sabato 28 dicembre 2013

Diseguaglianze, stagnazione e … cecità

Diario 239 (28/12/2013)
  •   Diseguaglianze, stagnazione e … cecità   
  •  Animalisti senza anima   



Diseguaglianze, stagnazione e … cecità

Studiosi, premi Nobel, ricercatori e funzionari pubblici sono ormai numerosi a sostenere:

- che la condizione economica normale per un lunghissimo numero di anni sarà la stagnazione; ci saranno momenti modesti e brevi di ripresa economica, ma la linea di lungo periodo sarà caratterizzata da stagnazione;

- all'origine di questa situazione ci sono molte cause, ma principalmente gli effetti della deregolamentazione finanziaria legata alla mondializzazione e finanziarizzazione dell’economia;

- La situazione di crisi è alimentata dalle diseguaglianze: pochi possiedono molto, e questo molto cresce ogni anno anche nel periodo di crisi, e molti possiedono poco e sempre meno dentro la crisi.

Basterebbe leggere qualche libro, qualche articolo, ma anche chi non è avvezzo a questo tipo di informazione (i politici sempre più nuovi) la stessa documentazione potrebbero trovare in internet. Insomma pare chiaro che non sanno e non vogliono sapere. Si consolano con rimedi palliativi: meno austerità; meno spesa pubblica (che deprime l’occupazione); provvedimenti legislativi (di liberalizzazione) per creare posti di lavoro (come se questi ultimi si potessero realizzare con una legge); economia verde; ecc.

Anche i rimedi palliativi, come è noto, possono portare sollievo al malato, ma non lo curano. Lo stesso avviene nella realtà economica del mondo moderno.

Non so come debba essere il socialismo e il comunismo del XXI secolo, ma mi pare di capire che prospettare la proprietà pubblica dei mezzi di produzione rischierebbe di mettere in mano al pubblico dei “ferri vecchi”, mentre mi sembrerebbe sensato pensare ad un’economia mista, governata da regole semplici ed efficienti; ma sicuramente la modifica dei rapporti sociali di produzione passa per una riorganizzazione del mercato del lavoro: orario, sicurezza, ciclo di vita, ecc.

Ma una cosa sembra urgente: una lotta dura ed efficace contro le diseguaglianze. Di questa il governo non si occupa, al massimo ripete la giaculatoria della lotta all’evasione, ma non si tratta solo di questo. Gli “spiriti” animali che in astratto (sbagliato) farebbero bene allo sviluppo economico si sono dimostrati un disastro. Non solo un disastro per la poca previsione del futuro del pianeta (ambiente, mutamenti climatici, ecc.), ma soprattutto un disastro per l’economia (mondiale) e per la condizione di uomini e donne: riduzione dei consumi, miseria cumulativa, spreco di intelligenza scientifica e tecnologica, spreco di potenzialità e intelligenza di uomini e donne, ecc .

Le possibilità che oggi sono offerte alla specie in ragione degli avanzamenti scientifici e tecnologici sono foriere di un possibile mondo migliore, ma questo potrà realizzarsi sono basandosi su libertà e uguaglianza (e diritti), solo combattendo gli spiriti animali (che stranamente paiono trasmettersi attraverso il DNA, infatti, con modesti allargamenti sono sempre le stesse famiglie o i partecipanti di specifici gruppi sociali che ne sono dotati, mentre agli altri non resta che l’animalità), si potrà ottenere qualche risultato.

La lotta alla diseguaglianza, bisogna sapere, costituisce una vera “rivoluzione” , un notevole passo verso la rivoluzione sociale e una necessità anche per difendere democrazia e libertà.

Non si tratta di togliere a chi più ha per darlo a chi meno ha, ma fondare una nuova condizione umana nel quale il “soldo” non sia l’unico mezzo che garantisca prestigio e merito (molto spesso si tratta di pochissimo prestigio e di un merito opaco e discutibile).

Non mi immagino né una soluzione rapida né immediata, ma quello che fa specie e l’assoluta cecità (non di nascita ma acquisita) non solo della classe politica e specialmente di quella di governo, ma di quanti cercano strade impervie e senza sbocco sprecando intelligenza e tempo. Mi pare che il tempo sia sempre meno e che iniziative in questa direzione devono essere prese, e si tratta di iniziative che non possono essere il risultato di lotte di base (come si diceva un tempo) ma di una relazione stretta tra consapevolezza, mobilizzazione, conflitti e scelte di governo.


Animalisti senza anima

Il degrado della nostra società ha tanti sintomi, tante espressione, ma una che mi turba è l’adesione a quelle che è possibile definire sub culture. Credo che ciascuno di noi ha diritto alle proprie convinzioni e fedi, si tratta di un modo per “sentirsi bene”, come ripetono. L’idea che una fede possa determinare una migliore società ha avuto spesso esiti disastrosi, guerre di religioni, realizzazione di sette chiuse e nascoste, ecc. Una società che non riesce a guadagnare uno statuto laico è destinata, forse, a perdersi.

Si può essere vegetariani, si può essere vegani, si può essere crudicisti, una scelta personale garantita da libertà. Ma ci sono alcune di queste sub culture che per il lo intrinseco contenuto sono portatori della necessità di imporre il loro punto di vista. Uno di questi casi è quello degli animalisti. Non si tratta solo di un punto di vista che riconosce la necessità di un rispetto del mondi animale, la sua difesa, la cancellazione di abitudini violente e senza scopo (la caccia alla volpe, per esempio), ma di qualcosa di più. Gli animalisti, che dovrebbero essere tutti vegetariani, cercano di imporre punti di vista che a me paiono dissennati: come l’esclusione della sperimentazione sugli animali, come l’opposizione alla eliminazione di presenze in “sopra numero” (come i piccioni a Venezia, o i cinghiali in certe contrade, ecc.), ecc. Ma alcuni, spero non tutti, risultano accecati e violenti. Mi hanno sconcertato gli attacchi contro Caterina Simonsen che aveva dichiarato che la sua vita è il risultato di ricerche scientifiche, comprese la sperimentazione animale, che hanno permesso una cura alla sua malattia.

La reazione di alcuni animalisti è stata non solo fuori tono ma di una violenza inusitata. Del tipo: se sei viva con il sacrificio di animali non sei degna di vivere; piuttosto che sacrificare animali, fossero anche due topi, era meglio che fossi morta a nove anni, ecc.

Quello che preoccupa non è il caso specifico, degli imbecilli si trovano in ogni gruppo ma il sintomo della malattia che questo caso fa emergere: il degrado delle coscienze e dell’intelligenza.

La solidarietà con Caterina, appare necessaria, anche per combattere stupidità e violenza.

lunedì 16 dicembre 2013

Il forcone e il capitale

Il forcone e il capitale

di Ars Longa

 

(da: sinistrainrete 16 dicembre 2013)

 


Ho percorso duecento chilometri in auto negli ultimi due giorni ed ho trovato due blocchi del cosiddetto movimento dei forconi. Qualcuno ci vede il baluginare della rivolta che verrà, io ho visto la ripetizione di una tradizione italiana vecchia di un migliaio d’anni: la rivolta per il pane, l’assalto ai forni. Ho visto gente che ha perso tutti i contenitori politici nei quali era transitata. Ho visto gente smarrita non l’avanguardia rivoluzionaria. Ma so che alcuni ci hanno ricamato sopra una teoria e la teoria dice che questi 30.000 (ma facciamo anche 50.000 o 100.000) sarebbero l’avanguardia della massa che verrà. La teoria dice che questi protestanti – presto o tardi – diventeranno anticapitalisti perché capiranno che il capitalismo li sta massacrando. E così diventeranno anticapitaliste le masse che se ne stanno a casa oggi non appena la crisi morderà le loro “sicurezze”.

Questo dice la teoria. Solo che la teoria non funzionerà. Perché non funzionano così le cose.

A quei blocchi nessuno pensava minimamente al capitalismo o all’anticapitalismo. C’era gente che aveva perso qualcosa e la rivoleva indietro. E rivolevano indietro quel che avevano vissuto: un posto non troppo freddo ai margini del capitalismo. Un posto che – sono convinti – gli è stato tolto dalle iniquità dei governi, dalla mancanza di politiche protezioniste, dall’Europa, dalle tasse. 

E mi è venuto da pensare al fenomeno del cambiamento dei consumi di stupefacenti negli ultimi quarant’anni. Che centra? C’entra. Negli anni ’70 ci si faceva di eroina e di acidi lisergici. Ci si faceva di droghe che ti sparavano fuori da un mondo che si sentiva profondamente ingiusto e nel quale non si voleva rimanere. Dietro c’era tutto un movimento tra il culturale e il politico che postulava il rifiuto radicale dei modi di essere e di consumare. Dagli anni ’80 ha preso piede la cocaina e tutta la larga famiglia delle anfetamine. La droga che aiuta non a fuggire dal mondo ma a restarci e ad essere “performante”. Una droga sintonizzata sulla necessità di dimostrare di essere sempre sveglio, attivo. concorrenziale.

Guardavo la gente ai blocchi e pensavo che quella gente che mi dava i loro volantini volevano una sola cosa: essere di nuovo parte di un capitalismo che funziona. Non sanno come fare, non hanno le idee chiarissime ma due o tre concetti più o meno interiorizzati: sovranità popolare, lotta ai burocrati europei, lotta alla classe politica.

Guardavo i carabinieri alla curva della rotatoria. Immobili, passivi, lasciavano che il blocco ci fosse ma fosse “ragionevole”. Fermali sì ma poi falli passare dopo una decina di minuti. Ci ho parlato per un po’. La maggioranza faceva fatica ad articolarmi un discorso omogeneo. Quello che usciva fuori era un “prima” (quando si stava bene) e un “adesso” nel quale si sta male. Ridateci quello che avevamo, ridateci il capitalismo ben temperato. Segni di anticapitalismo? Nessuno. Neppure una briciola sparsa di luddismo.

Le facce smarrite e incazzate raccontavano soltanto la sorpresa e la paura di essere tagliati fuori definitivamente dalla fonte di ogni delizia. Non erano persone che si stavano riappropriando del loro essere cittadini ma, piuttosto, gente che rivoleva essere consumatori. Uno mi ha detto che voleva la meritocrazia e voleva che i migranti (non usava questo termine però) se me tornassero a casa loro. Un altro voleva uscire dall’Europa perché così saremmo stati di nuovo “padroni in casa nostra”. Padroni per fare che? Per tornare a consumare.

Era gente che non sa che una economia anticapitalista non prevede la Audi ma semmai una versione moderna della Trabant. Perché se “da ognuno secondo le proprie capacita’, ad ognuno secondo i propri bisogni”. Si tratta di ridistribuire equamente le risorse e la fettina di torta per ciascuno sarà uguale ma non sarà grande. Ma non volevano una cosa del genere, volevano esattamente la fetta che avevano prima. Volevano – appunto – un capitalismo come quello nel quale avevano nuotato sino a ieri. Volevano ricominciare a vendere per poi consumare, per poi vendere ancora e consumare di nuovo.

Io ho visto gente che rivoleva la gabbia perché neppure sa di essere in gabbia. Non c’era l’idea di un modello alternativo, c’era solo un urlo sottinteso: “rimettete in moto la macchina”. E la macchina si chiama capitale.

Non pretendo coscienze sociali che non si possono chiedere. Ma se questa che ho visto era l’avanguardia posso agevolmente immaginarmi la massa alla cui testa si muove. Non c’è nessuna parentela con l’iconografia di Pellizza da Volpedo.

Mi si dirà che non si può dividere la lotta anticapitalista cosciente dalla protesta per l’impoverimento. Non si può se si pensa che la massa passerà dallo stadio della lotta protestataria alla scoperta della lotta contro il capitale. E chi dice e su quali basi lo afferma che questa gente che ho visto, incazzata per ciò che ha perso,  maturerà anche la più pallida idea di un modello differente? Certo magari in qualche testo teorico avviene anche questo miracolo. Ma siamo nel mondo.

E il mondo ha visto i tedeschi dell’Est nel 1989 passare il muro e correre a rotta di collo verso il più vicino supermercato di Berlino Ovest. Ed è lo stesso mondo che a Kiev vede un bel po’ di dimostranti scendere in piazza per poter entrare in Europa e non rimanere nell’orbita dei satrapi russi. Naturalmente giusto per far capire che vogliono il capitalismo tirano giù l’ultima statua di Lenin ancora in piedi. Un’altra lotta sacrosanta contro il totalitarismo, o una lotta per entrare nel mondo del capitalismo ben temperato?

Ho visto gente accomunata dal comune scivolamento all’indietro della propria possibilità di essere dentro alla macchina del consumo. E a proposito di macchine, uno mi ha detto che ha dovuto vendersi la Golf GTI che con tanti sacrifici s’era comprato. Una per farmi riflettere sul suo scivolamento all’indietro mi ha detto che tutti gli anni riusciva ad andare a farsi una settimana a Sharm-el-Sheik (abbreviato “Sciarm” con la stessa pronuncia di “sciampista”) e che ora non aveva i soldi per pagarsi il mutuo.

Ed allora ho capito che per dissolvere questo prodromo di “rivoluzione” basterebbe un cambiamento di congiuntura, un po’ più di PIL.

Qualcuno mi ha detto che se non cambierà qualcosa, l’Italia diventerà come la Grecia. Ossia, voleva dire, ci ribelleremo come i greci. Lui crede che ci sia una rivoluzione in Grecia. Esattamente come quelli che credono che quanto è accaduto sia il primo raggio della rivoluzione anticapitalista.

Sarebbe anche bello, ma non è così. Non è così perché nessuno aveva in mente un modello alternativo. E nessuno delle persone che ho visto a quei blocchi metteva in dubbio il modello cui si aggrappava.

