lunedì 27 febbraio 2017

Libertà di morire


Diario 342
27/2/2017

Non è mai finita. Ogni occasione mette il tappeto rosso perché i moralizzatori possano salire sul palco e farci la predica, indicarci la strada e imporci come vivere.
In che cosa consiste il fondamentalismo? nel voler imporre a tutti quello che si ritiene il dettato della propria fede. In che cosa consiste il laicismo? nella libertà per ciascuno di credere a qualsiasi credenza, un dettato che vale per se stesso e che non è da imporre.
Il nostro paese sarà mai una società laica? Non credo; ed è disperante.
La libertà di morire, non può che essere un diritto della persona, ma questo diritto viene negato a partire dalla sacralità della vita, non merita sottolineare come questa sacralità venga negata nella guerra, nello sfruttamento nel lavoro, nella povertà e marginalità, ecc., la condizione mortale può esserci somministrata (tutta in una volta o a poco a poco), ma non siamo liberi di decidere da noi stessi se morire e quando morire. Un diritto non obbliga, determina una opportunità (come l’aborto).
Qualche concessione viene fatta per l’accanimento terapeutico (il testamento biologico), anche qui con molte limitazioni, ma di suicidio assistito (la buona morte) neanche a parlarne. Il suicidio deve essere cruento (mala morte): spararsi, gettarsi nel vuoto, avvelenarsi, impiccarsi ecc.  
Gli amanti della vita non capiscono come il diritto alla morte in realtà esalta la vita, mette la vita nelle nostre mani, non in qualche ente supremo che dà e toglie, e ci rende più responsabili, non meno, ci fa più cauti e attenti.

Ma ovviamente non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire  

venerdì 24 febbraio 2017

Tra i cattolici i ginecologi sono tra i più praticanti


Diario 341
24 febbraio 2017

Da una recente indagine risulta che l’88% della popolazione italiana si dichiara cristiana cattolica, ma solo il 37% si dichiara praticante.
Non so se sia consolante, ma comunque genera una certa meraviglia, constatare che i medici ginecologi sono nel nostro paese il segmento della popolazione cattolica più praticante. Per cui affidiamo in mani profumate di fede le future  puerpere, mentre chi deve abortire finisce in mani avide e (spesso) anche incompetenti.
Se guardiamo ai medici ginecologi obiettori, che cioè si rifiutano di applicare la legge 194, come pubblicati dalla La Repubblica  del 23 febbraio, questi risultano il 70%. Gli anestesisti che obiettano di assistere interventi di aborto sono il 49%, mentre gli infermieri sono obiettori al 46%.
Spaventosi di dati per regioni: in Molise, Bolzano e Basilicata, sono obiettori più del 90%; superano l’80% in Sicilia, Puglia, Campania, Abbruzzo e Lazio; tra il 64% e il 76% si collocano Marche, Piemonte, Umbria, Liguria e Lombardia; intorno al 50% Friuli V.G.,  Toscana ed Emilia. Spicca la Valle d’Aosta con il 13%, regione meravigliosamente laica.
Si può immaginare che un cattolico che prende una così drastica decisione di obiettare (che gli è concesso dalla legge) all’applicazione di una legge dello Stato non lo faccia per convenienza ma per adesione piena ad un convincimento religioso, non solo ma non può essere una persona che fa parte dei “cattolici tiepidi”, che professano ma non praticano, devo sicuramente far parte della quota dei praticanti.
Se così fosse c’è da meravigliarsi che una percentuale così alta di praticanti (in alcune regioni la quasi totalità) sia concentrata tra i medici e in particolare tra i ginecologi.
Per l’esperienza personale che ho dei medici mi risultano, in generale laici (spesso atei); certo un’esperienza non è generalizzabile, ma sorprende questa grande concentrazione di praticanti in una specializzazione medica.    

Non colpevolizzo gli obiettori, fanno valere un loro diritto, così come un tempo, ma ce n’è voluto, obiettavano i giovani che rifiutavano il servizio militare perché contro la guerra (ma ero obbligati ad un servizio civile), ma ritengo che vada salvaguardato l’altrettanto sacrosanto diritto delle donne che vogliono e devono abortire. Per questo non si può non plaudire alla regione Lazio, e a tutte le regioni, soprattutto del sud che volessero seguirne l’esempio, che vuole assumere per i propri ospedali solo ginecologi non obiettori.

