martedì 25 marzo 2014

Lista per Tsipras



Lista per Tsipras

Diario 253

L’idea di una lista per Tsipras è sembrata una buona idea, non c’era da sperare un grande successo, ma sarebbe stata un’occasione intelligente e politicamente fondata perché la sinistra potesse presentarsi unitariamente, con un obiettivo che molti poteva condividere, e per questa strada cogliere un discreto successo.

Non si poteva sperare in una grande vittoria ma in una significativa affermazione. Molto importante per dare corpo ad una fondata richiesta di cambiamento politico della UE, una sua democratizzazione, una sua attenzione, finalmente, ai popoli. Per quanto non trasbordante una presenza significativa della sinistra nel Parlamento europeo avrebbe potuto porre all’ordine del giorno una politica di contrasto contro la finanza internazionale, senza la quale parlare di crisi e di fuoriuscita dalla stessa non è che una favola.

Una consistente affermazione della lista avrebbe potuto, inoltre, costituire un viatico rilevante per le prossime elezioni italiane (prima o dopo ci saranno). La nuova legge elettorale, se rimanesse come licenziata dalla Camera dei deputati, falcidierebbe la rappresentanza, lasciando privi di rappresentanti un popolo di sinistra frammentato e non in grado di superare lo sbarramento, mentre una lista unitaria, nuova, potrebbe sperare di superarlo.

Insomma c’erano tante buone ragioni per un impegno nuovo e rinnovato, proprio in presenza di un sentimento antieuropeo di destra, la nuova lista avrebbe potuto attrarre i critici consapevoli di sinistra. Le modalità di lancio e formazione di questa nuova esperienza, per altro, evitava gli errori di esperienze similari del passato. Una identità riconoscibile, un progetto di sinistra, degli obiettivi condovisibili.

Il condizionale speranzoso si è dimostrato costruito sulle sabbie mobili. La sinistra è incapace di dismettere il proprio individualismo per abbracciare una individualità, certo non omogenea, ma in grado di cogliere la drammaticità della situazione e che mostrasse la volontà di un lavoro comune in grado di promuovere una mobilizzazione di popolo su obiettivi condivisi.

Nonostante l’impegno di alcuni dei promotori della lista, pare che tutto stia naufragando nel Mare della divisione e nel Mare delle contrapposizioni. L’articolazione di queste contrapposizioni non ha difficoltà a trovare le sue motivazioni (in questo la sinistra è maestra). I comitati locali, segnalo il plurale, che avrebbero dovuto essere la base della mobilizzazione, si stanno dimostrando un pasticcio che tutto mette in discussione. Non lo strumento di mobilizzazione (poi perché più comitati localmente?), né tanto meno strumento di democrazia dal basso, ma gruppi contrapposti di sostegno a quel o quell’altro “candidato” (l’uno contrapposto all’altro perché “migliore”, più di “sinistra”, ecc.).

Tutto questo avviene mentre la destra, nelle sue varie coloriture, avanza in tutta Europa.

Si può sperare, ancora l’ottimismo, che si riesca a correggere il presente andazzo, altrimenti si resterà fuori dal Parlamento europeo e soprattutto si sarà persa una nuova occasione di ripensare la sinistra. Nonostante l’ottimismo, va detto che l’esito che si sta scrivendo è quello del fallimento, nessuno capisce più chi è la lista per Tsipras, e nella confusione anche i più disponibili arretreranno. Cattivo lavoro non può dare buon esito.



domenica 16 marzo 2014

Renzi, quale civiltà del lavoro?

Diario 252

Renzi, quale civiltà del lavoro?

Il governo Renzi, viene rappresentato come l’ultima spiaggia, lui stesso ne è convinto. Si tratta di un punto di vista che lo rafforza, non crede di potere trovare ostacoli e quindi osa.

Ha un’opinione pubblica favorevole, i critici di Renzi, non molti per la verità, si attaccano al suo stile, alle modalità comunicative, all’arroganza, perché non pare concreto (dove troverà le risorse?). Ma sono battuti dalla capacità di trovare slogan accattivanti, quello dei “dieci miliardi in tasca a dieci milioni di italiani” è un capolavoro comunicativo.