Non ci sarà nessuna rivoluzione. Non ci sarà tra un mese, tra un anno o tra dieci. La scorciatoia non arriverà. Perché una rivoluzione, quella vera, è il frutto di un lungo lavoro di penetrazione di idee differenti lungo l’arco di decenni. Voltaire iniziò a scrivere nel 1716 e morì senza aver visto la Rivoluzione che aveva contribuito a rendere cosciente. Qualcuno mi dirà che il rivoltoso che assaliva la Bastiglia nulla sapeva magari di Voltaire. È probabile, anzi, quasi certo. Ma ciononostante quel rivoluzionario aveva chiaro in mente che non voleva più essere parte del regime che assaliva. Ne voleva uno che fosse diverso, non voleva star meglio in quello che c’era.

Perché se è vero che la rivoluzione non è un pranzo di gala, è anche vero che non si improvvisa. Quando si improvvisa è una italica rivolta per il pane: quando cala il prezzo tutti se ne tornano a casa.

giovedì 12 dicembre 2013

Il movimento dei forconi e la realtà

Diario 238

Il movimento dei forconi e la realtà

Non è più sopportabile questa situazione; basta. Sono questi i sentimenti che agitano quanti in questi giorni protestano e sono scesi in piazza. Che sia un mix di forze eterogenee, che all'interno di questo movimento si siano infiltrati organizzazioni fasciste e forse anche criminali, non pare sia rilevante. Non sto dicendo che non sia rilevante per un'analisi attenta della protesta, non mi pare rilevante sugli aspetti di cui vorrei occuparmi. Una cosa è certa la sensazione che la situazione sia insopportabile è comune a chi manifesta e ad altri milioni di italiani che si trovano in seria difficoltà economica. Ma cosa è insopportabile e ancora chi viene individuato come causa di questa situazione?

Se si cercasse di rispondere a questi interrogativi forse la situazione potrebbe apparire ancora più drammatica. La diagnosi che la folla grida in piazza e che moltissimi degli italiani condividono individua nei politici e nelle istituzioni il virus di questa situazione. “Tutti a casa” gridano nelle piazze, influenzati dagli slogan martellanti del “capo” del M5*. È esatta questa diagnosi? No, non è esatta ma è giustificata.

È giustificata dalla pessima immagine che i politici danno di se stessi. Come scrive oggi Nadia Urbinati (La Repubblica) “è responsabilità della politica ridare fiducia nelle istituzioni. Mettendo fine a comportamenti che calpestano la moralità pubblica (il misuso e l'abuso delle risorse pubbliche) e all'impotenza a decidere”. Non mi pare convincente, tuttavia, quando appunta la sua attenzione sulla legge elettorale (ma forse questo dipende dalla sua professione) mestiere.

Sicuramente il porcellum ha contribuito ad allontanare i cittadini dal “palazzo”, ma non si tratta solo di questo. L'immoralità nell'uso delle risorse pubbliche da parte dei politici a tutti i livelli riempie di rabbia il popolo che protesta; ma anche la melina che i politici conducono sulla riduzione dei costi della politica non è priva di effetti negativi; ancora l'insensibilità mostrata dai politici che mentre chiedono sacrifici alla popolazione difendono i propri privilegi, contribuisce ad esasperare. Rimolarizzare i comportamenti, ridurre i privilegi (anche economici), sicuramente non risolve la crisi economica del paese, ma da il senso di una condivisione della crisi e dei sacrifici.

Ma la diagnosi non è esatta. Alle mie orecchie fa scandalo non sentire protestare contro i “padroni” (mi si scuserà questo termine disueto); neanche più le banche e la finanza e nell'occhio della protesta. Quando il giovane emarginato di Torino, spinto a cercare lavoro in Australia, descrive Torino come un deserto di opportunità, come un concentrato di povertà e emarginazione, finisce per individuare il responsabile di tutto questo nella regione e nel suo presidente, per il suo stipendio per l'uso che ha fatto delle risorse pubbliche (anche le mutande si è fatto pagare), ma non ha percezione che la riduzione a quello stato della città e del paese tutto ha anche altri responsabili (per alcuni dei quali la remunerazione del presidente della regione rappresenta lo 0,0004%).

Ma quello che mi fa scandalo, non è il sintomo, cioè l'assenza dell'individuazione dei padroni come causa del disastro, ma la mancanza di analisi della situazione che questa mancanza denota. Ormai lo dicono una buona quantità di studiosi, anche premi Nobel (cioè non pregiudizialmente contrari al capitalismo): il sistema economico sociale che abbiamo conosciuto, che ha anche avuto dei meriti anche sociali, è al capolinea; processi suoi interni, l'ingordigia speculativa, la distruzione di ricchezza operata, l'ambiente compromesso, un progresso scientifico e tecnologico che non sopporta i rapporti sociali preesistenti, sono alcune delle cause della crisi. Siamo di fronte alla “necessità” di una profonda trasformazione (rivoluzione) che dovrà riguarda almeno le modalità di produzione, i modi di distribuire della ricchezza prodotta, e la loro accumulazione, le modalità di organizzare del lavoro necessario e la sua distribuzione equa.

Un mondo con le ineguaglianza attuali, un mondo che non sa guardare al futuro se non come una speranza di ritorno al passato, un mondo che annunzia quotidianamente l'illusione di una prossima uscita dalla crisi, un mondo nella quale la catena sociale si è rotta proiettando pochi in alto e molti in basso fino alla miseria, difficilmente sopravvive a se stesso.

La percezione dello stato delle cose, non manca solo alle persone che protestano, non manca ai capi popoli che li agitano, non mancano a quei dirigenti populisti che vorrebbero approfittarne con ricette salvifiche inconcludenti, ma riguarda la gran maggioranza della dirigenza politica ed economica. Speriamo che si apprestino a leggere qualche libro e qualche articolo.

lunedì 9 dicembre 2013

Reddito di cittadinanza

Diario 237

  • Reddito di cittadinanza 
  • Mandela
  • Il PD di Renzi

 Reddito di cittadinanza

Il reddito di cittadinanza, di sostegno, o con qualsiasi altro nome si suole usare, costituisce una modalità di sostegno pubblico ai cittadini in “sofferenza” (può essere permanente, a tempo, legato ad una situazione di disaggio economico, ad una momentanea o permanente situazione di disoccupazione, ecc.). Può assumere il significato di una solidarietà pubblica o l’affermazione di un diritto; la dimensione di questo sostegno può variare nel tempo; può, o no, richiedere una qualche prestazione da parte di chi lo riceve nei riguardi della collettività; ecc. In sostanza forma, contenuto, dimensione, modalità possono variare nel tempo e nello spazio. 

Sembra una cosa buona e di sinistra. Che sia un provvedimento buono non si fa fatica a crederlo data la situazione sociale del paese; che possa essere fatto proprio dalla sinistra è convincente, ma che sia di sinistra si possono avanzare dei dubbi.

Si tratta di un provvedimento, infatti, che non rimuove le condizioni dalle quali insorgono le situazioni di disaggio che determinano la necessità di un sostegno. Una sinistra, comunque qualificata, deve occuparsi dei sintomi ma anche e soprattutto delle cause. Sono le diseguaglianze che generano questo fabbisogno, ma i provvedimenti di cui si discute non incidono su tali diseguaglianze; la torta della ricchezza prodotta alimenta le capaci fauci di una ristretta parte della popolazione e a chi resta a guardare è concessa una mollica. Per quanto generosa possa essere la collettività tale sostegno non supera il livello di sussistenza in regime astinenza. 

Per altro si introducono livelli di discriminazione ingiustificati: perché il sostegno ad un disoccupato e non ad un giovane che studia?

Più complessa appare la questione del reddito di cittadinanza: questo dovrebbe essere per tutti e per sempre, anche qui problemi di giustizia distributiva complessi: va concesso anche all’amministratore delegato di una fabbrica di automobili, così a caso, che guadagna 2.000 e più volte di un suo dipendente? Un tale provvedimento, inoltre, assume che il sistema economico di produzione possa emarginare una fetta della popolazione che dovrà essere garantita, ma che per non fare sgradevole discriminazione si assegna a tutti.

La sinistra del XXI secolo può non prevedere la proprietà pubblica di tutto o della parte più rilevante del sistema produttivo, ma sicuramente nell’ambito che qui interessa, ha come suo obiettivo primario quello di eliminare (non di ridurre) le diseguaglianze che originano da situazioni di potere, di eliminare ogni accumulazioni di ricchezza trasferibile a figlie o parenti, di garantire lavoro a tutti in una nuova organizzazione della produzione e del lavoro, di promuovere il progresso scientifico e tecnologico per rendere il lavoro non un castigo (… con il sudore della tua fronte) ma un’attività che possa dare soddisfazione.

Se il reddito di sostegno fosse considerato un provvedimento momentaneo e tampone in vista di una grande trasformazione (ormai necessaria come scrivono molti studiosi anche non di scuola marxiana, ma che i nostri politici non leggono) allora sarebbe accettabile e avrebbe una connotazione di sinistra, in caso contrario rischia di essere uno strumento che garantisce il potere e rafforza le catene sociali. 

Detto questo le condizioni di disaggio vanno alleviate, anche con forme di reddito di sostegno, anche perché il disaggio non risulta essere una condizione che alimenta la trasformazione progressista, ma rischia di alimentare i tanti populismi menzogneri e arruffoni.


Mandela

Non c’è ombra di dubbio, Mandela è stato un grande; ha combattuto è sconfitta l’apartheid, una cancrena dell’umanità. Ma contro di lui ha finito per prevalere la forza del sistema. Le discriminazioni di classe in Sudafrica sono violentissime, la popolazione in sofferenza molto ampia. Certo non è colpa sua, ma il risultato merita una riflessione non oleografica.


Il PD di Renzi

Renzi ha vinto e stravinto, qualcuno (io) ha sperato in un risultato meno consistente, fino al ballottaggio, ma non è così. Ma cosa succede? Non mi riferisco al contingente (governo, elezioni, ecc.), ma alla tenuta di medio periodo. 

Il discorso di investitura del nuovo segretario del PD è stato abile e pieno di indicazioni e di impegni. Il “riformismo” come stella polare, ma che cosa “riforma”: il risparmio di un miliardo del costo della politica? Necessario e opportuno; il bicameralismo? Certamente un bene; l’impegno contro le politiche di austerità? Molto bene. Per non parlare di mantenere il bipolarismo, una velleità. Ma tutto questo ci permette di uscire dalla crisi? Credo proprio di no. 

Mi spiace ripetermi, ma non mi pare che nella classe dirigente, politica e no, ci sia piena coscienza della “natura della crisi”. Non si tratta di applicare oggi le ricette del passato, ma questo vale per tutti. A me pare che a Renzi manchi la consapevolezza del livello di trasformazione per i quali sarebbe necessario impegnarsi. Il nostro è un sistema di produzione messo in crisi, profonda crisi, sia dalla finanziarizzazione dell’economia, sia dal galoppante progresso tecnologico e scientifico che rendono assolutamente obsoleto il sistema dei rapporti sociali ereditati. 



Certo c’è un ricambio di dirigenza politica, questo è un bene, ma non credo che basti anche se necessario. Ma è troppo presto per dire come sarà il PD di domani e la politica di Renzi; diffido dei discorsi utilizzati nella campagna elettorale e dei contenuti del discorso di investitura. Non resta che aspettare incrociando le dita e con … poca speranza.

domenica 1 dicembre 2013

Le primarie del PD

Diario 236

Le primarie del PD



Trovo strano che il “segretario” di un partito sia eletto non dagli iscritti al partito ma da chiunque sia disposto a pagare 2 € (vale pogo il segretariato); e come se uno/una decidesse di farsi scegliere la moglie/marito dal primo che passa. Ma comunque la “partecipazione” oggi vuole questo; non un impegno politico nel quale ciascuno ci metta la propria faccia, le proprie energie, la forza per costruzire rapporti politici con gli altri iscritti, la volontà di contribuire alla definizione di una prospettiva di lunga durata e le azioni necessarie nell’immediato; niente di tutto questo oggi bastano … 2€.

Dall’altra parte è anche vero che molte soggetti non se la sentono di affrontare un percorso che sanno per esperienza, o immaginano, pieno di “tempo perso”, di litigi futili, di lotte per il potere (sic!), e simili, ma tuttavia si sentono legati ad una prospettiva progressista e vogliono far sentire il loro peso anche solo con un voto (poco costoso) per l’elezione del segretario del maggior partito progressista.

Personalmente non so se andrò a votare, sono ancora legato, l’età me lo consente, a vecchi schemi (di cui riconosco oggi l’inadeguatezza e l’inutilità), ma se mi decidessi (per vecchio vizio) non avrei dubbi, voterei per Pippo Civati.

La vaghezza di Renzi, le sue parole d’ordine, la sua genericità programmatica, la sua ansia di successo, me lo rendono insopportabile. A Cuperlo riconosco diversi pregi, ma mi pare inadeguato a fare quello che dice che vorrebbe fare. Non dico che Pippo Civati sia il personaggio giusto, ma mi pare fatto di una pasta un po’ speciale, dotato di intelligenza vivace e mostra di credere ad una possibilità di cambiamento meno greve e meno fumosa.

Si lo so, non gradendo Renzi bisognerebbe votare per il suo antagonista più diretto, la solita storia del voto utile/inutile. Io non credo che quello per Civati si possa considerare un voto inutile, la storia non finisce l’8 dicembre, e poi dovessi votare, voterei per quello meno lontano.

