sabato 28 dicembre 2013

Diseguaglianze, stagnazione e … cecità

Diario 239 (28/12/2013)
  •   Diseguaglianze, stagnazione e … cecità   
  •  Animalisti senza anima   



Diseguaglianze, stagnazione e … cecità

Studiosi, premi Nobel, ricercatori e funzionari pubblici sono ormai numerosi a sostenere:

- che la condizione economica normale per un lunghissimo numero di anni sarà la stagnazione; ci saranno momenti modesti e brevi di ripresa economica, ma la linea di lungo periodo sarà caratterizzata da stagnazione;

- all'origine di questa situazione ci sono molte cause, ma principalmente gli effetti della deregolamentazione finanziaria legata alla mondializzazione e finanziarizzazione dell’economia;

- La situazione di crisi è alimentata dalle diseguaglianze: pochi possiedono molto, e questo molto cresce ogni anno anche nel periodo di crisi, e molti possiedono poco e sempre meno dentro la crisi.

Basterebbe leggere qualche libro, qualche articolo, ma anche chi non è avvezzo a questo tipo di informazione (i politici sempre più nuovi) la stessa documentazione potrebbero trovare in internet. Insomma pare chiaro che non sanno e non vogliono sapere. Si consolano con rimedi palliativi: meno austerità; meno spesa pubblica (che deprime l’occupazione); provvedimenti legislativi (di liberalizzazione) per creare posti di lavoro (come se questi ultimi si potessero realizzare con una legge); economia verde; ecc.

Anche i rimedi palliativi, come è noto, possono portare sollievo al malato, ma non lo curano. Lo stesso avviene nella realtà economica del mondo moderno.

Non so come debba essere il socialismo e il comunismo del XXI secolo, ma mi pare di capire che prospettare la proprietà pubblica dei mezzi di produzione rischierebbe di mettere in mano al pubblico dei “ferri vecchi”, mentre mi sembrerebbe sensato pensare ad un’economia mista, governata da regole semplici ed efficienti; ma sicuramente la modifica dei rapporti sociali di produzione passa per una riorganizzazione del mercato del lavoro: orario, sicurezza, ciclo di vita, ecc.

Ma una cosa sembra urgente: una lotta dura ed efficace contro le diseguaglianze. Di questa il governo non si occupa, al massimo ripete la giaculatoria della lotta all’evasione, ma non si tratta solo di questo. Gli “spiriti” animali che in astratto (sbagliato) farebbero bene allo sviluppo economico si sono dimostrati un disastro. Non solo un disastro per la poca previsione del futuro del pianeta (ambiente, mutamenti climatici, ecc.), ma soprattutto un disastro per l’economia (mondiale) e per la condizione di uomini e donne: riduzione dei consumi, miseria cumulativa, spreco di intelligenza scientifica e tecnologica, spreco di potenzialità e intelligenza di uomini e donne, ecc .

Le possibilità che oggi sono offerte alla specie in ragione degli avanzamenti scientifici e tecnologici sono foriere di un possibile mondo migliore, ma questo potrà realizzarsi sono basandosi su libertà e uguaglianza (e diritti), solo combattendo gli spiriti animali (che stranamente paiono trasmettersi attraverso il DNA, infatti, con modesti allargamenti sono sempre le stesse famiglie o i partecipanti di specifici gruppi sociali che ne sono dotati, mentre agli altri non resta che l’animalità), si potrà ottenere qualche risultato.

La lotta alla diseguaglianza, bisogna sapere, costituisce una vera “rivoluzione” , un notevole passo verso la rivoluzione sociale e una necessità anche per difendere democrazia e libertà.

Non si tratta di togliere a chi più ha per darlo a chi meno ha, ma fondare una nuova condizione umana nel quale il “soldo” non sia l’unico mezzo che garantisca prestigio e merito (molto spesso si tratta di pochissimo prestigio e di un merito opaco e discutibile).