Ma se tralasciassimo quello che è un annunzio e ci si soffermasse su gli atti concreti mi sembra che sul quel poco ci sia tanto da dire. L‘unico atto concreto è quello sul lavoro, che mi pare non solo sbagliato in se stesso ma che disegni una società da rigettare. Dopo la riforma Fornero/Monti, non si pensava si potesse andare oltre, ma quella proposta da Renzi/Poletti ha fatto il miracolo.

Vediamo: i contratti a tempo determinato passano dalla durata di un anno a quella di tre anni; prima era possibile solo una proroga con dichiarazione della causale, ora si passa ad otto proroghe senza bisogna di dare spiegazioni sulle cause; prima tra un contratto e un altro dovevano passare 10-20 giorni, ora possono essere continuativi; in precedenza il numero dei contratti a tempo determinato doveva essere stabilito dai contratti collettivi, ora se il contratto collettivo non prevede il limite ci si assesta al 20% dell’organico.

Mi pare di poter dire che il mercato del lavoro viene disegnato sulle spalle dei contratti a termine, il contratto a tempo indeterminato riguarderà solamente l’organico di cui l’azienda non potrà fare a meno sul piano organizzativo e qualitativo, mentre il lavoro di routine, quello pesante, a bassa professionalità verrà assegnata a contratti a tempo determinato, lunghi tre anni nella migliore delle ipotesi, ma sempre insicuri, infatti possono essere interrotti a discrezione dell’azienda. Si può sottolineare che con questi contratti non è possibile che il lavoratore riesca a contrarre un mutuo per la casa, grave ma c’è di peggio. Sembra più grave la civiltà del lavoro che questi contratti delineano: precaria, marginale, sottomesso, ricattato. Non è questa la civiltà del lavoro che la sinistra, per quanto moderna, può accettare.

Se poi a questo capolavoro si aggiunge la parte dell’apprendistato siamo all'improntitudine: non c’è nessun impegno di assumere gli apprendisti, non è previsto un contratto (impegno) scritto, non c’è obbligo di una formazione teorica. L’apprendista è solamente carne da lavoro.

Insomma, non eravamo mai arrivati a fissare le regole secondo le quali l’impiego del lavoratore ricade sotto l’arbitrio del datore di lavoro.

Su questa strada si può arrivare al contratto giornaliero, come quello dei braccianti meridionali sotto il caporalato.


venerdì 7 marzo 2014

Renzi, l’angoscia (sic!) per il futuro

Diario 251 

Renzi, l’angoscia (sic!) per il futuro



Preoccupa molto due cognizioni che accompagnano l’ascesa di Renzi al governo del paese.

Da una parte si ripete, da molti osservatori, non necessariamente compiutamente renziani, che il più giovane presidente del consiglio della storia della Repubblica Italiana rappresenta l’ultima spiaggia
Dopo di lui non ci si può aspettare che il diluvio, questo è il significato dell’affermazione. 

Certo tre presidenti del consiglio che, per ragioni, motivazioni e metodi diversi, falliscono nell’arco di due anni sono troppi anche per il nostro paese. Ma appellarsi all’ultima spiaggia ha due significati diversi. È un “avviso ai naviganti”: non ostacolare il governo, bisogna appoggiare il governo, non illudersi che qualcosa di meglio sia possibile. Se Renzi fallisse ci toccherebbe in sorte una tempesta (economica-sociale) di proporzioni mai vista. Ma se questa tempesta scoppiasse, si dice, si sotto intende, o si fa capire, non resterebbe che l’attesa di un uomo forte al timone in grado di far navigare il paese nella tempesta e dalla tempesta portarla fuori. Un uomo solo al comando come indicatore di sicurezza, ma per questo bisognerà pagare pegno. 

Dall’altra parte, una differente cognizione accompagna Renzi nel suo cammino, quella che possiamo definire come la fede nella sua riuscita. Il suo vitalismo, la sua giovinezza, la sua ambizione, la sua forza di volontà, la sua capacità di manovra, la sua autostima, la sua capacità di lavoro, l’assunzione della sua centralità, ecc. (mischiando quelli che in un linguaggio vecchio si potrebbero dire vizi e virtù) paiono e vengono interpretati come una garanzia di successo. 