Ma perché vi comunico questi miei modesti pensieri? La maggior parte di voi che ricevete il Diario, non mi azzardo a dire tutti, appartenete alla schiera dei progressisti (non mi azzardo a dire socialisti o addirittura comunisti), e molti di voi andranno forse a votare per le primarie del PD, ed allora il vecchio vizio (virtù?) della politica mi spinge a fare un po’ di propaganda per Civati (che personalmente non conosco e che probabilmente non conoscerò mai), mi è piaciuta molto la sua battaglia aperta ed esplicita sulle “ampie intese” (non si è nascosto come i 101 che hanno bocciato Prodi), argomentata politicamente e conseguente al ragionamento avanzato. È poco? Di questi tempi non so.

venerdì 29 novembre 2013

La mancata convalida



Diario 235

La mancata convalida


La formula con la quale il presidente del Senato ha chiuso la questione della permanenza di Silvio Berlusconi tra i senatori, nel suo stile burocratico, mi è sembrata favolosa: “la mancata convalida del senatore Silvio Berlusconi, proclamato eletto nella Regione Molise”.

Bisogna dire che lo stile burocratico in questo caso appare una felice pietra tombale su una questione che aveva accesso gli animi (e la stampa e le TV) negli ultimi mesi. Silvio Berlusconi e le sue vestali e i suoi poeti, meno i suoi avvocati, ha ammannito un delirio di accuse alla magistratura, continue proclamazioni di innocenza rivendicando una vita all’insegna dell’onestà e irreprensibilità di un cittadino modello, la pretesa di una grazia impossibile e la rivendicazione di una rappresentanza di milioni di elettori che avrebbero dovuto renderlo “intoccabile”. Tutto questo è altro ancora, trova il suo compimento nella “mancata convalida”. Non nella “decadenza”, non nell’”espulsione” dal Senato, ma un semplice atto amministrativo di “mancata convalida”. Una beffa per il mancato senatore (non l’ex), e una certa leggerezza nell’animo tra chi non lo ha mai apprezzato (e tanto meno votato).

Il comizio finale, davanti a pochi sostenitori (non si sa quanto volontari), la sfida al freddo (psicologico e atmosferico) con semplice giacca e un dolce vita (ma sembra anche questa un recita, se fosse vero che sotto aveva una muta di neoprene da sub), è sembrato poco credibile proprio nella parte in cui si è impegnato a “restare in campo” per combattere e vincere. Non credo, e non vorrei, che fosse arrestato. La parabola politica di Silvio Berlusconi è finita, ma sarebbe finita anche se “martirizzato” con un arresto. Secondo le previsioni del suo amico Putin se fosse arrestato la prima settimana un milione di persone protesterebbero in piazza, nella seconda settimana cinquecento mila e in tre settimane tutto sarebbe finito.

A me pare che l’avventura del centro destra sia incamminata su binari diversi, anche se non sono chiari quali. Silvio non ha più da offrire un corpo taumaturgico, né un programma, e per quanto scassata sia la società italiana, per quanto corrosa dal ventennio berlusconiano, non si può accontentare di poco credibili surrogati. Quanti applaudono ancora Silvio, insieme ridono delle sue bugie: sull’evasione fiscale, sul bunga-bunga, sulle amate minorenni, ecc. Chi pensa ad una “rivincita” mi pare vittima dell’illusione berlusconiana.

Per quanto assistenza possa offrirgli il suo medico personale, appare provato, ha necessità di un successore, fosse anche una controfigura. Ma dell’eredità familiare non pare poter contare, la figlia maggiore si è sfilata dalla politica; la maggiore della seconda nidiata, che qualche anno fa segnava con forza una differenza rispetto al padre oggi pare appiattita su “papà”, sembra avere aspirazioni politiche, ma paiono velleitarie. Della sua corte non c’è nessuno da prendere, né la Santanchè, né Verdini, né Brunetta, combattenti ma poco credibili. La selezione delle “facce nuove”, come se fosse una selezione per il “Grande fratello”, non penso possa dare niente a questo livello.

Certo che liberati da Berlusconi ci resta il berlusconismo, bestia pericolosa anche per la sinistra o centro sinistra. Ma in questo campo quello che sembrerebbe ragionevole appare flebile e non all’altezza. In sostanza i guai politici di questo paese non sono finiti, che se si aggiungono ai guai economici, diciamo che il futuro appare ancora nero.

Non capisco come presidente del consiglio e ministro del tesoro non ridano di se stessi; almeno con i numeri qualche conoscenza dovrebbero averla: ecco che si inventano una nuova privatizzazione, prescindiamo se giusta o sbagliata, prescindiamo se questo sia il momento giusto, ma dei 12 miliardi che secondo ottimistici calcoli otterrebbero, la metà, 6 miliardi, andrebbero per la riduzione del debito, cioè una cifra da prefisso telefonico, il debito diminuirebbe di circa lo 0,3%. Non fa ridere? O meglio, piangere?     

      

lunedì 25 novembre 2013

Retoriche, ma non bastano



Diario 234



Retoriche, ma non bastano




Non appena nel nostro paese un avvenimento catastrofico, atmosferico o di altra natura, produce vittime e danni, ecco che, a torto o a ragione, le retoriche, sempre uguali a se stesse, ci condiscono la vita. Così è avvenuto dopo l’ultimo disastro in Sardegna. 

La prima è un atto d’accusa, formulato in modo più o meno generica, che ci richiama alle colpe e responsabilità “umane”, e nel caso specifico degli italiani, non meglio definiti se no per il loro vincolo di sangue/terra, e per la “casta” politica (come se questa vivesse in un vuoto sociale). Non si tratta di entità astratte ma di un clima sociale e politico che ha permesso che si realizzassero le condizioni di base per di ogni disastro (cementificazione, seconde case, regimentazione dei fiumi, ecc.).

La seconda è il rimedio: manutenzione del territorio, piccole opere, rilancio di professionalità artigiane e tradizionali, ritorno all’agricoltura.

In ultima l’esaltazione delle grandi possibilità del nostro paese: le sue bellezze, il suo ambiente, la sua qualità storica-artistica, il suo paesaggio, i suoi prodotti della tradizione, e chi più ne ha più ne mette. La loro valorizzazione potrebbe farci ricchi e felici (tutti?). 

Ogni retorica, come è noto, non è completamente campata in aria, pesca nella realtà in modo parziale. 

È certo, per esempio, che c’è una responsabilità degli italiani, ma quale? la smania per la seconda casa, rimanda a modelli culturali e sociali; avere supportati partiti e personalità assolutamente inadeguati a governare il paese, affascinati da imbonitori più o meno “onesti”, ci parla della fuga dalla responsabilità suggerita (un uomo al comando). Infondo l’idea forte era, di fatto, un semplice slogan “arricchitevi” (le tasse ingiuste, ecc.), per questo obiettivo si è sacrificato onore, gusto, cultura. Ma se questo era l’obiettivo allora l’attività dei corruttori e dei corrotti aveva una finalità condivisa; la mano libera agli speculatori era un mezzo. Anche la criminalità organizzata, svolge la sua parte: si tratta di “attività produttiva” che dà da mangiare e il superfluo ad un “esercito”; parte dell’“industria” italiana, a proprio beneficio, alla criminalità organizzata, “branca produttiva e sociale”, si affida per i suoi smaltimenti. Non è una colpa rifiutarsi di continuare a fare l’agricoltore o il contadino, attività povere e faticose. Un paese che si è glorificato di una organizzazione produttiva senza guida e autodeterminata, chiudendo gli occhi sui disastri sociali e ambientali che tali attività determinavano, ha costruito le condizioni del suo disastro, non solo ambientale. Le “condizioni generali” determinavano una finto pranzo di gala con tutti invitati, mentre latitavano scelte industriali adeguate e innovative, i modelli imprenditoriali (nella piccola e nella grande impresa) presentavano un tanfo feudale (nonostante le importanti lotte sindacali, giudicate appartenere al secolo scorso). Il mancato sviluppo ha determinato una situazioni per cui non poche fonti di sostentamento risultavano inquinate, in senso specifico, in senso sociale, in senso illegale fino a criminale.

Ed ecco è la volta delle “grandi opere” da criticare. Certo che se ne sono fatte di inutili e anche dannose, ma molto spesso la loro inutilità riguarda il non averle portate a termine, mentre potevano essere efficaci per migliorare le condizioni di vita delle popolazioni implicate. Il paese ha bisogno di “opere grandi” (non di grandi opere): la manutenzione del territorio non può non essere un “opera grande”, per le risorse da impiegare, per le tecnologie innovative da usare, per il recupero di antiche professionalità scomparse ma da aggiornare. Il recupero del “sapere” tradizionale, non va messo in opposizione e in alternativa al sapere scientifico. Non la ripetizione ci salverà ma l’innovazione.

Il rigetto di ogni innovazione tecnologica e scientifica che sembra attraversare tutta la nostra società, appare pericoloso e insensato; sicuramente ci vuole criterio, ci vuole attenzione, ci vuole conoscenza, e quant’altro, ma se il paese vuole andare avanti dobbiamo guardare criticamente ma consapevolmente all’innovazione, alla scienza, anzi proprio questa dovrebbe essere la nostra opzione e il nostro orizzonte. La “scienza” (antica e moderna) ha costituito un avanzamento importantissimo per la specie umana. I disastri ci parlano del futuro e non del passato, non si tratta di fare passi indietro, ma di fare i giusti passi in avanti. 

I rimedi e la sottolineatura delle grandi possibilità del nostro paese sono delle forzature, spesso pericolose e di fatto inconcludenti, ma soprattutto indifferenti agli effetti che certe scelte possono determinare.

Pensare al nostro paese come il “paradiso perduto” da riconquistare, l’Eden da “valorizzare” (ecco il termine scandaloso) non porta molto lontano. Il patrimonio storico e culturale va curato, manutenuto, preservato, prima di tutto per la nostra cultura, non per farne una merce e un prodotto da marketing. Se si volesse il “ritorno” alla campagna, bisogna sapere che sarà un’agricoltura diversa, non quella dei nostri avi; soprattutto chi “ritorna” o si avvia per la prima volta ai campi, ha necessità e diritto di essere parte di una “metropoli”, non una metropoli di 10 o più milioni di abitanti, ma di una metropoli territoriale in grado di offrire servizi di natura e qualità metropolitana (non possiamo pensare ad un ritorno della dicotomia città/campagna). E qui il paesaggio cambia, altro tema. La specie ha guadagnato maggiori grati di libertà (le sperequazioni sono il problema); scelte individuali possono seguire desideri, convinzioni, opzioni dei singoli. Non bisogna avere avversione per chi sceglie di farsi in casa la salsa di pomodoro, o il pane, o coltiva il suo orto (urbano), ecc. ma pensare che questa sia la strada per il nostro sviluppo e per cambiare la società complessiva non è convincente. 

La retorica della valorizzazione (è sempre questo il tema) delle nostre “produzioni” alimentari e tradizionali appare insopportabile; il marketing che finisce per fare da padrone. Non è scandaloso che qualcuno con intraprendenza e capacità costruisca “catene” di negozi che valorizzano i nostri prodotti, che negozi di questa catena si aprono a New York o Pechino, ecc. si tratta di una attività commerciale, ma non sarà questa la strada del nostro sviluppo (quante famiglie e individui possono quotidianamente “fare la spesa” in queste catene?). 

L’editoria culinaria e le numerosissime trasmissioni televisive di cucina, non costituiscono una moda del momento, ma la trasmissione di un modello di vita e di società: riportare le donne al loro ruolo tradizionale: espulse dal lavoro o impossibilitate ad entrarci, ecco il ritorno ai fornelli (del resto mai abbandonati, ma oggi torna la “missione”). 

Si è, non solo l’Italia, in una temperie di trasformazione economiche che richiederebbero una guida verso grandi cambiamenti, senza di questi la speranza è poca. Cambiamenti nella struttura sociale, nella distribuzione della ricchezza, nell’articolazione del potere. In attesa che questa strada sia imboccata qualcosa si può e si deve fare: prima di tutto una politica nei riguardi del “debito sovrano”; certo una politica per l’ambiente, per il patrimonio e le città, ma anche una politica industriale, una politica per la ricerca scientifica e tecnologica, per la scuola, per lo sviluppo in un “nuovo” regime economico. 

Ma se capisco qualcosa, niente di tutto questo è all’orizzonte. Né pare convincente, forse è addirittura repellente, la prospettiva di essere uno degli Eden per una classe di ricchi sempre più ricca e leggermente allargata, che esclude la grande maggioranza della popolazione (locale e mondiale). Un'illusione reazionaria.
   

