Francesco
Indovina
(stesura 2013)
(in: Utopia, passato, presente, futuro,
Quaderni planning design tecnologia, scienza dell’abitare, n.3, Università
La Sapienza di Roma)
In questi
giorni Philae, un piccolo robot, è atterrato sulla cometa 67P. Dopo i missili
V2 lanciati sull’Inghilterra, verso la fine della seconda guerra mondiale, dopo
i satelliti, lo sbarco sulla luna, le stazioni spaziali, l’esplorazione di
Marte, ora questa impresa, che a me pare prodigiosa. Tutto ha inizio con le V2
di Wernher von Braun sull’Inghilterra.
Lo sbarco sulla
cometa mi pare un buono spunto per ragionare sul tema che la rivista ha
proposto. Se da una parte questo episodio
fa riflettere sulle “infinite” (?) possibilità della scienza e della
tecnologia, dall’altra, spalancando la finestra sul “nostro” mondo, siamo colpiti dal panorama di
macerie fisiche, sociali ed economiche, che appaiono ai nostri occhi. Sembra
che la specie umana mentre esprime un grande potenziale scientifico e
tecnologico non è capace di un “governo” del corpo sociale che garantisca
giustizia, equità, accoglienza, convivenza, pace e libertà. Con l’aggiunta che
le esperienze utopiche in questo ambito
si sono dimostrate disastrose. Insomma nell’insieme siamo incapaci sia di
auto-organizzazione che di governo.
Immagino si
possa dire qualcosa intorno a questa
“incapacità” generale e politica, ma vorrei avvicinarmi al tema dal punto di vista dei mie
principali interessi; vorrei, cioè, avanzare qualche considerazione su come la
questione si pone a livello del governo della città e del territorio. Non
voglio, neanche, affrontare il tema di quale sia in quest’ambito l’ “utopia
realizzabile” e perché dei suoi fallimenti. In un certo senso in ogni progetto
c’è un’utopia realizzabile e sotto traccia anche il suo fallimento.
Sembrerebbe logico che, nel contesto prima delineato,
un’attenzione particolare fosse posta alle “città ideali”; non sono di questo avviso. Esse,
infatti, ci (mi) appaiono da una parte
come un’astrazione rispetto alla
concretezza materiale dei processi sociali, economici e culturali e, dall’altra
parte, affermano un’idea di forma urbana legata ad una forma di organizzazione sociale
sostanzialmente prevaricante e fortemente impositiva. Una strada del tutto
sbagliata per arrivare ad un società migliore (equa, giusta, democratica,
egualitaria, accogliente, ecc.) che non potrà che essere un processo che abbia
uomini e donne impegnati in prima persona con la piena consapevolezza di
lavorare ad una costruzione sociale sempre perfettibile.
Ma non bisogna pensare che i “modelli” siano solo quelli
delle città ideali, altri e differenti modelli si è cercato di calare nella
realtà urbana, finalizzati alla realizzazione di una filosofia o di una
funzionalità (utopie?). Si possono citare, in modo esemplificativo senza
soffermarsi su di essi, la “città giardino” e la “città lineare”, l’una tesa ad
affermare un punto di vista che privilegiava la relazione con l’ambiente, la
bassa densità, la non grande dimensione; la secondo che esaltava la
funzionalità della mobilità.
Il tema, che appare dominante nel governo della città e del
territorio e che determina una
condizione di frustrazione, può essere individuato nell’ordine urbano che motiva ogni piano, ogni azione di governo del
territorio, ogni progetto. L’attività del pianificare, del
progettare, del governare e di organizzare la città o il territorio, infatti, manifesta
la volontà di dettare un ordine
(imporre un ordine); modificare
l’esistente ha lo scopo di determinare le condizione perché si affermi un ordine
futuro (per definizione non solo diverso da quello preesistente, ma anche
migliore). Non si tratta, tuttavia, anche se apparentemente lo sembri, di un ordine “fisico”, in realtà, anche per le determinazioni di
“senso” che l’organizzazione fisica dello spazio produce, si tratta di un
ordine complessivo. Non si prospetta solo
un ordine fisico, ma piuttosto il tentativo ricorrente è quello di creare le
condizioni per la realizzazione di un ordine sociale; un ordine sociale modificato (fino ad essere rivoluzionato)
o la creazione di una struttura che rafforzi l’ordine sociale esistente, affinché
esso sia in modo espanso “accettato” e, soprattutto, che non sviluppi anticorpi.