La sua dichiarazione dell’assunzione piena, in prima persona, della responsabilità di governo (ci metto la faccia, ripete, ed ancora se il governo fallisse sarebbe mio il fallimento, ecc. farsi ad effetto di cui è estremamente capace). Il disegno di un ruolo centrale che l’uomo giovane e volitivo vuole assumere; non si tratta, come potrebbe sembrare, una sorta di salvaguardia per i suoi collaboratori, ma l’assoluto disprezzo per loro. Nella scelta dei ministri e soprattutto dei sottosegretari, non ha avuto difficoltà a piegarsi al manuale cencelli, mostrando un opportunismo impensabile e una piena accettazione della “melma” di Roma, perché questa facile conversione? Non credo che ci sia opportunismo né accettazione della romanità della politica, ma, piuttosto, pare che questi fatti possono essere ascritti al fatto che non gli importa nulla, disprezza ministri e sottosegretari, perché è la sua centralità, autonomia e autorità (alias autoritarismo) che determinerà la marcia del governo (i ministri e i sottosegretari sono sotto tutela della presidenza del consiglio e del presidente in prima persona. In sostanza re Renzi si muove su una scacchiera dove sono state eliminati alfieri, cavalli, torri e regina, sono rimasti solo pedoni, che insieme agli altri pezzi sono importanti ma da sole valgono un soldo bucato, niente. I ministri e i sottosegretari, scelti con il manuale cencelli hanno solo uno scopo quello di garantire i voti in parlamento (di questi non può fare a meno).

In sostanza le due cognizione non solo influenzano l’idea che Renzi ha di se stesso, ma sono interne alla sua stessa costruzione psicologica della sua avventura governativa. Renzi è angosciato di non riuscire (i continui appelli alla sua faccia, a se stesso come motore, ecc. ne sono l’espletazione di questa angoscia), ma, ovviamente, non crede a questa possibilità ed è convinto che per scongiurare la catastrofe bisogna che punti su se stesso. La necessità di riuscire e la paura di fallire alimentano la sua angoscia che costituisce anche la sua molla.

Con un forte semplificazione, di cui mi scuso, si potrebbe dire che e lui l’uomo forte al timone, e di questo forse è convinto (non sto dicendo che è un fascista). Ma se così fosse, allora, l’angoscia diventa la nostra.


I rimproveri di Bruxelles. In che cosa consiste la competitività? 

Il Commissario europeo Olli Rehn ci rimprovera e ci mette sotto osservazione. Gli indicatori che preoccupano la Commissione europea sono sostanzialmente due: il debito troppo alto, la competitività troppo bassa, che insieme determinano una bassa crescita economica. Si può capire l’apprensione della Commissione per l’alto debito: la preoccupazione è quella che non riusciremo a pagare il debito (la catena di Santo Antonia, pagare il debito con nuovo debito, potrebbe saltare) con gravissime perdite per la finanza internazionale (quella che sta veramente a cuore di Bruxelles). Non c’è dubbio che il debito non riusciremo a saldarlo, nonostante le affermazioni dei diversi ministri del tesoro. La Commissione chiede che sia innalzato il “saldo primario” del bilancio pubblico (= introiti meno spese) da qui il suggerimento delle riforme da fare sempre le stesse che hanno il segno di tosare la popolazione. 

Quello che appare evidente è che la Commissione non si occupa dell’Europa, ma ha assunto il ruolo di custode delle virtù dei singoli paesi. È questa l’impressione che si ricava dalla continua sottolineatura della bassa competitività del nostro paese. Ne discutevo con il mio amico Angelo al telefono: il commissario non dovrebbe essere felice della delocalizzazione delle imprese italiane in altri paesi della comunità a più basso sviluppo? Questo spostamento di impresa non ha come risultato l’aumento della competitività di questi paesi e, quindi, della zona europea. 

Ma se non soddisfatta di tale incremento totale della competitività e la vorrebbe in crescita nel nostro paese per aumentare la possibilità di pagare almeno una parte dei debiti, competitività dove? Il come ce lo ripetono: le riforme, il mercato del lavoro sempre più flessibile, una riduzione del nostro welfare, ecc. Ma dove aumentare la nostra competitività? Nella moda? Ma non è più nazionale. Forse nel vino? Ma ci sono vincoli di fertilità. Non restano che i settori tradizionali. Possiamo essere sicuri che i paesi “forti” della comunità soffrono molto per il sostanziale abbassamento della competitività Fiat? Se la Fiat fosse talmente competitiva da mettere in discussione il potere di mercato che so della Renault, o della Volkswagen, o della Audi, ecc. o di tutti insieme (come sarebbe stato possibile con una direzione intelligente e creativa) allora sarebbero contenti a Bruxelles dell’innalzamento della nostra competitività? Possono sorridere, lo so, non corrono nessun pericolo.

