mercoledì 31 luglio 2013

La qualità manageriale (umana?) di Marchionne



Il finanziere Marchionne sostiene che nel nostro paese è impossibile fare industria (ma è possibile ottenere emolumenti superiori a 40 milioni): se egli caccia la Fiom dalle sue fabbriche, non può esserci un qualche tribunale che gli impone di riammetere il maggior sindacato metalmeccanico nella sue fabbriche. Così va a farsi benedire la catena del comando.

L'idea industriale di questo finanziere (non si può dire che sia un manager industriale di successo, basta vedere il mercato della FIAT) è molto semplice e ... antica: la forza lavoro e fondamentale ma deve essere possibile cacciarla via quando non piace, è troppo invadente sindacalmente o non serve. I lavoratori carne da lavoro e da macello.

Non può capire che oggi per fare industria ci vuole un altissimo senso della collettività, una giusta equità, una fondamentale lotta alla finanza internazionale. Ma come potrebbe fare lo svizzero Marchionne a combattere la finanza internazionale di cui è parte?

Non più gnomi svizzeri, ma finanziere e speculatori internazionali sono all'origine dell'attuale e futuro disastro Greco, Italiano, Spagnolo... e presto europeo. Ma i governi sono delle nuove scimiette: non vedono, non sentono, ma in compenso parlano molto per dire schiocchezze e imbrogliare i popoli.

martedì 30 luglio 2013

Lana caprina e ... ignoranza della realtà



Mi pare di ricordare che lo statuto del PD preveda l'elezione del segretario attraverso una votazione aperta tra chi fosse interessato. Può essere sbagliato, io credo che il segretario del partito debba essere eletto dagli iscritti; ci sono modi più interessanti e di maggior rilievo attravreso i quali un partito si può aprire alla società, che non la discutibile scelta delle primarie per il segretario. Ma lo statuto dice questo, non discutano è applichino lo statuto.

Il segretario è anche il candidato a dirigere un futuro governo? ma questo non lo decide solo il PD, ma la coalizione (si spera che sia tramontato ogni pregiudizio di autosufficienza). In questo caso le primarie paiono necessarie e forse anche utili. Il segretario del PD è uno dei candidatio a queste primarie, mi sembrerebbe ovvio ma è il partito che decide, è sicuro, tuttavia, che il leader lo decide il "popolo della coalizione".

Ogni altro ragionamento mi sembra di lana caprina, e se la smettessero sarebbe un bene e se fossero in condizione di ragionare sul futuro di questo paese e dell'Europa, farebbero cosa saggia e utile.

Ma sono in condizioni? il sopetto è che no! non hanno idea di come va il paese, al di là delle dichiarazioni di "sofferenza sociale"; non hanno idea della trasformazione del capitalismo; non hanno idea della contradizzione profonda che si è aperta tra forme della democrazia e potere economico (fanno ridere i tentativi di regolare con una legge le "pressioni" dei vari interessi sui parlamentari: lobbismo); non hanno idea su cosa fare del debito pubblico se non pagare; non hanno idee su come combattere la disoccupazione, ecc.
 
E' questa ignoranza che spaventa e non dà speranza.

lunedì 29 luglio 2013

E' possibile sperare?



C'è una speranza per questo paese? la speranza di riprendersi economicamente, la speranza di garantire occupazione, la speranza di un'istruzione di buon livello, la speranza del rispetto dei diritti individuali e di cittadinanza, la speranza di una pensione civile? potrei continuare, ma la risposta sarebbe sempre uguale: No!

Ma un paese può vivere senza speranza di progresso? e un paese senza speranza di progresso che cosa suggerisce ai propri cittadini? se non disperazione e la forma più estrema di individualismo?

Ogni due tre mesi c'è un qualche ministro, ha cominciato il professore Monti, che comunica allegramente che si vede la luce in fondo al tunnel, la ripresa è iniziata, ancora pochi mesi e poi si vedrà la luce. Ma questo tunnel diventa sempre più lungo e la luce sempre più flebbile. Non è solo che si evade per sopravvivere, come dice Fassina, ma si ruba per mangiare, come ti dicono i poliziotti quando vai a denunziare uno scippo o un furto.

Il tramonto di ogni speranza può non mobilitare e invece può incanaglire, non suscita movimenti di cambiamento ma solo assalto ai forni. Siamo a questo? ci siamo vicini.

La "speranza" può essere anche un'illusione, ma più spesso costituisce un ingrediente fondamentale per andare avanti, per "fare" (un fare anche individuale). Quello che spinge al rigetto della politica, non è un individualismo esasperato, che piuttosto sarebbe una conseguenza, ma il fatto che i "partiti" non danno più speranza, ma solo amministrano, spesso con durezza, la sperequazione determinata dall'economia finanziaria.

Non danno speranza, ma in più ci ripetono della necessità di riforme impopolari. La cui traduzione è:  colpiranno i molti e salveranno i pochi.

Ministri e politici sono stupidi? no, sono ingnoranti. Ignorano quale sia la realtà del paese, ignorano quali sono i meccanismi economici che hanno prima in Grecia, e poi in Portogallo, in Spagna, in Italia e a seguire anche gli altri che si credono immuni, distrutta la convivenza, che hanno azzerato ogni speranza di progresso, che ci hanno messo davanti agli occhi un futuro di miseria.

Una politica il cui destino è legata a questa o a quella sentenza; una politica spasmodicamente alla ricerca delle poltrone da salvare o da occupare; una politica populista contro la "casta" ma senza indicare prospettive (perchè ignora la realtà), non sono i migliori strumenti per costruire una speranza, una prospettriva di progresso e di equità.