L’età dell’oro sta davanti a noi



Diario 340
24 febbraio 2017

Non sopporto, ma questo è il meno, e ritengo sbagliati (culturalmente e soprattutto politicamente) ogni atteggiamento contro il progresso. Rifugiarsi nella “bellezza” della piccola comunità, esaltare come elemento di progresso il ritorno all’artigiano, immaginare che l’identità di luogo possa risolversi in costruzione di società, ecc. è un’illusione. Fare gli scongiuri per ogni nuovo fattore di progresso cantando le lodi del bel tempo che fu, nel momento in cui gli avanzamenti della scienza e della tecnica ci promettono benessere, una vita più lunga e più sana, libertà dal lavoro più alienato, ecc. mi sembra di una miopia tragica.
Non sopporto, ma questo è il meno, e ritengo sbagliati (culturalmente e soprattutto politicamente) ogni atteggiamento che affida con ingenuità, spesso con furbizia, e quasi sempre con ignoranza, alle nuove tecnologie la soluzione di tutti i nostri problemi sociali.
Né il ritorno al passato, predicato ma mai realizzato, né l’attesa che la tecnologia ci porti in paradiso, ci faranno fare un passo avanti nella conquista generalizzata di un livello di vita dignitoso, libero, denso, per tutti (per l’intera umanità). La strada per raggiungere una possibile età dell’oro sarà faticosa, irta di pericoli, ma sicuramente porterà alla meta.
Questa strada presume che si accetti che la grande rivoluzione capitalista (“La borghesia ha avuto nella storia una parte sommamente rivoluzionaria” Marx e Engels) abbia perso la sua spinta propulsiva (usando le parole che  Berlinguer ha adottato con riferimento al socialismo realizzato) e si assuma piena consapevolezza che lo sviluppo delle forze produttive è in contrasto e trova un ostacolo nei rapporti sociali di produzione. Sempre più emergono elementi e nessi che pongono, anche con una certa urgenza, la necessità di un cambiamento della struttura sociale capitalistica.
Il “capitalismo” non è più “rivoluzionario”, i suoi cambiamenti, la sua finanziarizzazione, la concentrazione della ricchezza l’hanno trasformato non più in un fattore (contradittorio) di progresso, ma piuttosto in un agente della discriminazione, della rottura di ogni vincolo sociale, della distruzione dello stesso territorio della specie.
All'interno della struttura sociale capitalistica lo sviluppo tecnologico non potrà che produrre disoccupazione, quindi miseria, e concentrazione della ricchezza. Sono ormai numerose le ricerche che indicano come l’avanzamento tecnologico, in tutti i settori compresi i servizi, e soprattutto lo sviluppo della robotica (per l’industria, i servizi e le famiglie) ridurrà drasticamente l'occupazione (negli Stati Uniti è stata calcolata una riduzione del 80% a fronte di un incremento derivato di solo il 5%). In sostanza l'ipotesi che lo sviluppo tecnologico tagliasse posti di lavoro da una parte ma ne creasse più numerosi da un'altra parte risulta non corrispondente al tipo di rivoluzione tecnologica in atto. Non si tratta di luddismo, ma piuttosto della presa d’atto che lo sviluppo tecnologico, dentro l’attuale regime sociale, non si combina con la crescita sociale (opera discriminazione, segmentazioni, divergenze, ecc.).
Il crescente sviluppo del settore di ricerca e della struttura economica/produttiva  legata al genoma, costituisce, insieme alla robotica e alla rete,  un settore trainante. Non si tratta solo di “soldi” (di molti soldi), ma di qualcosa che riguarda da una parte il diritto alle cure non legate alla propria condizione di reddito, e dall’altra a questioni etiche non marginali che hanno a che fare con la eredità della specie, con interventi su altre specie, ecc. Sviluppo tecnologico e “manipolazione” dei geni, aprono all’umanità prospettive di grandi miglioramenti, ma al contempo non bisogna chiudere gli occhi davanti ai possibili esiti negativi, drammatici e sconvolgenti che ne possono derivare se il potere di decidere la direzione di queste innovazioni e il loro scopo restano in mano a chi “razionalmente” vuole accumulare ricchezza.
