lunedì 26 gennaio 2015

Tsipras in Grecia, Podemos in Spagna. E noi? Maurizio Landini


Diario 278

Tsipras in Grecia, Podemos in Spagna. E noi? Maurizio Landini

La grande vittoria di Tsipras in Gregia, intanto dice una cosa chiara: arrivato ad un certo punto il popolo dice “basta!”. Ma dice un’altra cosa altrettanto chiara ci vuole qualcuno, un partito, un movimento, un leader pronto ad ascoltare e a guidare. Questo è avvenuto in Grecia questo sembra stia accadendo in Spagna.
Si tratta di movimenti “comunisti”? non so è troppo presto per dirlo e poi il “comunismo” ha bisogno di rinnovarsi (il come non è sempre chiaro), ma sono sicuramente movimenti contro la finanza internazionale, e non è poco, ma forse sono anche dei movimenti anticapitalisti e progressisti sul piano sociale e culturale. Si è vero: senza teoria niente rivoluzione, ma anche senza popolo niente rivoluzione.
Non si può che essere felici di questa vittoria, non si può che pensare che questa vittoria sia un buon viatico per la Spagna, non si può non sperare che la politica europea possa essere in mora e non mi riferisco solo all’austerità, ma all’avvio di una rifondazione dell’Europa.
E noi? Perché in Italia niente che vagamente somigli a quanto avviene in Spagna e in Grecia si muove? Non stiamo molto meglio di quei due paesi, i problemi del debito pubblico (cioè il laccio della finanza attorno al collo) ci accomuna, molto simile la disoccupazione, l’abbraccio della depressione ci cinge insieme, eppure in Italia niente si muove a quel livello.
I tre scotti che dobbiamo pagare per questa arretratezza  sono di tale entità che potrebbero deprimerci:
a)      Il primo di questi scotti riguarda il PCI e la sua trasformazione fino al Partito democratico, la sua incapacità e mancanza di volontà di essere il catalizzatore dell’insostenibilità della situazione e quindi della protesta. Il suo vestire gli abiti del “perbenismo politico”, l’assunzione piena del mercato capitalista come regolatore della vita economica, il rispetto degli “impegni” presi anche quando evidentemente si trattava di imposizioni. Infine di essere in parte compromesso con la cattiva, per usare un eufemismo, gestione della cosa pubblica.
b)      Il secondo scotto da pagare è alla “nuova” sinistra, a quell’insieme di forze di sinistra incapaci da vent’anni a darsi una struttura unica, aperta e dinamica. Contrasti di dottrina, contrasti di politica immediata, contrasti di leadership hanno reso improduttivo e distruttivo ogni ipotesi aggregativa. Per non parlare dei grandissimi danni prodotti dalla lotta armata. Ora si ricomincia lungo la stessa strada facendosi forti del successo in Grecia e di quello possibile in Spagna, senza capirne la lezione.
c)      Il terzo scotto da pagare, che è una derivazione dei primi due, dobbiamo pagarlo alla Lega e al Movimento 5*. La lega ha messo le sue radici nella pancia del nord alimentando una polemica contro Roma prima, contro il Sud dopo, contro gli immigrati adesso. Mai mettendo in discussione il meccanismo sociale complessivo, contenti dell’autonomia regionale grande fonte di corruzione. L’avventura politica imprenditoriale di Casaleggio e Grillo, è stata rapida a cogliere la protesta, è stata rapida a cogliere l’insostenibilità della situazione ed ha indirizzato questa e quella contro la “casta” (tutti ladri, tutti corrotti, ecc.). Si sono inventati dei meccanismi fasulli di democrazia diretta, hanno costituito uno sfogatoio della protesta nel web. 
Si, so, sono analisi sommarie, ma l’intento non era quello di analisi puntuali, ma quello di richiamare quelli che possono essere considerati degli ostacoli al manifestarsi di una protesta popolare (tipo indignatos) e soprattutto di mettere in luce una sorta di incapacità, perché fuori dal loro orizzonte culturale e ideologico, ad indirizzare la protesta verso obiettivi di trasformazione.  
Ma l’Italia è destinata all’inconsistenza dentro questo processo europeo (il cui sbocco a sinistra, per altro, non è garantito)? È possibile pensare di no?
Si è possibile, fermenti di movimento si colgono a più livelli e in varie occasioni, quanto legittimamente oggi è legato sia alla Lega (meno) che al M5*(molto di più), che nella sinistra del PD e nella frammentazione della sinistra può trovare una diversa opportunità di manifestarsi e finanche di organizzarsi. Si può dire che manca un leader, né un leader è possibile trovarlo nel panorama della sinistra, ma io credo che questo leader forse esiste è individuabile in  Landini. Il mio è uno sproposito azzardato, non so, ma sono convinto che quanti esaltano l’obbligo di Landini di restare dentro il sindacato, non abbiano colto né la gravità della situazione, né il ruolo di un leader necessario per avviare  un vero cambiamento, né abbiano riflettuto a come  il sindacato abbia bisogno di uno fronte politico che ne condivide l’azione.

