domenica 7 aprile 2013

Diario 218


Diario 218
1-7 aprile 2013

·         Fibrillazioni nel PD
·         I paradossi e l’idiozia del grillismo
·         Un “piano” economico
·         Citazioni: nel bene e nel male (Rossana Rossanda, Altan, Guido Rossi, Stefano Boeri, Marino Mastrangeli,  Nichi Vendola)

Fibrillazioni nel PD
Più presto del previsto il PD, usando un eufemismo, entra il fibrillazione. Il sindaco di Firenze si candida a premier e quindi oggettivamente (ma anche soggettivamente) apre lo scontro con Bersani e i “giovani turchi”. Questi ultimi, temendo di essere accusati anche loro di perdere e far perdere tempo,  si agitano e firmano un appello unitario per la nomina delle Commissioni parlamentari, dove la sottolineatura più importante non è tanto da mettere sotto l’oggetto dell’appello ma rispetto alla sua unità. Ma lo schieramento anti-Bersani si allarga (si può dire che tranne i fedelissimi ormai tutti sono contro); usano parole furbe , non invocano, Almeno fino ad ora, il governissimo con il PDL, ma solo di abbandonare 5* (nel momento in cui si manifestano i segni di una frattura interna) per abbracciare (in modo indolore) il Cavaliere. Chi sa perché non riflettono che il bacio del Cavaliere non è quello del principe a Biancaneve, non rompe l’incantesimo negativo ma trasmette il bacillo della dissoluzione.
Sul nome da proporre alla presidenza della Repubblica non pare ci sia accordo, per di  più la questione è complicata dal  vincolo che il nome o i nomi non devono dispiacere a Berlusconi (accordo Bersani-Monti)  il che significa non solo dare un “diritto di veto” a Berlusconi ma tagliate fuori alcune candidature, prima di tutte quella di Romano Prodi. Mentre  i candidati PD o di “area” sono sempre più numerosi e la candidature avanzata da Berlusconi, era da dirlo, di D’Alema agita ancor più le acque interne.
Sembrerebbe una buona notizia la candidatura alla segreteria del PD di Fabbrizio Barca, persona sicuramente degna, di spessore intellettuale e di indirizzo non banalmente riformista. Ha scarsa esperienza del partito, il che potrebbe essere un vantaggio, ma forse non in sintonia con le proposte programmatiche di Renzi.
L’idea di Vendola, se ho capito bene, di un ingresso di tutta la sinistra nel PD mi sembra buona ma sicuramente è anche un elemento che  aumenterà la “dialettica interna” (per così dire).
Si tratta di “forze” in contrasto da una parte e in sintonia dall’altra che potrebbero portare ad un risultato positivo. Non c’è dubbio infatti che il PD necessita di una profonda revisione della sua linea politica per fondare una nuova idea di società. Non si tratta solo di un ricambio di uomini, ma di fare i conti con i nuovi contesti mantenendo ferma la rotta: libertà e uguaglianza. Valori persi a vantaggio del politicismo, da una parte, e dall’assenza di ogni rifondazione del pensiero e della prospettiva di trasformazione (un alzata le mani difronte a quella che è sembrata una vittoria incontrastabile del liberismo). Si può sperare ad un trasformazione del PD in grado di offrire un’alternativa alla miseria cultuale, sociale e d economica di oggi. Si può sperare non tanto in provvedimenti frammentati (oggi il paesaggio, domani l’ambiente, dopodomani la scuola, e poi l’edilizia, la riqualificazione ambientale, la salute, ecc.) ma più tosto in una progetto unitario e coerente da raggiungere attraverso singoli passi ma che conducono un corpo solo e solido. Si può pensare che i rapporti sociali di produzione sono oggi molto più complessi ma non per questo meno rilevati nel segnare la società.
Tutto questo è possibile ad alcune condizioni:
-          Tenere immutato ma anzi allargare il consenso popolare. Questo significa che qualsiasi accordo con il PDL è sbarrato, onde evitare che il PD perda in modo consistente il consenso acquisito. Con buona pace di Renzi, Franceschini, della Bindi, al lordo delle smentite, Fioroni, ecc. E’ di senso comune che un accordo di governo, non importa la formula, con il PDL sarebbe catastrofico per il PD (con o senza scissioni);
-          lo sbarramento verso la grane coalizione non va coniugata con una impotenza politica parlamentare. Si deve fare uno sforzo per cogliere le esigenze che emergono dalla società: l’occupazione, l’ambiente, la ricerca, ecc. ma anche libertà individuale e eguaglianza, e su tali problemi operare con iniziative, decisioni, atti programmatici;
-          fondamentale sarà l’atteggiamento dei singoli in questa opera di ricostruzione politica. Siamo tutti terremotati, ma sotto le macerie brillano valori e progetti di società, sarà necessario costruire con queste macerie un edificio nuovo.
Si lo so tutto quello che ho scritto sembra una predica, una predica dettata da ottimismo, ma mi rode dentro anche una punta di pessimismo che vede la disintegrazione del PD e dalla quale disintegrazione non nascerà nulla di buona (anche se c’è qualcuno che lo pensa e lo spera).         