Quello che  deve spaventare non è l'innovazione, non è la tecnologia, non sono le ricerche più avanzate e ardite ma il loro uso, il fine che si vuole raggiungere ( i “soldi” non sono un buono scopo, accecano).
Dallo sviluppo delle nuove tecnologie ci si deve attendere grandi miglioramenti per la vita di tutti. Ma non c’è garanzia, anzi è possibile avvenga il contrario, è il vincolo del rapporto sociale capitalistico che è necessario rimuovere, in forme più riflessive di quanto si sia fatto nel passato.
Se si guardasse con attenzione all’oggi non si potrebbe non vedere la crescita delle diseguaglianze economico-sociale (sia interne che internazionali). Non è casuale che nella crisi che ha attanagliato l'economia mondiale negli ultimi 10 anni, ad una riduzione generalizzata delle condizioni di vita della gran parte della popolazione corrisponde una crescita della ricchezza di pochi. Questo, si  osservi, vale per tutti i sistemi economici qualsiasi sia il regime politico di governo. Come è stato simbolicamente indicato si tratta dell’1% contro il 99% della popolazione, ma bisogna riflettere anche sul fatto che questa sperequazione non riguarda soltanto i “grandi finanzieri”, ma si riferisce anche ad una sorta di “mentalità” che tende a stravolgere la “concezione” del guadagno, i parametri con i quali misurarlo e i rapporti con gli altri (“approfittare” è il verbo più declinato dai singoli).  
L’individualismo e l’egoismo (alimentato anche dal bisogno e dalla paura di perdere il poco che si ha) incide profondamente sulle relazioni sociali e tende a frantumare ogni relazione che non sia di mera convenienza, di difesa corporativa, o che non abbia a sua base una identità fasulla.   
Ma come garantire che di tutto il progresso possibile possa godere l’umanità tutta e non solo una sua porzione (di ceti e popoli privilegiati)?  Come garantire che tutto il progresso possibile sia portatore di libertà, di giustizia sociale, di eguaglianza per tutta l’umanità e non invece di discriminazioni, di diseguaglianze e di oppressione? Domande che interrogano la “politica”, la politica di sinistra, che ha bisogno di interrogarsi sia sui suoi fini che sui suoi mezzi.
La sinistra (quella che qui interessa) ha perso molto (tutto?) il suo potere di attrazione, la sua lingua non pare più adeguata, il disegno di società futura, quella di cui piacerebbe sentire parlare, non emerge e non attrae quel 99%. Eppure quello che avviene nel mondo, pur nella sua contraddittorietà, appare interessante. Si nota un riemergere di consapevolezza. Gruppi, movimenti, partiti di “sinistra” si fanno evidenti.
Quando questi assumeranno che va infranto il rapporto sociale di tipo capitalistico, che una forma nuova di società sarà possibile costruire (senza prescrizioni che non siano di uguaglianza e libertà), allora le questioni del lavoro, della dignità di vita, della disponibilità dei beni, dei vincoli all’accumulazione personale, della parità, dell’accesso al sapere e alla cultura, ecc. potranno essere risolte. Affrontare ciascuno di questi aspetti, e altri ancora, senza affrontarne la matrice rischia di dare l’impressione di una soluzione sul punto specifico, che non solo risulterà temporanea e non risolutiva, ma la “soluzione” si scaricherà su altri aspetti.  
Il rapporto capitalistico che nella cultura dei nostri giorni viene considerato un “rapporto tecnico”, per sua natura originaria si costituisce come “rapporto sociale”. Pensare che qualche “regola” può aiutare il “rapporto tecnico” ad essere di vantaggio a tutti è una illusione; il “rapporto sociale” ha bisogno di una trasformazione (sociale), di una “rivoluzione” creatrice di nuova ricchezza, di nuova socialità, di uguaglianza, libertà e democrazia.

