domenica 26 aprile 2015

Il termidoro sessuale del neoliberalismo italiano(*)

di Massimo Cuono

(*) da l'INDICE DEI LIBRI DEL MESE

Nel nuovo libro di Ida Dominijanni (Il Trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi, pp. 256, € 14, Ediesse, Roma 2014) vi sono almeno due temi che meritano di essere riproposti nel dibattito pubblico italiano, in cui la figura di Silvio Berlusconi e il ruolo storico e politico del berlusconismo vengono sempre più spesso derubricati a questioni morali, quando non meramente penali. Il primo merito di questo volume è restituire al ventennio berlusconiano tutta la sua portata politica, spazzando via la tesi dell’anomalia italiana: altro che eccezionalismo, il berlusconismo è neoliberalismo all’italiana, coacervo autoritario di liberismo economico (l’imprenditore che si è fatto da solo) e tradizionalismo morale (il premier campione di virilità), indice che, se di neoliberalismo si può parlare, bisogna riferirsi innanzitutto a un’ideologia pervasiva e radicalmente disegualitaria, diffusa ben al di là della sola penisola italica. Come ogni ideologia che si rispetti, il neoliberalismo non è fatto di potenti cattivi che tramano nell’ombra (di cui Berlusconi sarebbe una versione folkloristica) contro vittime innocenti, ma si tratta anche, e soprattutto, di quadri mentali diffusi a livello sociale, di pratiche quotidiane consolidate di cui tutti partecipiamo, più o meno consapevolmente. A questo proposito, l’analisi di Dominijanni riparte dal ribaltamento in epoca berlusconiana dell’idea di libertà diffusa nei decenni precedenti; vero e proprio stravolgimento che mostra quanto poco eccezionale sia il caso italiano: “la resa del primato del politico al primato dell’economico, la privatizzazione del pubblico e l’aziendalizzazione dello stato giustificate dalla demagogia antiburocratica, l’uso tattico della legislazione e l’espansione del potere giudiziario contestuali alla crisi di autorità della legge e alla delegittimazione della Costituzione, la trasformazione dei cittadini in consumatori, la rotazione populista del rapporto fra leader e masse che scavalca le istituzioni rappresentative, l’uso di una retorica che fa costantemente leva sulla sensorialità del corpo sociale e sul sensazionalismo mediatico, la narrativa di una nuova destra, pronta all’alleanza organica con la destra tradizionalista”.
In continuità con queste riflessione, il secondo tema che merita di essere approfondito – per l’acutezza critica con cui l’autrice lo affronta – è quello dell’eredità, in epoca neoliberale, del potenziale libertario e liberatorio della rivoluzione sessuale degli anni sessanta e settanta, soprattutto in epoca di interpretazioni sessantottine e post-sessantottine del berlusconismo. Pescando dall’armamentario teorico del sociologo francese Jean-François Bayart, la posizione di Dominijanni si potrebbe parafrasare affermando che siamo in pieno termidoro sessuale; una sorta di restaurazione di comportamenti e stili tradizionali, che però neutralizza, inglobandoli, i tratti fondamentali della rivoluzione sessuale. Berlusconi resta il miglior interprete del suo tempo; insieme “uomo medio”, il cui immaginario erotico è fermo alle commedie sexy anni settanta con Edwige Fenech, e “migliore fra gli uomini”, imperatore a cui tutto è concesso e della cui corte tutti vorrebbero fare parte.
Il berlusconismo diventa così l’esempio più lampante del processo di depoliticizzazione della questione di genere che non si accompagna più a una rivendicazione politica egualitaria. Come in ambito sociale il neoliberalismo trasforma l’ideale antipaternalista, antiassolutistico e antinobiliare del liberalismo classico, concentrandosi contro gli effetti egualitari (anch’essi tacciati di paternalismo) dello stato sociale, così la questione di genere si è liberata ormai della pesante eredità della critica al patriarcato, sostituendola con una lotta identitaria, e per questo antiegualitaria, in grado di neutralizzare quei conflitti che in altri momenti della storia avevano prodotto fratture nei dogmi dei costumi tradizionali, grazie alla portata eminentemente politica delle rivendicazioni. Non individui che lottano per l’elaborazio­ne di un loro proprio modello ma figli, mogli, subalterni che combattono per partecipare del modello del padre, del marito, del padrone. Le famose “quote rosa”, ad esempio, non vengono difese per il loro potenziale destabilizzante su una situazione consolidata di diseguaglianza di fatto, quanto piuttosto perché porterebbero un non meglio specificato “sguardo femminile” all’interno delle istituzioni. Insinuando forse (?) che chi – maschio di mezz’età che vive al Nord – sarebbe meglio “rappresentato” da Matteo Salvini, piuttosto che da Luciana Castellina. Il termidoro berlusconiano, del resto, ha aperto la strada all’impero renziano della “perfetta parità”, dove le ministre – in numero rigorosamente eguale a quello dei ministri – sono anche buone madri, buone mogli, spesso buone cattoliche che trascorrono le vacanze a Medjugorje, e soprattutto, per loro stessa affermazione, non mancano mai un appuntamento dall’estetista.
Da questo punto di vista, Berlusconi appare come la versione self-made man (o self-made male) brianzolo di Margareth Thatcher e, insieme, versione edonistica del tradizionalismo etico alla George W. Bush che dilaga al livello sociale, ben oltre i confini fra destra e sinistra, mostrando “quell’ideologia del decoro che copre, a sinistra, un’adesione all’etica neoliberale esentata dell’analisi dei suoi effetti nella realtà sociale, a cominciare dalla realtà del mercato sessuale”.
Nel libro, c’è ovviamente molto di più. Dalla diagnosi della discontinuità biopolitica del nostro tempo, rivisitata però nel capitolo conclusivo, alla rilettura della tesi lacaniana sull’evaporazione del padre, molti sono i temi controversi che meriterebbero di essere discussi e rimessi in discussione; il problema dell’ideologia neoliberale (letta attraverso la chiave d’accesso del caso italiano) resta però a mio parere la questione centrale di un volume, la cui acutezza dovrebbe aiutarci a ripensare il dilagare contemporaneo delle politiche dell’identità, compresa l’identità di genere, come strumento di conservazione. La visione neoliberale della società – o meglio il “there is no such thing as society” di thatcheriana memoria – non si può, infatti, ridurre alle schiere di individui “razionali” che massimizzano il proprio interesse, ma si comprende meglio se la si immagina come un insieme di “clan” di individui razionali intenti a difendere i propri interessi, banalmente identificabili a partire da differenze trattate come dati naturali. “There are individual men and women, and there are families”, chiosava la lady di ferro.