Landini ha testa, Landini ha carisma, Landini ha seguito. Non ha bisogno di alcuna investitura, non ha bisogno  di garanti,   ha bisogno di prendere le redini di quel poco che c’è e di farlo crescere su un programma di progresso e contro la finanza (almeno): il popolo non ne può più.

venerdì 23 gennaio 2015

Viva Mario Draghi. L’illusione monetaria

Diario n. 277

Viva Mario Draghi. L’illusione monetaria

La “finanza” è materia complessa per effetto dei soggetti che vi operano, per i giochi di potere che la caratterizzano, per la dimensione raggiunta e per gli opaci obiettivi specifici che si pone di volta in volta.
L’economia monetaria è tra le branche dell’economia una delle più controverse, con “leggi” che tramontano e risorgono.
La macroeconomia forse è più semplice.

Da marzo (c’è tempo, ciascuno prenda posizione) il bazooka di  Mario Draghi inizierà a sparare con l’acquisto, nel mercato secondario, di titoli per 60 miliardi di euro al mese, da allocare tra i diversi paesi. Tanta sorpresa, non per la cosa in sé, da molti dichiarata tardiva (ma è sempre colpa della Germania) ma per la dimensione dell’intervento.

È un intervento che avrà effetto sul debito sovrano del nostro paese? No! La BCE non compra infatti “debiti”, ma “crediti”. Il debito resterà intatto così come gli impegni assunti per la sua diminuzione (come e quando non si sa), per il bilancio statale, ecc. Affinché non ci siano dubbi, per l’80% dei crediti acquisiti sarà responsabile la Banca d’Italia. Così dopo il divorzio Banca d’Italia/Tesoro del 1981, voluta dal ministro del Tesoro dell’epoca, Nino Andreatta, si torna ad una nuovo matrimonio (parziale).

È un intervento che avrà effetto sulla riduzione del potere di libertinaggio della finanza internazionale? Scherziamo l’enorme cifra messa a disposizione dalla BCE è pari a circa l’1% dell’insieme della finanza internazionale.

Ma non erano questi gli scopi di Draghi, anche se si tratta di questioni messe sempre in primo piano a proposito della crisi e del disordine internazionale. La missione del bazooka è quella di abbattere da deflazione  e far emergere lo sviluppo.

