lunedì 28 ottobre 2013

Consumo di suolo e riconversione ecologica delle città, Luisa Calimani







Contributo ad una proposta di Legge su “Consumo di suolo e riconversione ecologica delle città”

(Luisa Calimani)



Premesso che le questioni trattate dovrebbero far parte di un organico disegno di Legge sul Governo del Territorio, consapevoli della difficoltà di raggiungere in questa legislatura un accordo onorevole sulla legge che rappresenta la carta costituzionale della pianificazione urbanistica, dalla quale far discendere comportamenti virtuosi per Regioni, Comuni e Aree Metropolitane in rapporto alle competenze ad essi attribuite dal titolo V della Costituzione, è opportuno e necessario affrontare con tempestività temi che presentano caratteri d’urgenza. Tutti i dati relativi agli attacchi aggressivi che si sono perpetrati ai danni del territorio dicono che non si può attendere. La superficie impermeabilizzata , dal 1956 al 2000, ha subito in Italia un aumento del 500%, vengono consumati ogni giorno 100 ettari di territorio inedificato.

Se però la risposta che verrà data, sarà solo di “indicazioni” e “principi”, non solo la Legge non produrrà alcun effetto positivo, ma creerà l’alibi per comportamenti analoghi a quelli già praticati.

Assume sempre maggior rilevanza controllare il consumo di suolo nelle fasi previsionali ed attuative degli strumenti urbanistici e lo “strumento” dell’impronta ecologica appare il più adeguato per misurare e monitorare l’impatto dei piani sul territorio.



L’obiettivo della Legge è migliorare le condizioni di vita degli esseri viventi, sia nelle aree antropizzate che in quelle naturali e agricole. Ciò avviene attraverso il maggior rispetto della natura, la tutela dei territori non edificati, un modello urbano che sappia creare condizioni di benessere alle persone e che contribuisca ad estendere l’esercizio della democrazia di cui la città è stata per secoli la culla. Una città nella quale la rendita urbana sia restituita agli abitanti in forma di servizi e opere che realizzano la città pubblica.

Il modello insediativo diffuso rende difficile una chiara definizione di ciò che rientra nel territorio urbanizzato e non urbanizzato. Quindi sarebbe opportuna una suddivisione in categorie alle quali far corrispondere diverse prescrizioni: gli spazi aperti, quelli semiurbanizzati e quelli della città consolidata

La dispersione insediativa ha provocato non solo consumo di un bene prezioso e “finito” come il suolo causando danni economici e dissesti idrogeologici dovuti alla riduzione della superficie permeabile dei terreni, urbani ed extra urbani, ma ha anche causato costi infrastrutturali consistenti che sono gravati sui bilanci pubblici del Comuni.



Il suolo esterno al perimetro dei centri edificati va quindi tutelato impedendo nuove espansioni, ma questo deve avvenire nel rispetto e nella difesa degli agglomerati urbani, della loro identità, dei diritti urbani dei cittadini di avere un ambiente sano e confortevole in cui vivere.

Nelle città vive l’80% della popolazione

Il degrado urbano è insieme degrado edilizio, urbanistico, sociale e ambientale

La rendita urbana ne è la causa principale

I vuoti urbani sono un bene prezioso che deve essere preservato e difeso dagli attacchi della speculazione edilizia

La rendita si sviluppa dove più alta è la remunerazione del capitale investito. A parità di costi di costruzione, gli immobili assumono valori molto più elevati nelle aree urbane centrali rispetto a quelle periferiche, e dove gli indici di edificabilità sono più alti. Il plusvalore determinato dalla localizzazione dell’immobile e dalla destinazione d’uso delle aree attribuita dagli strumenti urbanistici pubblici deve essere restituito alla collettività.



Le strane convergenze che si sono manifestate fra ambientalisti, neoliberisti, speculatori e costruttori, sul tema: stop al “consumo di suolo” extraurbano e incontrollata invasione, occupazione, densificazione di quello urbano, derivano dal fatto che le lottizzazioni periferiche ormai rimangono invendute, che la crisi edilizia impone di concentrare gli interventi e gli investimenti nei più redditizi territori centrali e che questo deve essere favorito da una cultura o incultura urbana sorretta da leggi che lo consentano.