sabato 25 aprile 2015

W il 25 aprile, Luca Lotti, Yanis Varoufakis, Parlamento Italiano



W il 25 aprile, Luca Lotti,   Yanis Varoufakis,  Parlamento Italiano

Diario n. 285
25 aprile 2015 


W il 25 aprile
Non c’è dubbio che la pietà e il rispetto siano sentimenti condivisibili di fronte a giovani caduti nelle file di Salò che combattevano in buona fede. Questo non ci consente, però, di equiparare i due campi: da una parte si combatteva per la libertà, dall'altra parte per la sopraffazione”. 
Sergio Mattarella

Luca Lotti
Il sottosegretario alla presidenza è giovane, brillante e intelligente, ma messo davanti ad un microfono perde il senso delle cose che dice.
Oggi, a proposito del 25 aprile e della Resistenza, ha rilasciato una intervista su La Repubblica, di buon senso e se anche conteneva qualche esagerazione di attribuzione al Governo come quando affermava che ci “ispiriamo ai valori dell’antifascismo – giustizia, libertà, eguaglianza –facendo politica tutto il giorno anche portando avanti il nostro programma”.  Che uno dei valori di questo governo sia l’eguaglianza può solo fare sorridere. Del resto è tipico di ogni governo sopravvalutare il proprio percorso. Ma neanche a giustizia e a libertà siamo messi bene. Ma con tutto questo l’intervista può essere, con buona volontà, accettata.
Ma alla commemorazione alle Fosse Ardeatine (mi pare fosse proprio questa l’occasione), messo davanti ad un microfono il giovane Luca perde ogni dimensione storica e forse non sa quello che dice. L’ho ascoltato in TV, quindi il riferimento non è testuale ma di senso: i giovani che hanno preso le armi per combattere il fascismo e i nazisti dandoci una speranza di libertà devono essere accomunati ai giovani che oggi non si abbattono e fanno … un mutuo.
Capisco tutto, ma questo mi pare troppo, anche nell’ottica di indicare una speranza (vana).