Da chi acquista i crediti la BCE? Fondamentalmente dalle banche, fatto questo che dovrebbe attivare il circolo virtuoso dello sviluppo. Infatti le banche disponendo di maggior liquidità potranno allargare le maglie del credito. Una domanda sorge spontanea: sono le banche a corto di liquidità? La cosa non sembra, le banche sono molto caute ma non soffrono di assenza di liquidità, ma piuttosto di domanda ritenuta solvibile. Ma anche ammesso una carenza di liquidità, la nuova ignizione potrebbe alimentare l’insorgere di una nuova domanda? Il richiamo inevitabile è ai mutui-edilizi. Ma c’è un cavallo che scalpita per avere biada? Il nostro è il paese nel quale circa 75/80% vive in casa in proprietà, dove le politiche territoriali stanno subendo un nuovo indirizzo antiespansivo, ma certo ci sono le nuove famiglie (spesso di membri senza occupazione e reddito)  e, soprattutto, esiste un grande patrimonio bisognoso di riqualificazione ma spesso in possesso di famiglie con scarse disponibilità. In sostanza qualcosa può venire da questo settore, ma si tratta di quantità misere (non è un caso se tutte le recenti politiche di rilancio del settore sono risultate fallimentari).
È il settore produttivo che dovrebbe entrare in gioco. Sicuramente la svalutazione facilita le esportazioni, le imprese di questa filiera produttiva (poche) sono già sulle barricate. Ma, si sostiene, maggiore liquidità e riforma del mercato del lavoro (con tutto il negativo che si porta appresso) dovrebbero incentivare nuove imprese. Si ci sono le imprese tecnologiche messe insieme da giovani brillanti di cui i giornali parlano, ma è poca cosa. Nuovi prodotti, nuove tecnologie, nuovi mercati hanno bisogno di cultura professionale, hanno bisogno di investimenti in istruzione, hanno bisogno di sostegno (non solo bancario). La  dimensione della disoccupazione e inoccupazione è tale quantitativamente e qualitativamente che cu vuol altro che la benevolenza delle banche. Ma certo qualcosa, non risolutiva potrà venire anche da questo settore.   

Si scrive, e si spera molto, che questa maggiore liquidità immessa in circuito determinerà anche:
-        Un abbassamento dei rendimenti dei titoli;
-        Un aumento dell’inflazione.
Secondo il primo esito i possessori dei titoli di stato (tra il 70 e l’80% sono posseduti da famiglie italiane) riceveranno minori entrate. Mentre le famiglie, quelle a reddito fisso dovranno spendere una cifra maggiore per avere le stesse merci o avranno una quantità inferiore di merci spendendo la stessa cifra.  Data la situazione degli stipendi e delle pensioni, a meno dell’introduzione di una nuova scala mobile, da questo settore non c’è da attendersi un aumento della domanda.

Se volessimo concludere potremmo dire:
a)      Se la finanza non mettesse in atto le sue speculazioni (anche se adesso sembra in sonno, si sveglierà);
b)      Se le banche si comportassero come dice la vulgata e non facessero dei giochetti come al tempo del Tltro, quando prendevano prestiti dalla BCE a bassissimo tasso per impiegarlo in acquisti di titoli di stato;
c)      Se esistessero dei programmi e progetti di investimenti produttivi;
d)      Se esistesse un certo numero di famiglie disposto a contrarre mutui sia per la casa che per l’acquisto di beni durevoli;
e)      Se le nostre imprese fossero in grado di competere sul mercato mondiale;
f)       Se si manifestassero degli investimenti stranieri non di acquisizione di imprese esistenti (lusso), ma per nuove iniziative;
g)      Se una sorta di euforia mal posto determinasse un andamento della domanda interna tutta a debito;
h)      Se ……
Allora il bazzoka di  Draghi qualche effetto potrebbe ottenerlo per alleggerire la situazione ma non per rilanciare lo sviluppo.
Ma soprattutto in assenza di investimenti pubblici e di una adeguata politica industriale, non solo i

 se sembrano troppi, ma è difficile anche ... sperare. 

lunedì 12 gennaio 2015

DIRITTO CERTO E GOVERNANCE OPACA


DIRITTO CERTO E GOVERNANCE OPACA

Guido Rossi

(da Il Sole 24Ore, 11 gennaio 2015)