Nuovo ministro ma vecchia politica 

Il neo ministro Maria Elena Boschi, una delle poche persone apparentemente competenti e anche capaci, è stata costretta dal suo “capo” a fare la sua prima magra figura alla Camera, quando ha dichiarato, di fatto, che quello che valeva per il sottosegretario del NCD non valeva per i quattro sottosegretari del PD. 

Non è bello, né intelligente, né politicamente pagante, né equilibrato, né trasparente, né la “rottamazione” ci fa una bella figura. Va bene che Renzi disprezzi tutti i suoi ministri e, soprattutto, sottosegretari, ma alla Boschi sembrava tenerci, ma allora perché sottoporla a quella figura che ne ha fortemente diminuita l’autorevolezza? Non gli importa neanche di lei? 



giovedì 6 marzo 2014

Perché la lotta di classe è viva


da sinistrainrete

Stefano Laffi intervista Carlo Formenti


Utopie letali. Capitalismo senza democrazia(Jaca book 2013) è l’ultimo libro pubblicato da Carlo Formenti, fra i più seri studiosi e da lungo tempo della mutazione economica e sociale che stiamo vivendo. È un libro scritto sotto un’urgenza particolare, che traspare già dal titolo, ovvero quella di non cadere nella fascinazione di categorie e letture che lanciano la palla oltre l’ostacolo, senza averlo mai davvero superato, bensì di guardare in faccia lo sfruttamento e l’impoverimento che viviamo ogni giorno, chiamandolo col suo nome. Per Formenti non sono i “lavoratori cognitivi” che lanceranno la rivoluzione, non sono i “beni comuni” a cambiare la perdita dei diritti che avanza, non è Internet un contropotere ma uno strumento di controllo in mano al capitale. 


Mi pare che il libro voglia rimettere al centro dell’analisi della contemporaneità, e in particolare della profonda ingiustizia sociale che patiamo ogni giorno, la mutazione economica e politica di questi anni. I primi capitoli sono infatti dedicati alla finanziarizzazione e a quella che chiami postdemocrazia. Ci aiuti a capire bene cosa intendi e perché ritieni che da lì si debba partire?
 

Finanziarizzazione dell’economia e postdemocrazia sono fenomeni strettamente intrecciati: senza l’intervento del potere politico non sarebbe stato possibile attuare la finanziarizzazione, basti pensare al sistematico lavoro di demolizione delle regole che disciplinavano/limitavano le transazioni finanziarie e più in generale le modalità di funzionamento di banche, società di investimento e fondi di pensione – impresa cui hanno equamente contribuito i partiti e i governi di destra come quelli di sinistra (quando si parla di deregulation si citano sempre Reagan e la Thatcher, dimenticando che Clinton e Blair hanno fatto di peggio); inversamente, il peso crescente delle lobby finanziarie ha fatto sì che il sistema politico divenisse sempre più acquiescente ai loro interessi. Se a ciò aggiungiamo gli effetti del processo di spettacolarizzazione/personalizzazione della politica, in atto dagli anni sessanta del secolo scorso, e della conseguente, enorme crescita dei costi delle campagne elettorali, non è difficile capire le ragioni di un’integrazione fra élite finanziarie e caste politiche simboleggiata dall’attuale composizione del Senato e della Camera dei rappresentanti Usa, dove più della metà degli eletti appartengono all’1% dei super ricchi. A favorire l’ascesa di regimi oligarchici privi di legittimazione democratica hanno infine contribuito la rivoluzione digitale – che ha permesso, al tempo stesso, di rendere capillare il controllo e di centralizzare il comando – e l’omologazione di un sistema mediatico unanimemente impegnato a diffondere il linguaggio e i valori del pensiero unico liberal liberista. Solo partendo da qui è possibile cogliere due dei nodi di fondo affrontati dal libro: la natura eminentemente politica della crisi, il che vieta di sperare in una “ripresa” che restituisca opportunità di lavoro, livelli di reddito e servizi sociali dignitosi alle classi subalterne, e la irriformabilità del regime politico/finanziario che è venuto consolidandosi negli ultimi decenni, il che vieta di nutrire illusione in merito a un possibile ritorno alla democrazia “normale” e al compromesso storico fra capitale e lavoro.