Yanis Varoufakis
In realtà questa nota doveva essere titolata all’Eurogruppo, ma mi è sembrato solidale, per quello che vale, titolarla al ministro greco.
I membri dell’Eurogruppo, noto per aver sostenuta una “giusta” politica di austerità per l’uscita dalla crisi (di tutti i paesi della UE non solo della Grecia), ha ritenuto il ministro greco un dilettante, ma forse avranno detto di peggio, un perditempo. E già, il ministro greco non ha messo sul piatto di questi giocatori quanto richiesto: licenziamento di 100 mila statali; IVA dal 13% al 23%; tagli del 20% agli ospedali pubblici; riduzione dello stipendio minimo e eliminazione dei contratti collettivi; aumento dell’età pensionabile e tagli alle pensioni; ecc. Se questa è una politica che punta a salvare la Grecia, non è chiaro che cosa pensano i ministri riuniti a Riga che potrà succedere ai greci, uomini, donne, bambini, vecchi, malati e disoccupati.
Si capisce che il riferimento per questi signori siano le banche e la finanza e non i popoli, ma tutto ha un limite.
Lucrezia Reichlin non è un’economista di sinistra, anzi, ma è persona seria e ragionevole. Ha dichiarato “I programmi disegnati per la Grecia non sono partiti dall'evidenza che Atene era di fatto insolvente. In tale condizione la ricetta dell’austerità non funziona. È sta un fallimento e ha avuto enormi costi per i cittadini greci”. Alla domanda su quali potrebbero essere le conseguenze del default della Grecia, risponde “anche se non si avrebbero conseguenze dirette sul sistema bancario italiano, né tedesco, né francese perché gli affari con la Grecia sono ridotti al minimo, il rialzo dei tassi sui fronti più vulnerabili sarebbero inevitabili. Basta pochissimo perché l’Italia bruci qualsiasi tesoretto che sia riuscita ad accantonare” (La Repubblica, 25 aprile).
Ma il tanto decantato tesoretto non pare che sia reale e anche se lo fosse il salasso che ci aspetta per i derivati supera qualsiasi ottimistico  risparmio.

Parlamento italiano  
I deputati presenti in aula per ascoltare la relazione del ministro Gentiloni  sulla morte di Giovanni Lo Porto erano soltanto 40 (quaranta).
Si deve dire insensibilità? si deve dire vergogna? Si deve dire ignavia? Si può dire anche incapacità politica.
Il dramma umano è una dimensione dell’animo che questo parlamento non conosce, basta pensare all'incapacità di dire qualcosa di sensato e forte rispetto all'ecatombe degli immigrati in mare; muto e insensibile sull'alzata di scudi di amministrazioni e popolazioni per ostacolare l’insediamento nei loro territori di quote di immigrati (critichiamo giustamente l’Europa, ma che dire di questi nostri compatrioti?). Ma neanche  la morte di un connazionale, di un italiano, in una disgraziata azione di bombardamento USA  li smuove dai loro interessi. Eppure si trattava di un’occasione politica per discutere di come si conducono le operazioni di interdizione al terrorismo, quali sono nella realtà i rapporti tra gli Usa e l’Italia, in che conto ci tengono gli alleati, ecc. Tutte questioni politiche di rilievo, ma che non interessano i nostri deputati. Senza dire della solidarietà da dare ad una famiglia colpita duramente e in questo modo.