In questo modo le città verranno saturate e devastate irrimediabilmente. Salvare i territori agricoli è necessario, ma non lo si può fare consumando le poche aree libere e permeabili rimaste all'interno dei tessuti edificati, preziose per il benessere fisico e sociale dei cittadini, per un miglioramento del microclima urbano, per un adeguato soleggiamento dei fabbricati e necessarie per evitare i sempre più frequenti allagamenti.

La così detta “densificazione” delle città, indicata dalle proposte di legge presentate quale alternativa al consumo di suolo agricolo, aumenterebbe la sofferenza di tessuti urbani già congestionati, privi di servizi adeguati, di aree verdi, di viabilità e mezzi pubblici sufficienti ed efficienti.

Vanno rafforzati gli interventi per estendere e qualificare gli spazi inedificati nelle aree urbane, mantenendoli permeabili, attrezzandoli prevalentemente con alberature e tappeti erbosi, destinandoli ad usi pubblici e sociali.



Poiché le Amministrazioni Comunali hanno gravi problemi finanziari, l’acquisizione di aree per servizi pubblici (che divengano patrimonio indisponibile del Comune), può avvenire anche con lo strumento della perequazione urbanistica e la loro gestione con i metodi proposti dalla legge n° 10/2013 sul verde urbano.

Un ettaro di terreno urbano tenuto a prato con 150 alberature: assorbe quasi 30 tonnellate annue di Anidride Carbonica; produce oltre 5 tonnellate annue di Ossigeno; traspira/evapora quasi 33 tonnellate annue di acqua; la temperatura media di una città è di 0,5-1,5 gradi superiore a quella delle campagne circostanti. D’estate l’aria soprastante un prato alberato può avere una temperatura inferiore anche di 15 gradi rispetto ad una superficie asfaltata.

I parametri ecologici sono in grado di trasformare positivamente il microclima urbano influendo sulla temperatura e sul grado di umidità

A questi aspetti ecologici si aggiungono i benefici sociali che gli spazi pubblici offrono come luoghi di aggregazione e di relazione. Sono gli spazi, che fanno di un luogo costruito, una città e non un ammasso di cemento come diventerebbe saturando tutte le aree ancora inedificate.

Anche un campo abbandonato è meglio di un nuovo condominio. I ragazzi, soprattutto delle periferie urbane, trovano in esso l’unico spazio in cui giocare. Riqualificazione non è sinonimo di costruzione. Quindi va abbandonato l’uso di forme surrettizie di aumento di cubature non controllate che producono un esubero di volumi extra Piano, eccedenti rispetto alle sue previsioni dalle quali derivano la necessità di verde, servizi, trasporti urbani ed extraurbani, impianti, strutture e reti tecnologiche. Il Piano è quindi lo strumento nel quale devono essere contenuti tutti gli elementi necessari alla sua definizione senza ricorso a correzioni/implementazioni volumetriche successive e spesso arbitrarie; è suo compito prevedere le soluzioni e gli strumenti concreti per procedere alla riconversione ecologica di parti di città, al trasferimento di volumi dalle aree improprie, alla costruzione di edifici con parametri energetici rispettosi dei regolamenti. La “contrattazione” produce aumenti volumetrici non previsti, non conteggiati, ai quali non corrispondono quindi, aree per servizi e reti di trasporto adeguate. L’uso di strumenti quali permute, compensazioni, perequazione (come finora realizzata), crediti edilizi, premi volumetrici, sono merce di scambio pubblico/privato che nulla ha a che vedere con la buona pianificazione urbanistica e le esigenze dei cittadini. Sono formule inventate da una cultura liberista che tratta la città, non come un organismo complesso, ma come una merce e ha prodotto quartieri degradati, mancanza di alloggi a canoni calmierati, territori in permanente condizione di rischio.



La perequazione è uno strumento già correntemente usato nei comparti edificatori e di fatto negli strumenti urbanistici attuativi. Si è caricato impropriamente, negli ultimi anni, di significati non corrispondenti alle pratiche attuative usate, che hanno visto uno scambio pubblico/privato, prevalentemente sbilanciato a favore del secondo soggetto. Lo scopo della perequazione, che aveva un forte senso di equità quando i terreni per servizi pubblici venivano espropriati a 1000 lire a metro quadrato mentre oggi hanno valore di mercato, deve essere quello, non solo di equiparare economicamente tutti i cittadini proprietari di aree, in modo da rendere indifferente per i proprietari dei terreni la destinazione d’uso prevista dal Piano, ma di realizzare contestualmente alla città privata anche la città pubblica. Questo obbiettivo si raggiunge, se la città è pianificata e programmata nella sua attuazione, in modo da comprendere progressivamente nella sua realizzazione ogni sua parte e ogni funzione. Alla equità corrispondente alla distribuzione dei benefici economici ottenuti da tutti i proprietari dei terreni in misura delle loro condizioni effettive, corrisponderà una equità collettiva nella distribuzione di tali benefici sotto forma di servizi e dotazioni territoriali.