La portata e il significato dei tragici fatti dì sangue di Parigi, nonostante le divergenti e contraddittorie interpretazioni che provengono da ogni dove, meritano una più meditata riflessione di quanto oggi non sia ancora possibile fare.
Nel cuore dell'Europa pare essere ritornato improvvisamente quello "stato di natura" descritto da Thomas Hobbes, una guerra di tutti contro tutti, e comunque una situazione di insicurezza generale. Considerare questo fenomeno alla stregua di un puro atto terroristico è sicuramente riduttivo.
Il contesto politico nel quale questa sanguinosa battaglia ha avuto luogo suggerisce la strisciante esistenza di un conflitto mondiale, reso ancor più dirompente dalla globalizzazione economica, con le sue profonde disuguaglianze. L'ideologia dominante che si è affacciata al nuovo millennio ha via via ridotto il potere e la sovranità degli Stati, scardinando alcuni principi delle democrazie liberali. Gli Stati stessi, da fonti del diritto sono diventati meri esecutori di una governance tanto generica quanto vaga. Fu già Hegel a rilevare che quando il diritto privato ha il completo sopravvento sul diritto pubblico e lo Stato arretra di fronte agli interessi dei privati, la decadenza dei sistemi politici minaccia le stesse basi della civiltà. La sostituzione della governance alla norma giuridica produce un sistema mondiale privo di ordine e di coerenza. È quel che è avvenuto anche nell'ambito del diritto internazionale. Dove le grandi istituzioni, nate nel secondo dopoguerra, come le Nazioni Unite, atte a garantire un diritto cosmopolitico internazionale di piena effettività diretto ad assicurare la pace nel mondo, sono state sostituite da varie organizzazioni di natura plurilaterale. Tra queste, quella di maggior rilievo, dominata dagli Stati Uniti, è la Nato, che,come ha sostenuto giustamente John Mearsheimer sull'ultimo numero di Foreign Affairs, è certamente, a causa del suo allargamento ai vari Stati confinanti con la Russia, motivo di nuovo conflitto, alla base della reazione in Ucraina e dell'annessione della Crimea da parte di Putin, in preventiva difesa dell'imperialismo russo. Fenomeno di guerra generalizzata che, pur completamente diverso dai fatti di Parigi, si inserisce nella medesima disordinata cornice.
Ma il caso più clamoroso è la subalternità degli Stati, soprattutto in Europa, fortemente indebitati, la cui operatività di politica economica, completamente privatizzata, è costretta ad adottare misure di austerità soggette ai voleri dei creditori e dei loro diritti contrattuali, di cui si fanno interpreti l'opacità dei mercati ed i suoi protagonisti, dagli hedge funds; alle società di rating, ai fondi sovrani, nel marasma dei loro conflitti di interessi.
 Ed è così che alla certezza del diritto si sostituisce l'incertezza della governance, dove i protagonisti del capitalismo finanziario sono molto spesso occulti o privi di qualunque giuridica legittimazione internazionale, come nel caso della c.d. troika, che detta le regole agli Stati o impone norme costituzionali contrarie ai  diritti fondamentali, quale il vincolo al pareggio di bilancio, introdotto nel 2012 nella Costituzione italiana con la sostituzione dell'art. 8I.
Che lo Stato sia pericolosamente diventato il mediatore di interessi privatistici l'aveva già rilevato con straordinaria lucidità Norberto Bobbio. Ma il fenomeno si è via via allargato, tant'è che recentemente, in democrazie avanzate come quella americana, le interpretazioni dei diritti costituzionali sono state manipolate a favore della governance privata del capitalismo finanziario. La sentenza della Corte Suprema del 2010 Citizen United v. FEC, sulla quale mi sono già più volte intrattenuto, ha parificato la sovranità del popolo alle corporations e la libertà di espressione (freedom of speech) al denaro (money), togliendo ogni limite ai finanziamenti alla politica da parte delle grandi società. I più autorevoli commentatori hanno dichiarato che questo è stato un modo per rendere legale la corruzione polìtica.
Non diverso comportamento è stato seguito in molteplici casi dalla Corte di Giustizia europea, nel difficile bilanciamento tra i principi fondamentali dell'Unione e le misure restrittive di natura finanziaria e di risanamento economico, come chiaramente documentato il costituzionalista Gaetano Azzariti. Altre volte abbiamo stigmatizzato la pericolosità delle misure economiche alternative alla sanzione penale. Questa justice by deal, questa sanzione attraverso la contrattazione è un indice che anche il potere giudiziario, come quello politico, può diventare come è stato più volte denunciato dal New York Times, uno strumento dell'ideologia del capitalismo finanziario.
L'arretramento degli Stati e del diritto a favore di interessi particolaristici finisce per conferire una assurda attrattiva ai fatti di Parigi, che si inquadrano invece in una violenta barbarie, alla quale non può riconoscersi alcun valore universale. La brutalità del fanatismo religioso nasconde invece i veri scopi di dominio di territori e di risorse economiche, come si è verificato in Iraq e in Siria. L'attuale erratico andamento del prezzo del petrolio, che sta sconvolgendo tutte le previsioni economiche, riguardanti anche i paesi c.d. emergenti, ne è l'indice più evidente. Attaccare i principi fondamentali della libertà di stampa e di opinione invocando esclusivamente idolatrie religiose con il miraggio di nuovi Stati fondamentalisti cela le finalità di carattere economico che altrimenti non potrebbero certo qualificarsi come valori universali.
Due conclusioni mi paiono a questo punto certe.
La prima è che l'affermazione dei diritti umani -nucleo centrale della civiltà occidentale -deve prevalere sulla governance del capitalismo neoliberista e sul simulato riferimento scorretto al diritto di libertà, con cui è stato giustificato ogni tipo di sopraffazione, e quindi di violazione del diritto alla dignità dell'uomo. Purtroppo l'ideologia di base del neoliberismo ha trascurato un principio fondamentale; già Bentham aveva'affermato che compito del diritto e dello Stato era proprio indicare i limiti all'esercizio delle libertà, discorso poi ripreso fino a Isaiah Berlin col concetto di libertà negative. Alla base di ogni programma politico futuro che si ponga come obiettivo l'uscita dalla crisi, soprattutto in Europa, si deve tener conto che senza uguaglianza non c'è libertà, e quindi se i principi dell'economia portano alla creazione continua di diseguaglianze e di smisurate ricchezze, soprattutto a livello globale, i conflitti non potranno mai esser risolti. E i ritorni allo "stato di natura" previsto da Thomas Hobbes saranno ancora più frequenti. La seconda conclusione che ne deriva è il fallimento delle politiche di "austerità espansiva", che devono porre fine anche all'ideologia del sopravvento della governance economica sul diritto. Il monito a "non sovrastimare l'importanza del problema economico, o sacrificare alle sue presunte necessità altre materie di maggiore o più duraturo significato" era già stato espresso da Keynes nel 1931; ovviamente egli si riferiva ai diritti fondamentali.