venerdì 24 aprile 2015

La “questione”: case vuote e cittadini senza case

La “questione”: case vuote e cittadini senza case (°)
di Francesco Indovina

La questione della casa ha costituito, da sempre nel nostro Paese, un punto politico non risolto, e fa specie che tra il gran numero di parole usate per prospettare il fiorente futuro del paese ministri e sottosegretari usino con moltissima parsimonia il tema della casa.
Al tema della casa si può guardare da almeno due punti di vista: tenendo conto del settore edilizio o, invece, applicando attenzione ai modi di abitare (o non abitare) dei cittadini.
Sul primo aspetto non ci si vorrebbe dilungare molto ma alcune poche cose vanno dette. Dopo la crisi e per effetto della crisi è impensabile che si ripeta la consunta affermazione che “quando il settore edilizio tira, tutta l’economia andrà bene”, e di conseguenza bisogna porre il massimo impegno per incentivare tutte le iniziative che possano rimettere in moto l’economia del mattone. Nessuno può dimenticare che all’innesto della crisi attuale abbiano fornite un fondamentale contributo le “bolle immobiliari” (figlie, anche di quell’adagio, oltre che dell’interesse della finanza). 
Anche se la crisi economica generale e quella nel settore avessero finito per determinare una diminuzione dei prezzi delle abitazioni e anche   se si segnalasse una ripresa (modesta) delle richieste di mutuo, si è ben lontani dalla situazione degli anni antecedenti la crisi. Inoltre bisognerà prendere atto che la dimensione del patrimonio edificato è di gran lunga eccedente la popolazione residente, che  la domanda per seconde case risulta in contrazione, per effetto della crisi economica ma  anche per le sempre crescenti, anche se non sufficienti, politiche di salvaguardia del territorio e  data la mancata espansione dell’occupazione giovanile, che dovrebbe costituire, teoricamente, la fascia di domanda più dinamica, per immaginare improbabile un rilancio del settore edilizio.
Bisognerà accontentarsi di qualche piccolo passo, tenuto conto anche del fatto che una quota rilevante (intorno al 40%) degli acquisti recenti riguarda sistemazione per lavoro o studio (fuori sede), e quindi si tratta, verosimilmente, di un patrimonio in rotazione.
Detto questo resta immutato ed anzi si aggrava ogni giorno la questione abitativa: crescono le case vuote (tra i due ultimi censimenti sono aumentate del 25%), ma crescono anche le persone e la famiglie senza casa. Questa contraddizione è una costante della situazione italiana, denunziata fin dagli anni ’70 e che si è incrementata anno dopo anno.
La ragione delle case vuote sono note. Il grande movimento migratorio (dal Sud al Nord, dalla campagna alla città, e dalla montagna alla pianura) ha costituito motivo di abbandono di un patrimonio in continuo e crescente degrado e che difficilmente, anche per la sua localizzazione, potrà essere utilizzato (tranne speranzose e non fondate  ipotesi di ritorno alla campagna). Lo sviluppo delle seconde case per villeggiatura costituisce una quota rilevante di questo patrimonio vuoto. Si tratta di una quota che subisce modeste contrazioni nei casi nei quali queste case possano essere trasformate, data la loro localizzazione e il tipo di tecnologia in dotazione, in case permanenti e lasciate in uso a figli o nipoti che si sposano (senza casa) o che vorrebbero acquisire una loro autonomia abitativa. Lo stock complessivo delle “seconde case”, per localizzazione e tipo di attrezzature solo in parte potrebbe essere trasformate in abitazioni permanenti (qui entrerebbero in gioco organizzazione del territorio, sistema della mobilità, ecc.)
Infine esiste una quota consistente di abitazioni che sebbene poste sul mercato, per l’affitto o la vendita, non trovano aspiranti clienti. La crisi occupazionale, la disoccupazione stabile che coinvolge anche quote rilevante di ceto medio, la disoccupazione giovanile e, in ultimo, nuovi standard e idee dell’abitare, sono tutti elementi che spiegano questa situazione.
Si propone di prendere le mosse da quest’ultima fattispecie per fare qualche ragionamento, escludendo le famiglie solvibili rispetto all’offerta che sebbene poco numerose appena si acconciano a scegliere l’acquisto, ma anche l’affitto, fanno gridare alla “luce infondo al tunnel” della crisi.