Lo strumento del Project Financing, (che va in porto in un caso su quattro) è una voragine che risucchia il denaro pubblico privatizzando parti importanti di città e di manufatti di rilevanza non solo urbana. Troppo spesso in periodi di scarsa disponibilità della finanza pubblica si ricorre a questo strumento giustificandolo con il vantaggio economico che ne deriverebbe al Comune. Ma questo non avviene praticamente mai e sulla collettività vanno a gravare gli introiti considerevoli di cui si appropria il privato.

La moralità nella gestione della cosa pubblica, le regole su cui si basa la certezza dei diritti individuali e collettivi, è il fondamento di una buona gestione del territorio e del benessere urbano. La corruzione si avvale di strumenti che lasciano discrezionalità, elasticità, arbitrio.



La decadenza dei vincoli delle aree destinate a servizi pubblici produce della città mostro. Le città senza servizi sono solo un ammasso di cemento, legittimato a riprodursi senza che le aree che servono per lo svolgersi della vita urbana, scuole, parcheggi, verde, ospedali e persino le strade, siano garantiti. E’ un’aberrazione prodotta dalla sentenza della Corte Costituzionale alla quale nessuna Legge ha ancora posto rimedio. E’ quindi urgente intervenire con soluzioni che, da un lato prevedano Piani comunali generali (o Piani di assetto del Territorio) non conformativi, dall’altro che dopo 5 anni dall’approvazione del Piano operativo (o Piano degli interventi) decadano tutte le previsioni in esso contenute sia riguardo all’edificabilità dei suoli, che dei servizi pubblici e privati.

Da questo consegue che non esistono diritti acquisiti e che il nuovo piano può legittimamente modificare ogni precedente destinazione d’uso, a meno che non sussistano atti concessori o autorizzazioni rilasciate o convenzioni stipulate.

Saranno così rispettati tutti i diritti, sia quelli privati che quelli collettivi. E’ necessario che anche a questi ultimi sia dato il giusto riconoscimento per rendere la città socialmente più equa e democratica



Se si indeboliscono o azzerano le possibilità edificatorie nei terreni esterni alla città, è evidente che le tensioni, le spinte, gli interessi speculativi delle imprese/immobiliari si riverseranno nei centri urbani, saturando e “densificando” luoghi sui quali si dovrebbero concentrare, non colate di cemento, ma politiche di espansione degli spazi pubblici, di aree verdi, di interventi di edilizia sociale, di luoghi di comunicazione e aggregazione soprattutto nelle aree periferiche e degradate.

E’ necessario monitorare le trasformazioni e soprattutto dare concrete indicazioni sulle regole che i processi di trasformazione delle aree urbane devono rispettare, sia riguardo la permeabilità dei suoli che di vivibilità e igiene urbana . Se non verranno indicati parametri di sostenibilità urbana adeguati alla riqualificazione vera dei territori, se la densificazione non è accompagnata dal recupero di una maggior superficie permeabile, se i mc non più realizzabili nelle aree rurali cementificheranno gli spazi vuoti interstiziali fra gli edifici, se i quartieri fatti di case con giardini privati saranno sostituiti da edifici plurifamiliari senza un adeguato, almeno equivalente, spazio verde, se nell’area inutilizzata di una fabbrica dismessa verrà costruito un ipermercato con conseguente appesantimento del traffico, la qualità urbana non ne trarrà alcun vantaggio, ma peggiorerà gravemente le “condizioni limite” in cui si trova.

I processi di trasformazione urbana quindi devono essere saldamente guidati dalla mano pubblica anche attraverso l’atto legislativo che ponga le condizioni e i parametri della sostenibilità ecologica e sociale, altrimenti le città percorreranno una via senza ritorno verso un degrado, non solo urbanistico, irreversibile.