Ed è qui che ritorna il concetto di “modello”. Quando si
prospetta un “futuro”, che sicuramente intende
correggere quello preesistente, chi conduce l’operazione si affida ad un
modello che ha in mente, che ha elaborato, che costituisce lo “stile” della sua
modalità di governare. Non necessariamente si tratta di un modello
codificato, ma piuttosto di una
struttura logica che individua,
all’interno di una rete di connessione, cosa cambiare, dove collocare, che cosa
realizzare, cosa sacrificare, cosa esaltare, ecc. In sostanza l’ansia realizzativa è legata ad una
prospettiva ben definita (la sua realizzazione è problema diverso).
Non a caso mi piace definire il processo di organizzazione
della città e del territorio (l’urbanistica) come “scelta politica tecnicamente
assistita”; si tratta di una scelta politica da parte di chiunque definisca le linee di indirizzo di una data realtà (è
logico immaginare che tale scelta avvenga secondo procedure democratiche e
trasparenti; che sia sempre così è un altro problema), mentre le tecnicità di
assistenza costituiscono la modalità attraverso le quali quelle linee di indirizzo assumono connotati
morfologici di piano e azioni realizzative di politiche pubbliche.
Lo schema appare perfetto, semplice e chiaramente definito
nei suoi termini generali e fondativi, ma la realtà operativa è molto più
complessa, contradittoria, non priva di ostacoli e di trappole.
Vorrei indicare quelle che possono essere definite come le
difficoltà oggettive (delle soggettive non merita occuparsi) che un tale
processo incontra, oggi più che ieri. In sostanza vorrei esplicitare in breve e
sommariamente del perché, secondo la mia opinione, ogni ordinamento è destinato a presentarsi
nella sua realizzazione come “parziale” e,
non raramente, fallimentare.
Per quanto realistico possa essere un piano di
organizzazione (o riorganizzazione) dello spazio, esso ha sempre e comunque la tendenza (il suo
contenuto) ad imporre un diverso modo di funzionamento e organizzazione;
altrimenti perché intervenire? Proprio perché questo nuovo modello di
organizzazione rifiuta la tendenza in atto e a questa più o meno estesamente si
“oppone” (di fatto), per sua natura assume il connotato apparente di “utopia
realizzabile”, ma nella realtà finisce
per configurarsi come un’utopia “non
realizzata”, la struttura della società reagisce e si oppone (reazione e
opposizione dipendono sia dalla natura del progetto, dalla sua forza, sia per
gli interessi che colpisce).
So che forse eccedo nell’uso (e abuso) del termine utopia,
ma mi sento legittimato a questo uso facendo riferimento, anche se in modo
parziale e personale, a quanto affermano Yona Friedman e Robert Musil,
posizioni richiamate nella presentazione di questo numero della rivista.
Assumo, cioè, che l’utopia non solo sia realizzabile ma costituisca elemento
fecondo di ogni (di tutti?) gli interventi di trasformazione della città (e
della società). Interpreto, tuttavia, tale realizzabilità
come una possibilità perennemente frustrata
ma assolutamente necessaria. I
termini realizzabilità, frustrazione e necessità costituiscono la maglia concettuale che definisce ogni
tipo di intervento.
La realizzabilità
costituisce l’elemento fondativo di ogni politica, non mi riferisco soltanto ai
suoi contenuti, ma anche alla operatività attivata. Non sono i contenuti che
possono garantire la realizzabilità degli
stessi, questi dipendono dalla giusta e
ponderata misura del rapporto tra realtà,
obiettivi e forse in campo. Tanto per essere esplicito, non penso che
una proposta estrema e radicale (come si dice oggi non volendo più usare il
termine rivoluzione e suoi derivati) abbi un tasso di realizzabilità minore di
una proposta riformista, in molti casi proprio quest’ultima rischia di essere
non realizzabile, perché incide poco, lascia spazio alla contrapposizione, non
determina nuovi equilibri. È il rapporto tra proposta, forze in gioco (di tutti
i tipi), e contesto reale che determina la realizzabilità o meno di una
proposta (anche di assetto del territorio).
La necessità è il
fondamento di ogni intervento. Si interviene perché la realtà non appare
soddisfacente (nel dal punto di vista fisico morfologico, né da quello
sociale), e la sua dinamica ancora meno. È questa insoddisfazione, più o meno
generalmente percepita, che determina la domanda di un intervento correttivo
della situazione.
La frustrazione è
l’esito di diverse circostanze, che vanno dall’inadeguatezza della proposta, da
errori di valutazione, ma soprattutto del fatto che si ha a che fare con
un’organizzazione complessa e in modo circostanziato di una maglia di relazioni
con diversi gradi di affinità fino all’antagonismo.