In sostanza da una parte abbiamo un offerta di abitazioni (in vendita o in affitto) e dall’altra individui e famiglie che non sono in grado di accogliere l’offerta di mercato. Non è chiaro se l’offerta sia quantitativamente adeguata alla domanda potenziale, di questa domanda si fa poca analisi e poca inchiesta (gli iscritti nelle liste dei singoli comuni sono un “indice”, ma non la complessiva realtà, anche le indicazioni che vengono da istituzioni di assistenza, come la Caritas, ci dicono della gravità del fenomeno ma non della sua concreta e reale consistenza. Avanzo un’ipotesi, ragionevole, che l’offerta quantitativa, a prescindere dai prezzi di mercato, non sia sufficiente a soddisfare il “fabbisogno” (espresso o non espresso).
Questo fabbisogno è composto da individui e famiglie che possiamo classificare nelle seguenti coorti:
a)     nulla tenenti (poveri);
b)    sfrattati per morosità (altra versione dei poveri);
c)     che hanno perduto la casa perché non hanno soddisfatto gli impegni assunti con il mutuo (nel nostro paese non sono molte);
d)    immigrati (clandestini o meno, con poche risorse);
e)     capienti ma non a sufficienza rispetto ai prezzi di mercato.
A questi andrebbero aggiunti quote di domande temporanei come quelle degli studenti e dei lavoratori fuori sede. Ma non vorremmo ulteriormente complicare il ragionamento.
Questo gruppo tende sempre più a dilatarsi: per la crisi economica che butta in strada donne e uomini, che non offre che occupazione marginale, senza futuro e insostenibile economicamente ai giovani dei due sessi; per il fallimento completo della politica abitativa nel nostro paese.
L’idea che il problema abitativo si sarebbe risolto offrendo a tutti la possibilità di godere di una casa in proprietà è miseramente naufragata, così come ha fatto la stessa fine l’idea che erano i vincoli posti al mercato, con l’equo canone, a non permettere la soluzione del problema e che quindi cancellare il controllo sui fitti (modesto per altro e spesso trasgredito) era necessario per permettere al mercato di trovare il proprio equilibrio e risolvere il problema abitativo. In realtà ogni provvedimento che trasferiva e trasferisce la soluzione del problema al mercato non fa che aggravare la situazione.
Una soluzione di questi tipo sarebbe oggi ancora più paradossale tenuto conto che il 20% delle famiglie italiane è stata classificata (nel 2013, oggi la situazione è più grave) in povertà (assoluta e relativa); si tratta di 10 milioni di persone di cui 6 milioni in povertà assoluta. Sulla dimensione della povertà sulla sua distribuzione spaziale e sociale, sugli interventi, ecc. ci sarebbe molto da dire ma non è tema di queste note, ma va detto che si tratta di una popolazione che somma vari disagi a quelli economici si sommano quelli abitativi.
Il nostro è il paese, in Europa, con il patrimonio abitativo pubblico di minor dimensione, è, inoltre, sicuramente il peggior gestore di questo patrimonio, sia sotto l’aspetto del controllo degli aventi diritto (dando luogo non solo ad abusi ma a veri e propri favoritismi) che sotto l’aspetto della manutenzione (non è un caso che una quota di questo patrimonio non è abitabile). Per non parlare della periodica vendita di parte di questo modesto patrimonio.
Le persone del gruppo e) potrebbero essere aiutate con qualche provvedimento di aiuto, con accordi con la proprietà, ecc., a risolvere il problema abitativo anche all’interno del mercato esistente. Ma attenzione, e questo non solo per gli “aiutati” ma anche per chi trova una propria autonoma soluzione di mercato, si tratta di individui e famiglie che spesso si accollano un costo per la casa del tutto incongruo rispetto al loro reddito, con conseguente  contrazione dei consumi, anche grave, dei beni essenziali.  Esistono dati incerti ma significativi del fenomeno, e per quanto sacrifici facciano si tratta di situazioni che sboccheranno nello sfratto o nell’esproprio da parte della banca.
Complessivamente gli altri individui e famiglie potranno pensare di vedere risolto il loro problema solo sulla base di un ampio e articolato intervento pubblico. Ma perché questo sia efficace ha bisogno di misurarsi con il problema dell’abitare non solo con quello della casa, e considerare una qualche soluzione dell’emergenza, soluzione  tampone, lungo una via di soluzione permanente. Non si può, cioè, pensare soltanto ad una soluzione di medio-lungo periodo e non occuparsi dell’emergenza (mentre il medico studia il malato muore).