Non mi immagino né una soluzione rapida né immediata, ma quello che fa specie e l’assoluta cecità (non di nascita ma acquisita) non solo della classe politica e specialmente di quella di governo, ma di quanti cercano strade impervie e senza sbocco sprecando intelligenza e tempo. Mi pare che il tempo sia sempre meno e che iniziative in questa direzione devono essere prese, e si tratta di iniziative che non possono essere il risultato di lotte di base (come si diceva un tempo) ma di una relazione stretta tra consapevolezza, mobilizzazione, conflitti e scelte di governo.


Animalisti senza anima

Il degrado della nostra società ha tanti sintomi, tante espressione, ma una che mi turba è l’adesione a quelle che è possibile definire sub culture. Credo che ciascuno di noi ha diritto alle proprie convinzioni e fedi, si tratta di un modo per “sentirsi bene”, come ripetono. L’idea che una fede possa determinare una migliore società ha avuto spesso esiti disastrosi, guerre di religioni, realizzazione di sette chiuse e nascoste, ecc. Una società che non riesce a guadagnare uno statuto laico è destinata, forse, a perdersi.

Si può essere vegetariani, si può essere vegani, si può essere crudicisti, una scelta personale garantita da libertà. Ma ci sono alcune di queste sub culture che per il lo intrinseco contenuto sono portatori della necessità di imporre il loro punto di vista. Uno di questi casi è quello degli animalisti. Non si tratta solo di un punto di vista che riconosce la necessità di un rispetto del mondi animale, la sua difesa, la cancellazione di abitudini violente e senza scopo (la caccia alla volpe, per esempio), ma di qualcosa di più. Gli animalisti, che dovrebbero essere tutti vegetariani, cercano di imporre punti di vista che a me paiono dissennati: come l’esclusione della sperimentazione sugli animali, come l’opposizione alla eliminazione di presenze in “sopra numero” (come i piccioni a Venezia, o i cinghiali in certe contrade, ecc.), ecc. Ma alcuni, spero non tutti, risultano accecati e violenti. Mi hanno sconcertato gli attacchi contro Caterina Simonsen che aveva dichiarato che la sua vita è il risultato di ricerche scientifiche, comprese la sperimentazione animale, che hanno permesso una cura alla sua malattia.

La reazione di alcuni animalisti è stata non solo fuori tono ma di una violenza inusitata. Del tipo: se sei viva con il sacrificio di animali non sei degna di vivere; piuttosto che sacrificare animali, fossero anche due topi, era meglio che fossi morta a nove anni, ecc.

Quello che preoccupa non è il caso specifico, degli imbecilli si trovano in ogni gruppo ma il sintomo della malattia che questo caso fa emergere: il degrado delle coscienze e dell’intelligenza.

La solidarietà con Caterina, appare necessaria, anche per combattere stupidità e violenza.

lunedì 16 dicembre 2013

Il forcone e il capitale

Il forcone e il capitale

di Ars Longa

 

(da: sinistrainrete 16 dicembre 2013)

 


Ho percorso duecento chilometri in auto negli ultimi due giorni ed ho trovato due blocchi del cosiddetto movimento dei forconi. Qualcuno ci vede il baluginare della rivolta che verrà, io ho visto la ripetizione di una tradizione italiana vecchia di un migliaio d’anni: la rivolta per il pane, l’assalto ai forni. Ho visto gente che ha perso tutti i contenitori politici nei quali era transitata. Ho visto gente smarrita non l’avanguardia rivoluzionaria. Ma so che alcuni ci hanno ricamato sopra una teoria e la teoria dice che questi 30.000 (ma facciamo anche 50.000 o 100.000) sarebbero l’avanguardia della massa che verrà. La teoria dice che questi protestanti – presto o tardi – diventeranno anticapitalisti perché capiranno che il capitalismo li sta massacrando. E così diventeranno anticapitaliste le masse che se ne stanno a casa oggi non appena la crisi morderà le loro “sicurezze”.

Questo dice la teoria. Solo che la teoria non funzionerà. Perché non funzionano così le cose.

A quei blocchi nessuno pensava minimamente al capitalismo o all’anticapitalismo. C’era gente che aveva perso qualcosa e la rivoleva indietro. E rivolevano indietro quel che avevano vissuto: un posto non troppo freddo ai margini del capitalismo. Un posto che – sono convinti – gli è stato tolto dalle iniquità dei governi, dalla mancanza di politiche protezioniste, dall’Europa, dalle tasse. 