I paradossi e l’idiozia del grillismo
1.       i pullman, il tentativo di depistaggio dei giornalisti, le riunioni a porte chiuse con i commessi a tenere lontano orecchie indiscrete (giornalisti) e altri simili atteggiamenti per un Movimento che ha alzato la bandiera della trasparenza sono ridicoli, delle vere idiozie politiche e la negazione delle idee fondative del  Movimento stesso. I partiti (vecchi) che i grillini criticano, a ragione, e disprezzano, a torto, sono molto, ma molto più trasparenti del M5*;
2.       è mai possibile che nell’anno di grazie 2013 il M5* scopra e imponga con determinatezza il “centralismo democratico” di leninista-stalinista  memoria? Deputati e senatori 5* hanno atteggiamenti talmente vecchi da sembrare delle comparse di un film già visto. C’è dell’insoddisfazione per questo regime, (vedi citazioni) ma la sostanza è ancora quella del centralismo democratico.
3.       quello che impressiona non è la giovane età degli eletti 5*, non è la mancanza di cultura, l’ignoranza della storia, ecc., ma la mancanza di spina dorsale. Tra gli eletti si trovano soggetti che non si sono fatti intimorire dallo Stato, dalla Polizia, che non hanno avuto timore di andare contro scelte internazionali (come per esempio i “no Tav”), ma, nelle aule del Parlamento, si comportano come un gregge che segue il pastore.  Non mi discutere ora le scelte che fanno ma sarebbe bello che tali scelte risultassero il frutto di discussioni trasparenti e pubbliche, e non fossero la ripetizione di un  “verbo”. Se così fosse si potrebbe capire di più;
4.       una parte degli eletti, così hanno “carpito” i giornalisti data la segretezza delle loro riunioni, pare siano insofferenti per la resa inutile del voto di ¼  degli elettori. Rappresentano un quarto dell’elettorato ma non riescono a fare nulla, non incidono in niente, mentre la prospettiva di nuove elezioni non è lontana. Non si muovono come una falange che vuole cambiare tutto, ma come dei figuranti di un protagonismo che non ha un vero interesse al cambiamento e punta solo alla propaganda.    

Un “piano” economico
Ho avuto un lunga conversazione con una mia giovane amica economista (Giulia) che mi ha contestato la mia posizione sul debito pubblico (rinnovo automatico, ecc.). Le sue osservazioni  critiche non sono da sottovalutare, sostanzialmente appuntate sull’impossibilità di avere prestiti da una parte e dall’altra dall’essere una proposta vessatoria essendo difficile fare dei distinguo relativamente ai possessori di titoli di stato. La posizione della mia contradditrice era giustificata dalla sua indifferenza verso il debito, “continuiamo a fare debiti” il problema è lo sviluppo. Ma oggi l’assillo ideologico da una parte e gli impegni presi nei riguardi della UE sono di ben altro tipo: non solo pagare il debito ma ridurlo fino al 60% del PIL. Liberati da questo assillo psicologico e dagli impegni UE allora le cose cambierebbero, ma fino a quando l’uno e l’altro restano fermi la “tosatura” dei redditi  della popolazione sarà sempre più pesante.
Siamo stati d’accordo, ovviamente, sulla lotta alla corruzione e all’evasione, come pure alla riduzione degli sprechi, che non sono solo quelli della politica, riduzioni che non passano per i tagli lineari, ma per una riorganizzazione della macchina pubblica, non pleonastica rispetto agli altri paese ma al contrario più ridotta, ma sicuramente bisognosa di riorganizzazione.  Tutto questo è da fare, comunque, ma sarebbe importante legare tale azioni ad un progetto.
C’è stato accordo sulla necessità di una politica economica di sviluppo e in particolare sulla politica industriale. Il nostro sistema produttivo non è capace e in grado di produrre sviluppo, si impone un pesante intervento dello Stato. Sia con un rilancio dell’economia pubblica (lo smantellamento dell’industria pubblica ha generato nuovi centri di inefficienza e di corruzione)sia con politiche di sostegno e di innovazioni pesanti,  mirate e controllate negli effetti.  Certo questo imporrebbe una struttura pubblica efficiente e tecnicamente preparata, cosa che si dà molto parzialmente.
In sostanza si impone un “piano” economico, non una serie di provvedimenti  episodici, ancora peggio, di riforme ideologiche come quella del mercato del lavoro. Un piano centrato sul protagonismo dello Stato coinvolto con diversi strumenti di intervento non solo con l’impresa e la spesa pubblica (che preveda tra l’altro un intervento moralizzatore e di funzionalità del sistema bancario, che sempre più appare come un bubbone).
Scoraggiati abbiamo concluso che all’orizzonte non c’è nulla di questo.

Citazioni: nel bene e nel male
Rossana Rossanda, sbilanciamoci, 2 aprile 2013
“È venuto il momento di smettere di domandarsi com’è che Berlusconi rispunta sempre sulla scena politica. Bisogna riconoscere che quando sembra del tutto abbattuto, c’è sempre una mano di destra o di sinistra che lo risolleva dal pantano in cui si trova. Bisogna chiedersi invece perché per la quinta volta questo scenario si ripete e se non ci sia nel paese un guasto assai profondo che ne consente la disposizione. Pare evidente la responsabilità di una sinistra – specificamente il Pci, che era stato dopo la guerra il più rilevante e interessante di tutto l’occidente – nel non aver esaminato le ragioni del crollo dell’89, quando i figli di Berlinguer si sono convertiti di colpo a Fukuyama (“la storia è finita”) con la stessa impermeabilità che avevano opposto a chi, fino a un mese prima, aveva avanzato qualche critica al sistema sovietico.
Ma, una volta ammessa questa debolezza della sinistra e dei comunisti italiani in particolare, è impossibile non chiedersi perché l’Italia sembri incapace, ormai storicamente, di darsi una destra almeno formalmente democratica, non sull’orlo dell’incriminazione in nome del codice penale. È questa una maledizione che ci perseguita fin dall’unità del paese e non sembrano certo i dieci “saggi” proposti dal Colle in grado di affrontarne le ragioni e estirparne le radici. Destra e sinistra sembrano ammalate nel loro stesso fondamento culturale e morale; la ragione di fondo per cui ci troviamo nella bruttissima situazione odierna sta, evidentemente, qui, finché questa diagnosi non viene seriamente fatta, non ne usciremo, neppure quando non mancano, come oggi, ragionevoli proposte per bloccare una deriva che appare mortale per la nostra giovane e fragile democrazia”.

Altan, vignetta da L’Espresso 8-14 aprile 2013
“Per il Quirinale serve uno di altissimo profilo, ma sconosciuto a tutti”.