Gli incentivi volumetrici per gli operatori che intervengono nel tessuto urbanizzato e le politiche di defiscalizzazione sono innanzi tutto incoerenti rispetto alla maggior redditività degli interventi negli ambiti urbani rispetto a quelli extraurbani, ma non tengono conto che in Italia, la proprietà immobiliare è più frammentata che altrove e la riconversione del tessuto edilizio anche degradato di cui l’urbanistica parla da decenni non si è mai realizzata per questa ragione e per la mancanza di politiche di sostegno che in Italia per pigrizia mentale e forse non solo, si propongono sempre in termini di volumi aggiuntivi. Restano così nella effettività dei comportamenti solo le pratiche di consumo di suolo libero interno alla città e di sostituzione edilizia di capannoni dismessi che diventano quasi sempre nuovi supermercati, nell’indifferenza assoluta del recupero di qualche traccia del patrimonio storico e architettonico dell’attività industriale a suo tempo svolta.



La “moratoria” richiesta fino all'attuazione degli adempimenti regionali previsti all'art 11 del presente testo, non significa blocco dell'edilizia, bensì l'avvio di quella riconversione del settore che da tempo si auspica, verso opere di cui il territorio ha urgente bisogno. Dal risanamento di siti inquinati, alla prevenzione di frane e dissesti idrogeologici, alle realizzazione di reti fognarie e sostituzione di quelle idriche che disperdono il 40% di acqua potabile, alla manutenzione e messa in sicurezza degli edifici pubblici a partire da quelli scolastici, alla riconversione ecologica di singoli edifici pubblici e privati. Già attualmente quasi il 50 % degli interventi nell'edilizia è rivolto al già edificato. E' un modo saggio di costruire un futuro per le città e il territorio, sostenuto dalla filosofia e dalla prassi contenute nella legge, che deve indirizzare verso un processo di riconversione ecologica.

Ai sensi dell’art. 117 del Titolo V della Costituzione, il Governo del territorio è materia di legislazione concorrente fra Stato e Regioni. Lo Stato ha legislazione esclusiva sulla tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali. Il Codice Urbani è intervenuto sul tema del paesaggio, tema trattato efficacemente dalla Convenzione Europea ratificata dall’Italia con Legge n° 14/2006. La Repubblica italiana è quindi chiamata ad attuare le disposizioni della Convenzione sull’intero territorio nazionale e a conformare i propri atti legislativi agli obblighi ed ai principi derivanti da tale trattato internazionale. La Convenzione ai sensi dell’art. 2 “si applica a tutto il territorio delle Parti e riguarda gli spazi naturali, rurali, urbani e periurbani. Essa comprende … sia i paesaggi che possono essere considerati eccezionali, sia i paesaggi della vita quotidiane sia i paesaggi degradati”. La Legge ha quindi il dovere di occuparsi non solo della tutela e della valorizzazione degli straordinari paesaggi dei quali è ricco il nostro Paese per proteggerli dalle devastazioni che li hanno finora colpiti, anche attraverso un più severo controllo delle pratiche abusive, ma deve altresì, come dice la convenzione Europea sul Paesaggio, intervenire in quei contesti urbani e periurbani anche degradati, con regole che ne assicurino una qualità aggiunta per chi li abita e non diventi, la legge stessa, pretesto per redditizie operazioni immobiliari.