Rispetto ad altre letture socio-economiche, anche fra quelle accreditate nella sinistra e nell’area critica verso l’attuale modello capitalistico – più volte fai riferimento al pensiero di Antonio Negri – mi pare evidente che tu voglia recuperare categorie di analisi che ritieni a torto dismesse, come quella di classe sociale. Che cosa ritieni che aiutino a spiegare e capire?


Difficile rispondere a questa domanda. Non basterebbe recitare tutto il libro e molti dei libri che vi sono citati. Questo perché, dal mio punto di vista, la categoria della lotta di classe, adeguatamente interpretata e applicata, spiega quasi tutti i fenomeni sociali. Provo a chiarire meglio: il concetto di lotta di classe, per dirla con Lukacs, è fondativo di una vera e propria ontologia dell’essere sociale, per cui non c’è alternativa: o sei dentro il paradigma o ne sei fuori. Negri ha creduto di poterlo “arricchire” ibridandolo con altri approcci teorici, in particolare con il pensiero post-strutturalista di Deleuze e Foucault, ma il sincretismo gioca brutti scherzi, per cui il risultato dell’operazione è stato la fuoruscita dal paradigma piuttosto che il suo arricchimento: concetti come moltitudine e biopotere non hanno nulla da spartire con il pensiero marxiano e infatti non riescono più a leggere la contemporaneità in termini di lotta di classe, mentre slittano verso concezioni idealiste e individualiste della soggettività.


Ecco, tu vuoi proprio allertare rispetto a
 una fascinazione collettiva che non condividi, anzi che vedi pericolosa, nel migliori dei casi illusoria, nel peggiore manipolatoria verso altre chiavi di lettura. In questa fascinazione ci sono parole magiche di questi anni, come “lavoratori della conoscenza”, “democrazia della rete”, “forza dei movimenti”. Qual è l’elemento mistificatorio che vedi?


Fascinazione collettiva è un termine adeguato per descrivere il mood che accomuna i discorsi sul lavoro autonomo di seconda generazione e sull’autoimprenditorialità (penso a Sergio Bologna e Aldo Bonomi, per citare i due autori che più si sono occupati dell’argomento), le tesi sul presunto ruolo rivoluzionario del “cognitariato” (termine caro a Bifo) e quelle sulla rete come strumento di autorganizzazione democratica dei movimenti. In un articolo apparso sul numero di gennaio/febbraio 2014 di “Alfabeta2”, Bifo scrive che il merito di Negri consiste nell’avere capito la necessità di dare battaglia al neocapitalismo digitalizzato e finanziarizzato sul suo stesso terreno, che è appunto quello dell’uso delle tecnologie di rete per organizzare la cooperazione sociale. Io penso, al contrario, che su questo terreno il capitalismo sia destinato a trionfare. Il discorso post-operaista ignora il fatto che nell’architettura di queste tecnologie – hardware e software – sono incorporati modelli comportamentali, linguaggi e valori che rendono assai difficile “rovesciarne” l’uso e il senso, adattandoli alle esigenze dei movimenti. Prendendo per buone le utopie di ascesa al potere dei creativi, elaborate dai guru della rivoluzione digitale, i post-operaisti contribuiscono attivamente, anche se involontariamente, alla “cattura cognitiva” del capitalismo digitale nei confronti di questi lavoratori. Così il lavoro autonomo viene spacciato per rifiuto consapevole del lavoro dipendente, le reti di cooperazione sociale che regalano lavoro gratuito e conoscenza collettiva alle corporation hi tech vengono scambiate per un’economia del dono liberata dal comando capitalistico, mentre alla cultura anarcocapitalista dei knowledge workers si attribuisce il merito di avere tracciato una “terza via” fra capitalismo e socialismo, in grado di superare l’opposizione fra pubblico e privato e uscire dal capitalismo evitando di cadere nel totalitarismo statalista. Ecco perché parlo di “tentazione liberale” del post-operaismo.


Nella tua analisi è evidente e molto documentato il livello di ingiustizia sociale cui siamo arrivati, perché l’economia ha strumenti molto precisi per misurare la disuguaglianza, e tutti ormai ci siamo accorti che abbiamo meno soldi e meno diritti. Meno evidente è però la ragione per cui tutto questo si accetta, non scateni reazioni uguali e contrarie. E qui forse potrebbero venire in soccorso un’analisi socioculturale sulla reazione mancata: non trovi per esempio che la cultura – intesa come informazione manipolata, società dello spettacolo, intrattenimento perenne, ma anche illusione di riflessività per chi si crede più colto… – insieme alla spinta consumista come miraggio gratificatorio siano all’origine di tanta remissività e accettazione, e siano state quindi le polpette avvelenate del capitalismo?