I vecchi non possono che sperare che i giovani, la massa di quel 99%, prendano in mano la trasformazione della società e portino verso l’età dell’oro, che continuerà ad essere una meta sempre da raggiungere.  

mercoledì 22 febbraio 2017

Lo scongiuro della scissione

di ida dominijanni

Pubblicato su Huffington Post il 19/2/2017
L’infinita soap-opera del Pd non ha dalla sua dei buoni sceneggiatori: né fra i protagonisti, né fra gli osservatori. A una classe politica che oscilla fra il non dare il meglio e il dare il peggio di sé fa riscontro un coro di cronisti e commentatori che oscillano a loro volta fra la foga di descriverla come un covo di vipere velenose e l’ansia di scongiurare una scissione che sarebbe al meglio incomprensibile, al peggio devastante. Il bilancio della parabola del Pd – dieci anni non ancora compiuti e vissuti molto pericolosamente – pencola infine fra quello di un partito mai nato, di una miscela mal riuscita e di un progetto mai decollato, a quello di un bene prezioso e irrinunciabile, dell’unico superstite del riformismo europeo, dell’ultima barriera della civiltà contro l’invasione dei barbari pentastellati o trumpisti.
Tutto questo non aiuta a capire se c’è, e qual è, la posta della partita che si sta giocando – malamente – nel Pd, ma anche fuori dal Pd: sono aperti altri cantieri, in primis quello del congresso di fondazione di Sinistra Italiana, e intanto non smobilitano le reti dei comitati nati a sostegno del No al referendum costituzionale. Si può continuare a guardare tutto questo come una commedia recitata da attori di second’ordine, con le batterie cariche di personalismi, ambizioni, rivincite e rancori incrociati. Oppure si può fare uno sforzo di generosità – ce ne vuole parecchia, lo so – e alzare, quantomeno, l’asticella delle aspettative e delle richieste, sperando che serva ad alzare anche quella delle risposte.
Lascerei perdere, intanto, gli scongiuri. Il fantasma delle scissioni perseguita la sinistra, e l’invocazione dell’unità la alimenta, da quando è nata. Già questa storica altalena dovrebbe dire qualcosa di un problema evidentemente malposto. Non sempre la convivenza forzata è sinonimo di unità, e non sempre le divisioni sono foriere di sciagura. Non sempre l’unità è garanzia di un’identità riconoscibile, e non sempre le differenze condannano alla frammentazione. Un’articolazione non settaria delle differenze è ciò che da sempre manca alla sinistra e alla forma-partito disciplinata e disciplinare da cui la sinistra, fra mille trasmutazioni che della forma-partito hanno buttato il bambino tenendosi l’acqua sporca, non è mai riuscita a emanciparsi davvero.
Ma questo è un discorso che ci porterebbe troppo lontano. Stiamo all’oggi: è possibile guardare a quello che sta capitando non come un a un destino di disgregazione, ma come a un’occasione di ricomposizione? E’ possibile pensare che sia questa, e non la solita “resa dei conti” fra narcisi (uomini) in guerra fra loro la posta in gioco della situazione? E’ possibile guardare all’eventualità che il Pd si spezzi definitivamente come a un elemento di maggior chiarezza, e non maggior cupezza, del quadro?
Tutto dipende, naturalmente, dal giudizio che dell’avventura targata Pd si dà. Lo scongiuro della scissione muove evidentemente da un giudizio positivo, o meglio dalla convinzione che, ben realizzato o no, il progetto del Pd fosse, dieci anni fa, la risposta giusta al problema. Varrebbe la pena ricordare che dieci anni fa “il problema” era assai diverso da quello di oggi: in Italia c’era un bipolarismo che pareva definitivo; la crisi mondiale del debito si annunciava – non vista, al Lingotto - ma non aveva ancora messo in crisi il pensiero unico neoliberale; l’opera di sistematico smantellamento delle tradizioni politiche europee novecentesche, e segnatamente di archiviazione del bagaglio concettuale della sinistra, era al suo apice; l’America era ancora, per quelli che si volevano emancipare dal complesso di colpa per essere stati comunisti a loro insaputa, un mito progressista, e l’aggettivo “democratico” un passepartout per risolvere qualunque dilemma del presente e del futuro. Si innamorò di quel progetto chi voleva una sinistra light, liberata da qualunque istanza di critica anticapitalistica, completamente risolta nell’interiorizzazione del paradigma liberaldemocratico come unico orizzonte possibile.