      

La generazione innocente di Matteo Renzi

Nuovo articolo su idadominijanni

La generazione innocente di Matteo Renzi

di Ida Dominijanni
E' dura da dire, visto lo stato in cui ogni giorno il Pd mostra di versare, eppure anche stavolta, alla fine, il principale erede della defunta democrazia dei partiti è riuscito ad allestire un congresso ''vero'', con contenuti, poste in gioco e profili di leadership riconoscibili. E malgrado l'intero percorso sia stato viziato da regole traballanti e assurde – tutte: dal tesseramento aperto e pertanto corrotto al populismo del gazebo che consente a chiunque di votare per il segretario di un partito -, alla fine chi andrà a votare l'8 dicembre potrà farlo con cognizione di causa, salvo essere completamente assordato dalla grancassa mediatica che suona pressoché all'unisono per il sindaco di Firenze.
Oscurato, per l'ennesima volta dal 1989 in poi, dalla finta rappresentazione politico-mediatica di un derby fra ''nuovo'' e ''vecchio'', per l'ennesima volta il conflitto è invece sulla direzione dell'innovazione. Non c'è, fra i tre contendenti, chi non si dichiari per il cambiamento: il punto è come cambiare. L'uscita dal ventennio berlusconiano, che è stato anche il ventennio della sconfitta e della subalternità della sinistra, è il problema comune: il punto è come se ne esce. Si deve alla sterzata che Gianni Cuperlo ha impresso negli ultimi giorni alla sua battaglia, affilando la polemica con Renzi, che i termini di questo ''come'' si siano chiariti. Se per Renzi uscire dal ventennio significa portare a compimento l'innovazione che il Pd (anzi il Pds-Ds-Pd) ha lasciato a metà e farla finalmente finita con la genealogia della sinistra, per Cuperlo uscire dal ventennio significa correggere radicalmente la rotta di questa ventennale innovazione, ritrovando e rilanciando quella genealogia. Meno sinistra per Renzi dunque, più sinistra per Cuperlo. Più neoliberismo in salsa blairiana per Renzi, abbandono della ricetta neoliberista, responsabile della crisi economico-finanziaria, per Cuperlo. Meno partito e più democrazia del pubblico e dell'applauso per Renzi, più partito e più partecipazione organizzata per Cuperlo. Meno rappresentanza dell'insediamento sociale tradizionale della sinistra per Renzi, più per Cuperlo. E così via. Chi dei due è più innovatore? Dipende, è ovvio, dalla lettura del ventennio e degli errori della sinistra durante il ventennio. Per Renzi il Pd ha perso e rischia di perdere perché troppo legato alla sua provenienza originaria; per Cuperlo perché l'ha abbandonata.
Sarebbe un gioco da ragazzi rintracciare, dietro i due contendenti di oggi, le due visioni del Pd che si contendono il campo fin dalla sua nascita, e se lo contendevano già nel Pds-Ds, con relativi leader di riferimento: un gioco da ragazzi che tuttavia basterebbe a sfatare la leggenda metropolitana secondo la quale l'innovazione di Cuperlo sarebbe ''zavorrata'' da D'Alema e quella di Renzi invece volerebbe leggiadra senza zavorra alcuna (''rottamandi'' di ogni tipo, e perfino uno come Pippo Baudo, sono saltati sul carro del sindaco di Fitrenze). Meglio concentrarsi invece su un punto che fa la differenza rispetto al passato. E la differenza, in un congresso che comunque sancirà un forte ricambio generazionale ai vertici del Pd, la fa la postura dei tre contendenti – Renzi e Cuperlo, ma anche Civati – per l'appunto sulla questione generazionale.
Un anno dopo le primarie per la premiership che lo videro sconfitto da Bersani, e quindici giorni prima della sua più che probabile conquista della leadership del partito, la cifra più vera della corsa di Matteo Renzi resta quella della rottamazione. Che ha perso qualunque valenza pratica, il carro di Renzi essendo per l'appunto affollatissimo di esponenti delle generazioni precedenti, ma mantiene intatta la sua valenza simbolica. Che sta non solo e non tanto nel giudizio liquidatorio del sindaco su chiunque l'abbia preceduto (con continui svarioni nei riferimenti storici dei suoi discorsi), quanto nella concezione della propria generazione di cui si fa portatore. Anche nel suo intervento alla Convenzione di stamattina non avrebbe potuto essere più chiaro. La sua è la generazione ''di quelli che siamo cresciuti a figurine e serie tv, ma che malgrado la scuola ce lo impedisse siamo riusciti a innamorarci di un libro o di un quadro». Una generazione dunque tre volte vittima, dei padri che l'hanno allevata ''a figurine e serie tv'', della scuola che ci ha messo un carico da undici nel peggiorare le cose, della politica che ha sfigurato la democrazia e via discorrendo. E due volte eroica, perché malgrado tutto questo sopravvive a un destino di abbrutimento leggendo qualche libro e visitando qualche museo e si candida a salvare il paese che l'ha distrutta. Pertanto è arrivato il momento ''di poter dire una volta per tutte che adesso tocca a noi, e che non siamo disposti ad aspettare''.
Questa concezione risentita di una generazione (auto)vittimizzata, innocente perché figlia degli errori altrui e quindi irresponsabile per definizione, cresciuta ai margini e in diritto di accedere al centro del sistema insediandosi direttamente nella stanza dei bottoni, è il vero punto di senso comune, la vera base ideologica di massa, che determina il successo di Renzi, nonché il suo vantaggio sulla qualità evidente di uno sfidante immune da questa concezione come Gianni Cuperlo. Ed è un punto stupefacentemente sottovalutato nel dibattito pubblico, che invece di contestarlo o quantomeno di problematizzarlo lo blandisce e lo legittima.
Una spinta generazionale di tal fatta non può essere il trampolino del superamento del ventennio berlusconiano, perché ne è precisamente l'effetto. E' l'effetto della biopolitica neoliberale, che per decenni ha costruito artatamente e pour cause la guerra generazionale fra pensionati e precari, fra garantiti e non garantiti, fra la fragilità (costosa) dei vecchi e la baldanza dei giovani. Ed è l'effetto (lo scrive, fra l'altro, Civati nel suo documento congressuale, che, sia detto per inciso ma non troppo, è il migliore dei tre sia sulla questione generazionale che sulla questione di genere) dell'evaporazione della funzione paterna incarnata da Berlusconi, una funzione che consisterebbe in primis nel garantire non la guerra ma il passaggio del testimone fra le generazioni.
E' questa la ragione profonda, più profonda delle pur cruciali ricette di politica economica, della continuità di Renzi col ventennio che si candida a chiudere. Assai più discontinua e innovatrice è la postura di chi ha uno sguardo più lungo sul passato, non crede che il presente e il futuro comincino con la propria data di nascita, e delle generazioni precedenti vede sì gli errori ma anche la storia e la tradizione di cui sono state e sono portatrici, e rispetto alle quali non si sente innocente e non si assolve. Jacques Derrida diceva che è così che si eredita, scegliendo che cosa prendere e che cosa lasciare, non per diritto divino a subentrare nello scettro del comando. Ma purtroppo per Renzi Derrida non si scambiava con le figurine e non recitava nelle serie tv.

mercoledì 13 novembre 2013

La crisi dà le carte, la piramide va in frantumi (dario 233)





La crisi dà le carte, la piramide va in frantumi



Gli analisti incrociano i dati e “scoprono”: che i ricchi sono diventati più ricchi e che i ricchi sono anche un po’ aumentati di numero.

Questo significa che la crisi ha distribuito le carte e mentre a pochi ha dato una scala reale ad altri, i molti, ha dato una coppia di due. I pochi hanno ritirato piatti ricchi, i molti hanno perso la loro posta.

Forse l’ho già scritto ma voglio ripeterlo. Tutti abbiamo in mente il triangolo che rappresenta la struttura economica sociale: in basso ci stanno quelli che hanno meno, i poveri, e a mano a mano che si sale si trova chi di ha di più fino al vertice dove ci stanno i pochi ricchi. Tutti sappiamo che tanto maggiore è la distanza tra la base e il vertice tanto più la distribuzione della ricchezza è “squilibrata”, le “diseguaglianze” molto accentuate. Possiamo immaginare, come si ripete continuamente da più fonti, che dentro la crisi c’è stato un spostamento di ricchezza dal lavoro al capitale. Quindi ci si immagina che la distanza nella immaginaria piramide tra base e vertice sia aumentata. Ma questa descrizione forse coglie solo una parte della realtà.

Proviamo ad immaginare che la mano di un gigante (la crisi) stringa la nostra piramide in mezzo, facendo schizzare pochi verso l’alto e molti verso il basso, e trasformando la nostra piramide in una specie di clessidra (anche se le due parti non sono uguali). Questa sembra una descrizione metaforica più realistica. Ma se così fosse le conseguenze sociali e politiche sarebbero gravissime.

Intanto si ha la tendenziale scomparsa del “ceto medio”, certo di atteggiamento conservatore ma possibile alleato con la classe operari per progetti di trasformazione. Il “ceto medio”, la sua analisi, la sua collocazione sociale e politica ha costituito nel passato uno dei temi fondamentali della sinistra (per esempio era un tema affrontato a più riprese dalle rivista di sinistra, Problemi del Socialismo, Rinascita, Società, ecc.); il tema delle alleanze si coniugava rispetto a questa realtà (oltre che a quella cattolica). Non era un nemico, ma neanche un amico, ma poteva diventarlo. 

Oggi il tema è scomparso perché il ceto medio tende a scomparire e la sinistra è già scomparsa. 

Inoltre, e fa il paio con la precedente osservazione, sta per essere frantumata la continuità sociale: la piramide segnava delle differenze sociali ed economiche ma descriveva una società nelle quali i singoli strati erano in continuità con gli altri strati (superiori e inferiori). Una continuità che dava alla società dinamismo e nella quale ciascuno cercava di raggiungere lo strato superiore; che ci riuscisse, in questo ragionamento, non è importante, quello che vorrei cogliere è il dinamismo, la spinta, le motivazioni, ecc. Inoltre la continuità rendeva sensibili verso chi meno aveva, il che costituiva spinta ad una socialità dei diritti. È chiaro, non mi riferisco alla volgare dizione “siamo tutti nella stessa barca”.

I diversi strati erano magari tra di loro conflittuali, ma anche contigui e quindi potenzialmente alleati, potevano trovare momenti e occasioni di accordo per il cambiamento. 

Se così fosse, non voglio farla troppo lunga, la situazione che si sta creando ha notevolissime conseguenze, oltre che sociali, anche politiche. L’incapacità politica, di qualsiasi forza che volesse misurarsi con la realtà sociale per un proprio “progetto”, dipende, credo, anche da questa situazione. Quella che viene chiamata frammentazione sociale, individualismo, solitudine, ecc. è uno degli effetti della rottura di quella che ho chiamato continuità sociale. 

Non c’è soltanto il 99% contro l’1%, ma soprattutto quello che si può cogliere è la lotta dell’1% contro il 99%; e quell’1% ha una grande capacità (economica) di mobilitare la repressione, l’imbonimento, potentissimi apparati ideologici sia per combattere ogni ribellismo (e magari incanalarlo nella violenza non politica) sia per far prevalere una ideologia che renda questo cataclisma come … naturale. 



lunedì 11 novembre 2013

Venezia, chi la salva? (diario232)





Venezia, chi la salva?

Il mio breve intervento su le grandi navi a Venezia ha suscitato interesse e reazioni. Due amici mi hanno scritto, ripropongo i testi con un mio commento.


Ma tu non eri di sinistra? Uno che voleva abolire i privilegi e rendere accessibili a tutti i medesimi beni, persino quelli posizionali? A che titolo vorresti negare a quanti nel mondo lo desiderino di vedere Venezia? So bene che non potranno apprezzarla come l’hai apprezzata tu e come l’hanno a suo tempo apprezzata Simone de Beauvoir e Sartre negli anni Trenta passeggiando alle quattro di notte a piedi scalzi per le calli deserte, ma tant’è, chi sei tu per prescrivere le modalità di percezione della bellezza, per presumere che quella giusta sia la tua?
La dialettica dell’illuminismo ha sempre un versante totalitario…
Un abbraccio da Marco


Caro Marco, mi fai torto e soprattutto ti fai torto. Da dove ricavi che io volessi esaltare i privilegi e proibire a quanti vogliono visitare Venezia l’accesso alla città, né pensavo di imporre una modalità specifica di godere della sua bellezza (la memoria non mi inganna, ma c’è stato un tempo nel quale frequentavi assiduamente, per ragioni di lavoro, Venezia e ne godevi la bellezza; e oggi perché le tue visite sono così rare?) .
È strano che lo dica tu che hai fatto della bellezza delle città la maggiore (l’unica?) componente. Non credo di doverti ricordare che la città è fatta di tante cose, delle sue bellezze costruite (anche bruttezze), della gestione della cosa pubblica e dei comportamenti di chi l’abita o la visita. Venezia è bellissima ma il tasso di invivibilità è altissimo e crescente. 40 mila abitanti stabili e 20-22 milioni di turisti fanno una miscela degradante ed esplosiva (basta frequentare i vaporetti per capire come la situazione può generare in violenza).
Proprio perché vorrei abolire i privilegi mi preoccupo. Ed è questa la ragione della mia critica a che ha governato questa città. Perché, non è difficile immaginare, che prima o poi sarà posto una qualche limitazione all’afflusso, e lo strumento sarà, come è nella natura della nostra società, economico. Sarà un ticket, sarà una imposta di soggiorno, o qualsiasi altra modalità la fervida fantasia dei nostri “esperti” sapranno individuare, per limitare l’afflusso. Sara allora che l’accessibilità a Venezia sarà solo per i privilegiati. Un bene raro può essere discriminato attraverso il regime dei prezzi o razionato. Il secondo fa scandalo, ma lo preferisco, il primo fa discriminazione e privilegio.
Un saluto e grazie.



Caro Francesco,
sulla questione generale delle grandi navi in laguna l’unica posizione univoca è: basta il passaggio delle grandi navi nel bacino di S. Marco.

Poi le differenze si articolano da quella dei “No Grandi Navi”, che le vorrebbero estromettere tout cour, a quelle che propongono diverse soluzioni per il loro transito in laguna. Riassumendo:
- proposta Orsoni (Sindaco) con accesso dal canale dei petroli e ormeggio a Marghera;
- quella dell’Autorità portuale (Costa) con percorso canale dei petroli, canale Contorta (da scavare) e ormeggio Marittima;
- quella di VTP (Venezia Terminal Passeggeri) e altri, passaggio dietro la Giudecca (con canale da scavare) e ormeggio Marittima;
- quella De Piccoli (ex vice sindaco) con ormeggio in bocca di porto a San Niccolò (usando anche manufatti del Mose).