Guido Rossi, Il Sole 24 Ore, 7 aprile 2013
“Pare allora terribilmente attuale il parallelo di Friedrich Nietzsche nella Genealogia della morale, dove il concetto di colpa ha preso origine da quello molto materiale di debito, e anche la comunità sta con i suoi membri nel fondamentale rapporto del creditore verso i propri debitori, che oggi è chi risulta fuori dal mercato per qualsivoglia ragione dovuta alla crescente disuguaglianza, deve essere dalla comunità restituito allo stato selvaggio, anche attraverso la detenzione. Ed è così che mentre da più parti i tentativi di ridurre i bonus delle élite del capitalismo finanziario non trova nessun concreto effetto e i paradisi fiscali aumentano i loro depositi di ricchezze illecite, coloro ai quali vengono sottratti i loro diritti per ragione di politiche economiche del dio mercato, sono considerati reietti e comunque indegni di una così detta società civile, sempre più pericolosamente isolata e incapace di liberarsi di barbare e pericolose ideologie”  (anche se forse qualche taglio della redazione del quotidiano rende pesante il periodare, il senso è chiaro).

Stefano Boeri, Corriere della sera  8-14 aprile 2013
“Matteo Renzi rappresenta un fattore di innovazione e il suo ruolo può essere importante anche a Milano…La sua candidatura (di Bersani) piaccia o no, si è esaurita. Ma non ha senso fare le primarie se prima non si pensa a ruolo e natura del PD” (“Ruolo e natura del PD” ma discutiamone liberamente avendo sotto traccia la situazione sociale italiana, le ineguaglianza nazionali e internazionali, e la necessità di modificare il regime economico sociale)


Marino Mastrangeli,  senatore 5*,Corriere della sera  8-14 aprile 2013
“Non basta un voto a maggioranza di noi parlamentari. Noi siamo semplici esecutori del mandato che ci hanno conferito  cittadini e attivisti, per questo dovremmo consultarli sempre… Se dalla rete emerge che su un provvedimento c’è una fetta di minoranza che ha votato in altro modo, quel voto dovrebbe essere riflesso in Parlamento”

Nichi Vendola, La Repubblica  8-14 aprile 2013
“Matteo (Renzi) pensa che ci sia una specie di ora X per il cambiamento e che oggi non sia possibile fare altro che immaginare il governissimo con il PDL e le elezioni anticipate, perché tertium non datur. Questo suo realismo rischia di replicare vecchi copioni, e impedisce al centrosinistra di mettere in campo l’innovazione e l’audacia di cui c’è bisogno persino a livello della manovra politica”

venerdì 5 aprile 2013

Rossana Galdini, Palcoscenici urbani. Il turista contemporaneo e le sue architetture


Rossana Galdini, Palcoscenici urbani. Il turista contemporaneo e le sue architetture
Liguori Editore, 2011, pp.  121, € 19,90
Francesco Indovina
(in Archivio di Studi Urbani e Regionali, 2013) 