Non ci resta che, nonostante tutto, sperare. Sperare nella creatività del male: dal male può venire il bene. Le donne e gli uomini sono meglio nonostante i colpi che stanno prendendo e la distruzione della loro intelligenza alla quale sono state sottoposte.

giovedì 25 luglio 2013

Viva, l'opposizione esiste



In Parlamento l'opposizione si sta facendo sentire. L'ostruzionismo è un modo qualificato? dico è un modo (legittimo) di contrapporsi ad una maggioranza che sta sempre più diventando regime (o lo è già?) e come tutti i regimi è indifferenze alle necessità del paese.

Perché è un regime? Non tanto perché il governo gode di una rilevante maggioranza, non è questa che trasforma una maggioranza, "grande" in un regime, ma è l'assenza di alternative che genera questa mutazione genetica.. 

Il Presidente della repubblica, con le sue dichiarazioni contro le possibili elezioni anticipate, mette un bel mattone alla costruzione di un regime. In un sistema parlamentare come il nostro, il ricorso alle elezioni in assenza di una maggioranza è  forma piena di democrazia (che non può essere sottomessa a considerazioni di convenienza immediata).

Quando il Capo del governa dichiara che non esiste una maggioranza alternativa, altra forma di democrazia in un regime parlamentare, ma anzi ricatta con l'idea che dopo questo governo non ci potrà essere che  il diluvio. Mette un altra mattone per trasformare una maggioranza in un regime.

Un regime ha alcune conseguenze gravi: tanto per fare un esempio recente: in assenza di regime, cioè per l'esistenza  di alternative, il ministro Alfano sarebbe stato dimesso, cacciato, si scelga il verbo che si preferisce, ma l'assenza di alternative "garantisce" il posto all'impresentabile Alfano.

Ma c'è dell'altro, un regime proprio in ragione della sua forza che le deriva dall'assenza di un'alternativa: non produce i provvedimenti necessari: il rinvio è la regola; produce provvedimenti pasticciati (vedi voto di scambio); cincischia sul fare ma non fa, ecc.

In sostanza il regime è il peggiore governo in ordine alle libertà, ma anche il peggiore governo nell'affrontare i problemi del paese. E' inutile appellarsi a Moro o ad Andreatta, Letta è più figlio di suo zio che di questi illustri uomini politici con cui si poteva essere in disaccordo ma nella democrazia.

Letta, da buon cristiano, credo che sia contrario all'eutanasia, ma non l'eutanasia politica. Il discorso che il vice segretario del PD (lo è ancora) fa al suo partito di appoggio incondizionato al "regime" del governo delle larghe intese, non è altra che la richiesta di un suicidio politico (del PD). Forse sarebbe liberatorio? molti lo pensano, sempre di più, a me senza un'alternativa non c'è che Grillo. E non mi piace.

martedì 23 luglio 2013

Trasferimento d'imposta



I tecnici sono a lavoro, i politici sovraintendono, il risultato non è certo, l'unica cosa certa è la presa in giro.

IMU e Iva non si pagherà e non aumenterà, l'unico problema, sul quale non si vede luce, è come trovare le risorse sostitutive (4 o 6 o anche più miliardi).

Con il debito che cresce, con la percentuale del debito rispetto al  PIl che continua a crescere, i tecnici del ministero dicono che non si può scherzare. Cancelliamo l'IMU, non aumentiamo l'Iva ma troviamo altre entrate sostitutive, questo pare che sostengano.. Possiamo scommettere che per fare buona la promessa del PDL in campagna elettorale di abolire l'IMU si troveranno altre imposte. Ma non è come credono al governo che la mano destra non sa quello che fa la sinistra; sarà a tutti chiaro l'imbroglio. 

Si riduco le imposte da una parte e  si aumentano dall'altro, e siamo sicuri che le nuove entrate non saranno trovate in qualche imposta progessiva, o sulla ricchezza, ma sarà il contrario, tutti pagheremo. 

Sarebbe molto buffo, per così dire, che dopo aver difeso l'indifendibile Alfano, e all'alba di ulteriori guai giudiziari per Berlusconi il Governo andasse in crisi per l'IMU, come da tempo minaccia il PDL. Il PD sarebbe responsabile di non aver voluta togliere una imposta. Quello che si dice un ottimo viatico elettorale. 


lunedì 22 luglio 2013

Grazie Letta e ... giù uno scanascione



Come diceva mia nonna "la riconoscenza non è di questo mondo"; ma chi non crede all'altro mondo? ma per fortuna sua, ma non nostra, Letta crede (nel caso specifico si potrebbe dire un credulone).

Il presidente del consiglio non aveva finito di conquistare la fiducia per Alfano,mettendoci la faccia che andrebbe conservata per eventi più importanti,  convincendo i senatori che il ministro degli interni non sapesse niente, nonostante i messaggi dall'Inghilterra e dall'interpol. Inoltre il "non sapere" per un ministro non è una colpa. Una operazione tanto ardita quanto arrogante. Si è appena, per adesso,  conclusa la vicenda, che già i riconoscenti piedellini avanzavano le proprie richieste e rivendicazioni.

Il segretario del PD, con linguaggio da automobilista, aveva esplicitato che secondo il PD a settembre il governo avrebbe dovuto fare il "tagliando" (revisione e messa a punto), anche il presidente del consiglio aveva avanzata l'ipotesi di un rimpasto per dare forza al governo.

La risposta del PDL non si è fatta attendere: niente tagliando, un rimpasto si, ma  riequilibratore: il PDL si sente poco rappresentato dentro al compagine governativa e chiede più ministeri (da gestire come Alfano gestisce quello degli interni).