Semplificando:
la proposta Orsoni crea conflittualità tra l’attività portuale industriale e quella crocieristica; entra appena nel merito di questo problema;
le proposte dell’Autorità portuale e di VTP presuppongono nuovi scavi nel corpo della laguna;
la proposta De Piccoli sembrerebbe quella in grado di conciliare gli estremi. Ma, anche questa ha bisogno di essere approfondita.
Sui danni recati dal passaggio delle grandi navi in laguna ogni parte in causa porta elementi pro domo sua, quindi, al limite poco utilizzabili se non in un dialogo tra sordi. C’è un fatto ormai inconfutabile: la crocieristica a Venezia ha creato un indotto economico notevole, ha creato migliaia di posti di lavoro, e su questo punto nessuno può dissentire. Non è stata un’operazione nata dalla bacchetta magica, sono anni che questo fenomeno è andato aumentando per colpa o per merito (punti di vista) degli amministratori locali. Ora si dovrà trovare una soluzione che salvaguardi l’ambiente lagunare e garantisca il lavoro. Non ci sono scorciatoie integraliste. Tertium non datur.

Invece, provo a esprimere il mio personale modo di vedere in questa vicenda. Premetto la mia contrarietà estetica sulla vista di questi mostri giganteschi che umiliano la dimensione di Venezia, lo skyline delle sue costruzioni storiche, poggiate su sedimi che non ne permettevano lo sviluppo verticale, sull’equilibrio sostanzialmente orizzontale delle acque e dei manufatti.

Però vedo un problema che sta a monte della querelle sulle grandi navi, che anzi, da questa viene offuscato. Il moto ondoso. Questo fenomeno, ingigantito dall’aumento inammissibile del carico turistico nella città, è il vero colpevole dei danni alla laguna e ai manufatti che emergono. Ha distrutto ormai il 60% delle barene minacciando di mutare la laguna in un golfo marino, minaccia le fondazioni di rive, case, palazzi, costringendo ad una continua costosa manutenzione delle aree emerse, inibisce qualsiasi tradizione lagunare di mezzi non motorizzati.
Con l’accrescersi del turismo sono aumentati i mezzi per trasportarlo. Sono 1.200 oggi i motoscafi gran turismo, i taxi acquei, le barche per il trasporto delle merci. Questi mezzi veloci solcano ogni giorno canali interni alla città ed esterni della laguna? Si possono ormai limitare o fermare?
Ecco che ritorniamo nuovamente al problema delle grandi navi.

80.000 turisti al giorno visitano mediamente il centro storico, devono essere trasportati e nutriti, sciamano per la città, comprano nei negozi, mangiano, dormono negli alberghi. Gli esercizi commerciali, gli hotel, i ristoranti vanno giornalmente riforniti. A questo si devono aggiungere i 58.000 residenti con le loro necessità.
Un esercito di persone, a cui fanno seguito le salmerie, invadono Venezia, una valanga di merci da distribuire giornalmente. Su un tessuto urbano fragile e non più in grado di assorbirle.
Ecco qual’è il grande problema di Venezia, di fronte al quale anche quello delle Grandi Navi diventa piccolo.  Ciao Sandro

Caro Sandro, sono d’accordo, le grandi navi sono insopportabili ma non sono il problema principale della città, o addirittura l’unico. Il tema è quello dell’uso della città, di questo bene dell’umanità, che si sta cercando di difendere anche dalle acque alte, ma che non si difende dalla mancanza di idee per governarne i flussi turistici.

A me sembra che la situazione ormai è irrisolvibile. L’avere abbandonato a se stesso il turismo, non avere cercato di governarlo, ha ormai creato tanti e tali interessi che sarà difficilissimo scalzarli. Riprendendo quanto scritto da Marco, sono questi i privilegi consolidati, che sfruttano un “bene dell’umanità” senza porsi il problema della sua difesa e conservazione.

Questo è lo spettacolo che va in scena, non mi sento di applaudire.
Ciao e grazie 



Uscere, bidello, ministro (diario 231)





Uscere, bidello, ministro

Mi pare che il Parlamento abbia riconosciuto che il Ministro Cancellieri non ha commesso reato con la segnalazione, alle autorità carcerarie, dello stato di salute della sua amica Ligresti. È discutibile la scelta operata dal Parlamento e la questione non può essere chiusa così. Non si tratta di sapere quanti e nei riguardi di chi il Ministro è intervenuto. L’aspetto del ministro, da questo punto di vista, pare convincente: non è tipo da lesinare interventi umanitari. Ma il problema non è questo.

Come è noto i parenti ci sono dati dalle relazioni di sangue che legano ai genitori e agli altri membri della famiglia. Può quindi capitare che nella cerchia dei parenti ci possa essere una pecora nera, e tanto più stretto è il parente tanto più il suo comportamento colpisce e in qualche modo coinvolge.

Ma gli amici, come è noto, li scegliamo noi. Ci si può sbagliare: il gentile signore, affabile, simpatico, buono e caritatevole in realtà nasconde un abilissimo ladro, o un efferato assassino. Ci si sbaglia e si può rimediare troncando qualsiasi rapporto.

Ma si pesca nel torbido (fosse anche un torbido psicologico) quando consapevoli della poco onestà di una famiglia con questa si stringe amicizia. Certo ci sono le preferenze individuali: è simpatico e chiudo un occhio; non credo ai delitti che gli vengono attribuiti; è il vicino di casa; ecc. Anche questo è comprensibile. Ma questa comprensione vale per tutti? Non credo.

Un alto funzionario dello Stato, un Prefetto, un Commissario prefettizio, un Ministro, non è uno qualunque, non è né un bidello, né un uscire (pur essendo persone rispettabilissime,sono presi ad esempio per l’assenza di potere decisionale sulla cosa pubblica), per questi sarà la propria coscienza ed intelligenza a determinare con chi accompagnarsi amichevolmente. Ma un alto funzionario dello Stato, proprio per il suo potere decisionale, per il riverbero che questo potere emana su tutta la sua vita, compresi i suoi amici, deve stare molto attento alle sue amicizie, e questo anche se il “potere” viene tenuto estraneo al rapporto di amicizia.

La famiglia Ligresti, non era solo chiacchierata, ma il capo famiglia, don Salvatore (il solo titolo di “don” dovrebbe allertare) era stato inquisito per reati gravi, nei quali entrava anche la mafia, anche se prosciolto; era stato condannato, dentro l’inchiesta di tangentopoli, e aveva perso i requisiti di onorabilità con conseguente e obbligatorio abbandono delle cariche nelle sue società.

Una famiglia dalla quale un alto funzionario dello Stato, prefetto, commissario prefettizio e ministro avrebbe dovuto tenersi lontano, ma molto lontano. Così non è stato.

Il Ministro Cancellieri era per questo che avrebbe dovuto dimettersi, ma si è preferito affrontare l’aspetto giuridico della sua telefonata. Capisco che il Presidente del consiglio era preoccupato che tolta una carta tutto il castello di carte che forma il suo governo avrebbe potuto precipitare, ma così facendo si è data un’altra mazzata alla moralità pubblica (cosa di cui non aveva bisogno).

Più alto è il ruolo occupato all’interno della Pubblica amministrazione, più alto deve essere irreprensibile la condotta del singolo, anche nell’ambito della familiarità con terze persone (è una limitazione, certo, ma compensata dalla capacità di decidere) .



Il diversivo delle grandi navi a Venezia

Premesso che le grandi navi da crociera sono orrende, premesso che il loro passaggio nel bacino di San Marco sono un obbrobrio, mi pare che tutta la questione, con un apposito movimento (No! Grandi navi), con una mobilizzazione del consiglio comunale, riunioni ministeriali, progetti alternativi, ecc. costituiscono un diversivo rispetto al degrado cumulativo della città storica.

La marea dei turisti in tutti i mesi dell’anno, in tutte le settimane del mese e in ogni giorno della settimana hanno definitivamente mutato la natura della città storica. Quelli che arrivano con le navi da crociera sono una goccia nel torrente dei visitatori.

Si può fare qualcosa? Ormai non credo, qualsiasi cosa si faccia costituisce un ulteriore incentivo all’aumento del flusso turistico. Bisognava pensarci quindici/dieci anni fa, ma amministrazioni imbelli, incapaci e velleitarie, hanno prodotto questo disastro. Salvarsi la coscienza combattendo le grandi navi, ma di effetto nullo sul degrado complessivo della “città” (o meglio della ormai “non città”) è come mettere un pannicello caldo su una cancrena.



sabato 2 novembre 2013

Solo per sorridere



Selezione di annunzi trovati nelle bacheche delle parrocchie. Solo per sorridere

1. Per tutti quanti voi hanno figli e non lo sanno, abbiamo un’area attrezzata per i Bambini.

2. Giovedì alle 5 del pomeriggio ci sarà un raduno del Gruppo Mamme. Tutte coloro che vogliono far parte delle Mamme sono pregate di rivolgersi al parroco nel suo ufficio.

3. Il gruppo di recupero della fiducia in se stessi si riunisce giovedì sera alle 7. Per cortesia usate la porta sul retro.

4. Venerdì sera alle 7 i bambini dell’oratorio presenteranno l’Amleto di Shakespeare nel salone della chiesa. La comunità è invitata a prendere parte a questa tragedia.

5. Care signore, non dimenticate la vendita di beneficenza! È una buon modo per liberarvi di quelle cose inutili che vi ingombrano la casa. Portate i vostri mariti.

6. Tema della catechesi di oggi “Gesù cammina sulle acque”. Catechesi di domani “in cerca di Gesù”.

7. Il coro degli ultrasessantenni, verà sciolto per tutta l’estate, con i ringraziamenti di tutta la parrocchia.

8. Ricordate nelle preghiere tutti quanti sono stanchi e sfiduciati della nostra parrocchia.

9. Il torneo di basket delle parrocchie prosegue con la partita di mercoledì sera, venite a fare tifo per noi mentre cercheremo di sconfiggere il Cristo Re.

10. Il costo della partecipazione al convegno su “preghiera e digiuno” e comprensivo dei pasti.

11. Per favore mette le vostre offerta nella busta, assieme al defunto che volete far ricordare.

12. Il parroco accenderà la sua candela da quella dell’altare. Il diacono accenderà la sua candela da quella del parroco e voltandosi accenderà uno ad uno tutti i fedeli in prima fila.

13. Martedì sera, cena a base di fagioli nel salone parrocchiale. Seguirà concerto.

venerdì 1 novembre 2013

Fascismo, nazismo, una rinascita (Diario 230)



Fascismo, nazismo, una rinascita

In tutta Europa si osserva la rinascita di organizzazioni che si ispirano sia al nazismo che al fascismo, con il corredo di esaltazione della forza (bruta e brutale), del razzismo, dell’omofobia, del maschilismo (che può prendere anche la piega del femminicidio),tutto condito con ipocrisia moralista.

La cosa non fa meraviglia, questo millennio si caratterizza per “fondamentalismi” (il “mercato”, le religioni, il catastrofismo ambientale, ecc.) e per una crisi economica crescente, cumulativa e mai … definitiva o finita. In questa situazione non è strano che al di là delle fascinazioni ideologiche la gente colpita nella propria condizione di vita o che vede in pericolo il proprio futuro vede una speranza nelle semplificazioni catartiche. È certo che le semplificazioni sono sempre l’effetto di una mancanza di conoscenza e di cultura, di ignoranza della storia e della realtà. Ci sarebbe lo spazio per una grande iniziativa culturale (“battaglie delle idee” un tempo si chiamavano), ma le radici di questa crisi (che è economica, sociale, istituzionale e politica) avrebbero bisogno di altro.

Per quello che interessa, la “sinistra” che fa? Discute (poco), litica (su banalità e su questione di potere interno), prende delle flebili iniziative per cose importanti e necessarie (l’Imu, il cuneo fiscale, ecc.), ma sembra di avere dimenticato che la politica è anche fascinazione (brutto termine, lo so), deve cioè moltiplicare l’adesione perché prospetta una … nuova società.

Una nuova società non è una dittatura ma piuttosto si fonda su un principio di convivenza, di uguaglianza, di libertà, di diritti affermati e operativi, di rispetto reciproco. Insomma un comunismo adeguato ai tempi del nostro sviluppo economico, culturale e sociale, che si fondi sui diritti. Ma vanno anche indicati, in modo generale, quali mezzi usare per realizzare quegli obiettivi, quali ostacoli rimuovere, quali nuovi fondamenti organizzativi e giuridici individuare e dare a questa società.

Non un neo-paradiso ma una società complessa con gradi di contraddizione (modesti) in grado di riconoscere i meriti, mentre fornisce le condizioni perché tutti possano vivere con dignità e soddisfazione (diritti); che eviti diseguaglianze e squilibri; dove il lavoro possa essere occasione di realizzazione e non soltanto sacrificio; dove cultura e scienza siano patrimonio comune; dove il valore d’uso sia prevalente, dove la cifra fondamentale sia la libertà e i diritti.

Genericità, si potrà dire, non si fa fatica a riconoscerlo, ma i principi ispiratori sono fondamentali e poi non si tratta di “disegnare” una “mia” società, ma piuttosto è un “struttura intermedia” (un tempo si sarebbe detto un partito, ma forse oggi ci vuole altro che non sia un “movimentismo” senza radici), che sulla base del lavoro collettivo, della comune ricerca e discussione possa definire in termini più precisi la proposta di nuova società, non un disegno perfetto (quando mai!), ma un chiaro percorso, un’avventura collettiva (che può essere tradotta anche in precisi provvedimenti di cui sia possibile riconoscere sia l’ispirazione sia la strada intrapresa).