Penso che le ragioni della mancata reazione siano molte e diverse. A deprimere la capacità di reagire delle masse che patiscono ingiustizia e diseguaglianza è, in primo luogo, la crisi stessa. Rivoluzioni e riforme radicali avvengono quando le crisi assumono proporzioni catastrofiche e toccano i rapporti di forza fra le classi, oppure, al contrario, quando periodi di espansione economica permettono una ridistribuzione dei redditi e una maggiore partecipazione popolare alla gestione del potere: così la Rivoluzione d’ottobre, è nata dalla guerra e dall’indebolimento dello Stato russo, mentre lo stato del benessere seguito alla Seconda guerra mondiale è figlio della prosperità generata dalla ricostruzione postbellica. La crisi del 1929, viceversa, determinò un forte indebolimento del proletariato e delle sue organizzazioni politiche e sindacali, sottoposti al ricatto della disoccupazione, mentre l’onda lunga del risentimento popolare finì per favorire i movimenti di estrema destra. Ciò detto, è indubbio che quella che chiami società dello spettacolo – termine più consono all’era televisiva che a quella di Internet, che io definirei piuttosto società dell’esibizionismo e della “autocomunicazione” di massa (per citare Manuel Castells) – sia stata decisiva nel garantire l’egemonia culturale del capitalismo. Ciò vale soprattutto per i paesi occidentali (in Asia, America Latina e Africa i conflitti sono meno condizionati dalla manipolazione mediatica), nei quali si è riusciti, con la complicità delle socialdemocrazie, a presentare la crisi come una sorta di catastrofe “naturale” e, nel contempo, a offrire innumerevoli vie di distrazione nei confronti del peggioramento delle condizioni di vita. E per inciso, tornando al tema della domanda precedente, a gestire e amministrare queste pratiche autoillusorie sono proprio quei lavoratori della conoscenza che alcuni esaltano come protagonisti della lotta anticapitalista. 


Fra le categorie più osées che suggerisci di recuperare per organizzare una risposta a quell’ingiustizia c’è quella di partito, che molti danno in via di estinzione. Ma suggerisci di riabilitarla in una chiave nuova, anche sull’esempio di quello che si vede altrove…


Il concetto di partito è oggi il primo bersaglio critico di un ampio ventaglio di movimenti: dai seguaci di Grillo agli “oltrenovecentisti” alla Revelli; dai neoanarchici alla Graeber ai neoautonomi alla Negri, e l’elenco potrebbe proseguire all’infinito. È un’area ampia e variegata, dove non mancano le voci populiste o esplicitamente reazionarie. Restando a sinistra, i motivi di questa idiosincrasia sono diversi: gli anarchici rivendicano una secolare tradizione di rifiuto di ogni forma di organizzazione centralizzata e gerarchica; i nuovi movimenti esprimono la loro diffidenza nei confronti di partiti ridotti ad apparati di potere e macchine elettorali; i neo autonomi proiettano il loro vecchio odio nei confronti del Pci – nemico storico degli anni sessanta e settanta – sulle formazioni neo e postcomuniste, anche se queste rappresentano ormai realtà diverse da quella originaria. Dietro questa unanimità vedo due pericoli: da un lato, quello di far convergere tutte le critiche alla forma partito nel calderone postmoderno egemonizzato, in ultima istanza, dalla cultura liberale, dall’altro lato, quello di trasformare la critica ai “partiti reali” in ripudio della categoria partito in quanto tale. Ma per chi resta ancorato alla concezione marxiana del conflitto sociale come conflitto di classe, il partito inteso come organizzazione degli interessi di una parte sociale resta una categoria imprescindibile. Il che non implica che tale categoria debba incarnarsi nella forma “classica” del partito leninista: la storia del movimento operaio è punteggiata di “eresie” democratico-consigliari che hanno concepito la forma partito in modo assai diverso (basti citare Rosa Luxemburg). Nel libro cito vari esempi, fra cui i processi di aggregazione delle sinistre radicali latinoamericane (Bolivia, Ecuador, Venezuela, eccetera), che hanno assunto forme federative e adottato i principi della democrazia partecipativa. Non credo vadano considerati come “modelli”, ma come esempi concreti di possibilità alternative. Per quanto riguarda l’Occidente e l’Europa in particolare, ritengo che il processo di frantumazione e individualizzazione che ha colpito le nostre classi subalterne ci abbia riportato a condizioni più simili a quelle di fine Ottocento che a quelle di fine Novecento. Il problema quindi, non è più quello di “rappresentare” bensì quello di “ri-costruire” un soggetto di classe; ecco perché penso a forme organizzative che superino la distinzione fra partito, sindacato e movimenti e partano da quei territori che, sparite le grandi fabbriche, sono ormai l’unica sede dove si può tentare di restituire identità e coscienza politica al proletariato.