Ma come? invece di dire grazie per aver salvato Alfano (e il governo), fatti forte da questo salvataggio il capo gruppo del PDL alla camera richiede più posti di governo? si potrebbe non credere se la riconoscenza fosse di questo mondo, ma la realtà di questo mondo è che quando uno si mostra debole subito gli altri se ne approfittano.

Quando due cani lottano e uno si sente perso, si accascia a terra e mostra all'avversario la gola in senso di resa e sottomissione. Ecco Letta ha offerto la gola, ma contrariamente a quello che avviene tra i cani, per i quali basta il segno di una sottomissione, in politica si azzanna alla gola.

sabato 20 luglio 2013

Letta è ... finito



Il Presidente del Consiglio, spalleggiato dal Presidente della Repubblica, ha salvato l'insalvabile ministro degli interni Alfano. Con quest'atto di arroganza, tale è far credere al Parlamento che Alfano non sapeva niente di quello che succedeva, doveva succedere e sarebbe successo (smentito da una documentazione quanto ampia, quanto inequivocabile). Con questo atto, come ha spiegato in senato si è fiduciato il governo (e se stesso). Un governo che ha tante cosa da fare (risate in sala)

Non si è reso conto che ormai è bollito, la sua forza non sta più neanche nella sua debolezza. Il suo partito mi pare lo scarica, lo tiene solo per le minacce del Presidente della Repubblica. Non sono solo le parole del capo gruppo al Senato, che ha motivato la fiducia ad Alfano criticandolo aspramente, ha dato il segnale di un distacco,  ma è ormai convinzione generale nel partito (la bocca di D'Alema non si apre mai invano) che per vincere le elezioni il candidato leader è Renzi, mentre bisogna cercare un segretario per il partito. Con questo si vuole fregare Renzi? forse, ma non credo (e questo è un guaio per la sinistra e per il paese), quello che è chiaro che si nega qualsiasi ruolo politico futuro per l'attuale presidente del consiglio (magari potrà fare il ministro della pubblica amministrazione).

E' inutile, e fa solo ridere, quando in Senato allerta tutti a non considerare la sua buona educazione come debolezza, egli è un duro, un tenace,  un determinato (si è scordato di dire che è un presidente del consiglio per mandato).

La tragedia incombe su questo disgraziato paese. Manca qualsiasi parvenza di classe dirigente, competente, onesta, determinata e consapevole. Né se ne vede all'orizzonte: quasi tutti i "giovani" del PD sembrano e argomentano come i politici (DC) della prima repubblica; nel PDL l'arroganza e la spregiudicatezza viene contrabbandata come determinazione politica (da dito medio); dei grillini tacere si deve.

Ma quello che più spaventa è il disinteresse di massa per la politica alimentata anche da un filone di sinistra che predica del cambiamento della società sulla base delle pratiche individuali o di piccoli gruppi.

Del resto l'elenco dei ministri non è certo allettante né si segnalano per attivismo, competenza e carattere. Di Alfano si è detto; ma che dire della Bonino ministro degli esteri? fa collezioni di schiaffi e tace; Lupi alle infrastrutture e trasporti, mai sentito; Saccomani annunzia che si può vendere il controllo sulle tre maggiori realtà economiche dello stato (poi smentisce); vendiamo e dopo? che dire di quello della salute con i pasticci sulle cure non garantite da adeguata sperimentazione? ecc. ecc.

Mentre questo gruppo di amici "dalle larghe intese" si riunisce annunzia decreti sul fare, sul farò, sul da farsi, la povertà cresce, come pure il disaggio delle famiglie, e disoccupati e giovani vedono il lavoro come un sogno. Quello che più amano ripetere è: abbiate pazienza.

Credo che a questo punto andare a votare, anche con il porcellum, sia la cosa migliore, il paese sceglierà da chi vuole essere governato e la finiamo con l'imbroglio delle large intese (intese su che? sulla durata). Del resto un popolo ha il governo che si merita. La sinistra non mi pare che sia in grado (abbia voglia, ritiene opportuno) indicare un'altra strada realistica e concreta, ma sarebbe necessario, ma quale è oggi la sua credibilità.




mercoledì 17 luglio 2013

Non c'ero e se c'ero dormivo



Era tutto previsto: "non sapevo niente", "non ero informato" e cose del genere. I più scaltri commentatori sottolineano che Alfano preferisce fare la figura dell'imbecille piuttosto che prendersi qualche responsabilità. Sarà, a me sembra che più che la figura è realmente un imbelle (imbecille). Del resto non è ministro degli interni e vice presidente del governo per particolari suoi meriti, ma solo per fare gli interessi del suo padrone.

Il risultato già scritto: nessuno sa niente e tutti innocenti.

E' casuale la coincidenza della presenza del presidente del kazako in vacanza in Sardegna e l'espulsione delle due donne? si, può essere una coincidenza, come pure in questo paese senza dignità potrebbe essere un "presente" degli amici, che Alfano è stato incaricato di incartare.

Ma anche il presidente del Consiglio era all'oscuro. La cosa sembrerebbe naturale dato che si tratta di un'azione della polizia di ... frontiera. Ma se non erro il suddetto presidente ha la responsabilità dei servizi segreti, i quali evidentemente niente sapevano di quello che stava avvenendo. Va bene "segreti" ma servizi di che e di chi?