Ma di tutto questo non si vede niente (o molto poco), anche perché ci si deve liberare dalla maledizione dell’ ’89: non c’è solo la società di mercato capitalista-finanziaria vincente, si può pensare e lavorare per qualcosa di altro e di meglio.

Per capire, la proposta del reddito garantito si muove nella direzione giusta se non viene assunta come un strumento per correggere un momentaneo (?) “fallimento del mercato”.

Forse non ci si rende conto che è in atto uno scontro tra modelli di società a partire da quello del mercato capitalista-finanziario liberale (e con grosse piantagioni di autoritarismo e di violenza), a quello nazifascista (che può anche essere considerato come una variante del precedente ma che sempre più assume connotati propri), a quello “religioso” (in qualche modo trascendentale), a quello del naturalismo estremo che difende la specie insieme a tutte le altre, ma in realtà ha immanente un disegno di società non proprio libertaria. Solo degli esempi. Quello che manca è il modello del comunismo all’altezza dei tempi.

Tragicamente si può anche sostenere che lo scontro tra modelli di società sia una “finzione letteraria”, perché in realtà la società globale di mercato capitalista-finanziario è capace di far convivere in sé queste diverse forme di società, magari con conflitti (anche violenti) ma non distruttivi della sua essenza e soprattutto con strumenti autoritari) Ma si tratta di mettere in campo un modello di trasformazione (il comunismo all’altezza dei tempi)che si basi su una rivoluzione sociale fondata su individui liberi e consapevoli. Una mancanza che non lascia margini a speranze anche per la “nostra” inettitudine.


Negazionismo

Un gruppo di storici ha lanciato un appello contro la legge che definisce reato il negazionismo. Mi pare una posizione fondata anche perché, come scrivono, fare una legge serve a “mettersi il cuore in pace, e non fare niente”. Se tutte le manifestazione di ignoranza dovessero essere sanzionate dalla legge si dovrebbe predisporre una legge contro i “creazionisti” o meglio contro chi nega l’evoluzionismo, contro chi nega lo sbarco sulla luna, ecc. Tutti sullo stesso piano? certo che no, ma la realtà storica non può imporsi per legge.

Di seguito l’indirizzo del sito dove volendo si può aderire.
http://www.italia-resistenza.it/in_ evidenza/negazionismo-petizione-insmli-1070/


10 Domande

Segnalo, come richiesto, l’iniziativa di Vittorio Capecchi e lo ringrazio

Caro Francesco, ho pubblicato su www.inchiestaonline.it<http://www.inchiestaonline.it> le tue 10 domande facendone un concorso (chiedendo a chi legge di formularne di nuove e diverse) ovviamente aperto all'inventore e ai suoi amici. Puoi reclamizzare il concorso a chi invii il tuo blog? Un saluto affettuosissimo Vittorio

lunedì 28 ottobre 2013

Consumo di suolo e riconversione ecologica delle città, Luisa Calimani







Contributo ad una proposta di Legge su “Consumo di suolo e riconversione ecologica delle città”

(Luisa Calimani)



Premesso che le questioni trattate dovrebbero far parte di un organico disegno di Legge sul Governo del Territorio, consapevoli della difficoltà di raggiungere in questa legislatura un accordo onorevole sulla legge che rappresenta la carta costituzionale della pianificazione urbanistica, dalla quale far discendere comportamenti virtuosi per Regioni, Comuni e Aree Metropolitane in rapporto alle competenze ad essi attribuite dal titolo V della Costituzione, è opportuno e necessario affrontare con tempestività temi che presentano caratteri d’urgenza. Tutti i dati relativi agli attacchi aggressivi che si sono perpetrati ai danni del territorio dicono che non si può attendere. La superficie impermeabilizzata , dal 1956 al 2000, ha subito in Italia un aumento del 500%, vengono consumati ogni giorno 100 ettari di territorio inedificato.

Se però la risposta che verrà data, sarà solo di “indicazioni” e “principi”, non solo la Legge non produrrà alcun effetto positivo, ma creerà l’alibi per comportamenti analoghi a quelli già praticati.

Assume sempre maggior rilevanza controllare il consumo di suolo nelle fasi previsionali ed attuative degli strumenti urbanistici e lo “strumento” dell’impronta ecologica appare il più adeguato per misurare e monitorare l’impatto dei piani sul territorio.



L’obiettivo della Legge è migliorare le condizioni di vita degli esseri viventi, sia nelle aree antropizzate che in quelle naturali e agricole. Ciò avviene attraverso il maggior rispetto della natura, la tutela dei territori non edificati, un modello urbano che sappia creare condizioni di benessere alle persone e che contribuisca ad estendere l’esercizio della democrazia di cui la città è stata per secoli la culla. Una città nella quale la rendita urbana sia restituita agli abitanti in forma di servizi e opere che realizzano la città pubblica.

Il modello insediativo diffuso rende difficile una chiara definizione di ciò che rientra nel territorio urbanizzato e non urbanizzato. Quindi sarebbe opportuna una suddivisione in categorie alle quali far corrispondere diverse prescrizioni: gli spazi aperti, quelli semiurbanizzati e quelli della città consolidata

La dispersione insediativa ha provocato non solo consumo di un bene prezioso e “finito” come il suolo causando danni economici e dissesti idrogeologici dovuti alla riduzione della superficie permeabile dei terreni, urbani ed extra urbani, ma ha anche causato costi infrastrutturali consistenti che sono gravati sui bilanci pubblici del Comuni.



Il suolo esterno al perimetro dei centri edificati va quindi tutelato impedendo nuove espansioni, ma questo deve avvenire nel rispetto e nella difesa degli agglomerati urbani, della loro identità, dei diritti urbani dei cittadini di avere un ambiente sano e confortevole in cui vivere.

Nelle città vive l’80% della popolazione

Il degrado urbano è insieme degrado edilizio, urbanistico, sociale e ambientale

La rendita urbana ne è la causa principale

I vuoti urbani sono un bene prezioso che deve essere preservato e difeso dagli attacchi della speculazione edilizia

La rendita si sviluppa dove più alta è la remunerazione del capitale investito. A parità di costi di costruzione, gli immobili assumono valori molto più elevati nelle aree urbane centrali rispetto a quelle periferiche, e dove gli indici di edificabilità sono più alti. Il plusvalore determinato dalla localizzazione dell’immobile e dalla destinazione d’uso delle aree attribuita dagli strumenti urbanistici pubblici deve essere restituito alla collettività.



Le strane convergenze che si sono manifestate fra ambientalisti, neoliberisti, speculatori e costruttori, sul tema: stop al “consumo di suolo” extraurbano e incontrollata invasione, occupazione, densificazione di quello urbano, derivano dal fatto che le lottizzazioni periferiche ormai rimangono invendute, che la crisi edilizia impone di concentrare gli interventi e gli investimenti nei più redditizi territori centrali e che questo deve essere favorito da una cultura o incultura urbana sorretta da leggi che lo consentano.

In questo modo le città verranno saturate e devastate irrimediabilmente. Salvare i territori agricoli è necessario, ma non lo si può fare consumando le poche aree libere e permeabili rimaste all'interno dei tessuti edificati, preziose per il benessere fisico e sociale dei cittadini, per un miglioramento del microclima urbano, per un adeguato soleggiamento dei fabbricati e necessarie per evitare i sempre più frequenti allagamenti.

La così detta “densificazione” delle città, indicata dalle proposte di legge presentate quale alternativa al consumo di suolo agricolo, aumenterebbe la sofferenza di tessuti urbani già congestionati, privi di servizi adeguati, di aree verdi, di viabilità e mezzi pubblici sufficienti ed efficienti.

Vanno rafforzati gli interventi per estendere e qualificare gli spazi inedificati nelle aree urbane, mantenendoli permeabili, attrezzandoli prevalentemente con alberature e tappeti erbosi, destinandoli ad usi pubblici e sociali.



Poiché le Amministrazioni Comunali hanno gravi problemi finanziari, l’acquisizione di aree per servizi pubblici (che divengano patrimonio indisponibile del Comune), può avvenire anche con lo strumento della perequazione urbanistica e la loro gestione con i metodi proposti dalla legge n° 10/2013 sul verde urbano.

Un ettaro di terreno urbano tenuto a prato con 150 alberature: assorbe quasi 30 tonnellate annue di Anidride Carbonica; produce oltre 5 tonnellate annue di Ossigeno; traspira/evapora quasi 33 tonnellate annue di acqua; la temperatura media di una città è di 0,5-1,5 gradi superiore a quella delle campagne circostanti. D’estate l’aria soprastante un prato alberato può avere una temperatura inferiore anche di 15 gradi rispetto ad una superficie asfaltata.

I parametri ecologici sono in grado di trasformare positivamente il microclima urbano influendo sulla temperatura e sul grado di umidità

A questi aspetti ecologici si aggiungono i benefici sociali che gli spazi pubblici offrono come luoghi di aggregazione e di relazione. Sono gli spazi, che fanno di un luogo costruito, una città e non un ammasso di cemento come diventerebbe saturando tutte le aree ancora inedificate.

Anche un campo abbandonato è meglio di un nuovo condominio. I ragazzi, soprattutto delle periferie urbane, trovano in esso l’unico spazio in cui giocare. Riqualificazione non è sinonimo di costruzione. Quindi va abbandonato l’uso di forme surrettizie di aumento di cubature non controllate che producono un esubero di volumi extra Piano, eccedenti rispetto alle sue previsioni dalle quali derivano la necessità di verde, servizi, trasporti urbani ed extraurbani, impianti, strutture e reti tecnologiche. Il Piano è quindi lo strumento nel quale devono essere contenuti tutti gli elementi necessari alla sua definizione senza ricorso a correzioni/implementazioni volumetriche successive e spesso arbitrarie; è suo compito prevedere le soluzioni e gli strumenti concreti per procedere alla riconversione ecologica di parti di città, al trasferimento di volumi dalle aree improprie, alla costruzione di edifici con parametri energetici rispettosi dei regolamenti. La “contrattazione” produce aumenti volumetrici non previsti, non conteggiati, ai quali non corrispondono quindi, aree per servizi e reti di trasporto adeguate. L’uso di strumenti quali permute, compensazioni, perequazione (come finora realizzata), crediti edilizi, premi volumetrici, sono merce di scambio pubblico/privato che nulla ha a che vedere con la buona pianificazione urbanistica e le esigenze dei cittadini. Sono formule inventate da una cultura liberista che tratta la città, non come un organismo complesso, ma come una merce e ha prodotto quartieri degradati, mancanza di alloggi a canoni calmierati, territori in permanente condizione di rischio.



La perequazione è uno strumento già correntemente usato nei comparti edificatori e di fatto negli strumenti urbanistici attuativi. Si è caricato impropriamente, negli ultimi anni, di significati non corrispondenti alle pratiche attuative usate, che hanno visto uno scambio pubblico/privato, prevalentemente sbilanciato a favore del secondo soggetto. Lo scopo della perequazione, che aveva un forte senso di equità quando i terreni per servizi pubblici venivano espropriati a 1000 lire a metro quadrato mentre oggi hanno valore di mercato, deve essere quello, non solo di equiparare economicamente tutti i cittadini proprietari di aree, in modo da rendere indifferente per i proprietari dei terreni la destinazione d’uso prevista dal Piano, ma di realizzare contestualmente alla città privata anche la città pubblica. Questo obbiettivo si raggiunge, se la città è pianificata e programmata nella sua attuazione, in modo da comprendere progressivamente nella sua realizzazione ogni sua parte e ogni funzione. Alla equità corrispondente alla distribuzione dei benefici economici ottenuti da tutti i proprietari dei terreni in misura delle loro condizioni effettive, corrisponderà una equità collettiva nella distribuzione di tali benefici sotto forma di servizi e dotazioni territoriali.

Lo strumento del Project Financing, (che va in porto in un caso su quattro) è una voragine che risucchia il denaro pubblico privatizzando parti importanti di città e di manufatti di rilevanza non solo urbana. Troppo spesso in periodi di scarsa disponibilità della finanza pubblica si ricorre a questo strumento giustificandolo con il vantaggio economico che ne deriverebbe al Comune. Ma questo non avviene praticamente mai e sulla collettività vanno a gravare gli introiti considerevoli di cui si appropria il privato.

La moralità nella gestione della cosa pubblica, le regole su cui si basa la certezza dei diritti individuali e collettivi, è il fondamento di una buona gestione del territorio e del benessere urbano. La corruzione si avvale di strumenti che lasciano discrezionalità, elasticità, arbitrio.



La decadenza dei vincoli delle aree destinate a servizi pubblici produce della città mostro. Le città senza servizi sono solo un ammasso di cemento, legittimato a riprodursi senza che le aree che servono per lo svolgersi della vita urbana, scuole, parcheggi, verde, ospedali e persino le strade, siano garantiti. E’ un’aberrazione prodotta dalla sentenza della Corte Costituzionale alla quale nessuna Legge ha ancora posto rimedio. E’ quindi urgente intervenire con soluzioni che, da un lato prevedano Piani comunali generali (o Piani di assetto del Territorio) non conformativi, dall’altro che dopo 5 anni dall’approvazione del Piano operativo (o Piano degli interventi) decadano tutte le previsioni in esso contenute sia riguardo all’edificabilità dei suoli, che dei servizi pubblici e privati.

Da questo consegue che non esistono diritti acquisiti e che il nuovo piano può legittimamente modificare ogni precedente destinazione d’uso, a meno che non sussistano atti concessori o autorizzazioni rilasciate o convenzioni stipulate.