Il lavoro che si recensisce, appare di notevole interesse su due piani: da una parte perché affronta un tema conosciuto ma molto poco frequentato per la difficoltà di mettere ordine sistematico su una materia non solo molto articolata ma che presenta, insieme, costanti e variazioni. Il secondo motivo di interesse è come l’autrice documenta il fenomeno. Non mi riferisco solo alle immagini, ma anche alle accurate descrizione.  Il  recensore spera e si augura che l’autrice abbia potuto  viaggiare molto tra queste architetture alberghiere, in una sorte di “viaggio di istruzione” in un mondo piacevole, anche se connotato di qualche stuccevolezza. So che si è capaci di descrivere anche il “non visto”, ma spero che abbia potuto fare esperienza diretta, se non di tutte almeno di una parte delle situazioni descritte, e che ne abbia goduto.
Il punto di partenza dell’autrice si può riassumere, in parte con le sue stesse parole, è l’indagine di come le architetture, soprattutto, ma non solo, alberghiere, tentino di rispondere alla “dimensione di evasione dal quotidiano, di richiesta di autenticità o, al contrario, di inautentica dimensione onirica, le architetture creano scenari adeguati alla rappresentazioni richieste: palcoscenici urbani costruiti con elementi spettacolari e soluzioni architettonici sorprendenti, citazioni del passato, echi del contesto, ipermoderne tecnologie e richiami alla tradizione”.  
Le architetture, come è banale osservare, non sono state mai neutre (le architetture non l’edilizia) esse hanno avuto una componente, spesso non piccola, celebrativa, vistosa evidenza del potere (spirituale o materiale), apparato educativo, per  chi il potere non aveva, ma adatte a far riconoscere (e se possibile rispettare) differenze, scale sociali ed esclusioni. Quelle di cui si occupa Galdini pare che sfuggano a questo ruolo, esse sono, secondo l’autrice,  una risposta alla nuova caratterizzazione della  “domanda” turistica. Certo che la domanda ha un ruolo, ma come si risponde a questa domanda non sfugge, secondo la mia opinione, ai determinanti della società. “L’architettura postmoderna visibile nelle architetture turistiche contemporanee è soprattutto apparenza, fantasia, sogno. Al di là della funzionalità è pura invenzione formale, immaginaria, simbolica, metafora di una società dinamica  e complessa, e trova la sua collocazione in una città sempre più frammentata, luogo di sosta permanente, di passaggio, di consumo di mille tribù metropolitane che l’abitano l’attraversano e la vivono nella quotidianità”.  Non so se sono completamente d’accordo con questa formulazione, ma non è questo il tema, quello che mi pare utile mettere in  evidenza è che tale formulazione “distingue” poco, per così dire.     
Il turista è felice, è contento, che tutto questo sia stato costruito, organizzato, pensato, per lui, per i suoi bisogni interpretati e individuati senza neanche il bisogno di esporli. L’affetto che lo circonda lo gratifica, si gode questa, molto interessata, attenzione. Avendo fatta la sua scelta sa quello che lo aspetta e lo meraviglierà (l’atmosfera medievale o orientale, per esempio), tante sorprese nell’ordine del convenzionale.
Ma chi è il turista? L’autrice non tenta una classificazione, impossibile, ma mette in chiaro alcune delle contradditorie esigenze del turista contemporaneo.  Non la semplificazione secondo l’ambiente prediletto (il mare, piuttosto che la montagna, per esempio), non già secondo le esigenze dettate dall’appartenere ad una determinata fascia d’età (la tranquillità per l’anziano, il divertimento per il giovane), ma piuttosto soffermandosi su due sue caratteristiche “Una pluralità di domande vengono rivolte alla scena turistica, caratterizzate da due aspetti principali: varietà e ibridazione”. Si tratta di due aspetti che rendono impossibile qualsiasi tipo di identificazione: la varietà si presterebbe ad una possibile classificazione ma quando ogni varietà è ibridata da “esigenze, desideri, e aspettative diverse” allora ogni classificazione va a farsi benedire. Se fosse, quello di cui si scrive, uno studio sul turismo, questa impossibilità di classificazione risulterebbe grave, ma trattandosi di una ricerca sulle architetture che rispondono a domande varie e ibridate, danno senso alla varietà di queste architetture ciascuna delle quali “crea” un simulacro di una “cosa” desiderata.
All’interno di questo studio mi pare sia possibile distinguere la parte che riguarda gli alberghi,  dalla parte che riguarda le trasformazioni della città attraverso  la costruzione di architettura, in un certo senso, “eccezionali” ma adatte a soddisfare il turista. Trasformazioni, che nella terminologia dell’autrice, si configurano come “bolle” o come “set”. “La differenza tra la bolla e il set riguarda il fatto che la bolla implica il sentirsi a casa anche in un luogo lontano; è un prolungamento della casa. Il castello di Neuschwanstein è invece il set esterno alla bolla, espressione di partecipazione e full immersion, un set dove  il turista possa sentirsi altro e giocare un ruolo”.
Il turismo è un settore economico sempre più rilevante nelle economie di certe città e di certe regioni. Le nuove architetture o l’immagine del passato costituiscono l’attrazione, lo strumento per tentare di  fare concorrenza ai molti luoghi che vorrebbero attrarre a loro volta il turismo, e dove gli abitanti locali fanno la figura delle comparse. Per parlare di un caso ovvio ricordiamo quello di Venezia, ove l’esaltazione dell’unicità della città, definizione dal significato insondabile, mette assieme 50.000 residenti e 22.000.000 milioni di turisti.       
Ma proprio il caso di Venezia mette in tensione, in un certo senso, una componente del saggio di Galdini; quella relativa alla tipicizzazione del turista, o per meglio l’impossibilità di tale tipicizzazione.  In realtà l’autrice in alcuni passaggi mette in evidenza che esiste un problema si status economico ma lo mette in discussione in relazione alla nuova fenomenologia del consumo: “Nella concezione di consumo come indicatore di status sociale l’acquisto di particolari merci corrisponde ad un preciso stile di vita. In quest’ottica il consumo è ridotto ad una logica distintiva di riproduzione della posizione sociale degli attori”. Ma si potrebbe sottolineare non solo per la “riproduzione”, ma per l’esplicitazione di una posizione sociale raggiunta o conquistata (nel nostro paese, con specifico riferimento ai politici gli esempi riempirebbero pagine e pagine). “Le tendenze emergenti a partire dagli anni sessanta pongono in discussione questa visione. Si osserva, infatti, lo sviluppo di una nuova prospettiva ‘culturale’ della società dei consumi che considera il fenomeno per la valenza sociale simbolica  in sé dell’agire del consumo, e non solo in base alle differenze sociali.”   
Non sono un esperto di sociologia del consumo, ma le osservazione sopra riportate sembrano plausibili a condizione che li applichiamo ad un segmento molto ristretto della popolazione (non dico quella dell’ 1% ma molto vicina ad essa).  Il consumo è possibile convenire, e quello turistico in particolare, è legato alla  capacità a pagare di ciascuno; la tassonomia costruita dall’autrice che non tiene conto di questa variabile non vale, o meglio vale per un segmento della popolazione.  Il turismo che utilizza le architetture di cui il volume si occupa, sarà differenziato, sarà rinnovato, sarà ibridato ma a questa parte della popolazione appartiene.  Ma il testo non intende entrare in questo campo e si riferisce ad  un tipo “ideale” che esiste ma che è solo una parte della massa di turisti.
L’analisi, anche tipologica, delle architetture turistiche pare interessante, come pura quella  parte dedicata alle trasformazioni che queste architetture inducono nelle città. Si tratta di un tema che forse avrebbe meritato una maggiore attenzione perché, almeno così mi pare,  esiste  un nodo non facile da districare. Esistono delle architetture che si definiscono come attrattive (un museo, Bilbao; un albergo, Parco dei Principi di Sorrento; ecc.), esse attraggono in se stesse;  ma esistono anche delle città che sono attrattive in quanto tali (Parigi, Londra, Barcellona, ecc.) e che in parte, solo in parte, sono trasformate dalle architetture turistiche.  La loro dimensione, in un certo senso, garantisce la tenuta della loro specificità.  In quest’ambito le architetture turistiche, continuando ad usare questa categoria, possono se del caso  influenzare una parte della città, ma la città, nel suo complesso, ne esce indenne.
Quando ci si trova di fronte ad un modello di insediamento a “saturazione”, come è il caso di Venezia (50.000 residenti e 22.000.000 di turisti), la risposta all’articolata domanda (anche dal punto di vista economico) produce  una profonda trasformazione della città. Gli edifici più rilevanti si trasformano in hotel il cui numero di stelle non sempre è un indicatore sicuro di qualità; mentre nel ginepraio, di quella che è definita architettura minore, si ha una trasformazione che, in modalità diverse, soddisfa domande turistiche altre. Ma non è finito: un monumento della storia turistica veneziana, il Gran Hotel de Bain, viene trasformato in appartamenti, nell’ipotesi, non ancora verificata, che in questo modo sia possibile risolvere una crisi che ha investito un “luogo” ormai usurato agli occhi di un certo tipo di turismo.
 Appunto, come dice Galdini, il turista cambia (cambiano i desideri, le domande, le aspettative, ecc.) e cambia anche l’architettura che lo ospita. Ma l’industria turistica non è settore economico “facile”, e per quello che qui interessa,  non è un settore economico leggero, ma piuttosto un’industria pesante, nel senso che le sue realizzazioni, non funzionali in senso stretto al luogo dove sorgono, costituiscono spesso un segno anomalo.
Lo studio di Rossana Galdini, appunto sui palcoscenici urbani, come già ho avuto occasione di dire, mi pare di notevole interesse per chi fosse attento alle trasformazioni urbane e territoriali, offre un punto di vista specifico e particolare ma non per questo di minore importanza.          