Vanno tutelate da nuove trasformazioni urbanistiche, intese a consentire nuove edificazione o impermeabilizzazioni del suolo, le parti di territorio semiurbanizzato non edificate, le aree agropolitane che separano fra loro piccoli e grandi agglomerati urbani, le aree interstiziali che penetrano nel tessuto urbanizzato istituendo così un nuovo rapporto fra città e campagna. Le azioni sul paesaggio e l’ambiente che costituiscono materia di competenza esclusiva dello Stato debbono essere ordinate secondo criteri che valorizzino gli spazi naturali, agricoli e abbandonati, nella loro funzione produttiva, ma anche di recupero e valorizzazione paesaggistica. Il paesaggio assume un ruolo portante, non solo nelle aree “di non comune bellezza” di cui all’art 136 del Codice Urbani, ma anche in quelle che servono a definire il confine fra le aree edificate, che tendono in alcuni contesti a non avere soluzione di continuità neppure in corrispondenza dei perimetri amministrativi. La conservazione degli spazi aperti che separano fra loro agglomerati urbani, impedendo la loro “saldatura” e il progressivo espandersi dello sprawl urbano, costituisce un valore intrinseco del paesaggio e favorisce la costruzione di corridoi ecologici individuati nella pianificazione d’area vasta e nei piani regionali con valenza paesaggistica previsti all’articolo 134 del Codice Urbani. La costruzione e la conservazione del Paesaggio devono essere paradigmi fecondi nell’agire, sia sui riconoscibili elementi di identità delle aree rurali e naturali e sia nelle trasformazioni urbane di aree degradate o abbandonate sulle quali si gioca il destino delle città. E' in queste aree che andranno prevalentemente indirizzati i futuri interventi edilizi, quindi la loro trasformazione deve essere saldamente guidata dalla mano pubblica, che attenta all'inserimento nel disegno urbano comlessivo, deve definire nuove destinazioni d'uso compatibili con l'intorno edificato. Sono aree spesso ubicate in luoghi strategici che possono diventare luoghi di eccellenza attraverso l'attribuzione di funzioni di alto livello tecnologico e culturale corrispondenti ad un moderno, avanzato concetto di sviluppo urbano. Gli interventi di trasformazione devono rispondere a criteri di sostenibilità urbana sotto il profilo ambientale e sociale. La rigenerazione urbana non può quindi prescindere da parametri che sostengono la qualità esterna ed interna all’area di intervento, in termini di trasporto pubblico locale, di risparmio energetico degli edifici, di quantità e qualità degli spazi pubblici, di smaltimento dei rifiuti, di recupero dell’acqua piovana, di armonia e bellezza, di permeabilità dei suoli e difesa da ogni forma di inquinamento.

La partecipazione democratica di cittadini e associazioni migliora la qualità dei progetti urbani e territoriali perchè spinge verso le esigenze vere della gente, del territorio, dell'ambiente sottraendoli a regole che rispondono solo ad interessi finanziari e immobiliari. Va rafforzato il peso degli organi democraticamente eletti, che si è negli anni ridotto a favore degli esecutivi. Il restringimento della democrazia negli organismi eletti, sopratutto riguardo a Piani e atti urbanistici sottratti all'approvazione dei Consigli comunali e regionali provoca un impoverimento della città e delle sue risorse umane e culturali e limita il protagonismo dei cittadini nelle scelte del proprio habitat.

In particolare è necessario estendere il controllo democratico alle grandi o pere che spesso devastano il territorio sacrificando aziende e terreni agricoli fertili

E' necessario che alle regole e agli indirizzi contenuti nella Legge corrispondano azioni coerenti rafforzate dall'assegnazione di finanziamenti pubblici ad opere di prevenzione e risanamento del territorio e delle città e alla sostenibilità ambientale così come descritta nella definizione ripresa e trascritta dalla Carta di Aalborg

Il titolo della legge rappresenta due punti focali che sono fra loro inscindibili: la tutela e valorizzazione delle aree agricole e naturali e la riconversione ecologica della città. La visione ecologica apre una nuova prospettiva alla lettura del territorio e degli strumenti usati per il suo governo. I tecnicismi della disciplina urbanistica, che si prestano a manipolazioni che poco hanno a che fare con le esigenze della gente e dell'ambiente, se si guardano con i parametri dell'ecologia, assumono un nuovo significato, ripristinano valori e gerarchie collocandoli in una nuova dimensione urbana e territoriale, provocando una rivoluzione culturale nella stessa disciplina urbanistica.

La presente Legge, oltre a dettare principi generali in materia di Governo del Territorio, intende dare risposte e soluzioni, attraverso un apparato normativo chiaro, a questioni sospese da anni sulle quali le Regioni non hanno la potestà costituzionale di legiferare.



1) Oggetto e finalità

a) l’obiettivo della Legge è migliorare le condizioni di vita degli esseri viventi, sia nelle aree antropizzate che in quelle naturali e agricole, attraverso il maggior rispetto della natura, la tutela dei territori aperti, un nuovo modello urbano che sappia creare condizioni di benessere alle persone, miglioramento delle condizioni di qualità, sicurezza, e fruibilità collettiva del territorio. Va data priorità alla conservazione della natura, alla gestione prudente degli ecosistemi e delle risorse primarie, alla tutela e alla valorizzazione del paesaggio e del patrimonio storico, artistico e culturale, alla qualità degli spazi urbani, dell’architettura, delle infrastrutture. A tal fine gli obiettivi di conservazione, tutela e valorizzazione fanno parte irrinunciabile di ogni atto di governo suscettibile di incidere sulle condizioni dell’ambiente urbano, del paesaggio e del patrimonio naturale e culturale.

b) Tutte le scelte relative alla conservazione e alla trasformazione del territorio, debbono pertanto essere informate dai seguenti principi:

- prevalenza dell’interesse generale su quello particolare e dell’interesse pubblico su quello privato.