venerdì 9 gennaio 2015

Charlie Hebdo, l’estremo sfregio a colpi di retorica




di Marco d'Eramo
Da MicroMega
Non bastava l'esecuzione collettiva, ci voleva anche l'estremo sfregio. Dopo che le loro persone sono state sterminate, ora viene massacrata anche la loro visione del mondo, viene strumentalizzato e manipolato il loro messaggio, viene insultata la loro memoria.

Parlo dei disegnatori e dei giornalisti di Charlie Hebdo, un settimanale che ha forgiato la cultura politica di un'intera generazione, la mia, che è cresciuta a pane e Charlie. Il settimanale aveva molti difetti e ha commesso molti errori, ma di certo un peccato gli è sempre stato estraneo ed è quello della retorica trombonesca. Ed invece ora lo stanno seppellendo sotto una montagna di frasi fatte, di buoni sentimenti e di ipocrisia.

Un giornale che faceva dell'irriverenza, della bestemmia, dell'imprecazione, della provocazione la sua bandiera, un giornale che si piccava di non risparmiare niente e nessuno, ora viene tumulato sotto gli elogi di una chiesa cattolica e di un pontefice che sfotteva (nelle sue pagine sono innumerevoli i più fantasiosi rapporti sessuali tra Gesù e Maddalena, per non parlare delle perversioni che attribuiva alla Madonna e ai vari pontefici). Persino il tirannico Vladimir Putin, elogia come martiri della libertà coloro che lo sbeffeggiavano con violenza inaudita. Per non parlare di quel Barack Obama che non si peritavano di prendere per i fondelli.

Da ieri soggiornare in Francia, come mi capita, è un'esperienza allucinante. I “valori repubblicani” vengono sbandierati, strombazzati e spalmati nei media fino a divenire una gelatina disgustosa se si pensa a tutte le vignette feroci che i Wolinski e i Cabu avevano dedicato a Marianna, il simbolo della repubblica (e del repubblicanismo) francese: quando ancora si chiamava Hara-Kiri, fu chiuso per un titolo “irriverente” sulla morte di De Gaulle: una settimana dopo al suo posto veniva fondato Charlie Hebdo. Oggi questi paladini del ridicolo, questi eroi del salace e del grottesco sono mortificati dai minuti di silenzio, dalle bandiere a mezz'asta, dalle luci della Torre Eiffel spente: viene voglia di chiedere un'aspettativa dal pianeta terra.