giovedì 4 aprile 2013

Diario 217


Diario 217
25-31 marzo 2013
·         Napolitano, di fatto seppellisce una storia iniziata nel 1921
·         Citazioni: nel bene e nel male (Guido Rossi, Roberto Pedrini)


Napolitano, di fatto seppellisce una storia iniziata nel 1921
Il presidente della Repubblica, a me pare, vuole portare a compimento, con la distruzione del PD, una storia iniziata nel 1921 con la nascita del PCI e una “normalizzazione” del paese dove deve essere cancellata ogni possibilità di rivoluzionare i rapporti sociali di produzione. Non sto dicendo che il PD ha questo programma, ma esso rappresenta il residuo di un progetto iniziato 90 anni fa. Quella del PCI è una storia non priva di ombre ma importante per il paese. Il grande contributo dato dal PCI nella resistenza prima e nella formazione della Repubblica e della sua Costituzione, non può essere cancellato. Né può essere cancella la sordità alla grande politicizzazione di massa della fine degli anni ’60, con l’esclusione della sua sinistra. L’esclusione del PCI da ogni possibilità di “governo” per ragioni internazionali non ha eliminato, tuttavia, il peso avuto nella vita politica (e di governo) italiana per la sua radicazione tra le masse. La crisi del socialismo reale è stata un’occasione mancata di rinnovamento culturale ideologico e programmatico; ha prodotto un rinnovamento di nomi ma soprattutto una deriva teorica.
La mancata possibilità di formare un governo, dopo le ultime elezioni, è figlia del risultato elettorale, dell’incapacità del movimento 5* di rendere utile alla trasformazione del paese la grande pressione di rinnovamento raccolta, da errori di conduzione del PD. Il PD ha pensato che fosse possibile un accordo con 5* gestito da Bersani,e non ha esplorato modalità diverse per coinvolgere 5*. Forse non poteva fare diversamente ma l’esito non è positivo.
Un ruolo particolarmente pesante, tanto da modificare di fatto relative prerogative,  ha svolto il presidente della Repubblica. Per quello che si capisce Napolitano ha puntato su la grande coalizione  PD,PDL, Centro civico.   Una soluzione questa che avrebbe “suicidato” il PD (sia per una possibile spaccatura, sia  per l’alto prezzo elettorale che avrebbe pagato).  Mai, di fatto il presidente si è impegnato per facilitare un accordo PD con 5*; contemporaneamente 5* non si è manifestamente impegnata ad una soluzione se non con il generico “vogliamo il governo”, sapendo che il loro governo per avere la fiducia aveva bisogno comunque del PD.
Gli ultimi giorni a me paiono chiari. Napolitano minaccia le dimissioni ma non li dà, tanto per intenderci non fa come Benedetto XVI, lasciando ad un nuovo presidente (Z o R o O ecc.) di risolvere il problema che non era stato nella possibilità di risolvere. Ma ormai individua nel PD il centro della resistenza e di fatto l’antagonista.  
Non dà le dimissioni non solo per condizionare i mercati (?), non solo per rispondere positivamente alle molte pressioni,  ma perché precipitando l’elezione del nuovo presidente si rischiava non tanto l’esplosione del PD ma la sua chiusura a riccio per difendere le proprie prerogative di “grande elettore”.
Scartate le dimissioni si inventa una nuova procedura (le due commissioni di personalità che individuino le cose urgenti da fare, come se anche i bambini non li sapessero), che si può definire “prendi tempo” (non è un caso che le due commissioni non hanno limiti di tempo).
Prendi tempo perché? Prima di tutto per permettere a Monti di continuare a governare (nonostante  lo sgarbo che gli ha fatto presentandosi alle elezioni, malgrado i pasticci internazionali ultimi, malgrado il fallimento delle sue principali riforme, Monti pare a Napolitano una adatta “pezza” per tappare il buco attuale). L’esperienza parlamentare, anche come Presidente dei deputati, non gli ha fatto vedere i possibili esiti di questa soluzione: un parlamento operativo è quello che vuole 5* per lanciare nel dibattito alcuni dei suoi punti programmatici. Attraverso tali proposte si vedrà la “natura” di 5*: si può sempre dire che ci si rivolge a tutto il parlamento ma le proposte non sono neutre rispetto ai due schieramenti.
Il “prendi tempo” serve soprattutto per far precipitare la situazione nel PD (fino anche alla rottura) con il sopravvento di chi non vede altra soluzione che il rapporto con il PDL (magari travestita da soluzione presidenziale). La storia iniziata nel ’21 si concluderebbe e garantirebbe una successione alla Presidenza della repubblica non invisa, anzi sostenuta, dal PDL e da Berlusconi. Anche in questo campo il Presidente suggerisce unità nazionale, l’individuazione di una personalità di equilibrio (come crede di essere stato). Tra “tecnici”, oggettivamente neutri, e personalità al di sopra delle parti tramonta ogni strategia di trasformazione.
Il Presidente ha una grande e lunga esperienza politica non credo che non veda come questa sbocco della crisi costituisca una grande dose di ricostituente per 5*, la fine del PD, e il prevalere in Italia di una linea non moderata ma di destra (forse civile). Né può rappresentare una speranza che l’inetto Grillo conquisti la maggioranza, essendo anch’egli portatore di umori e di destra.   
È strano, Napolitano dovrebbe sapere che l’istituzionalizzazione costituisce un fortissimo strumento di normalizzazione, ma egli ha teso di fatto a delegittimare il Movimento 5* (non è un caso che tra i dieci saggi non è possibile riconoscere qualcuno di area grillina; forse ci ha provato con scarsi risultati o forse l’ha ritenuto inutile) assegnando a 5* il ruolo di catalizzatore della protesta ma senza peso nelle decisioni (in questo avendo trovato un alleato proprio in Grillo).
Un’ultima notazione: Il presidente ha sottolineato più volte che i suoi poteri in questo momento sono ridotti, mancandogli il potere di sciogliere le Camere, mentre il nuovo Presidente nella pienezza dei suoi poteri potrebbe esercitare la propria pressione avendo anche questo strumento. Ma ci si dimentica che delle tre maggiori forze due vogliano andare alle elezioni, PDL e M5*, mentre solo il PD ha delle remore preoccupato di essere il capro espiatore di questa situazione. Sarebbe il PD a pagare il prezzo del fallimento della legislatura.