Per quanto riguarda l’emergenza sarebbe ragionevole fossero  presi provvedimenti immediati in grado di non aggravare la situazione: blocco degli sfratti e blocco degli espropri da parte delle banche (per modesti che siano i casi). Inoltre dovrebbero essere presi provvedimenti idonei a realizzare delle “case parcheggio”; la gran mole degli edifici di proprietà pubblica, come caserme, magazzini, complessi, ecc., potrebbero essere attrezzate in breve tempo, magari con l’aiuto dei futuri utenti, per risolvere temporaneamente il problema di chi non ha un tetto sulla testa. Sarebbe un uso sociale, equo e civile di questo patrimonio piuttosto che venderlo per fare cassa (e per le modalità come queste vendite vengono fatte, contribuire alla manomissione delle città).
Così come non dovrebbe essere esclusa l’occupazione temporanea delle case vuote, e nel caso specifico le amministrazioni comunali dovrebbero operarsi perché non avvengano sgombri di abitazioni o edifici già occupati.
La questione come è noto non è soltanto un “tetto sulla testa”, ma anche e soprattutto una questione dell’abitare, si tratta cioè di “costruire” porzioni di città dotate di servizi (pubblici e privati), di infrastrutture, di servizi collettivi, di verde ecc., e di una presenza di diversità sociale.
È noto che una politica keynesiana non goda di buona stampa presso i nostri governanti, crediamo anche che pensare a soluzioni esclusivamente keynesiane per l’uscita dalla crisi sia forviante date le forze in gioco e relativi comportamenti economici, politici e sociali, ma crediamo che una politica che abbia un’impronta pubblica molto consistenze possa alleviare e mitigare  situazioni di disaggio e contribuire a migliorare e mitigare la situazione occupazionale. Quello che intendo sostenere è la necessità di un programma straordinario pubblico per la casa. Un programma articolato che mobiliti risorse che oggi vengono utilizzate a fini elettorali e che non incidono né nelle situazioni sociali destinatari, né sul clima economico complessivo.    
Indicativamente e un po’ semplicisticamente questo piano dovrebbe avere quattro punti di forza:
1.     l’emergenza, di cui si è fatto cenno precedentemente;
2.     il recupero (un tempo si sarebbe detto il riuso) di parti di città abbandonate, soprattutto parti del centro storico. Con due conseguenze positive, quello di venire incontro al bisogno abitativo e quello di riqualificare porzioni di città e come conseguenza la città tutta. È noto che questo tipo di intervento ha dovuto nel tempo superare due ostacoli: il primo riguarda la mobilizzazione di risorse private, mentre il secondo fa riferimento a spesso non giustificati vincoli di trasformazione. Nessuno di questi ostacoli è sembrato superabile se non per “episodi” molto esigui o per casi molto noti e celebrati ma proprio perché supervano tali ostacoli con l’intervento pubblico diretto, sia economico che tecnico. Oggi si tratta di (ri)puntare sull’intervento pubblico, su un coinvolgimento culturale e dei saperi che nel rispetto non ossessivo dell’identità storica apra verso processi di trasformazione (l’intervento pubblico a differenza di quello privato, garantisce il rispetto di vincoli ragionevoli posti), ma anche sulla costruzione di laboratori di quartieri che possano mobilitare forse sociali e i futuri possibili utenti;
3.     l’affermarsi, come proposto dalla cultura più avanzata e sensibile, di un nuovo standard nei processi di trasformazione: il 30% dell’edilizia realizzata dovrebbe essere a prezzi controllati e calmierati, affidati a inquilini indicati dalle amministrazioni comunali (magari per sorteggio);
4.     piani di sviluppo integrati di nuova edilizia pubblica attenti alla dotazione di infrastrutture e servizi, ai collegamenti, e agli impianti collettivi. In questi piani potrebbero essere integrati facilmente e favorevolmente anche interventi privati (vedi sopra). Si tratta, soprattutto, di cambiare strada rispetto alle esperienze del passato la maggior parte delle quali non si possono che segnalare come incongrue (e non ci si riferisce ai casi limite delle Vele a Napoli o dello Zen2 a Palermo, ma all’insieme dell’edilizia pubblica).