Ma il peggio ci giunge dai politicanti di turno, i presidenti di ieri e di oggi, i Nicholas Sarkozy, i François Hollande, uomini senza nerbo, senza ironia, pieni solo di vanità, fustigati senza sosta e senza pietà da Charlie Hebdo, e che ora approfittano di questa strage per portare alla luce del sole un progetto che era nelle cose da anni, e cioè, in nome della lotta al terrorismo, varare apertamente una politica di “unità nazionale”, una gestione “bipartisan”, una Grosse Koalition subalterna alla Germania di Angela Merkel, oltre che naturalmente rendere ancora più poliziesco uno stato che già stava rotolando su quella china.

Fino al ridicolo di Matteo Renzi che proprio nei giorni della “manina” sul disegno di legge al 3%, scimmiotta il John Kennedy di “Ich bin ein Berliner” con un civettuolo “siamo tutti francesi”.
Decisamente non c'era funerale più indegno che una giornata di lutto nazionale per un gruppo che aveva fatto della dissacrazione la sua missione di vita e che per questa missione ha pagato con la vita.

P.S. Sul versante opposto è altrettanto vergognoso il commento apparso a caldo sulFinancial Times, a firma del suo responsabile per l'Europa Tony Barber, e che in sostanza lasciava intendere che Charlie Hebdo “se l'era cercata” (in una versione successiva, rivista e corretta, il giudizio diventa: “... Questo non è affatto per scusare gli assassini, che vanno presi e puniti, o per suggerire che la libertà di espressione dovrebbe non estendersi a ritratti satirici della religione. E' solo per dire che un po' di buon senso sarebbe utile a pubblicazioni come Charlie Hebdo e il danese Jyllands-Posten che pretendono di segnare un punto per la libertà quando provocano i musulmani”. Peccato che il Financial Times non abbia esortato anche gli Stati uniti a un po' più di buon senso in politica internazionale commentando a caldo l'’11 settembre 2001

venerdì 2 gennaio 2015

L’età dell’oro ci è davanti

L’età dell’oro ci è davanti
Diario n. 276

In questa fase di crisi si può essere disorientati fino a pensare che l’età dell’ora è passata, è quella che ci sta dietro le spalle. Ma mai come oggi è possibile un futuro migliore e mai come oggi non riusciamo a cogliere questo frutto (la mitica e simbolica  mela).
Mai come oggi lo sviluppo scientifico e tecnologico  è stato così potente e mai come oggi questo viene utilizzato contro di noi; mai come oggi il sistema di produzione capitalistico mostra non solo i propri limiti ma anche la sua natura oppressiva e mai come oggi esso si celebra e si “adora”; mai come oggi il “mercato” mostra in se stesso la sua incapacità di regolare l’economia verso il progresso collettivo e mai come oggi ogni controllo sul suo funzionamento è visto come un attentato alle generazioni future; mai come oggi l’ansia di libertà incarna aspirazioni di donne e uomini e mai come oggi siamo tutti vittime di un conformismo oppressivo; mai come oggi vediamo nella laicità la vera dimensione umana e mai come oggi si espandono credenze e fedi oppressive e di controllo delle nostre vite, fino a stupide credenze; mai come oggi esaltiamo la giovinezza come fondamentale per un migliore futuro e mai come oggi i giovano sono emarginati; mai come oggi viene esaltata la sapienza dei vecchi, il loro sapere, la loro esperienza e mai come oggi i vecchi costituiscono un peso; mai come oggi si aspira a relazioni libere ed emancipate e mai come oggi ci si chiude dentro recinti; mai come oggi abbiamo scoperto la possibilità della comunicazione infinita tra di noi e mai come oggi questa comunicazione è ridotta al xme, 6fantastica, condivido, ecc.; mai come oggi avanza il disgusto verso la corruzione e mai come oggi essa è invadente; mai come oggi la violenza ci pare vigliaccheria e mai come oggi si usa violenza sulle donne, sui diversi e sui bambini.
I mai come oggi potrebbero riempire pagine e pagine, la sua natura retorica è evidente, ma il problema è perché non si riesce a realizzare le opportunità offerte?