E mi è venuto da pensare al fenomeno del cambiamento dei consumi di stupefacenti negli ultimi quarant’anni. Che centra? C’entra. Negli anni ’70 ci si faceva di eroina e di acidi lisergici. Ci si faceva di droghe che ti sparavano fuori da un mondo che si sentiva profondamente ingiusto e nel quale non si voleva rimanere. Dietro c’era tutto un movimento tra il culturale e il politico che postulava il rifiuto radicale dei modi di essere e di consumare. Dagli anni ’80 ha preso piede la cocaina e tutta la larga famiglia delle anfetamine. La droga che aiuta non a fuggire dal mondo ma a restarci e ad essere “performante”. Una droga sintonizzata sulla necessità di dimostrare di essere sempre sveglio, attivo. concorrenziale.

Guardavo la gente ai blocchi e pensavo che quella gente che mi dava i loro volantini volevano una sola cosa: essere di nuovo parte di un capitalismo che funziona. Non sanno come fare, non hanno le idee chiarissime ma due o tre concetti più o meno interiorizzati: sovranità popolare, lotta ai burocrati europei, lotta alla classe politica.

Guardavo i carabinieri alla curva della rotatoria. Immobili, passivi, lasciavano che il blocco ci fosse ma fosse “ragionevole”. Fermali sì ma poi falli passare dopo una decina di minuti. Ci ho parlato per un po’. La maggioranza faceva fatica ad articolarmi un discorso omogeneo. Quello che usciva fuori era un “prima” (quando si stava bene) e un “adesso” nel quale si sta male. Ridateci quello che avevamo, ridateci il capitalismo ben temperato. Segni di anticapitalismo? Nessuno. Neppure una briciola sparsa di luddismo.

Le facce smarrite e incazzate raccontavano soltanto la sorpresa e la paura di essere tagliati fuori definitivamente dalla fonte di ogni delizia. Non erano persone che si stavano riappropriando del loro essere cittadini ma, piuttosto, gente che rivoleva essere consumatori. Uno mi ha detto che voleva la meritocrazia e voleva che i migranti (non usava questo termine però) se me tornassero a casa loro. Un altro voleva uscire dall’Europa perché così saremmo stati di nuovo “padroni in casa nostra”. Padroni per fare che? Per tornare a consumare.

Era gente che non sa che una economia anticapitalista non prevede la Audi ma semmai una versione moderna della Trabant. Perché se “da ognuno secondo le proprie capacita’, ad ognuno secondo i propri bisogni”. Si tratta di ridistribuire equamente le risorse e la fettina di torta per ciascuno sarà uguale ma non sarà grande. Ma non volevano una cosa del genere, volevano esattamente la fetta che avevano prima. Volevano – appunto – un capitalismo come quello nel quale avevano nuotato sino a ieri. Volevano ricominciare a vendere per poi consumare, per poi vendere ancora e consumare di nuovo.

Io ho visto gente che rivoleva la gabbia perché neppure sa di essere in gabbia. Non c’era l’idea di un modello alternativo, c’era solo un urlo sottinteso: “rimettete in moto la macchina”. E la macchina si chiama capitale.

Non pretendo coscienze sociali che non si possono chiedere. Ma se questa che ho visto era l’avanguardia posso agevolmente immaginarmi la massa alla cui testa si muove. Non c’è nessuna parentela con l’iconografia di Pellizza da Volpedo.

Mi si dirà che non si può dividere la lotta anticapitalista cosciente dalla protesta per l’impoverimento. Non si può se si pensa che la massa passerà dallo stadio della lotta protestataria alla scoperta della lotta contro il capitale. E chi dice e su quali basi lo afferma che questa gente che ho visto, incazzata per ciò che ha perso,  maturerà anche la più pallida idea di un modello differente? Certo magari in qualche testo teorico avviene anche questo miracolo. Ma siamo nel mondo.

