare il governo del territorio.
Sarebbe stato utile e necessario rendere omogenei a livello nazionale, e nazionalmente governati, alcuni servizi collettivi, dalla salute, all’organizzazione della scuola, alla raccolta dei rifiuti, alla gestione dell’acqua, al trasporto collettivo, ecc. Sarebbe stato necessario un’uguaglianza effettiva dei cittadini a fronte di loro diritti/doveri come quelli della trasformabilità del territorio, della salvaguardia del paesaggio e dei beni storico culturali, ecc. Tutte cose messe in discussione dai poteri assegnati alle regioni e che hanno dato luogo ad una più forte differenziazione spaziale delle condizioni di vita delle popolazioni.
Sarebbe necessario elaborare  strategie di sviluppo di macro aree, all’interno di una visione nazionale, anche di differenziazione economica (a parità di diritti). Bisognerebbe ridisegnare i poteri sul territorio (da troppi padroni fioriscono sconnessioni, diseguaglianze e privilegi). 
Insomma una rifondazione istituzionale e di governo di questo paese, non appiattendo o negando differenze o possibili identità (sempre pericolose), ma non dando a questi connotati di potere, ma piuttosto garantendone la vitalità e l’esistenza.    
Nella riforma costituzionale è prevista la possibilità del governo di commissariare regioni e comuni in dissesto, che poi il governo lo faccia è da vedere, ma questo provvedimento non incide sulla struttura (oggi la maggior parte delle regioni e moltissimi comuni dovrebbero essere commissariati).
Certo oggi toccare le regioni e comuni è un esercizio mortale (non è un caso che i più accesi critici degli sprechi regionali, non hanno mai accompagnato la denunzia con un’ipotesi di cancellazione dell’istituzione. Poteri costituiti, codificazioni di relazioni di potere, privilegi, inefficienze, ecc. garantiscono lo stato quo: 20 presidenti, 200 circa assessori, alcune migliaia di capi-divisioni, dirigenti, ispettori, ecc, costituiscono un fronte di opposizione insormontabile, figuriamoci se Renzi o la Madia pensano di affrontarlo, eppure sarebbe un modo per “cambiare verso”, ma alle parole non seguono i fatti.


martedì 5 agosto 2014

Il turismo evocato e temuto

Diario 259
Il turismo evocato e temuto

A falange si muovono, da tutti i paesi verso tutti i paesi: è il turismo che ogni economia desidererebbe accogliere.
Nel nostro paese il ragionare di turismo suscita generiche lamentele, antagonismi tra amministrazioni, meraviglia per la poca capacità di attrazione nonostante che si tratti con il più numeroso patrimonio artistico e culturale, speranze infondate, speculazioni certe.
La società si anima, per esempio, per quella che ritiene una pericolosa pratica che mette in pericolo uno dei patrimoni di maggior valore e che ne deturpa l’estetica, mi riferisco alle navi crociere che attraversano il bacino  San Marco a Venezia. Certo, hanno ragione, ma quello delle navi crociere rischia di essere un diversivo se non si affronta il problema del turismo in generale nella città, non sono, infatti, meno distruttive e meno aggressive alla bellezza dei luoghi quelle che spesso i veneziani chiamano le orde di turisti.
Quello che si cerca di nascondere, in generale, è che il turismo è un’industria pesante, il che vuol dire che per goderne dei vantaggi bisognerebbe sviluppare un’attenta programmazione e  un’efficiente  organizzazione  e ne  andrebbero controllati gli effetti. Lasciato alla  spontaneità il turismo rischia di essere distruttivo, di non cogliere a pieno la ricchezza e l’articolazione del nostro patrimonio (turistico), con poca soddisfazione degli stessi turisti.
Turisti, il plurale configura, di fatto, una grande articolazione di turismi: balneare, montano, culturale, sportivo, da festival, da shopping, ecc. Ogni luogo vorrebbe accogliere tutta la gamma dei turismi, quella che possiamo definire un’utopia. Inoltre, sempre più il turismo si differenzia per possibilità di spesa, in questa fase storica molto accentuato. Oggi sono i “ricchi” i turisti desiderati.
Così una zona che costituisce un forte richiamo per il turismo balneare, quindi un turismo limitato a pochi mesi, desidererebbe “allungare la stagione”, come si sul dire, con “altri” turismi. Ma glia altri turismi subiscono l’attrazione di altri luoghi. Il che ci porta alla regola generale, una società, una zona, una regione, una città non può vivere di solo turismo, per quanto importante sia il contributo che il turismo può offrire ad una economia.
Ci si lamenta che poche città sono centri  di grande attrazione turistica (Firenze, Roma, Venezia, Milano) ma poi si osserva che anche in queste città i grandi patrimoni (musei, pinacoteche, chiese, ecc.) sono poco frequentati. Qui due fenomeni si incontrano, da una parte verso queste città si indirizza il turismo da shopping, più interessato a via Monte Napoleoni che a Brera. Il secondo fenomeno e quello del turismo giornaliero o comunque di poca durata, che non ha tempo (e soldi) per musei, anche se li desidera.
Non ci si oppone che il patrimonio storico, artistico e archeologico, possa costituire un elemento anche economico, essere cioè un elemento di attrazione che determina vantaggi economici. Ma anche qui l’attenzione deve essere massima onde evitare che tutto si riduca ad una dimensione di mero mercato.  
Tranne casi specifici non si può essere, a ragion veduta, contro la mobilità delle opere d’arte. Ma attenzione, le motivazioni non possono essere solo di mercato. La polemica circa l’indisponibilità dei Bronzi di Riace di essere trasferite all’expo di Milano, rivendicandoli come patrimonio comune del paese e sottolineando che gli incassi per i visitatori del museo di Reggio Calabria sono una somma “ridicola”, che non si confà a opere di questo valore, costituisce, come è ovvio, una errata semplificazione e una ridicola motivazione.
Il problema sta nella cattiva organizzazione e pianificazione del turismo a livello nazionale che taglia fuori, perché estraneo al circuito spontaneo o organizzato dalle grandi agenzie, una parte consistente, la più consistente, del patrimonio culturale del paese.

Solo un disegno programmatico di turismo che mette assieme sia le bellezze naturali che quelle storiche artistiche del paese, con una politica dell’accoglienza e dei trasporti, in  grado di determinare flussi ragionevoli di turismo senza l’assalto a pochi luoghi, può rendere anche economicamente la “bella Italia”, nella consapevolezza che il paese non possa vivere di solo turismo.