- attribuzione alla risorsa ambientale di un valore primario per la collettività

- promozione di un uso del territorio che favorisca l’equità, estenda la partecipazione e la democrazia nella consapevolezza che il territorio è un bene comune ed ogni azione compiuta da soggetti pubblici e privati deve essere ispirata e compatibile con questo principio, consapevole che il suolo è una risorsa “finita” e quindi da preservare da consumi impropri e devastanti per l’intero ecosistema.

c) La legge impegna a :

promuovere la qualità della vita degli abitanti attraverso 1) l’offerta di spazi e servizi che soddisfino bisogni individuali e favoriscano relazioni sociali 2) la riduzione del tempo destinato agli spostamenti individuali e collettivi 3) la tutela della salute attraverso la riconversione dei fattori che producono agenti inquinanti

sviluppare il senso e il valore della cura, della cultura, dell’identità dei luoghi generatori dei diritti di cittadinanza

affermare il valore imprescindibile della unità del territorio nella globalità dei significati, ecologici, storici, culturali e sociali

2) Definizioni

a) il suolo è lo strato superiore della crosta terrestre, costituito da componenti minerali, organici, acqua, aria e organismi viventi. Esso rappresenta l’interfaccia tra terra, aria e acqua e ospita gran parte della biosfera. Svolge funzioni fondamentali di ospitalità e di nutrimento per gli ecosistemi e le produzioni agricole, di sequestro del CO2, di raccolta e filtraggio delle acque meteoriche, di supporto fisico e morfologico per le attività antropiche e di componente essenziale per la caratterizzazione del paesaggio. Ai fini della presente legge, per suolo si intende anche la superficie di terreno che, nelle aree urbanizzate, non è coperta da manufatti e non fa parte dell’area di pertinenza degli edifici.

b) l’ impermeabilizzazione: l’azione antropica che ha come conseguenza la copertura permanente del suolo.

c) sostenibilità ambientale significa la conservazione del capitale naturale. Ne consegue che il tasso di consumo delle risorse materiali rinnovabili, di quelle idriche e di quelle energetiche non deve eccedere il tasso di ricostituzione rispettivamente assicurato dai sistemi naturali e che il tasso di consumo delle risorse non rinnovabili non superi il tasso di sostituzione delle risorse rinnovabili sostenibili. Sostenibilità dal punto di vista ambientale significa anche che il tasso di emissione degli inquinanti non deve superare la capacità dell'atmosfera, dell'acqua e del suolo di assorbire e trasformare tali sostanze. Inoltre, la sostenibilità dal punto di vista ambientale implica la conservazione della biodiversità, della salute umana e delle qualità dell'atmosfera, dell'acqua e dei suoli a livelli sufficienti a sostenere nel tempo la vita e il benessere degli esseri umani nonché degli animali e dei vegetali.

d) l'impronta ecologica: è un indicatore aggregato che consente di associare le diverse forme di impatto umano sull’ecosfera riconducendole ad un denominatore comune, cioè alla superficie direttamente o indirettamente impiegata dalle attività antropiche, rendendo possibile sommare in modo coerente i contributi che derivano anche da fenomeni molto diversi tra loro. Tale metodologia permette di valutare gli effetti ambientali dei consumi di energia e di materia e della produzione dei rifiuti. L’Impronta Ecologica esprime la superficie in ettari necessaria alla produzione delle risorse utilizzate per il sostentamento di una determinata comunità e all’assorbimento dei rifiuti da essa prodotti. Una condizione essenziale per garantire la sostenibilità ecologica consiste nel verificare che le risorse della natura non siano utilizzate più rapidamente del tempo che serve alla natura per rigenerarle e che i rifiuti non siano prodotti più velocemente del tempo che è loro necessario per essere assorbiti, conoscere quindi quanta natura è disposnibile rispetto alla quantità di natura usata.