E il mondo ha visto i tedeschi dell’Est nel 1989 passare il muro e correre a rotta di collo verso il più vicino supermercato di Berlino Ovest. Ed è lo stesso mondo che a Kiev vede un bel po’ di dimostranti scendere in piazza per poter entrare in Europa e non rimanere nell’orbita dei satrapi russi. Naturalmente giusto per far capire che vogliono il capitalismo tirano giù l’ultima statua di Lenin ancora in piedi. Un’altra lotta sacrosanta contro il totalitarismo, o una lotta per entrare nel mondo del capitalismo ben temperato?

Ho visto gente accomunata dal comune scivolamento all’indietro della propria possibilità di essere dentro alla macchina del consumo. E a proposito di macchine, uno mi ha detto che ha dovuto vendersi la Golf GTI che con tanti sacrifici s’era comprato. Una per farmi riflettere sul suo scivolamento all’indietro mi ha detto che tutti gli anni riusciva ad andare a farsi una settimana a Sharm-el-Sheik (abbreviato “Sciarm” con la stessa pronuncia di “sciampista”) e che ora non aveva i soldi per pagarsi il mutuo.

Ed allora ho capito che per dissolvere questo prodromo di “rivoluzione” basterebbe un cambiamento di congiuntura, un po’ più di PIL.

Qualcuno mi ha detto che se non cambierà qualcosa, l’Italia diventerà come la Grecia. Ossia, voleva dire, ci ribelleremo come i greci. Lui crede che ci sia una rivoluzione in Grecia. Esattamente come quelli che credono che quanto è accaduto sia il primo raggio della rivoluzione anticapitalista.

Sarebbe anche bello, ma non è così. Non è così perché nessuno aveva in mente un modello alternativo. E nessuno delle persone che ho visto a quei blocchi metteva in dubbio il modello cui si aggrappava.

Non ci sarà nessuna rivoluzione. Non ci sarà tra un mese, tra un anno o tra dieci. La scorciatoia non arriverà. Perché una rivoluzione, quella vera, è il frutto di un lungo lavoro di penetrazione di idee differenti lungo l’arco di decenni. Voltaire iniziò a scrivere nel 1716 e morì senza aver visto la Rivoluzione che aveva contribuito a rendere cosciente. Qualcuno mi dirà che il rivoltoso che assaliva la Bastiglia nulla sapeva magari di Voltaire. È probabile, anzi, quasi certo. Ma ciononostante quel rivoluzionario aveva chiaro in mente che non voleva più essere parte del regime che assaliva. Ne voleva uno che fosse diverso, non voleva star meglio in quello che c’era.

Perché se è vero che la rivoluzione non è un pranzo di gala, è anche vero che non si improvvisa. Quando si improvvisa è una italica rivolta per il pane: quando cala il prezzo tutti se ne tornano a casa.

giovedì 12 dicembre 2013

Il movimento dei forconi e la realtà

Diario 238

Il movimento dei forconi e la realtà

Non è più sopportabile questa situazione; basta. Sono questi i sentimenti che agitano quanti in questi giorni protestano e sono scesi in piazza. Che sia un mix di forze eterogenee, che all'interno di questo movimento si siano infiltrati organizzazioni fasciste e forse anche criminali, non pare sia rilevante. Non sto dicendo che non sia rilevante per un'analisi attenta della protesta, non mi pare rilevante sugli aspetti di cui vorrei occuparmi. Una cosa è certa la sensazione che la situazione sia insopportabile è comune a chi manifesta e ad altri milioni di italiani che si trovano in seria difficoltà economica. Ma cosa è insopportabile e ancora chi viene individuato come causa di questa situazione?

Se si cercasse di rispondere a questi interrogativi forse la situazione potrebbe apparire ancora più drammatica. La diagnosi che la folla grida in piazza e che moltissimi degli italiani condividono individua nei politici e nelle istituzioni il virus di questa situazione. “Tutti a casa” gridano nelle piazze, influenzati dagli slogan martellanti del “capo” del M5*. È esatta questa diagnosi? No, non è esatta ma è giustificata.