Mi è chiaro che il Presidente del consiglio da la priorità alla "durata" del suo (sic!) governo, capisco che abbia preso lezioni da suo zio, ma ha consapevolezza della porcata che sta cercando di coprire? L'identificazione di un capro espiatorio (o forse due, ambedue prossimi alla pensione) è un'altra buffonata, a cui tutti danno il peso che merita.

Alfano era consapevole della richiesta dell'ambasciatore kazako, ed ha avuto l'imbeccata che quel paese amico (sic!) dovesse essere accontentato. La turpe storia inizia e finisce qui, una missione affidata al fedele Alfano (se no a chi?).

Piacerebbe che Letta spiegasse come mai i suoi servizi segreti hanno mantenuto il segreto. Piacerebbe capire perchè giustamente sono state richieste le dimissione di una ministra che non aveva pagato l'Ici e invece non si chiedono le dimissioni ad un ministro che ha molte e più gravi responsabilità e che non ci fa dormire tranquilli. Piacerebbe che la Bonino ci spiegasse che cosa ha detto all'ambasciatore kazako, se, per esempio, gli abbia ritirato le credenziali. Possiamo credere che da ministro potrà aiutare meglio le due donne, ma dopo, cioè presto, oltre che quelle di Alfano attendiamo le sue dimissioni.

Infine, il Presidente Napolitano, che tanto a cuore ha la dignità e l'immagine del paese, non pensa che in questo suo ministero bisognerà fare un po' di pulizia.

Ma non ci illudiamo: insabbiare è il verbo governativo. Sembra che niente si muova per paura della crisi di governo, sarà vero, o piuttosto è lo stile di governo che per i rami democristiani arriva fino a noi? 

Detto con grande responsabilità meglio una crisi di governo che questo pantano.

giovedì 11 luglio 2013

Senza regole e senza dignità

 
Si possono mettere assieme sia la sospensione di un giorno dei lavori parlamentari sia l’estradizione forzata e molto probabilmente non legale di A. Shalabayeva e della figlia di sei anni, sotto la rubrica senza regole e senza dignità.
Il PDL aveva chiesto TRE giorni di sospensione dei lavori parlamentare in contrapposizione alla così detta “accelerazione” della Cassazione nei riguardi della decisione su una sentenza che condannava Berlusconi. Evidentemente secondo il PDL un fatto come questo meritava un lutto nazionale di tre giorni. Una richiesta che aveva lo scopo di mettere un potere dello Stato, il parlamento, contro un altro potere, quello giudiziario e soprattutto di mostrare il potere di Silvio Berlusconi, nonostante già condannato.

Dire che la richiesta era inaudita è un eufemismo, ma pare assolutamente gravissimo che il PD abbia trattato, mediato e alla fine si sia accordato per un solo giorno di sospensione dei lavori parlamentari. Umiliando Parlamento e parlamentari. Che dire? Forse con questa tattica il governo Letta avrà lunga ma assolutamente inutile vita.

Sul sequestro da parte di uomini della Digos della signora e della figlia kazaka, a Roma da molto tempo (la figlia andava anche a scuola a Roma) c’è da dire, molti lo dicono, che si è trattato di un “favore” fatto a qualcuno da qualcuno. Non interessa se il marito della signora, che vive a Londra, sia un dissidente kazako né che fosse o meno implicato in loschi affari, interessa che si sia sequestra una persona e la si sia imbarcata su un aereo “privato” per consegnarla alle autorità kazake.
 
La signora, e tanto meno la figlia di sei anni, non erano accusate di niente neanche in patria, ma le nostre autorità pare abbiano scoperto un reato di immigrazione clandestina e per questo immediatamente rimpatriata.
 
Appare evidente che lo scopo di questo rimpatrio è la predisposizione delle condizioni per ricattare il marito (roba da banda criminale, a questo ci siamo prestati). Di quale “favore” si è trattato, fatto da chi dei governanti presenti e passati meriterebbe fosse reso trasparente. Il ministro degli interni e il presidente del consiglio dovranno riferire al parlamento (umiliato) non solo del comportamento delle nostre autorità di polizia, ma anche dei retroscena di questo “affare”. Ma non c’è speranza di un sussulto di dignità, non diranno nulla e copriranno tutto con la versione “non sapevamo”, che non alleggerisce ma aggrava le rispettive responsabilità.

Tutte e due i casi, anche se così lontani nella specie, sono strettamente legati dall’assoluta mancanza di rispetto di norme e dal segno inconfondibile della indegnità.





mercoledì 10 luglio 2013

Ribellione, “società media” e crisi del capitalismo


Commentatori, studiosi e ricercatori stanno cercando di mettere in chiaro cosa rappresentano, nel mondo, i grandi “movimenti di ribellione”, e cosa può succedere. Dall’Egitto, alla Russia, dalla Turchia agli Usa, dalla Grecia alla Cina, dal Brasile alla Spagna … piazze piene, scontri, rivendicazioni, domande.

Si cercano similitudini, si individuano differenze; nessuno nega che qualcosa sta avvenendo a livello globale (un tempo si sarebbe detto a livello mondiale); si mettono in evidenza che in tutte queste manifestazioni di protesta e di ribellione è forte presenza di una “classe media”; internet viene esaltata come strumento di mobilizzazione, si mette in luce una di rivendicata democrazia diretta, ecc. Ma si tratta di analisi non convincenti fino in fondo. 

Scrive Guido Rossi “Questo coacervo di rivolte della borghesia verso se stessa e il fallimento delle democrazie di fronte alle conseguenze della globalizzazione portano a concludere che i sistemi di democrazia delegata, con le nobili tradizioni che ci sono derivate dall’illuminismo, sono destinate a dover essere profondamente rivisti. Alla base della democrazia dovranno essere poste come prioritarie ed essenziali le condizioni di vita e i fondamentali diritti umani che le classi medie del mondo stanno pretendendo con impeto” (Il Sole 24 Ore, 7 luglio).