Credo che ogni atteggiamento nostalgico,  per i buoni partiti, la buona terra, i vecchi sapori, la seria scuola, i bravi dottori, ecc. costituisce un sentimento che non permette di raccogliere la mela.  Il passato non deve riempire i nostri occhi, ma le nostre coscienze e consapevolezze mentre gli occhi devono guardare avanti. Niente di tutto il passato che ci sembra bello e buono è stato di fatto bello e buono. Esso rappresenta un’esperienza da non rinnegare, che ha reso la specie umana per quello che è, nel bene e nel male,  ma da trasformare, da rivoluzionare.

Si è pensato che la trasformazione della società (la sua rivoluzione) avesse bisogno di un reagente nella società, di una rivoluzione culturale. Non poteva essere solo politica, in senso tradizionale. Si è anche detto che oggi non c’è un “palazzo d’inverno” da conquistare, la microfisica del potere intreccia i suoi fili con la nostra vita quotidiana, si insinua nei nostri rapporti familiari, nelle nostre relazioni più intime. Non si tratta di rinnegare niente di queste osservazioni e riflessioni (che costituiscono, comunque, patrimonio di élite) ma cercare di capire cosa e come sia possibile fare.
Personalmente non credo che questa rivoluzione culturale passi per le micro-esperienze. Si lo so, così dicendo rischio molto politicamente e teoricamente. Le micro-esperienze, ciascuno le faccia, a me sembrano una nascosta esaltazione di individualismo. Così come tutte le lotte, e parlo di una cosa seria, su singole questioni che non mettano in discussione la formazione sociale capitalistica (decrepita) sono destinate a non incidere realmente. In alcuni discorsi, ma forse le mie orecchie sono faziose, sembra che con un po’ di buona volontà individuale e politica, senza toccare niente di sostanziale dei rapporti sociali di produzione, sia possibile costruire una migliore e giusta società.

Una rivoluzione culturale ha bisogno di fascinazione, non di fanatismo; ha bisogno di leader, a tutti i livelli, in grado di parlare la stessa lingua e segnare lo stesso cammino, non di un capo; ha bisogno di svelare che il viaggio è più importante della meta, che non si sa come sarà la meta ma che invece è chiaro i passi che bisogna compiere, ha bisogno di sapere che niente ci è donato e che tutto dobbiamo conquistare.     
Dire che si tratta di un impresa ardua e improba è poco; dire che è necessario conoscere la realtà, capire il perché delle cose è il minimo, solo così si sa dove “intervenire”; dire che se si osserva con attenzione si vedono brandelli di futuro, alimenta la speranza. È  chiaro che solo i giovani (di età, di vigore, di determinazione, di sapere) possono guidare questo viaggio.

Voglio avanzare un’affermazione azzardata, in contrasto con quello che ho sempre pensato: oggi più di ieri la presa del palazzo d’inverno sembra essenziale. Mi sembra di capire che solo la relazione tra la rivoluzione culturale dentro la società e una trasformazione delle stanze di quel palazzo permette di avanzare. Certo c’è sempre il pericolo che chi entra in quelle stanze si sieda sui divani e si addormenta, ma forse se e contemporaneamente avanza la rivoluzione culturale il sonno sarà di breve durata.
Si possono avere giuste e importanti idee, sul denaro, sulle modalità di organizzare la vita lavorativa di ciascuno, sull’equità, sui diritti, sulla libertà, ecc., ma se non si possiedono le leve, o alcune leve, per trasformare lo stato di fatto le richieste che vengono dalla società rischiano di essere senza risposta. È la relazione funzionale e vitale che bisogna costruire tra rivoluzione culturale e leve del potere che può garantire che la strada sia quella giusta, che il viaggio è incamminato sui giusti binari.

È possibile, a condizione che si sconfigga, anche in noi stessi, l’idea che l’età dell’oro sia un ritorno al passato, ma piuttosto un cammino.