Non si è fatto riferimento alla presenza di individui e famiglie di immigrati extra-comunitari, non per indifferenza ma perché questa popolazione, a prescindere dalla cittadinanza, debba godere di diritti uguali a quelli dei cittadini autoctoni. Non si tratta di una versione celata di un indirizzo di integrazione obbligatorio, ma solo dalla convinzione che l’uguaglianza dei diritti permette una migliore vivibilità alla società e anche ai singoli una espressione di identità non antagonistica (né sul piano sociale, né su quello politico).
Ho cercato di cogliere gli elementi presenti nelle relazioni di questa sezione ed anche nell’insieme del seminario, spero di esserci riuscito. Ho la piena consapevolezza che quanto detto in queste brevi note trova maggiore giustificazione e ricchezza nei testi dei colleghi, così come ho coscienza che le proposte sono delle semplificazioni e che esse hanno bisogno di più attente considerazioni, di riflessione, di documentazione e di un lavoro collettivo. Tuttavia mi è sembrato necessario, data la morta gora della politica ma anche delle nostre discipline, indicare una linea di indirizzo che sembra, non solo a me, l’unica per affrontare il tema della questione abitativa che coinvolge milioni di persone e famiglie.   

(°) in Atti del Seminario Il Diritto alla Casa, a cura di Laura Fregolent





mercoledì 15 aprile 2015

Maurizio Landini, Tito Boeri, Graziano Delrio, Massimo D’Alema

Diario n. 284
6 aprile 2015

Maurizio Landini, Tito Boeri, Graziano Delrio, Massimo D’Alema

Maurizio Landini
Avevo già scritto che Landini mi sembrava l’unica speranza per la ricostruzione della sinistra; pensavo che avesse carisma, intelligenza e volontà. Lo penso ancora, ma da alcuni giorni mi domando quali dovrebbero essere i punti forti di un programma in modo da mobilitare gli arrabbiati, i timidi e i distratti. Devo confessare che mentre le parole sono facili la loro declinazione mi pare difficile (impossibile?).
So per certo che un concetto di sinistra sia l’eguaglianza, non parlo ovviamente di un livello unico di situazione economica/sociale, ma almeno la definizione di un ventaglio di posizioni che permetta alla situazione meno ricca una vita piena e soddisfacente, e che la posizione più ricca non possa che essere un multiplo ragionevole della meno ricca (diciamo cinque/otto volte?). Mi sembrerebbe questa una proposta molto attrattiva, per una fascia ampia, molto ampia, della popolazione.
So per certo che un concetto di sinistra sia un’equa distribuzione dell’occupazione, che non vuol dire solo la piena occupazione, ma anche una distribuzione dei periodi di lavoro e di non lavoro (retribuiti) diversi da quelli imposti dall’attuale sistema. Che so, per esempio (ma si possono trovare nuovi modi): lavorare da 20 a 30 anni, non lavorare da 30 a 40, lavorare da 40 a 50, non lavorare da 50 a 60, lavorare ancora, secondo i tipi di lavoro, da 60 a 70, ed essere impegnato successivamente in attività di servizio civile. Credo che un’ampia fascia della popolazione sarebbe d’accordo.
So per certo che un concetto di sinistra sia un’istruzione generale ampia e laica per tutti, il che vorrebbe dire una scuola pubblica gratuita per tutti obbligatoria fino alla scuola superiore e facoltativa per l’università. Sta in quest’ambito la scuola per l’infanzia adeguata al numero dei bambini. Forse anche questa potrebbe essere una proposizione di successo.
So per certo che è un concetto di sinistra l’eguaglianza dei diritti di cittadinanza, che cioè tutte le persone che abitano in una paese godano degli stessi diritti. Questo forse è un concetto di minor successo dei precedenti.
È ancora di sinistra la libertà, declinata in religiosa, culturale, dell’informazione, ecc. Non credo si manifestino a questo proposito opposizioni.
Potrei continuare con la salute, l’ambiente, le città, la liberta sulla nascita e la morte, la libertà sessuale, la pace, la sicurezza, la moneta, ecc. ecc.
Insomma una serie di concetti di buon senso che facilmente potrebbero diventare di senso comune. Ma allora?
Il problema mi pare si ponga non appena da queste proposizioni di senso comune si passa alle trasformazioni che l’affermarsi di questi concetti di senso comune presupporrebbero. Per esempio la gestione tecnica e manageriale delle imprese e non più capitalistica; la riduzione della proprietà privata; un sistema fiscale fortemente progressivo (ed efficiente); l’eliminazione dell’economia finanziaria; l’eliminazione di ogni forma di eridarietà (che non fosse di natura affettiva); la riduzione dei consumi opulenti; ecc. ecc.
Ammesso che esistessero le forze per affermare tutto ciò,  questo è possibile in un paese solo? Tutto questo è possibile senza una forte organizzazione politica?
L’impresa di Landini, ammessa a che avesse questi connotati, appare disperata, ma non si può restare inermi e apatici. In questa polarità si gioca la tragedia e la speranza della politica ai nostri giorni.  La “battaglia culturale” (come si diceva un tempo) appare fondamentale per dare corpo a questo possibile senso comune, e un ruolo fondamentale lo gioca lo svelare la verità, mettere in chiaro gli inganni del nostro tempo, le mistificazioni ideologiche, le false promesse e gli stereotipi consolatori. Il legame internazionale appare una necessità.
Il capitalismo marcisce, nonostante le grandi affermazione di soluzione della crisi, e rischiamo di marcire con lui.
La guerra è sempre più una costante, morte, violenza, distruzione, e noi insieme.
Non si può stare immobili, non si può pensare di essere fuori. Non si può essere inattivi e apatici.