E Franco Venturini “I nostri brevi cenni non possono esaurire il dilemma tra rabbia globale e rabbia locale se non dimostrando che nessuna delle due formule può reggere da sola alla complessità delle situazioni specifiche. Di davvero globale, forse, c’è soprattutto una crisi di sistema. Le democrazie capitaliste, diventate più “finanziarie” dopo la globalizzazione economica, cercano con un certo affanno nuove regole di autogoverno… E accanto alla crisi sistemica emerge un altro elemento globale: la perdita della paura e della passività, ovunque. Ma se questo basti a innescare davvero un tempo della rabbia globale, senza bisogno di maestri buoni e cattivi … è cosa che resta tutta da vedere. Almeno fino a quando, e speriamo che non accada, la rabbia delle classi medie si allargherà ovunque ai poveri” (La Lettura, supplemento al Corriere della Sera, 7 luglio). 

Interessanti ma, almeno a me, paiono carenti di un dato: non si è ancora compreso che finanziarizzazione, soprattutto, e globalizzazione hanno cambiato la natura del sistema economico; si sottolinea molto la crisi della democrazia, ma non si vede come sia incompatibili la democrazia, che ci è nota, e l’attuale forma di quello che continuiamo a chiamare capitalismo. E se negli studiosi non c’è la consapevolezza di questo passaggio, nelle “masse” (protestanti) è il vissuto che li rende inconsapevolmente consapevoli delle grandi trasformazioni. C’è bisogno dei maestri a cui fa cenno Venturini, infatti senza teoria non c’è cambiamento, non c’è trasformazione, non c’è rivoluzione.

È sicuramente vero che nelle recenti manifestazioni di protesta, in atto, quelle a riposo (e le future), è prevalente la presenza di un ceto medio di discreta posizione economica e acculturato, come di giovani istruiti, è vero che c’è latente o manifesta una rivendicazione di “nuova e diversa” democrazia, è vero che uno dei nodi rivendicativi appare la “libertà laica”, ma è altrettanto evidente che di petto vengono assunte le condizioni di vita delle città (ambiente, trasporti, scuole, sanità, ecc.). Un’umanità prevalentemente urbanizzata con il funzionamento della città deve fare i conti. Ma c’è un dato in qualche modo nuovo: non si rivendica una maggiore “partecipazione” alla ricchezza (salari, stipendi, ecc.), ma piuttosto si chiede una maggiore spesa pubblica a garanzia di migliore condizioni di vita (infrastrutture e servizi). Ora se si guarda oltre, si coglie una rivendicazione di maggiore uguaglianza, sapendo che le proprie condizioni di vita di ciascuno dipendono dal proprio reddito ma anche dai servizi ai quali gli sarà possibile accedere. I servizi pubblici sono reddito reale per chi ne gode. Ma sempre più (lo misuriamo anche nel nostro paese) questi servizi sono incompatibile con l’attuale assetto economico-sociale. Una soddisfacente risposta a quello che si muove a livello mondo può venire solo con una modifica dell’assetto economico sociale con una riduzione drastica (cancellazione?) delle diseguaglianze. 

Come? È questione complessa alla quale non ho una risposta, né la risposta può essere singola, essa forse può nascere all’interno del conflitto, ma oltre al conflitto stesso.

Guardando al nostro paese trovo interessante la folla di candidati alla segreteria del PD, ma trovo molto, ma molto limitato, che la discussione si focalizzi sulla “natura e forma del partito”, mentre pochissimo interesse suscita il sistema socio economico (oltre il rituale riferimento alla crisi e alle condizione di disaggio sociale). Lunga questa strada la sinistra non vedrà molta luce e soprattutto non sarà in grado di guidarci fuori dalle tenebre crescenti.





venerdì 5 luglio 2013

Citazioni: nel bene e nel male (fino al 5 luglio 2013


  • Michele Ainis 
  • Jonathan Safran Foer 
  • Johan Galtung
  • Homo Aeserniensis 
  • Loris Caruso 
  • Fabrizio Saccomanni 
Michele Ainis, Corriere della Sera, 27 giugno 2013

“Fateci caso: negli ultimi mesi i partiti sono diventati afoni. L’assenza di un nemico da combattere ne ha sfibrato il corpo, ne ha disseccato le energie, … Sicché reagiscono nell’unico modo che conoscono: cercandosi un nemico. E trovandolo, se non l’esterno, dentro le proprie file. Ora la vitalità residua dei partiti si scarica su un nuovo bersaglio: il nemico interno”.

Jonathan Safran Foer, Sette (supplemento del Corriere della sera), 28 giugno,2013

“L'uso quotidiano che facciamo delle comunicazioni grazie alla tecnologia … sta facendo di me una persona che ha maggiori probabilità di dimenticare il prossimo”.