La tua analisi è molto ricca di riferimenti a fenomeni e reazioni che hai osservato in altri paesi, e che in effetti offrono una luce diversa, per esempio al conflitto di classe. Quali sono le esperienze che ritieni più interessanti e che ci suggerisci di osservare per imparare forme di resistenza e risposta a quell’ingiustizia?


Come dicevo poco fa, non credo nella possibilità di assumere come modello esperienze di lotta e forme organizzative di altri paesi: in ogni situazione occorre tenere conto sia del contesto economico e sociale in cui tali esperienze nascono e si sviluppano, sia delle tradizioni storiche alle quali si ispirano. Il motivo per cui ho dedicato molta attenzione ai conflitti di classe delle nazioni in via di sviluppo, con particolare attenzione a Cina, Sud Africa e America Latina, è il fatto che aiutano ad abbozzare un’analisi della nuova composizione di classe a livello planetario. In particolare, mi proponevo di criticare le tesi “eurocentriche” che attribuiscono alla classe creativa occidentale il ruolo di avanguardia, di sbarazzare il campo dalle idiozie sulla “fine della classe operaia” e infine di mettere in luce come sia prioritario ragionare sulla composizione politica piuttosto che sulla composizione tecnica del proletariato mondiale: le avanguardie sono sempre e solo avanguardie di lotta, si tratti di operai, contadini, studenti o comunità locali che difendono i loro territori dalla colonizzazione dei mercati. Per concludere, penso che le esperienze più interessanti siano quelle che nascono dalla ricomposizione di una massa critica di corpi sottoposti a oppressione e sfruttamento, oppure, nelle situazioni in cui l’organizzazione del lavoro non favorisce tale ricomposizione, quelle che tentano di forzare questo limite inventando nuove forme organizzative (penso alle lotte dei lavoratori delle catene commerciali negli Stati Uniti).


Senti, un’ultima domanda, forse ancora più radicale. A me sembra che lo scandalo della verità sortisca sempre meno effetto, che l’affermazione di cose gravi e urgenti come quelle di cui dai conto raccolga sempre l’applauso, il sorriso, anche il ringraziamento di una platea, ma non sia l’incipit del cambiamento, perché tutto viene digerito e metabolizzato. Nella tua esperienza di professore universitario, relatore, animatore anche di dibattito culturale che senso ha ancora “parlare” di queste cose, e scriverne, anziché ad esempio, provare invece a convogliare energie in singole esperienze di resistenza, contestazione, eccetera?


Hai ragione: la verità non gode di eccessiva popolarità presso i postmoderni, che considerano la parola stessa una bestemmia (non esistono fatti ma solo interpretazioni, l’egemonia si costruisce sui “discorsi”, a prescindere dai rapporti di forza fra le classi, le pretese di verità sono l’anticamera del totalitarismo, eccetera); mentre anche le analisi più “oggettive” – cioè più ancorate nella realtà empirica – vengono derubricate a “opinioni”, per cui le decisioni politiche spettano a chi prevale nell’agone modaiolo della “innovazione” linguistica. Tuttavia il fatto che tutto venga digerito e metabolizzato non ci esime dal testimoniare la verità: continuare a chiamare le cose con il loro nome (lotta di classe, sfruttamento, comunismo, eccetera) è fondamentale per combattere la “spirale del silenzio” con cui il gergo di politici e media tenta di annegare le categorie “politicamente scorrette”. Convogliare le energie in singole esperienze di resistenza e contestazione è importante, ma non deve essere considerato un’alternativa al parlare e allo scrivere: se alle pratiche di lotta non si affianca la ri-costruzione di un progetto culturale anticapitalista, non andremo lontano.