È giustificata dalla pessima immagine che i politici danno di se stessi. Come scrive oggi Nadia Urbinati (La Repubblica) “è responsabilità della politica ridare fiducia nelle istituzioni. Mettendo fine a comportamenti che calpestano la moralità pubblica (il misuso e l'abuso delle risorse pubbliche) e all'impotenza a decidere”. Non mi pare convincente, tuttavia, quando appunta la sua attenzione sulla legge elettorale (ma forse questo dipende dalla sua professione) mestiere.

Sicuramente il porcellum ha contribuito ad allontanare i cittadini dal “palazzo”, ma non si tratta solo di questo. L'immoralità nell'uso delle risorse pubbliche da parte dei politici a tutti i livelli riempie di rabbia il popolo che protesta; ma anche la melina che i politici conducono sulla riduzione dei costi della politica non è priva di effetti negativi; ancora l'insensibilità mostrata dai politici che mentre chiedono sacrifici alla popolazione difendono i propri privilegi, contribuisce ad esasperare. Rimolarizzare i comportamenti, ridurre i privilegi (anche economici), sicuramente non risolve la crisi economica del paese, ma da il senso di una condivisione della crisi e dei sacrifici.

Ma la diagnosi non è esatta. Alle mie orecchie fa scandalo non sentire protestare contro i “padroni” (mi si scuserà questo termine disueto); neanche più le banche e la finanza e nell'occhio della protesta. Quando il giovane emarginato di Torino, spinto a cercare lavoro in Australia, descrive Torino come un deserto di opportunità, come un concentrato di povertà e emarginazione, finisce per individuare il responsabile di tutto questo nella regione e nel suo presidente, per il suo stipendio per l'uso che ha fatto delle risorse pubbliche (anche le mutande si è fatto pagare), ma non ha percezione che la riduzione a quello stato della città e del paese tutto ha anche altri responsabili (per alcuni dei quali la remunerazione del presidente della regione rappresenta lo 0,0004%).

Ma quello che mi fa scandalo, non è il sintomo, cioè l'assenza dell'individuazione dei padroni come causa del disastro, ma la mancanza di analisi della situazione che questa mancanza denota. Ormai lo dicono una buona quantità di studiosi, anche premi Nobel (cioè non pregiudizialmente contrari al capitalismo): il sistema economico sociale che abbiamo conosciuto, che ha anche avuto dei meriti anche sociali, è al capolinea; processi suoi interni, l'ingordigia speculativa, la distruzione di ricchezza operata, l'ambiente compromesso, un progresso scientifico e tecnologico che non sopporta i rapporti sociali preesistenti, sono alcune delle cause della crisi. Siamo di fronte alla “necessità” di una profonda trasformazione (rivoluzione) che dovrà riguarda almeno le modalità di produzione, i modi di distribuire della ricchezza prodotta, e la loro accumulazione, le modalità di organizzare del lavoro necessario e la sua distribuzione equa.

Un mondo con le ineguaglianza attuali, un mondo che non sa guardare al futuro se non come una speranza di ritorno al passato, un mondo che annunzia quotidianamente l'illusione di una prossima uscita dalla crisi, un mondo nella quale la catena sociale si è rotta proiettando pochi in alto e molti in basso fino alla miseria, difficilmente sopravvive a se stesso.

La percezione dello stato delle cose, non manca solo alle persone che protestano, non manca ai capi popoli che li agitano, non mancano a quei dirigenti populisti che vorrebbero approfittarne con ricette salvifiche inconcludenti, ma riguarda la gran maggioranza della dirigenza politica ed economica. Speriamo che si apprestino a leggere qualche libro e qualche articolo.

lunedì 9 dicembre 2013

Reddito di cittadinanza

Diario 237

  • Reddito di cittadinanza 
  • Mandela
  • Il PD di Renzi

 Reddito di cittadinanza

Il reddito di cittadinanza, di sostegno, o con qualsiasi altro nome si suole usare, costituisce una modalità di sostegno pubblico ai cittadini in “sofferenza” (può essere permanente, a tempo, legato ad una situazione di disaggio economico, ad una momentanea o permanente situazione di disoccupazione, ecc.). Può assumere il significato di una solidarietà pubblica o l’affermazione di un diritto; la dimensione di questo sostegno può variare nel tempo; può, o no, richiedere una qualche prestazione da parte di chi lo riceve nei riguardi della collettività; ecc. In sostanza forma, contenuto, dimensione, modalità possono variare nel tempo e nello spazio. 