Citazioni: nel bene e nel male   

Guido Rossi, Il Sole 24 Ore, 31 marzo 2013
“La nostra democrazia è così andata, secondo la teoria dei sistemi, in sovraccarico, sia per l’incapacità di rispondere al crescente numero delle domande dei cittadini, in urgente bisogno di tutela dei loro diritti fondamentali, sia per l’inceppamento involutivo della sua macchina. …La lotta alla disuguaglianze, come primo indiscutibile dovere della democrazia pare irrimediabilmente superata o quanto meno dimenticata.  A causa poi di quel sovraccarico, del quale ho appena parlato, la caratteristica della nostra società democratica e quella di essere retta da un potere sempre più diffuso e frantumato in vari centri, in concorrenza fra loro”.

Roberto Pedrini, MicroMega, n. 3, 2013 Almanacco di economia
“Eppure basta volgersi indietro, e passare in rassegna la storia delle idee dell’Occidente, per accorgersi che il puzzle della diseguaglianza non è così semplice… Forse la strada giusta resta quella che passa per la collettività e per lo Stato (naturalmente efficiente e senza sprechi). Eguaglianza significa anche , e soprattutto, avere una protezione assicurata contro il rischio della vecchiaia, di malattia e di infortuni. Non per niente fino dai primi anni del novecento è nata una disciplina – proprio in Italia – che si chiama Scienza delle finanze e che ha precisamente lo scopo di regolare l’uso delle risorse pubbliche, ella loro distribuzione e del giusto sistema fiscale per finanziare le spese collettive”.   

Diario 216


Diario 216
17 – 23 marzo 2013
ñ  L'inutilità del voto utile. Il Movimento 5*
ñ  Uomini e nomi per il governo e la presidenza della Repubblica. Niente furbizie
ñ  Cipro
ñ  I debiti dello Stato verso le imprese: un favore alle banche o alle imprese?
ñ  Sulla pelle dei due Marò
ñ  Citazioni: nel bene e  nel male (Joseph E. Stiglitz, Mario Pianta, Alessandro Roncaglia)


L'inutilità del voto utile. Il Movimento 5*
Il Movimento 5*  pare voler produrre il peggior esito di una forza politica: trasformare il successo del “voto utile” in una totale inutilità. Si può essere in disaccordo con Grillo e il suo Movimento, per quello che vale io lo sono, ma sicuramente aver raccolto un quarto dei voti dell'elettorato non è solo capacità di coagulare il disaggio ma esprime anche la necessità del cambiamento. Non ritengo che il cambiamento debba finalizzarsi nell'eliminazione dei corpi intermedi, i partiti, ma in una loro trasformazione si; non credo che il cambiamento consista nell'eliminazione dei “costi della politica”, ma in una loro riduzione si; non credo che il cambiamento consista nell'eliminazione delle istituzioni, ma sicuramente nella loro capacità di corrispondere ai bisogni della società si (certo si può azzerare tutto con una rivoluzione  dei rapporti sociali di produzione, ma non mi pare né che il Movimento 5* l'abbia come obiettivo, né che sia all'ordine del giorno).
Senza esaltarsi, senza pensare che il cambiamento richiesto sia facile e alla portata delle nostre mani, è certo che quel voto ha segnato lo schieramento politico, e in particolare ha modificato metodi, uomini e obiettivi del centro-sinistra. Se il Movimento 5* non coglie l'occasione favorevole che gli si presenta,  fa torto al voto utile per il cambiamento, che l'ha portata al successo, e lo trasforma in un voto inutile.   
Non dico questo sulla base della “ragionevolezza e gradualità” che bisogna assumere per il cambiamento, ma sulla base dell'opportunità che si spreca e non è detto che ritorni.
Se non sarà possibile la costituzione di un governo in questa XVII legislatura, non è detto che la XVIII sia più favorevole. Non è affatto sicuro che il Movimento 5* possa ancora crescere, ma è sicuro che non raggiungerà quel 100% al quale aspira Grillo ma neanche il 51%, mentre è probabile che possano cambiare i rapporti di forza tra le forze del cambiamento, oggi prevalenti, e quelle della conservazione.
Il Movimento 5* è di fronte a una scelta: utilizzare l'opportunità che esso stesso ha creato, o trasformarsi in un episodio irrilevante della lotta politica italiana.