La città è un’organizzazione dalle molteplici relazioni tra
soggetti e interessi, che tende a “reagire” alla sua trasformazione di fronte
ad un atto di imperio (il piano), che proprio perché introduce delle
trasformazioni, non conferma la tendenza
spontanea, cioè non segue il corso delle
cose, ma impone delle deviazioni sul percorso spontaneo. D’altra parte il
piano, per quanto articolato sia, finisce sempre per lasciare dei margine: deve
essere seguito (eseguito) ma contemporaneamente deve considerare possibili
“opposizioni” e non può prevedere degli accadimenti esogeni, e quindi deve ammettere
qualche maglia larga; speso, incontrando una realtà non abbastanza studiata o
non prevista, si “smaglia” e lascia
spazio a realizzazioni che difficilmente possono essere considerate conformi
alle intenzioni.
La cosa che vorrei sottolineare è, inoltre, l’emergere di
condizioni esogene, molto difficilmente prevedibili (sono questi gli argomenti
che sostengono quanti pensano ad un “piano flessibile”, cioè all’assenza e alla
vanificazione di ogni forma di pianificazione), che possono influenzare la
realtà modificando le condizioni di base. Una di questi elementi esogeni è
sicuramente la tecnologia. Si possono fare due banali considerazioni iniziali:
l’innovazione tecnologica e sempre più pervasiva; il ritmo dell’innovazione è
sempre più veloce. Quale sia l’impatto di questo nell’organizzazione urbana e
territoriale, un impatto non evitabile, viene molto spesso mitizzato mentre andrebbe governato.
Si osservi intanto che mentre per lungo tempo la tecnologia
della città (incorporata nella città) era superiore (per qualità e quantità) a
quella in uso nelle “famiglie”, ora la situazione si è capovolta: ciascun
individuo ha in generale una dotazione di tecnologia assolutamente
incommensurabile rispetto al quella in uso nella città. Il grande parlare della
“città intelligente”, i finanziamenti a questo scopo destinati, sono
finalizzati, si dice, a colmare questa distanza tra città e individuo. Ma non
vengono prese in considerazione le
conseguenze sull’organizzazione urbana, ci si contenta di descrivere le
meraviglie della connessione, quella della disponibilità di dati in tempi
reali, quelle delle possibili libertà di scelta, la dilatazione delle
conoscenza, l’informazione in tempo reale, ecc. Ma cosa, a che scopo e da parte
di chi, queste possibilità sono realizzate e utilizzate, o, ancora, come si
modificano i rapporti di potere reale cancellando i “corpi” intermedi e facendo
riferimento esclusivamente all’individuo connesso ma isolato?
Se da una parte le “fantasie” tecnologiche possono
descrivere paesaggi “spaventosi”, dall’altra parte non pare soddisfacente
l’ipotesi soft che ci offre una città “migliore” ma che di fatto continua a
funzionare come ora. L’innovazione tecnologica, individuale, collettiva e
urbana, modificherà, lo sta già facendo, gli stili di vita, e questi
influenzeranno pesantemente la “domanda” di città, la percezione della
convivenza, i modi come si userà lo spazio organizzato, che continuiamo a
chiamare città. Alle condizioni date non avremo una società più coesa, ma
piuttosto una società più segmentata (altro che liquida) e caratterizzata da
fortissime sperequazioni e discriminazioni. La crisi occupazionale non sarà
risolta, ma essa, sembra probabile, si approfondirà proprio per effetto delle
tecnologie, con quello che questo significa sia in termini di disponibilità di
reddito di famiglie e individui, sia in termini di ulteriore sgretolamento
della società, sia in termini di “domanda pubblica”, nonché di conflitti e
insicurezze. Non è da escludere, ma al contrario considerare che le
sperequazioni sociali determineranno da una parte un ulteriore affermazione dell’organizzazione
sociale dello spazio, dall’altra parte si
avrà un crescente degrado della città nel suo complesso e specialmente di alcune
sue parti.
Ma se poi il nostro sguardo si proiettasse fuori dai confini
europei allora la situazione ci apparirebbe del tutto fuori da ogni possibilità
di controllo. Non solo il processo di inurbamento è previsto sempre più rapido,
ma in alcune metropoli dell’Asia,
dell’Africa e dell’America Latina si prevede che la popolazione possa crescere
(previsioni fino al 2025) nella misura di alcune centinai di miglia di persone
l’anno (con una punta massima di mezzo
milione di abitanti medi per anno per Dakar). Appare evidente come questa
dimensione non renda possibile nessuna politica di insediamento che non siano
sterminati slum e politiche violente di contenimento. La condizione urbana e
metropolitana nel mondo appare drammatica, anche in paesi con tassi di sviluppo
economico molto alto, come in Cina, e politiche autoritarie, come in Cina. In
realtà qualsiasi forma di governo del territorio rischia di essere travolta.