Sembra una cosa buona e di sinistra. Che sia un provvedimento buono non si fa fatica a crederlo data la situazione sociale del paese; che possa essere fatto proprio dalla sinistra è convincente, ma che sia di sinistra si possono avanzare dei dubbi.

Si tratta di un provvedimento, infatti, che non rimuove le condizioni dalle quali insorgono le situazioni di disaggio che determinano la necessità di un sostegno. Una sinistra, comunque qualificata, deve occuparsi dei sintomi ma anche e soprattutto delle cause. Sono le diseguaglianze che generano questo fabbisogno, ma i provvedimenti di cui si discute non incidono su tali diseguaglianze; la torta della ricchezza prodotta alimenta le capaci fauci di una ristretta parte della popolazione e a chi resta a guardare è concessa una mollica. Per quanto generosa possa essere la collettività tale sostegno non supera il livello di sussistenza in regime astinenza. 

Per altro si introducono livelli di discriminazione ingiustificati: perché il sostegno ad un disoccupato e non ad un giovane che studia?

Più complessa appare la questione del reddito di cittadinanza: questo dovrebbe essere per tutti e per sempre, anche qui problemi di giustizia distributiva complessi: va concesso anche all’amministratore delegato di una fabbrica di automobili, così a caso, che guadagna 2.000 e più volte di un suo dipendente? Un tale provvedimento, inoltre, assume che il sistema economico di produzione possa emarginare una fetta della popolazione che dovrà essere garantita, ma che per non fare sgradevole discriminazione si assegna a tutti.

La sinistra del XXI secolo può non prevedere la proprietà pubblica di tutto o della parte più rilevante del sistema produttivo, ma sicuramente nell’ambito che qui interessa, ha come suo obiettivo primario quello di eliminare (non di ridurre) le diseguaglianze che originano da situazioni di potere, di eliminare ogni accumulazioni di ricchezza trasferibile a figlie o parenti, di garantire lavoro a tutti in una nuova organizzazione della produzione e del lavoro, di promuovere il progresso scientifico e tecnologico per rendere il lavoro non un castigo (… con il sudore della tua fronte) ma un’attività che possa dare soddisfazione.

Se il reddito di sostegno fosse considerato un provvedimento momentaneo e tampone in vista di una grande trasformazione (ormai necessaria come scrivono molti studiosi anche non di scuola marxiana, ma che i nostri politici non leggono) allora sarebbe accettabile e avrebbe una connotazione di sinistra, in caso contrario rischia di essere uno strumento che garantisce il potere e rafforza le catene sociali. 

Detto questo le condizioni di disaggio vanno alleviate, anche con forme di reddito di sostegno, anche perché il disaggio non risulta essere una condizione che alimenta la trasformazione progressista, ma rischia di alimentare i tanti populismi menzogneri e arruffoni.


Mandela

Non c’è ombra di dubbio, Mandela è stato un grande; ha combattuto è sconfitta l’apartheid, una cancrena dell’umanità. Ma contro di lui ha finito per prevalere la forza del sistema. Le discriminazioni di classe in Sudafrica sono violentissime, la popolazione in sofferenza molto ampia. Certo non è colpa sua, ma il risultato merita una riflessione non oleografica.


Il PD di Renzi

Renzi ha vinto e stravinto, qualcuno (io) ha sperato in un risultato meno consistente, fino al ballottaggio, ma non è così. Ma cosa succede? Non mi riferisco al contingente (governo, elezioni, ecc.), ma alla tenuta di medio periodo. 