Johan Galtung, www.sbilanciamoci.info, 2 luglio 2013

Lo Stato forte, capace e disposto a mostrare la sua forza, anche nella forma della pena di morte, appartiene all’essenza del fascismo. Questo vuol dire un monopolio assoluto del potere, anche quello che non viene dalle armi, incluso il potere nonviolento. E vuol dire una visione della guerra come un’attività ordinaria dello Stato, rendendola normale, eterna addirittura. Vuol dire una profonda contrapposizione con un nemico onnipresente … Va da sé che tutto questo vuol dire una sorveglianza illimitata sul proprio popolo e sugli altri; la tecnologia postmoderna rende tutto ciò possibile, o almeno plausibile. Quello che conta è la paura; conta che le persone abbiano timore e si astengano dalla protesta e da azioni nonviolente, per la minaccia di essere individuate per la punizione estrema: l’esecuzione extragiudiziale. Che ci sia davvero un controllo su e-mail, attività su internet e telefonate, è meno importante rispetto al fatto che le persone credano che ciò stia accadendo sul serio… Il trucco più semplice è rendere il fascismo compatibile con la democrazia…. Innanzitutto ridurre la definizione di democrazia alla presenza di elezioni nazionali con più partiti. In secondo luogo, far diventare i partiti praticamente identici sulle questioni della “sicurezza”, pronti all’uso della violenza a livello nazionale o internazionale. Terzo, privatizzare l’economia nel nome della libertà, l’altra parola-ponte, lasciando al potere esecutivo essenzialmente le questioni giudiziarie, militari, e di polizia, sulle quali già esiste un consenso manipolato. … Proprio come una crisi che viene definita “militare” catapulta al potere i militari, una crisi definita “economica” catapulta al potere il capitale. Se la crisi è che l’Occidente ha perso la competizione nell’economia reale, allora al potere arriva l’economia finanziaria, le grandi banche, che gestiscono migliaia di miliardi in nome della libertà”.

Homo Aeserniensis, da Politica&EconomiaBlog, 3 luglio 2013

Spero che a nessuno sia sfuggito il fatto che la supposta deroga al patto di stabilità sia una bufala. In realtà Letta non ha strappato nessuna particolare concessione all'Europa (a differenza della perfida Albione). Il margine dello 0,5% del Pil oltre il 3% di deficit esisteva già automaticamente per tutti i paesi fuori dalla procedura di infrazione. In ogni caso dovremo rispettare parecchie altre
condizioni.

La prima è la "regola della spesa", che nel nostro caso impone che la spesa pubblica non possa crescere affatto tra il 2014 e il 2016. Quindi maggiori investimenti possono essere realizzati solo tagliando qualcos'altro. Ma non basta, dobbiamo rispettare anche la "regola del debito" che
richiede una riduzione del rapporto debito Pil a ritmi "adeguati", che nel nostro caso significa una riduzione del 3,4 punti l'anno (tralasciando alcune sottigliezze bizantine sull'argomento). E' questo
il vero limite agli investimenti pubblici. Il bello è che Francia, Spagna e altri, che non sono ancora usciti dalla procedura, non sono obbligati a seguire anche quest'ultimo criterio fino al 2015 ... e
quindi avranno paradossalmente più margini di noi (da qui il riferimento da caserma alla "supposta" deroga che avremmo ottenuto). Infine la Commissione si riserva di valutare se lo "sconfino" è giustificato da investimenti particolarmente produttivi e che rientrano tra quelli cofinanziati dall'Europa (TAV? F35?).

Loris Caruso, Il Manifesto 3 luglio 2013

“Gran parte dei movimenti e delle associazioni sembrano indifferenti al fatto che esista una rappresentanza politica che ne sostenga le istanze e i valori. Spesso, questa indifferenza, la esibiscono. Proliferano parallelamente tentativi di costruzione unitaria, indipendenti e a volte ostili tra loro … ciascuno tendente a rappresentarsi come l’unica forma di ricostruzione possibile…. Da quando in parlamento e nel paese non è più presente una sinistra autonoma, i conflitti hanno assunto una dimensione prevalentemente locale e settoriale… Si rivela illusoria l’idea che la crisi della sinistra di partito dischiuda le “magnifiche sorti e progressive” della sinistra sociale, aprendo la strada alla moltiplicazione di esperienze di auto-organizzazione che liberate dall’influsso paralizzante delle burocrazie politiche, trasformino progressivamente e capillarmente la società”.

(è la somma di narcisismo, di ignoranza, di velleitarismo, infantilismo e … populismo. La realtà è disinteresse per la politica senza alcuna sostituzione. Speranze zero)

Fabrizio Saccomanni, La Repubblica 4 luglio 2013

“Credo di essere l’unico che continua a vedere un po’ di luce infondo al tunnel e non è il treno che ci viene incontro”.

(quando sento un ministro invocare la luce infondo al tunnel mi prende la tenerezza, come quando sento un bambinetto che da grande vuole fare l’astronauta)



giovedì 4 luglio 2013

Lavoro … dove, come, quanto, quando




La discussione sul lavoro è quanto mai accesa. I termini sono, tuttavia, sempre gli stessi: Il lavoro che manca; Il lavoro che è cambiato; la fine del posto fisso (degli altri); Il lavoro per i giovani; la riduzione dell’orario di lavoro; il reddito di cittadinanza; contro il reddito di cittadinanza, per un reddito da lavoro; le politiche attive per il lavoro (che non si vedono e non si sa quanto efficaci), il rosario potrebbe continuare. Proverò a fare, pur nella ristrettezza di spazio, un po’ d’ordine, senza nessuna pretesa .

È vero che il lavoro è cambiato, intanto guardiamolo dal punto di vista della “quantità, o se si preferisse relativamente alla popolazione; c’è e ci vuole sempre meno lavoro per produrre “merci”. Le innovazione di processo attuali e quelle che si profilano per il futuro, hanno drasticamente ridotto la necessità di lavoro vivo. So che il rapporto tra sviluppo tecnologico e occupazione è un assillo degli economisti di tutti i tempi, ma la conclusione facile che la tecnologia riduceva da una parte ma richiedeva altro lavoro in altri settori, soprattutto di servizi alla produzione, mi pare che non regga più, proprio per la natura presente e futura delle nuove tecnologie di processo. 