Uomini e nomi per il governo e la presidenza della Repubblica. Niente furbizie
I nomi che si fanno e che comunque saranno proposti per il governo, non devo né possono costituire “specchietti per le allodole”. Assunta la linea del  ricambio e la necessità di trovare anche fuori dai partiti e  dal Parlamento personalità di valore,  va portata avanti con intelligenza e determinazione. Persone di alto profilo, come si dice, competenti e determinate a portare avanti una politica di innovazione adatta a risolvere i  problemi degli italiani. Fare i “furbi” non sarebbe una buona cosa, lanciare esche si rischia di restare con il carniere vuoto.  Serietà e determinazione, questa linea forse può essere quella vincente. Tra i nomi fatti si può cogliere una linea giusta, ma anche qualche sbandamento furbo.
Le personalità di cui si parla per la presidenza della Repubblica, sono tutte degne, ma manca lo scarto. Il centro-sinistra deve operare uno scarto. Esistono personalità di garanzia e degne anche fuori dai nomi che circolano.

Cipro
L’imposizione della UE  al governo di Cipro perché introducesse un prelievo forzoso su tutti  i depositi bancari  qualsiasi fosse la cifra depositata (non si capisce se la proposta sia venuta dalla Commissione o da qualche altro organo, più o meno ufficiale) desta, non solo preoccupazione ma spiattella, ove ce ne fosse bisogno, l’ideologia reazionaria che guida la UE.
La proposta, dagli esiti dirompenti, non solo a Cipro ma in molti altri paesi in crisi (tra cui l’Italia), appare squilibrata: il 6,75% su depositi fino a 100.000€ e il 9,99% su quelli superiori (va notato l’uso del  99 come il verduraio che tenta di guadagnarsi l’apprezzamento dei clienti, con il prezzp inferiore a 10).  Il peso di sottrarre 675 €   su un conto corrente di 10.000€ è diverso che sottrarre  99.900€ su un conto di 1.000.000€. Non è un caso che il governo cipriota sta tentando una rimodulazione di tale prelievo, di cui non si capisce ancora la logica (20% per i depositi alla Banca di Cipro superiori a 100.000 euro e il 4% per quelli presso le altre banche).
Si dice che Cipro sia un “paradiso fiscale” dove affluisce il riciclaggio di molti affari non puliti (soprattutto Russi), non so ma non stento a crederci, ma allora, la UE provveda con i suoi regolamenti ad evitare ciò (e si occupi meno di formaggi), il provvedimento imposto a Cipro, come è ovvio, preoccupa tutti i piccoli risparmiatori della comunità, soprattutto quelli dei paesi in crisi.
Non è strano se sempre più persone si chiedono quale sia il vantaggio di stare dentro la UE. Per il salvataggio delle banche i provvedimenti non mancano, mentre per salvare i cittadini non solo non si fa niente ma si tosano continuamente a favore della speculazione finanziari.  Se in Italia cresce un convincimento sfavorevole alla UE la colpa non è di Grillo, ma delle politiche imposte.   

I debiti dello Stato verso le imprese: un favore alle banche o alle imprese?
(Il Governo pare si avvii a varare un qualche provvedimento per saldare i debiti della Pubblica Amministrazione verso i propri fornitori. C'è il rischio che il provvedimento finisca non tanto per immettere liquidità nelle imprese, ma a salvaguardare le Banche (fermo restando che lo Stato deve pagare). Discutendo con il mio amico  Angelo, di cui di seguito pubblico un esempio da lui elaborato per rendere chiaro alcuni dei probabili meccanismi, si è convenuto che lo Stato non potendo introdurre vincoli di uso del pagamento ai suoi creditori, dovrebbe pagare cash. Perché non è neanche pensabile, date le politiche adottate dal nostro sistema bancario, che l'eventuale saldo del debito contratto dall'impresa in ragione del suo credito verso la pubblica amministrazione, produca un allargamento del credito verso la stessa impresa).  
Supponiamo  che l’impresa  abbia già avuto finanziato, da una banca,  quel credito che vanta dall'Amministrazione pubblica    (sia con cessione pro solvendo sia pro soluto,     sia con procura all’incasso “in rem propriam”), quel credito fa parte del bilancio aziendale. Tutti i fidi o i crediti che un’ impresa ha ottenuto dal mercato sono basati sui dati di bilancio di cui questi crediti sono parte sostanziale.  La cessione del credito comporta che la banca acquisisce quel credito che viene sottratto così dal complesso dell’attivo dell’impresa. Rendere liquido quel tale credito, può sembrare un'operazione favorevole per l’ impresa e per tutti i creditori. Ma occorre essere certi che quella liquidità “generosamente” immessa dalla banca nell’azienda non vada a coprire crediti chirografi già della banca, nel qual caso tutto diventa un'operazione a danno degli altri creditori.
Se una impresa avesse un credito nei confronti dello stato di 120.000 euro ed esposizione verso la banca di 100.000 euro,  inoltre, crediti da parte di clienti per altri 200.000 e debiti verso fornitori maestranze, stato ecc per altri 300.000, la situazione potrebbe così sintetizzarsi:  crediti  320.000 (120.000+200.000),  debiti 400.000, (100.000+300.000) (per semplificare fingiamo che non ci sia magazzino). Se i creditori pagassero all'impresa il loro credito (320.000) questa potrebbe pagare l’80% dei suoi debiti  (320.000/400.00); alla banca, in condizione di parità tra creditori, toccherebbero  80.000 euro con un perdita di 20.000 euro.
Nel momento in cui il debito dello stato viene e diventa riconosciuto ed esigibile  l'impresa se lo fa   anticipare dalla banca   al costo del 10% , allora il credito dei 120.000 euro  verso lo stato consentirà una incasso di 108.000 (120.000 - 10%); di questi la banca  100.000 se li trattiene per estinguere il debito pregresso  (ammesso che non ci siano interessi già maturati e non pagati) per cui la liquidità immessa nell'impresa sarà di solo 8.000 euro. La situazione, a questo punto,  sarà:  crediti nei confronti dei clienti 200.000, debiti 300.000 il che vuol dire che i creditori dell’impresa, ammesso che i 200.000 euro vengano pagati per intero, incasserebbero solo il 66,6% invece dell’ 80% della situazione precedente, mentre le banche avrebbero il proprio  credito completamente pagato (ai danni degli altri creditori). E se tra questi creditori ci fosse pure lo stato per crediti non privilegiati, non essendo ammessa la compensazione, come Monti ha già ampiamente e con un moto d’ira espresso pubblicamente, chi ci perde  è proprio lo stato che i suoi crediti li perde e i suoi debiti li paga.