3) consumo di suolo extraurbano: I Comuni provvedono a definire il perimetro del centro edificato e delle eventuali frazioni e nuclei sparsi. Il perimetro è tracciato con linea continua aderente ai lotti degli edifici esistenti posti sul limite dell’area agricola e naturale. L’area esterna a tale perimetro non potrà essere soggetta a nuove edificazioni e a impermeabilizzazioni che non siano legate alle attività agricole o giustificate da interesse pubblico, fintanto che le Regioni non abbiano definito i criteri di riduzione progressiva dell’edificabilità extraurbana per raggiungere, al massimo entro 3 anni dalla data di approvazione della presente legge, l’obiettivo di azzerare il consumo di suolo, riducendo del 50% nel primo anno le ipotesi edificatorie presenti nel territorio extraurbano. Attorno al perimetro del centro edificato principale sarà individuata una cintura verde con funzioni agricole, sportive, ecologico-ambientali

4) Censimento delle aree libere e consumo di suolo urbano e periurbano: ogni Comune provvede al censimento cartografico di tutti gli spazi pubblici e privati inedificati e/o inutilizzati interni al perimetro del centro edificato così come definito all’articolo 1 e li sottopone alla disciplina della presente Legge. La catalogazione deve indicare lo stato di diritto, la consistenza, l’uso del suolo e la destinazione urbanistica cui l’area è soggetta

5) Un piano del verde e delle aree libere nel centro edificato, precederà qualsiasi altro strumento di pianificazione urbanistica e quelli già adottati o approvati dovranno adeguarsi alle nuove disposizioni prescritte nel piano del verde. Il piano attribuirà a ciascuna area libera una destinazione d’uso che comunque non comporti nuove edificazioni e impermeabilizzazioni del terreno. I parcheggi saranno realizzati con materiali drenanti e saranno provvisti di alberature adeguate. Il piano definirà quali aree saranno pubbliche, quali destinate ad uso pubblico, quali ad uso privato. Il Piano prevederà la realizzazione e/o il completamento di piste ciclabili, corridoi ecologici, aree destinate all’agricoltura urbana e periurbana e al soddisfacimento degli standard urbanistici comunali e sovra comunali. Provvederà a fare il censimento degli elementi vegetali significativi esistenti. Il Piano dovrà prevedere la piantumazione di masse arboree, di filari lungo le strade, di cespugli e siepi, anche attraverso prescrizioni inserite nel Regolamento edilizio obbligatorie anche nelle aree di proprietà privata. Il Piano del verde favorirà un nuovo rapporto fra città e campagna inserendo ove possibile cunei verdi nelle aree urbanizzate, contribuendo a definire la forma della città.

6) Impermeabilizzazione dei suoli e aree in trasformazione: nei processi di trasformazione urbana, in particolare quelli che interessano aree con attività produttive dismesse e aree demaniali edificate (caserme ..), la nuova destinazione d’uso attribuita dal Piano deve essere compatibile con l’intorno edificato e non deve aggravare la condizione del traffico urbano. Al 60% della superficie totale dell’area deve essere garantita la completa permeabilità. Il 40% deve essere mantenuto a prato boscato pubblico e il 20% ad altri servizi pubblici di quartiere, urbani ed extraurbani. Le trasformazioni urbanistiche dei tessuti già edificati devono garantire la sostenibilità ambientale, ridurre le superfici impermeabili esistenti e assicurare un miglior risparmio energetico degli edifici ricostruiti, ristrutturati e quelli di nuova costruzione.

7) perequazione urbanistica: gli strumenti della pianificazione comunale e intercomunale (PRG, PAT, PATI o in altro modo denominati) debbono prevedere gli ambiti di intervento perequati ai quali corrispondano accanto a trasformazioni urbanistico/edilizie consentite, la cessione al Comune di aree destinate a verde e servizi dal Piano stesso. L’attuazione del piano deve essere assicurata sia nella sua realizzazione privata che nelle dotazioni territoriali corrispondenti agli standard urbanistici previsti nel PRG e nelle dotazioni ambientali necessarie alla riconversione ecologica della città. Le volumetrie previste nelle aree edificabili, verranno realizzate nelle stesse, come previsto dal Piano, ma saranno teoricamente distribuite nelle aree destinate a servizi pubblici che verranno cedute gratuitamente al Comune. I volumi previsti nel Piano rimarranno invariati sia nella localizzazione che nelle quantità. Le aree, che con destinazione diverse sono inserite nell’ambito definito dal Piano, avranno gli stessi indici teorici di edificabilità. I vantaggi economici derivanti dall’edificabilità contenuta nel Piano saranno così distribuiti equamente fra tutti i proprietari delle aree soggette a trasformazione. Nel caso di aree già edificate soggette a ristrutturazione urbanistica o a piani di recupero si aggiungerà, nel calcolo della distribuzione degli indici attribuiti a ciascuna area, a diversi usi destinata , il valore attribuito agli immobili esistenti.