Ma incombe un altro problema. Le economie sviluppate sono state sempre economie di esportazione godendo di notevoli vantaggi competitivi (qualità del lavoro, tecnologia, risorse, ecc.). Tali vantaggi competitivi mi sembra si siano drasticamente ridotti: oggi tutti fanno tutto; il vantaggio competitivo di alcuni paesi ha finito per identificarsi in un temporaneo minor costo del lavoro. 

È vero, tuttavia, che esistono dei “beni posizionali” (allargando il concetto) che sono prerogativa di determinati luoghi (paesi), non riproducibili e che costituiscono una sorta di rendita di posizione, ma come tutte le rendite soggette a famelici appetiti. Così le risorse energetiche, oppure la risorsa acqua scatenano appetiti che non si fermano neanche difronte alla guerra (leggi per esempio Iraq, o lotte all’interno dell’Africa presentate come guerre tribali). Ma anche i beni non trasferibili (storici, ambientali, ecc.) sono oggetto di appropriazione di limitati gruppi. Ma sia i primi che i secondi sono settori a scarsa occupazione, o a occupazione stagionale. I paesi che godono di queste prerogative non possono che molto limitatamente fondare su questi settori lo sviluppo dell’occupazione.

C’è sempre qualcuno che pensa al rilancia l’agricoltura; solo un’agricoltura senza tecnologia, senza macchine può essere una fonte consistente di occupazione. Mentre chi pensa ad un “nuovo ciclo edilizio” o è in malafede o uno che non conosce la realtà del nostro paese (qualcuno si ricorda del “piano casa” dell’ultimo governo Berlusconi che avrebbe dovuto mobilitare diecine di miliardi di investimenti, ed invece non successe nulla? 

C’è un altro tipo di cambiamento che viene presentato come “epocale”: indipendenza (la fine del lavoro fisso e stabilmente organizzato), flessibilità, autonomia, auto imprenditorialità, ecc. Ma quando guarderemo dentro queste attività? Semplificando si può dire che nessuno è “indipendente”, tutti sono sottoposti alla necessità di “guadagnare”, per questo lavorano l’agognata indipendenza si riduce al lavoro “in conto terzi”, essi cioè entrano in una o più catene di realizzazione di valore aggiunto, ma chi sta alla testa di questa catena rastrella il valore aggiunto realizzato dai diversi anelli della catena ai quali resta poco. Non è casuale che si tratta di un settore effervescente, dove muoiono e nascono continue “imprese”. 

Non ignoro che esistono delle professioni che servono le imprese e le famiglie (avvocati, notai, architetti, ecc.), ma dovrebbe essere altrettanto noto che quando si dice servono anche le “famiglie”, bisogna intendere un certo tipo di famiglie. Questo apre una questione tanto importante quanto di “nicchia”, la “disuguaglianza” (chi volesse potrebbe leggere, tra le altre cose, il recente lavoro di Stigliz – Einaudi), ma qui merita che la questione sia trattata per paradossi: quale è la giustificazione per accettare che un chirurgo che mi sostituisce il cuore, o mi apre la testa per togliere un tumore, o mi riattacca un organo, ecc. “guadagni” meno, ma molto meno, migliaia di volte meno, di un calciatore?

Dal punto di vista dell’occupazione abbiamo l’ampio settore dei servizi commerciali, ma anche questi falcidiati dalla tecnologia (acquisti via internet), dall’organizzazione (supermercati, centri commerciali, catene specializzate, ecc.), ristorazione, ecc. Gli andamenti sono contradittori al loro interno ma non fortemente espansivi. Qualcuno per nostalgia, per ricerca di qualità, ecc. vorrebbe un “ritorno al passato”. Che quando avviene afferma l’esclusività e non genera che modeste apporti occupazionali.

Poi esiste il grande settore che possiamo definire del “vivere bene”, che comprende attività tradizionali (scuola, ospedali, biblioteche, musei, sicurezza, ecc.) ma anche necessità nuove (salvaguardia dell’ambiente, idrogeologia, servizi di igiene territoriale, parchi, restaura e riorganizzazione urbana, manutenzione degli edifici pubblici, ecc.) ed anche necessità legati al mutamento della piramide demografica (anziani). Un settore questo del “ vivere bene” che potrebbe spandersi oltre ogni ottimistica decisione, ma si tratta di un settore che ha un grave difetto, non essendo una produzione di merce non produce reddito. Questo è il dramma che va sotto la formula “chi paga”?

Detto tutto questo, e mi scuso per la sintesi estrema forse oscura in qualche passaggio, mi pare che per raggiungere livelli molto alti di occupazione non resta che puntare sul settore del “vivere bene”. Lavori che sul piano della qualità della vita compenserebbe alla grande qualche necessaria sobrietà nel consumo di merci, ma affinché questo si realizzi sarebbe necessario un cambiamento profondo di regime sociale: abbattimento delle diseguaglianze, riduzione dell’orario di lavoro, distribuzione di tutto il lavoro, ecc. Si potrebbe dire una rivoluzione, ma tutti aspettano il ritorno del passato (senza speranza), e il lavoro resta un sogno. 



martedì 2 luglio 2013

Femminicidio: quando il patriarcato vacilla



Femminicidio: quando il patriarcato vacilla
di Ida Dominijanni

(articolo pubblicato su italiani europei 1 luglio)

(consiglio di seguire il blog di Ida, molto interessante. idominijanni.blogspot.com)