Era un innamoramento malriposto. Ma non solo per la perenne incompiutezza che avrebbe da allora in poi caratterizzato “l’amalgama mal riuscito”, bensì per i suoi difetti genetici. Un difetto di identità, perché dalla somma di due tradizioni indebolite non nasceva una cultura politica riconoscibile. Un difetto di struttura e di radicamento, perché il partito dei gazebo e delle primarie portava in sé l’embrione del partito personale del leader. Un difetto di progetto, perché la bandiera dei diritti, separata dalla critica dei poteri, si sarebbe rivelata ben presto una strada aperta al loro smantellamento più che al loro allargamento. Un difetto perfino nel nome, perché già allora era chiaro – non c’era ancora Trump, ma Berlusconi sì – che l’aggettivo “democratico”, in un Occidente in cui la democrazia si sfigurava partorendo mostri, non era la soluzione ma il problema. Un difetto, infine, di presunzione, in quell’ostinata idea, tutt’ora perdurante, che il Pd fosse “il partito della nazione” (il termine risale ad allora) che rappresentava e incorporava i destini dell’Italia. Il difetto stava dunque nel progetto, non nella sua cattiva realizzazione. Il seguito della vicenda l’ha solo aggravato, fino all’esito, estremo ma coerente, della scalata di Matteo Renzi, con la iper-personalizzazione della leadership e la rottamazione di ogni residua cultura politica che l’hanno caratterizzata.
Ma nel frattempo, soprattutto, si è rovesciato il mondo, ed è collassato il sistema politico italiano. Le sorti della globalizzazione non sono più magnifiche e progressive. La crisi del capitalismo finanziario ha smontato da sola le ricette neoliberali, con o senza lo zuccherino delle “terze vie” blairiane. La destra ha cambiato natura e da liberista si è fatta protezionista. I nazionalismi risorgono sotto la bandiera illusoria del sovranismo. E i popoli spremuti dalla crisi e, in Europa, dall’austerity si danno voce come possono e con chi trovano, sui una sponda e sull’altra dell’Atlantico: e tanto peggio per chi ha aspettato Trump per accorgersene, liquidando quattro anni fa il M5S a fenomeno effimero e transeunte e pensando di riportare il tripolarismo in un bipolarismo forzato a colpi di leggi elettorali incostituzionali e di riforme costituzionali sonoramente bocciate.
In un mondo così, torna non il bisogno, ma la necessità di una sinistra. Detta o non detta, dichiarata o sussurrata, esplicita o implicita, la posta in gioco della scissione del Pd, e più in generale dei lavori in corso in questo così denso fine settimana, è questa. Lo sanno benissimo i sacerdoti dello scongiuro, che non tralasciano talk show per mostrarsi esterrefatti e scandalizzati del riapparire dello spettro che il Pd avrebbe dovuto seppellire per sempre. La domanda vera è quanto ne siano consapevoli invece i protagonisti dello scontro. I quali stavolta, dentro e fuori dal Pd, sono pregati di fare sul serio. Il compito è urgente ma tutt’altro che facile, e tutt’altro che light. Lo dico con le parole di Carlo Galli (www.ragionipolitiche. wordpress.com) : una sinistra di governo (e di “protezione” non securitaria della società ) che tenga conto che la globalizzazione non è passata invano dovrà essere nei fatti rivoluzionaria, tanto è il peso delle macerie da spostare e delle nuove istituzioni da ricostruire”. Vietato bluffare, accontentarsi di un pur necessario cambio ai posti di comando, riproporre ricette usurate con l’aggiunta di un 3 o 4.0, diluire nel moderatismo la radicalità necessaria. Gli esami non finiscono mai, ma qualche volta sono ultimativi.