Sulla pelle dei due Marò
Certo per un governo che ha avuto nel suo programma la rifondazione della presenza italiana a livello internazionale il pasticcio che il nostro ministro degli esteri e quello della difesa hanno costruito con l’India costituisce oltre che una vergogna nazionale una episodio in contraddizione con quell'obiettivo. Come è noto due Marò sono accusati di avere ucciso dei pescatori scambiandoli per pirati in acque internazionali. I due Marò sono sotto processo in India, paese che ha concesso loro un permesso di raggiungere l’Italia a Natale e recentemente un “licenza” di 40 giorni per votare. Questa ultima volta  il governo ha deciso di non rispettare l’impegno preso e ha trattenuto i due Marò in Italia. Per contromisura il governo indiano ha “sequestrato” l’ambasciatore italiano che non potrà lasciare il paese.
Orgogliosamente il governo Italiano decide di far rientrare in India i due Marò. Evidentemente il ministro degli esteri e della difesa non hanno saputo prevedere la reazione del governo indiano e si piegano a quello che loro chiamano un sopruso contro il diritto internazionale. Ma come valuta il non rispetto dei patti questo governo? Un affare privato?
Ma c’è di peggio, per giustificare la sciocchezza fatta il governo dichiara che il governo indiano si è impegnato a non applicare la pena di morte ai due Marò.
Una balla bella e buona, un governo non si può impegnare su un atto di un organo indipendente come la magistratura, ma il peggio è che con questa dichiarazione il governo condanna i due Marò, il governo italiano li ritiene  colpevoli ma si adopera per difenderli dalla pena di morte.
Insomma prima ci liberiamo dei tecnici meglio sarà per il paese.

Citazioni: nel bene e  nel male   

 Joseph E. Stiglitz, La Repubblica, 20 marzo 2013
“I mercati, anche quando sono stabili, producono spesso forti disuguaglianze, percepite come inique. La crisi finanziaria ha scatenato una nuova percezione: il sistema economico è non solo inefficiente e instabile, ma anche profondamente iniquo.... Consideriamo per un momento ciò che un'economia mondiale interamente globalizzata (con i capitali e la conoscenza che circola liberamente) comporterebbe: tutti i lavoratori con le medesime abilità, dovrebbero ricevere lo stesso salario in qualunque posto del mondo. I lavoratori americani non specializzati dovrebbero ottenere lo stesso salario che un lavoratore non specializzato otterrebbe in Cina. Ciò significa che i salari dei lavoratori americani cadrebbero precipitosamente.... Come l'evidenza empirica dimostra, una maggiore disuguaglianza non ha portato ad una più alta crescita... Le 358 persone più ricche al mondo hanno una ricchezza pari a quella del 45% più povero della popolazione mondiale. … Più in generale, l'1% più ricco degli individui detiene circa il 40%  della ricchezza mondiale; il 50% più povero della popolazione mondiale detiene solo l'1%  della ricchezza complessiva. … Con le opportune politiche possiamo migliorare la situazione. La domanda è: possiamo farlo? si, a patto  che il 99% della popolazione si accorga di essere stata ingannata dall'1%. L'1% ha lavorato sodo per convincere il resto della società che un mondo alternativo non è possibile”  (quello pubblicato da La Repubblica,  qui citato, è un estratto di un articolo dello stesso autore insieme Mauro Gallegati pubblicato su MicroMega n. 3 - almanacco di economia – un numero pieno di cose interessanti e consigliato. Chi volesse approfondire il punto di vista di Stiglitz ha ora a disposizione il suo saggio Il prezzo della diseguaglianza, pubblicato da Einaudi).

Mario Pianta, MicroMega, n. 3 2013 – almanacco di economia -
“Oggi l'ingiustizia più grande del paese non sono le tasse,non è la precarietà, non è la disoccupazione provocata dalla crisi, non è nemmeno la casta dei politici: e la disuguaglianza. É questa l'ingiustizia in cui confluiscono tutte le precedenti, il fenomeno che indebolisce l'economia, frammenta la società, snatura la politica.”

Alessandro Roncaglia, MicroMega, n. 3 2013 – almanacco di economia -
“Oggi, difronte alla tesi di una contrapposizione tra l'1% dei sempre più ricchi e il 99%vche sente il morso della crisi, l'analisi e le osservazioni critiche di Sylos Labini (nei riguardi della dinamica delle classi e della politica del PCI) tornano di attualità: la diversificazione di interessi e di orientamenti culturali e politici in senso lato all'interno del 99% dei meno ricchi è troppo ampia per pensare che questa dicotomia possa avere una valenza politica risolutiva. Al di là delle dichiarazioni di principio, che pure hanno una loro indubbia dignità, la costruzione di uno schieramento progressista deve articolarsi nell'alleanza tra stati meno abbienti e strati importanti dei ceto medi” (la posizione di Roncaglia è chiara anche da questa sola frase. La si può condividere; ma
come si costruisce questa alleanza non solo non è cosa semplice, ma presuppone una modalità di lotta politica e culturale complessa e di cui non si vedano  neanche i primi vagiti; avendo a che fare con schieramenti molto interclassisti, ma contrapposti, la questione  si complica ulteriormente. La cosa certa, come le ultime elezioni hanno dimostrato, è l'inesistenza di una “popolo di sinistra” pronto, disponibile e fremente  in attesa di un leader)