Il discorso di investitura del nuovo segretario del PD è stato abile e pieno di indicazioni e di impegni. Il “riformismo” come stella polare, ma che cosa “riforma”: il risparmio di un miliardo del costo della politica? Necessario e opportuno; il bicameralismo? Certamente un bene; l’impegno contro le politiche di austerità? Molto bene. Per non parlare di mantenere il bipolarismo, una velleità. Ma tutto questo ci permette di uscire dalla crisi? Credo proprio di no. 

Mi spiace ripetermi, ma non mi pare che nella classe dirigente, politica e no, ci sia piena coscienza della “natura della crisi”. Non si tratta di applicare oggi le ricette del passato, ma questo vale per tutti. A me pare che a Renzi manchi la consapevolezza del livello di trasformazione per i quali sarebbe necessario impegnarsi. Il nostro è un sistema di produzione messo in crisi, profonda crisi, sia dalla finanziarizzazione dell’economia, sia dal galoppante progresso tecnologico e scientifico che rendono assolutamente obsoleto il sistema dei rapporti sociali ereditati. 



Certo c’è un ricambio di dirigenza politica, questo è un bene, ma non credo che basti anche se necessario. Ma è troppo presto per dire come sarà il PD di domani e la politica di Renzi; diffido dei discorsi utilizzati nella campagna elettorale e dei contenuti del discorso di investitura. Non resta che aspettare incrociando le dita e con … poca speranza.

domenica 1 dicembre 2013

Le primarie del PD

Diario 236

Le primarie del PD



Trovo strano che il “segretario” di un partito sia eletto non dagli iscritti al partito ma da chiunque sia disposto a pagare 2 € (vale pogo il segretariato); e come se uno/una decidesse di farsi scegliere la moglie/marito dal primo che passa. Ma comunque la “partecipazione” oggi vuole questo; non un impegno politico nel quale ciascuno ci metta la propria faccia, le proprie energie, la forza per costruzire rapporti politici con gli altri iscritti, la volontà di contribuire alla definizione di una prospettiva di lunga durata e le azioni necessarie nell’immediato; niente di tutto questo oggi bastano … 2€.

Dall’altra parte è anche vero che molte soggetti non se la sentono di affrontare un percorso che sanno per esperienza, o immaginano, pieno di “tempo perso”, di litigi futili, di lotte per il potere (sic!), e simili, ma tuttavia si sentono legati ad una prospettiva progressista e vogliono far sentire il loro peso anche solo con un voto (poco costoso) per l’elezione del segretario del maggior partito progressista.

Personalmente non so se andrò a votare, sono ancora legato, l’età me lo consente, a vecchi schemi (di cui riconosco oggi l’inadeguatezza e l’inutilità), ma se mi decidessi (per vecchio vizio) non avrei dubbi, voterei per Pippo Civati.

La vaghezza di Renzi, le sue parole d’ordine, la sua genericità programmatica, la sua ansia di successo, me lo rendono insopportabile. A Cuperlo riconosco diversi pregi, ma mi pare inadeguato a fare quello che dice che vorrebbe fare. Non dico che Pippo Civati sia il personaggio giusto, ma mi pare fatto di una pasta un po’ speciale, dotato di intelligenza vivace e mostra di credere ad una possibilità di cambiamento meno greve e meno fumosa.

Si lo so, non gradendo Renzi bisognerebbe votare per il suo antagonista più diretto, la solita storia del voto utile/inutile. Io non credo che quello per Civati si possa considerare un voto inutile, la storia non finisce l’8 dicembre, e poi dovessi votare, voterei per quello meno lontano.

Ma perché vi comunico questi miei modesti pensieri? La maggior parte di voi che ricevete il Diario, non mi azzardo a dire tutti, appartenete alla schiera dei progressisti (non mi azzardo a dire socialisti o addirittura comunisti), e molti di voi andranno forse a votare per le primarie del PD, ed allora il vecchio vizio (virtù?) della politica mi spinge a fare un po’ di propaganda per Civati (che personalmente non conosco e che probabilmente non conoscerò mai), mi è piaciuta molto la sua battaglia aperta ed esplicita sulle “ampie intese” (non si è nascosto come i 101 che hanno bocciato Prodi), argomentata politicamente e conseguente al ragionamento avanzato. È poco? Di questi tempi non so.