Nel 1988 il regista americano Jonathan Kaplan scandalizzò mezzo mondo con un film, “The Accused” (“Sotto accusa” la versione italiana), che capovolgeva la narrazione abituale dello stupro con un semplice spostamento della telecamera, puntandola non sul corpo della vittima violato sul flipper di un bar malfamato ma sulle movenze bestiali del bacino dello stupratore. Non solo. Ispirandosi a un fatto di cronaca realmente accaduto, Kaplan non scelse come vittima una brava ragazza con la gonna al ginocchio che tornava a casa da scuola, ma una bad girl che faceva la cameriera nel bar di cui sopra e colpiva al cuore gli avventori, e gli spettatori, ballando spericolatamente con una minigonna mozzafiato: una di quelle ragazze che insomma, secondo il senso comune, lo stupro “se lo cercano”. Una indimenticabile Jodie Foster conquistò l’oscar dimostrando al mondo – oltre che, nel film, alla procuratrice che si occupava del caso – che uno stupro è uno stupro e non è meno grave se lo stupratore sostiene che l’hai “provocato” ballando o facendo qualsiasi altra cosa una donna possa e debba essere libera di fare; e Kaplan si guadagnò la nomination a un premio speciale per i diritti umani dimostrando che se si vuole davvero combattere la violenza sulle donne bisogna imprimere allo sguardo e al giudizio la stessa rotazione che lui aveva osato con la telecamera: dal corpo della vittima alla sessualità del carnefice, perché è il carnefice, e non la vittima, a essere “sotto accusa”.

Venticinque anni dopo, in pieno exploit italiano e mondiale della questione del cosiddetto femminicidio, i punti fuori fuoco sono sempre questi stessi: la libertà delle vittime, e le movenze, e i moventi, dei carnefici; e non è l’adesione a una norma internazionale – come la pur meritoria Convenzione di Istanbul recentemente adottata dal nostro Parlamento – a metterli meglio a fuoco, anzi. Certo, oggi nessuno sosterrebbe né nell’aula di un tribunale né in pubblico, non foss’altro che per prudenza politically correct, che una donna violentata o assassinata “se l’è cercata” (anche se restano non infrequenti – l’ultimo l’ho visto poche sere fa su Canale 5 – i processi alle vittime coperti dalla retorica della compassione); ma la censura della libertà femminile ricompare in altre e più sofisticate forme.

La cornice discriminatoria e il paradigma dell’oppressione in cui la Convenzione inquadra ogni atto di violenza sulle donne (dalle mutilazioni genitali allo stupro, dallo stalking all’assassinio) lascia infatti fuori campo il lato più inquietante del femminicidio, e cioè il fatto che almeno in Italia esso permane, e sembra assumere un profilo perfino più efferato, nelle situazioni in cui le donne non sono né oppresse né discriminate, come reazione maschile alle manifestazioni di libertà femminile. Basta leggere i casi di cronaca purtroppo quotidiana delle donne assassinate, o ascoltare i racconti delle donne maltrattate o malmenate o stuprate che trovano accoglienza nei centri antiviolenza, per capire che l’aggressione maschile scatta precisamente quando esse si ribellano, o semplicemente reclamano la libertà di abbandonare un rapporto che non funziona, di vivere da sole o di prendere la propria strada. Scatta dunque precisamente non laddove il controllo maschile sulla loro vita è saldo, ma laddove vacilla; non, o almeno non solo, laddove il patriarcato permane, come ha sostenuto in coro tutto il dibattito parlamentare, ma laddove tramonta. Il che non è senza conseguenze per l’analisi del lato maschile del problema. Gli uomini che violentano e uccidono le donne lo fanno perché sono il sesso dominante o perché temono di non esserlo più? E la loro violenza ha a che fare, e come, con la crisi del patto sociale e politico, e con la più profonda crisi di civiltà, che l’Italia sta vivendo da decenni senza trovare le parole giuste per dirla e affrontarla? Ancora: se è così, la ricetta paritaria che la Convenzione propone per arginare il femminicidio non è per caso anch’essa fuori fuoco? Il problema è la parità di genere non raggiunta, o la libertà di un sesso che l’altro non riesce ad accettare?

Non sono le uniche domande che la discussione attuale sul femminicidio suscita. La Convenzione di Istanbul, ad esempio, statalizza massimamente la tutela delle donne vittime di violenza, investendo governi, Parlamenti e giurisdizioni nazionali, nonché organismi internazionali e sovranazionali, di compiti di prevenzione, repressione e assistenza. È chiara l’intenzione di alzare in tal modo l’allarme e la responsabilizzazione pubblica sulla costellazione di fenomeni che va sotto il nome di femminicidio. Tuttavia stupisce non ritrovare, nel Parlamento italiano, alcuna eco della cautela da sempre espressa dal movimento femminista nei confronti della delega alla dimensione statuale e al trattamento legislativo, giudiziario e amministrativo di fenomeni profondamente radicati nella dimensione soggettiva, interpersonale e culturale: una delega che sconfina facilmente non nella responsabilizzazione ma nell’autoassoluzione collettiva. Di quella cautela, che pure influenzò largamente, negli anni Ottanta e Novanta, il lunghissimo iter della legge italiana contro la violenza sessuale, non è rimasta traccia. Così come non c’è traccia, per venire a fatti più recenti, della violenza simbolica sul corpo femminile esercitata da un ventennio di linguaggio televisivo berlusconiano o berlusconizzato, e questo malgrado la Convenzione di Istanbul dedichi alla violenza mediatica un paragrafo apposito. Siamo in tempi di larghe intese, e si vede.