Saranno così rispettati tutti i diritti, sia quelli privati che quelli collettivi. E’ necessario che anche a questi ultimi sia dato il giusto riconoscimento per rendere la città socialmente più equa e democratica



Se si indeboliscono o azzerano le possibilità edificatorie nei terreni esterni alla città, è evidente che le tensioni, le spinte, gli interessi speculativi delle imprese/immobiliari si riverseranno nei centri urbani, saturando e “densificando” luoghi sui quali si dovrebbero concentrare, non colate di cemento, ma politiche di espansione degli spazi pubblici, di aree verdi, di interventi di edilizia sociale, di luoghi di comunicazione e aggregazione soprattutto nelle aree periferiche e degradate.

E’ necessario monitorare le trasformazioni e soprattutto dare concrete indicazioni sulle regole che i processi di trasformazione delle aree urbane devono rispettare, sia riguardo la permeabilità dei suoli che di vivibilità e igiene urbana . Se non verranno indicati parametri di sostenibilità urbana adeguati alla riqualificazione vera dei territori, se la densificazione non è accompagnata dal recupero di una maggior superficie permeabile, se i mc non più realizzabili nelle aree rurali cementificheranno gli spazi vuoti interstiziali fra gli edifici, se i quartieri fatti di case con giardini privati saranno sostituiti da edifici plurifamiliari senza un adeguato, almeno equivalente, spazio verde, se nell’area inutilizzata di una fabbrica dismessa verrà costruito un ipermercato con conseguente appesantimento del traffico, la qualità urbana non ne trarrà alcun vantaggio, ma peggiorerà gravemente le “condizioni limite” in cui si trova.

I processi di trasformazione urbana quindi devono essere saldamente guidati dalla mano pubblica anche attraverso l’atto legislativo che ponga le condizioni e i parametri della sostenibilità ecologica e sociale, altrimenti le città percorreranno una via senza ritorno verso un degrado, non solo urbanistico, irreversibile.

Gli incentivi volumetrici per gli operatori che intervengono nel tessuto urbanizzato e le politiche di defiscalizzazione sono innanzi tutto incoerenti rispetto alla maggior redditività degli interventi negli ambiti urbani rispetto a quelli extraurbani, ma non tengono conto che in Italia, la proprietà immobiliare è più frammentata che altrove e la riconversione del tessuto edilizio anche degradato di cui l’urbanistica parla da decenni non si è mai realizzata per questa ragione e per la mancanza di politiche di sostegno che in Italia per pigrizia mentale e forse non solo, si propongono sempre in termini di volumi aggiuntivi. Restano così nella effettività dei comportamenti solo le pratiche di consumo di suolo libero interno alla città e di sostituzione edilizia di capannoni dismessi che diventano quasi sempre nuovi supermercati, nell’indifferenza assoluta del recupero di qualche traccia del patrimonio storico e architettonico dell’attività industriale a suo tempo svolta.



La “moratoria” richiesta fino all'attuazione degli adempimenti regionali previsti all'art 11 del presente testo, non significa blocco dell'edilizia, bensì l'avvio di quella riconversione del settore che da tempo si auspica, verso opere di cui il territorio ha urgente bisogno. Dal risanamento di siti inquinati, alla prevenzione di frane e dissesti idrogeologici, alle realizzazione di reti fognarie e sostituzione di quelle idriche che disperdono il 40% di acqua potabile, alla manutenzione e messa in sicurezza degli edifici pubblici a partire da quelli scolastici, alla riconversione ecologica di singoli edifici pubblici e privati. Già attualmente quasi il 50 % degli interventi nell'edilizia è rivolto al già edificato. E' un modo saggio di costruire un futuro per le città e il territorio, sostenuto dalla filosofia e dalla prassi contenute nella legge, che deve indirizzare verso un processo di riconversione ecologica.

Ai sensi dell’art. 117 del Titolo V della Costituzione, il Governo del territorio è materia di legislazione concorrente fra Stato e Regioni. Lo Stato ha legislazione esclusiva sulla tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali. Il Codice Urbani è intervenuto sul tema del paesaggio, tema trattato efficacemente dalla Convenzione Europea ratificata dall’Italia con Legge n° 14/2006. La Repubblica italiana è quindi chiamata ad attuare le disposizioni della Convenzione sull’intero territorio nazionale e a conformare i propri atti legislativi agli obblighi ed ai principi derivanti da tale trattato internazionale. La Convenzione ai sensi dell’art. 2 “si applica a tutto il territorio delle Parti e riguarda gli spazi naturali, rurali, urbani e periurbani. Essa comprende … sia i paesaggi che possono essere considerati eccezionali, sia i paesaggi della vita quotidiane sia i paesaggi degradati”. La Legge ha quindi il dovere di occuparsi non solo della tutela e della valorizzazione degli straordinari paesaggi dei quali è ricco il nostro Paese per proteggerli dalle devastazioni che li hanno finora colpiti, anche attraverso un più severo controllo delle pratiche abusive, ma deve altresì, come dice la convenzione Europea sul Paesaggio, intervenire in quei contesti urbani e periurbani anche degradati, con regole che ne assicurino una qualità aggiunta per chi li abita e non diventi, la legge stessa, pretesto per redditizie operazioni immobiliari.

Vanno tutelate da nuove trasformazioni urbanistiche, intese a consentire nuove edificazione o impermeabilizzazioni del suolo, le parti di territorio semiurbanizzato non edificate, le aree agropolitane che separano fra loro piccoli e grandi agglomerati urbani, le aree interstiziali che penetrano nel tessuto urbanizzato istituendo così un nuovo rapporto fra città e campagna. Le azioni sul paesaggio e l’ambiente che costituiscono materia di competenza esclusiva dello Stato debbono essere ordinate secondo criteri che valorizzino gli spazi naturali, agricoli e abbandonati, nella loro funzione produttiva, ma anche di recupero e valorizzazione paesaggistica. Il paesaggio assume un ruolo portante, non solo nelle aree “di non comune bellezza” di cui all’art 136 del Codice Urbani, ma anche in quelle che servono a definire il confine fra le aree edificate, che tendono in alcuni contesti a non avere soluzione di continuità neppure in corrispondenza dei perimetri amministrativi. La conservazione degli spazi aperti che separano fra loro agglomerati urbani, impedendo la loro “saldatura” e il progressivo espandersi dello sprawl urbano, costituisce un valore intrinseco del paesaggio e favorisce la costruzione di corridoi ecologici individuati nella pianificazione d’area vasta e nei piani regionali con valenza paesaggistica previsti all’articolo 134 del Codice Urbani. La costruzione e la conservazione del Paesaggio devono essere paradigmi fecondi nell’agire, sia sui riconoscibili elementi di identità delle aree rurali e naturali e sia nelle trasformazioni urbane di aree degradate o abbandonate sulle quali si gioca il destino delle città. E' in queste aree che andranno prevalentemente indirizzati i futuri interventi edilizi, quindi la loro trasformazione deve essere saldamente guidata dalla mano pubblica, che attenta all'inserimento nel disegno urbano comlessivo, deve definire nuove destinazioni d'uso compatibili con l'intorno edificato. Sono aree spesso ubicate in luoghi strategici che possono diventare luoghi di eccellenza attraverso l'attribuzione di funzioni di alto livello tecnologico e culturale corrispondenti ad un moderno, avanzato concetto di sviluppo urbano. Gli interventi di trasformazione devono rispondere a criteri di sostenibilità urbana sotto il profilo ambientale e sociale. La rigenerazione urbana non può quindi prescindere da parametri che sostengono la qualità esterna ed interna all’area di intervento, in termini di trasporto pubblico locale, di risparmio energetico degli edifici, di quantità e qualità degli spazi pubblici, di smaltimento dei rifiuti, di recupero dell’acqua piovana, di armonia e bellezza, di permeabilità dei suoli e difesa da ogni forma di inquinamento.

La partecipazione democratica di cittadini e associazioni migliora la qualità dei progetti urbani e territoriali perchè spinge verso le esigenze vere della gente, del territorio, dell'ambiente sottraendoli a regole che rispondono solo ad interessi finanziari e immobiliari. Va rafforzato il peso degli organi democraticamente eletti, che si è negli anni ridotto a favore degli esecutivi. Il restringimento della democrazia negli organismi eletti, sopratutto riguardo a Piani e atti urbanistici sottratti all'approvazione dei Consigli comunali e regionali provoca un impoverimento della città e delle sue risorse umane e culturali e limita il protagonismo dei cittadini nelle scelte del proprio habitat.

In particolare è necessario estendere il controllo democratico alle grandi o pere che spesso devastano il territorio sacrificando aziende e terreni agricoli fertili

E' necessario che alle regole e agli indirizzi contenuti nella Legge corrispondano azioni coerenti rafforzate dall'assegnazione di finanziamenti pubblici ad opere di prevenzione e risanamento del territorio e delle città e alla sostenibilità ambientale così come descritta nella definizione ripresa e trascritta dalla Carta di Aalborg

Il titolo della legge rappresenta due punti focali che sono fra loro inscindibili: la tutela e valorizzazione delle aree agricole e naturali e la riconversione ecologica della città. La visione ecologica apre una nuova prospettiva alla lettura del territorio e degli strumenti usati per il suo governo. I tecnicismi della disciplina urbanistica, che si prestano a manipolazioni che poco hanno a che fare con le esigenze della gente e dell'ambiente, se si guardano con i parametri dell'ecologia, assumono un nuovo significato, ripristinano valori e gerarchie collocandoli in una nuova dimensione urbana e territoriale, provocando una rivoluzione culturale nella stessa disciplina urbanistica.

La presente Legge, oltre a dettare principi generali in materia di Governo del Territorio, intende dare risposte e soluzioni, attraverso un apparato normativo chiaro, a questioni sospese da anni sulle quali le Regioni non hanno la potestà costituzionale di legiferare.



1) Oggetto e finalità

a) l’obiettivo della Legge è migliorare le condizioni di vita degli esseri viventi, sia nelle aree antropizzate che in quelle naturali e agricole, attraverso il maggior rispetto della natura, la tutela dei territori aperti, un nuovo modello urbano che sappia creare condizioni di benessere alle persone, miglioramento delle condizioni di qualità, sicurezza, e fruibilità collettiva del territorio. Va data priorità alla conservazione della natura, alla gestione prudente degli ecosistemi e delle risorse primarie, alla tutela e alla valorizzazione del paesaggio e del patrimonio storico, artistico e culturale, alla qualità degli spazi urbani, dell’architettura, delle infrastrutture. A tal fine gli obiettivi di conservazione, tutela e valorizzazione fanno parte irrinunciabile di ogni atto di governo suscettibile di incidere sulle condizioni dell’ambiente urbano, del paesaggio e del patrimonio naturale e culturale.

b) Tutte le scelte relative alla conservazione e alla trasformazione del territorio, debbono pertanto essere informate dai seguenti principi:

- prevalenza dell’interesse generale su quello particolare e dell’interesse pubblico su quello privato.

- attribuzione alla risorsa ambientale di un valore primario per la collettività

- promozione di un uso del territorio che favorisca l’equità, estenda la partecipazione e la democrazia nella consapevolezza che il territorio è un bene comune ed ogni azione compiuta da soggetti pubblici e privati deve essere ispirata e compatibile con questo principio, consapevole che il suolo è una risorsa “finita” e quindi da preservare da consumi impropri e devastanti per l’intero ecosistema.

c) La legge impegna a :

promuovere la qualità della vita degli abitanti attraverso 1) l’offerta di spazi e servizi che soddisfino bisogni individuali e favoriscano relazioni sociali 2) la riduzione del tempo destinato agli spostamenti individuali e collettivi 3) la tutela della salute attraverso la riconversione dei fattori che producono agenti inquinanti

sviluppare il senso e il valore della cura, della cultura, dell’identità dei luoghi generatori dei diritti di cittadinanza

affermare il valore imprescindibile della unità del territorio nella globalità dei significati, ecologici, storici, culturali e sociali

2) Definizioni

a) il suolo è lo strato superiore della crosta terrestre, costituito da componenti minerali, organici, acqua, aria e organismi viventi. Esso rappresenta l’interfaccia tra terra, aria e acqua e ospita gran parte della biosfera. Svolge funzioni fondamentali di ospitalità e di nutrimento per gli ecosistemi e le produzioni agricole, di sequestro del CO2, di raccolta e filtraggio delle acque meteoriche, di supporto fisico e morfologico per le attività antropiche e di componente essenziale per la caratterizzazione del paesaggio. Ai fini della presente legge, per suolo si intende anche la superficie di terreno che, nelle aree urbanizzate, non è coperta da manufatti e non fa parte dell’area di pertinenza degli edifici.

b) l’ impermeabilizzazione: l’azione antropica che ha come conseguenza la copertura permanente del suolo.

c) sostenibilità ambientale significa la conservazione del capitale naturale. Ne consegue che il tasso di consumo delle risorse materiali rinnovabili, di quelle idriche e di quelle energetiche non deve eccedere il tasso di ricostituzione rispettivamente assicurato dai sistemi naturali e che il tasso di consumo delle risorse non rinnovabili non superi il tasso di sostituzione delle risorse rinnovabili sostenibili. Sostenibilità dal punto di vista ambientale significa anche che il tasso di emissione degli inquinanti non deve superare la capacità dell'atmosfera, dell'acqua e del suolo di assorbire e trasformare tali sostanze. Inoltre, la sostenibilità dal punto di vista ambientale implica la conservazione della biodiversità, della salute umana e delle qualità dell'atmosfera, dell'acqua e dei suoli a livelli sufficienti a sostenere nel tempo la vita e il benessere degli esseri umani nonché degli animali e dei vegetali.

d) l'impronta ecologica: è un indicatore aggregato che consente di associare le diverse forme di impatto umano sull’ecosfera riconducendole ad un denominatore comune, cioè alla superficie direttamente o indirettamente impiegata dalle attività antropiche, rendendo possibile sommare in modo coerente i contributi che derivano anche da fenomeni molto diversi tra loro. Tale metodologia permette di valutare gli effetti ambientali dei consumi di energia e di materia e della produzione dei rifiuti. L’Impronta Ecologica esprime la superficie in ettari necessaria alla produzione delle risorse utilizzate per il sostentamento di una determinata comunità e all’assorbimento dei rifiuti da essa prodotti. Una condizione essenziale per garantire la sostenibilità ecologica consiste nel verificare che le risorse della natura non siano utilizzate più rapidamente del tempo che serve alla natura per rigenerarle e che i rifiuti non siano prodotti più velocemente del tempo che è loro necessario per essere assorbiti, conoscere quindi quanta natura è disposnibile rispetto alla quantità di natura usata.