Titto Boeri
Il professore Titto Boeri è apparso come un economista di sinistra o almeno progressista. Ma da quando è asceso alla presidenza dell’INPS ha perso, almeno così mi pare, il suo smalto.
Appellarsi alla sostenibilità del sistema pensionistico mi pare faccia dimenticare che di uomini e donne si tratta. Tirare fuori, sempre nell’ambito della sostenibilità del sistema, la questione delle pensioni contributive e salariali, non è un tratto di innovazione.
È certo che il sistema pensionistico presenta discrepanze, ma il punto di vista non dico progressista ma soltanto umanitario dovrebbe prendere le mosse dalla necessità di assicurare una pensione dignitosa (a prescindere dal criterio di contribuzione) a tutti, in grado di permettere una conduzione di una vita normale, e la definizione di un ventaglio all’interno del sistema, tra questa pensione dignitosa minima e le pensioni superiori (diciamo 5 volte al massimo?). Questa impostazione comporterebbe alcuni tagli ad alcune pensioni stravagantemente alte e la richiesta al tesoro delle risorse necessari per garantire un nuovo sistema pensionistico.
Certo ci sono i diritti acquisiti, ma siamo certi che su questi non si possa intervenire in punta di diritto?
Da un presidente come Boeri non ci si aspetta una razionalizzazione sostenibile del sistema, ma un sistema pensionistico che garantisce la sostenibilità ai pensionati. Mi sarei immaginato una sua presa di posizione su quello che appare sempre più un imbroglio come il sistema della pensione integrativa.

Graziano Derio
Il nuovo ministro delle infrastrutture risulta essere stato uno scienziato prestato all’amministrazione (Sindaco); un amministratore prestato alla politica ed ora un politico prestato al governo. Che si tratti di un uomo onesto non si dubita, la qual cosa al ministero delle infrastrutture è cosa di grande rilievo. Ma quello che preoccupa e la sua capacità. A fianco di Renzi, come si dice, è stato l’uomo macchina, può darsi che in questo sia molto abile (non esistono parametri di giudizio a tale proposito), ma a lui si accredita la riforma delle provincie. Un pasticcio da cui non si sa come uscirne. Così come l’ennesima decisione a favore della formazione delle città metropolitane, che da vent’anni sono sempre le stesse. In vent’anni il mondo è cambiato tranne le città metropolitane italiane.
Ora questi provvedimenti attribuiti al nuovo ministro delle infrastrutture non depongono bene.  Pare che a Derio manchi la capacità di analizzare gli effetti delle sue decisioni. Che per un ministro non è poca cosa.

Massimo D’Alema
Da sempre giudico Massimo D’Alema un politico di vaglio, anche se non condivido nessuna delle sue scelte e delle sue strategie, ma è sicuramente intelligente e capace.
Quello che ha sempre disturbato della sua personalità non è tanto la sua antipatia, che considero un tratto simpatico della sua personalità, quanto l’esibizione dell’ascesa sociale, sempre fastidiosa ma fastidiosissima in un politico. Su questo le sue défaillance dello spirito, ma forse anche dell’intelligenza, sono molte. Vale la pena di ricordare la querelle, di tanti anni fa,  se non sbaglio con un proprietario di un cane che gli aveva “rovinate le scarpe pagate un milione di lire”. Perché un uomo politico deve “produrre del vino” (se non fosse una tradizione di famiglia e non il cedimento ad una moda) che vende alle cooperative? Perché scoppiato lo scandalo politica, non giudiziario, deve farsi bello in modo arrogante che dopo lo scandalo sono aumentate le richieste del suo vino? Perché un uomo politico di prestigio deve piegarsi al fatto che una cooperativa compri 400 copie del suo ultimo libro? (le case editrici hanno dei settori commerciali preposti alla diffusione dei libri).
Insomma sarà intelligente, sarà perspicace, sarà autorevole ma soffre di una debolezza sociale pericolosa.