martedì 14 febbraio 2017

Un dissenso circa la questione urbanistica a partire da Roma


Diario 339
14/2/2017

Lo scandalo, per così dire, sulla discussione (finta?) circa  la realizzazione del nuovo stadio (e connessi) a Roma ha acceso numerose iniziative sia di "solidarietà" con l'assessore Paolo Berdini. sia più in generale di riflessione sullo stato delle cose in Italia.
I "buoni propositi" che sono sintetizzati nell'appello di alcuni urbanisti agli urbanisti non mi paiono completamente convincenti. Non me ne vogliano gli amici che si sono impegnati in questa impresa, amici che stimo e ai quali mi legano anni sia di battaglie politiche che di riflessioni sulle questioni urbane; cercherò di argomentare, anche se in breve.
Se la vicenda romana, recita l'appello, chiama in causa  
"l’intera comunità degli urbanisti, troppo spesso proni a legittimare questa deriva e a rovesciare il loro ruolo a facilitatori degli interessi immobiliari"  
mi sembrerebbe improprio un appello generale agli urbanisti, a quali? 
Nell'appello ancora si dice:
"L’abbandono di ogni prospettiva seriamente riformatrice in materia di governo del territorio da parte delle maggioranze elette che governano le nostre città e i nostri territori contribuisce a rendere ancora più esasperata la disuguaglianza tra chi riesce tuttora a privatizzare i benefici delle decisioni pubbliche e chi – il popolo delle periferie -, assiste impotente a trasformazioni che non modificano affatto le sue condizioni di indigenza, privazione e marginalità".
L'abbandono? ma da quando? Non possiamo immaginarci un passato consolatorio. Non nego che alcune amministrazioni locali e in qualche regione sono prevalse, anche per lungo tempo, "prospettive seriamente riformiste", ma bisogna guardare e tutto il paese?  nel sud,  a Milano, lungo le nostre coste, o ... che cosa è successo. L'urbanista è stata sconfitta, la forza di quello che un tempo chiamavamo il "blocco edilizio" è stata dirompente per vanificare un discorso nazionale di sana organizzazione delle città e del territorio.E' forvianti riferirsi a periodi d'oro del passato inesistenti. 
La chiusa dell'appello mi pare, come dire, poco incisiva
"Noi urbanisti denunciamo l’estromissione delle questioni dell’urbanistica e del governo del territorio dal nucleo centrale dei programmi politici delle maggioranze che governano le nostre città e i nostri territori,e ci impegniamo, nei nostri rispettivi ruoli, a mobilitarci affinché il miglioramento delle condizioni collettive di vita degli abitanti delle città e dei territori torni al centro delle politiche pubbliche".
Nei nostri rispettivi ruoli ci mobiliteremo? eppure ai miei amici è chiaro che si tratta di uno scontro politico (l'urbanistica quale scelta politica tecnicamente assistita), l'appello alla mobilitazione di "noi urbanisti" (chi? come?, quando?) mi pare un po' consolatoria. Noi urbanisti, dico noi "bravi" (sic!),bisogna riconoscerlo, abbiamo cincischiato con tematiche parziali (marginali?), avendo perso di vista le dinamiche che investivano i territori e le città,le modifiche della struttura capitalistica, le nuove realtà  urbane sia economiche che sociali, Ci siamo  mobilitati per battaglie singole (sacrosante) ma che nella loro parzialità non permettevano di osservare (e contrastare) i grandi processi in atto.  Il "locale" (come dimensione chiave), il consumo di suolo (come variabile esistenziale), lo smantellamento degli standard (anche per ragioni (sic!) "urbanistiche" oltre che economiche), il partenariato (come la soluzione di tutti i problemi, certo pericoloso ma necessario), ecc. 
Speriamo che l'appello smuova il torpore, ma fatto questo bisogna ragionare di politica.
Il caso di Roma è da orticaria. Paolo Berdini è stato spinto ad accettare l'incarico di assessore all'urbanistica del comune di Roma-Raggi, da un misto di ingenuità e presunzione. Una ingenuità frutto di una considerazione positiva (a diversi livelli di positività) del movimento 5*, tanto da spingere una parte della sinistra a votare per Virginia Raggi. Analisi politica zero; riflessione su motivazioni e fondamenti, zero, studio delle radici del movimento, zero, analisi dei possibili legami, zero. Ma a questa ingenuità si somma un po' di presunzione: uomo onesto, uomo di sinistra, uomo della legalità urbanistica, ora arrivo io e metto tutto a posto. Su questa strada l'anno spinto amici e estimatori, non sono casuali gli appelli perché l'assessore sia confermato, appelli a chi a Raggi? ai padrini della stessa?, come Di Maio, a Grillo? O si pensa che l'URBANISTICA possa essere una branca autonoma della politica di un'Amministrazione?
Paolo Berdini, che non nego abbia potuto fare delle cose buone (Roma era in tale stato che sarebbe stato difficile non fare bene), ha un pessimo giudizio delle capacità amministrative del  Sindaco, si sente un "estraneo" rispetto alla maggioranza, ma non si capisce perché è ancora in quel posto.
Mi sembra difficile un movimento di protesta contro la grande speculazione dello stadio in appoggio all'assessore della giunta che, sostanzialmente, lo stadio lo vuole.
Mi sembra uno dei tanti pasticci della sinistra (di quella radicale).