3) consumo di suolo extraurbano: I Comuni provvedono a definire il perimetro del centro edificato e delle eventuali frazioni e nuclei sparsi. Il perimetro è tracciato con linea continua aderente ai lotti degli edifici esistenti posti sul limite dell’area agricola e naturale. L’area esterna a tale perimetro non potrà essere soggetta a nuove edificazioni e a impermeabilizzazioni che non siano legate alle attività agricole o giustificate da interesse pubblico, fintanto che le Regioni non abbiano definito i criteri di riduzione progressiva dell’edificabilità extraurbana per raggiungere, al massimo entro 3 anni dalla data di approvazione della presente legge, l’obiettivo di azzerare il consumo di suolo, riducendo del 50% nel primo anno le ipotesi edificatorie presenti nel territorio extraurbano. Attorno al perimetro del centro edificato principale sarà individuata una cintura verde con funzioni agricole, sportive, ecologico-ambientali

4) Censimento delle aree libere e consumo di suolo urbano e periurbano: ogni Comune provvede al censimento cartografico di tutti gli spazi pubblici e privati inedificati e/o inutilizzati interni al perimetro del centro edificato così come definito all’articolo 1 e li sottopone alla disciplina della presente Legge. La catalogazione deve indicare lo stato di diritto, la consistenza, l’uso del suolo e la destinazione urbanistica cui l’area è soggetta

5) Un piano del verde e delle aree libere nel centro edificato, precederà qualsiasi altro strumento di pianificazione urbanistica e quelli già adottati o approvati dovranno adeguarsi alle nuove disposizioni prescritte nel piano del verde. Il piano attribuirà a ciascuna area libera una destinazione d’uso che comunque non comporti nuove edificazioni e impermeabilizzazioni del terreno. I parcheggi saranno realizzati con materiali drenanti e saranno provvisti di alberature adeguate. Il piano definirà quali aree saranno pubbliche, quali destinate ad uso pubblico, quali ad uso privato. Il Piano prevederà la realizzazione e/o il completamento di piste ciclabili, corridoi ecologici, aree destinate all’agricoltura urbana e periurbana e al soddisfacimento degli standard urbanistici comunali e sovra comunali. Provvederà a fare il censimento degli elementi vegetali significativi esistenti. Il Piano dovrà prevedere la piantumazione di masse arboree, di filari lungo le strade, di cespugli e siepi, anche attraverso prescrizioni inserite nel Regolamento edilizio obbligatorie anche nelle aree di proprietà privata. Il Piano del verde favorirà un nuovo rapporto fra città e campagna inserendo ove possibile cunei verdi nelle aree urbanizzate, contribuendo a definire la forma della città.

6) Impermeabilizzazione dei suoli e aree in trasformazione: nei processi di trasformazione urbana, in particolare quelli che interessano aree con attività produttive dismesse e aree demaniali edificate (caserme ..), la nuova destinazione d’uso attribuita dal Piano deve essere compatibile con l’intorno edificato e non deve aggravare la condizione del traffico urbano. Al 60% della superficie totale dell’area deve essere garantita la completa permeabilità. Il 40% deve essere mantenuto a prato boscato pubblico e il 20% ad altri servizi pubblici di quartiere, urbani ed extraurbani. Le trasformazioni urbanistiche dei tessuti già edificati devono garantire la sostenibilità ambientale, ridurre le superfici impermeabili esistenti e assicurare un miglior risparmio energetico degli edifici ricostruiti, ristrutturati e quelli di nuova costruzione.

7) perequazione urbanistica: gli strumenti della pianificazione comunale e intercomunale (PRG, PAT, PATI o in altro modo denominati) debbono prevedere gli ambiti di intervento perequati ai quali corrispondano accanto a trasformazioni urbanistico/edilizie consentite, la cessione al Comune di aree destinate a verde e servizi dal Piano stesso. L’attuazione del piano deve essere assicurata sia nella sua realizzazione privata che nelle dotazioni territoriali corrispondenti agli standard urbanistici previsti nel PRG e nelle dotazioni ambientali necessarie alla riconversione ecologica della città. Le volumetrie previste nelle aree edificabili, verranno realizzate nelle stesse, come previsto dal Piano, ma saranno teoricamente distribuite nelle aree destinate a servizi pubblici che verranno cedute gratuitamente al Comune. I volumi previsti nel Piano rimarranno invariati sia nella localizzazione che nelle quantità. Le aree, che con destinazione diverse sono inserite nell’ambito definito dal Piano, avranno gli stessi indici teorici di edificabilità. I vantaggi economici derivanti dall’edificabilità contenuta nel Piano saranno così distribuiti equamente fra tutti i proprietari delle aree soggette a trasformazione. Nel caso di aree già edificate soggette a ristrutturazione urbanistica o a piani di recupero si aggiungerà, nel calcolo della distribuzione degli indici attribuiti a ciascuna area, a diversi usi destinata , il valore attribuito agli immobili esistenti.

8) Premi volumetrici, compensazioni, crediti edilizi, fanno parte del Piano urbanistico generale e non possono essere attribuiti a posteriori. Gli spostamenti di fabbricati ubicati nelle aree a rischio, debbono trovare collocazione in aree edificabili previste dal Piano. Mentre le nuove costruzioni si devono tutte adeguare ai parametri di contenimento energetico indicati nelle norme del Regolamento Edilizio senza la concessione di aumenti volumetrici. Potranno essere concesse agevolazioni fiscali, riduzione degli oneri e altre forme che non comportino ulteriore consumo di suolo.

9) decadenza dei vincoli: Alla decadenza dei vincoli (dopo 5 anni dalla loro applicazione) sulle aree destinate a servizi pubblici soggette all’esproprio, sancita dalla Corte Costituzionale, corrisponde automaticamente la decadenza delle capacità edificatorie previste dallo strumento urbanistico comunale. A questo concorre la definizione del Piano generale (PAT) come Piano non conformativo e la validità di 5 anni del Piano degli Interventi (PI o piano attuativo), scaduti i quali decadono tutte le previsioni in esso contenute

10) Nuovi piani urbanistici comunali e loro varianti possono modificare in tutto o in parte, dandone adeguata motivazione, le previsioni contenute nei Piani vigenti, comprese quelle relative alle destinazioni che comportano l’edificabilità dei suoli, qualora non siano già state stipulate convenzioni o rilasciati titoli abilitativi.

11) moratoria: la capacità edificatoria previste nei PRG vigenti è sospesa finchè non è dimostrata, sulla base dell’incremento demografico e di altri parametri stabiliti dalle Regioni la necessità di nuovi volumi edilizi che comunque dovranno rispettare, qualora attuati, le prescrizioni contenute nella presente Legge

12) gli accordi di Programma e altri strumenti di concertazione e negoziazione fra pubblico e privato comunque denominati non possono applicarsi in deroga agli strumenti urbanistici approvati

13) Project Financing: il ricorso allo strumento del Project Financing, deve essere accompagnato da una scheda tecnica/ economica che dimostri il prevalere dell’interesse economico pubblico rispetto a quello privat finanziariao anche attraverso la comparazione di modalità alternative di intervento, compreso quello diretto da parte del soggetto pubblico promotore.

14) nella VAS agli attuali criteri di valutazione va aggiunta quella economico finanziaria. Ogni progetto verrà accompagnato da una descrizione del percorso partecipativo che deve essere assicurato non solo negli aspetti formali, ma nell'accessibilità a tutti gli atti, garantendo margini adeguati di incidenza da parte di soggetti portatori di interessi diffusi

15) la rendita: Il plusvalore derivante dalla trasformazione della destinazione d’uso e degli indici di edificabilità generata dall’approvazione di uno strumento urbanistico di iniziativa pubblica, va quantificato e ceduto al Comune sotto forma di opere o aree (standard di PRG) o di contributo straordinario con destinazione vincolata

16) gli oneri di urbanizzazione secondaria e i contributi di concessione non possono essere utilizzati per la spesa corrente ma debbono essere destinati esclusivamente agli usi per i quali sono stati destinati dalla Legge che li ha introdotti, ovvero per “le opere di urbanizzazione della città e le operazioni di recupero di edifici preesistenti” Le opere di urbanizzazione primaria debbono essere interamente realizzate a cura e spese del lottizzante

17) inalienabilità dei beni pubblici: Gli alloggi destinati ad edilizia residenziale pubblica e le aree acquisite attraverso cessione da parte dei privati anche attraverso lo strumento della perequazione urbanistica non possono essere alienati. Nei piani attuativi e nelle aree del PI (Piano degli Interventi) con destinazione prevalentemente residenziale, deve essere riservata all’edilizia sociale una quota non inferiore al 20% del volume complessivo previsto nel Piano

18) Paesaggio urbano e periurbano: Il valore del paesaggio deve essere assunto come paradigma di un modello nuovo di pianificazione urbana e territoriale. I Piani urbanistici generali e attuativi dovranno individuare coni visuali lungo i quali non va preclusa, con nuove edificazioni, la visibilità di tratti di paesaggio significativo, di masse arboree, di scenografie urbane, di parti di territorio rurale ai margini dell’edificato. I manufatti rurali tipici presenti nelle aree agricole e anche in quelle che hanno perduto l’originaria funzione, saranno salvaguardati e il loro abbattimento (o crollo accidentale) non potrà comportare la ricostruzione del volume perduto. Il risanamento, recupero, consolidamento di singoli edifici o borghi rurali avrà la priorità nella distribuzione dei finanziamenti statali e regionali destinati all’edilizia

19) impronta ecologica: nel Piano Urbanistico Comunale deve essere valutata l'impronta ecologica e la riduzione generata dal Piano nell'arco di previsione temporale dello stesso. Andranno monitorate le fasi intermedie al massimo ogni cinque anni

20) Invarianza idraulica dei suoli. Le Regioni valorizzano, anche attraverso sostegno economico, le operazioni di stombinamento dei corsi d’acqua realizzate dai Comuni nei centri edificati. Nelle norme di attuazione dei Piani saranno vietati in linea di massima gli interramenti di corsi d’acqua, fossi e scoline e preclusa l’edificabilità di aree soggette ad esondazione e allagamenti.

21) Concorsi di idee: le Amministrazioni pubbliche e private favoriranno la pratica dei concorsi di idee per risanare parti di città degradate soprattutto nelle aree periferiche, in quelle scarsamente dotate di verde e di servizi e nelle aree oggetto di importanti processi di trasformazione con cambiamenti di destinazione d’uso (caserme e fabbriche dismesse). L’obiettivo è quello di dare un’identità ai luoghi, creare condizioni di benessere per gli abitanti, favorire processi di integrazione sociale, costruire ambienti adatti alla vita dei bambini, inserire ogni area in un disegno urbano coerente, che trovi nella bellezza della forma un gradiente per costruire la città di tutti, la città intesa come bene comune.

22) Un Parco di aree pubbliche: i Comuni si dotano di un “parco di aree pubbliche anche edificabili” da utilizzare per i fini istituzionali connessi con l’attuazione del Piano Urbanistico e di un parco alloggi da destinare ai trasferimenti necessari, conseguenti alle trasformazioni di aree edificate

23) Le Regioni

a ) non possono imporre ai Comuni ( vedi Piano Casa) l’applicazione di misure in deroga alle NTA e ai Regolamenti edilizi approvati dai Comuni stessi, qualora peggiorative delle regole urbanistiche di “igiene urbana”, di qualità degli insediamenti e di tutela dei centri storici

b) provvedono a definire le condizioni nelle quali è vietato l'uso del sottosuolo, in base alla presenza di reperti archeologici, di falde freatiche e altri elementi presenti nel contesto in cui si colloca l'intervento, ai quali potrebbe essere di pregiudizio

c) individuano la distanza minima dalle strade di maggior traffico alla quale le colture di ortaggi e vitigni devono collocarsi

24) verrà istituito in ogni Comune un osservatorio sul patrimonio immobiliare pubblico e privato inutilizzato e sul consumo di suolo, che si conformerà a criteri di misurazione oggettivi, validi in tutto il territorio nazionale, in modo da assicurare l’omogeneità e la confrontabilità dei dati reperiti. I dati saranno accessibili e resi pubblici

25) la priorità dei finanziamenti destinati al settore dell'edilizia e dei lavori pubblici sarà rivolta alla prevenzione dai rischi idrogeologici e sismici, alla manutenzione, risanamento e alla cura del territorio, alla bonifica dei siti inquinati, al recupero dei beni architettonici di valore artistico e documentale e dei singoli edifici e borghi rurali, al consolidamento statico degli edifici pubblici, al risparmio energetico, alle fonti di energia rinnovabile, alla riconversione ecologica delle città, all'edilizia sociale.