Per alcuni di questi
aspetti si pensa che la “partecipazione” possa costituire un antidoto, in altri
contesti si fa riferimento a processi di autoorganizzazione, o ancora a forme
nuove di convivenza. Trattare di questi aspetti non mi è consentito, per
ragione di scienza e di spazio, ma un’osservazione mi sembra di poterla
avanzare: tali riferimenti tengono sotto gli occhi la situazione europea, che
pur nei suoi limiti potrebbe giovarsi di una loro estesa e intelligente
attivazione (estesa e intelligenza attivazione, si torna all’utopia nel senso
banale del termine). Ma l’Europa, non sembri un paradosso, costituisce una caso
fortunato, per storia, cultura e sviluppo economico, ma se il mondo continuerà
ad andare così come è andato negli ultimi dieci/venti anni il continente sarà
“invaso” non militarmente (almeno si spera) ma da una massa di disperati che sfuggono
alla fame, sete, carestia, oppressione e violenza e sperano in una vita
migliore. Né avremo possibilità di difenderci.
Se gli elementi prima segnalati, in modo disordinato e forse
non coerente, rappresentassero tuttavia la prospettiva della nostra futura
condizione urbana e metropolitana, il ricorso all’utopia sarebbe una mera
necessità. Intendo dire che il governo delle trasformazioni in atto e attese
richiede il massimo di intelligenza “politica”, il massimo di inventiva, il
massimo di senso critico. Non solo ma l’utopia realizzabile si dovrebbe
caratterizzare per un tasso molto elevato di radicalità: le città e
l’organizzazione del territorio richiedono delle soluzioni sociali e politiche
che sappiano mettere a frutto il grande potenziale delle innovazioni
tecnologiche, e che sappiano usare questo potenziale per una rivoluzione che
mentre libera “tempo individuale”, garantisca diritti di cittadinanza, sviluppo
e moltiplicazione dei servizi, uguaglianza e libertà.
È molto probabile che la convivenza civile sarà in futuro
segnata da oppressione, discriminazione, sperequazione e violenza, così come viene
descritta in molta letteratura e in molto filmografia (si pensi a Fuga da New
York, Blade runner o il precedente Metropolis). Non mi riferisco al mondo dopo
la catastrofe nucleare o ambientale (la terra il giorno dopo), ma piuttosto
alla rappresentazione visiva dell’incapacità della nostra specie di controllare
la propria evoluzione (sic!) sociale
è individuale.
Mentre mi paiono molto improbabili quelle descrizioni di
città e metropoli “perfette”, che abbondano dell’uso delle tecnologie più
avanzate, ma che sembrano non incidere sulle relazioni sociali, con una sorta
di scoperta del “buono” che c’è in ciascuno di noi.
Ma se non possiamo assecondare le visioni apocalittiche né
tanto meno possiamo fidarci di una prospettiva del meraviglioso, allora abbiamo
bisogno di tornare ai concetti sui quali in precedenza mi sono soffermato:
necessità, realizzabilità, frustrazione. Concetti che andranno affidati non
solo ai “reggitori” (qualsiasi ne sia la
forma) ma alla società nel suo insieme e nei suoi singoli membri.
Il futuro richiede, ci impone se non si volesse soccombere,
un’utopia realizzabile; si tratta, cosi mi pare di sentirla, come una necessità
salvifica (non metafisica) delle migliori possibilità della specie. La
necessità di un progetto (urbano e sociale) che affermi (non riaffermi)
principi di equità, convivenza, uguaglianza e libertà. Che ridisegni lo spazio
affermando questi valori (non quello della solidarietà, spero sia chiaro perché).
Tale necessità devono concretizzarsi in un’utopia realizzabile, spero che sia
chiaro per quanto detto prima che tale realizzabilità non si fonda sulla sua
moderazione, quanto piuttosto sulla sua radicalità. Ai contenuti di questa
utopia realizzabile bisognerà mettere collettivamente mano, non può essere
l’idea di qualche eccelsa mente, proprio perché deve cogliere i sapere diffuso,
le esperienze concrete, la disponibilità creativa, non potrà che essere un
prodotto collettivo (spero che sia un’utopia realizzabile questo
coinvolgimento). Contemporaneamente
dobbiamo essere pronti ad accettare la frustrazione di una realizzazione
parziale: contrasti, fratture, incomprensione, antagonismi e interessi,
scenderanno in campo, per contrastare e per modificare.
Tale frustrazione non è un indicatore di sconfitta, ma
piuttosto indica la strada di un
continuo e permanente ricominciare.
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