8) Premi volumetrici, compensazioni, crediti edilizi, fanno parte del Piano urbanistico generale e non possono essere attribuiti a posteriori. Gli spostamenti di fabbricati ubicati nelle aree a rischio, debbono trovare collocazione in aree edificabili previste dal Piano. Mentre le nuove costruzioni si devono tutte adeguare ai parametri di contenimento energetico indicati nelle norme del Regolamento Edilizio senza la concessione di aumenti volumetrici. Potranno essere concesse agevolazioni fiscali, riduzione degli oneri e altre forme che non comportino ulteriore consumo di suolo.

9) decadenza dei vincoli: Alla decadenza dei vincoli (dopo 5 anni dalla loro applicazione) sulle aree destinate a servizi pubblici soggette all’esproprio, sancita dalla Corte Costituzionale, corrisponde automaticamente la decadenza delle capacità edificatorie previste dallo strumento urbanistico comunale. A questo concorre la definizione del Piano generale (PAT) come Piano non conformativo e la validità di 5 anni del Piano degli Interventi (PI o piano attuativo), scaduti i quali decadono tutte le previsioni in esso contenute

10) Nuovi piani urbanistici comunali e loro varianti possono modificare in tutto o in parte, dandone adeguata motivazione, le previsioni contenute nei Piani vigenti, comprese quelle relative alle destinazioni che comportano l’edificabilità dei suoli, qualora non siano già state stipulate convenzioni o rilasciati titoli abilitativi.

11) moratoria: la capacità edificatoria previste nei PRG vigenti è sospesa finchè non è dimostrata, sulla base dell’incremento demografico e di altri parametri stabiliti dalle Regioni la necessità di nuovi volumi edilizi che comunque dovranno rispettare, qualora attuati, le prescrizioni contenute nella presente Legge

12) gli accordi di Programma e altri strumenti di concertazione e negoziazione fra pubblico e privato comunque denominati non possono applicarsi in deroga agli strumenti urbanistici approvati

13) Project Financing: il ricorso allo strumento del Project Financing, deve essere accompagnato da una scheda tecnica/ economica che dimostri il prevalere dell’interesse economico pubblico rispetto a quello privat finanziariao anche attraverso la comparazione di modalità alternative di intervento, compreso quello diretto da parte del soggetto pubblico promotore.

14) nella VAS agli attuali criteri di valutazione va aggiunta quella economico finanziaria. Ogni progetto verrà accompagnato da una descrizione del percorso partecipativo che deve essere assicurato non solo negli aspetti formali, ma nell'accessibilità a tutti gli atti, garantendo margini adeguati di incidenza da parte di soggetti portatori di interessi diffusi

15) la rendita: Il plusvalore derivante dalla trasformazione della destinazione d’uso e degli indici di edificabilità generata dall’approvazione di uno strumento urbanistico di iniziativa pubblica, va quantificato e ceduto al Comune sotto forma di opere o aree (standard di PRG) o di contributo straordinario con destinazione vincolata

16) gli oneri di urbanizzazione secondaria e i contributi di concessione non possono essere utilizzati per la spesa corrente ma debbono essere destinati esclusivamente agli usi per i quali sono stati destinati dalla Legge che li ha introdotti, ovvero per “le opere di urbanizzazione della città e le operazioni di recupero di edifici preesistenti” Le opere di urbanizzazione primaria debbono essere interamente realizzate a cura e spese del lottizzante

17) inalienabilità dei beni pubblici: Gli alloggi destinati ad edilizia residenziale pubblica e le aree acquisite attraverso cessione da parte dei privati anche attraverso lo strumento della perequazione urbanistica non possono essere alienati. Nei piani attuativi e nelle aree del PI (Piano degli Interventi) con destinazione prevalentemente residenziale, deve essere riservata all’edilizia sociale una quota non inferiore al 20% del volume complessivo previsto nel Piano

18) Paesaggio urbano e periurbano: Il valore del paesaggio deve essere assunto come paradigma di un modello nuovo di pianificazione urbana e territoriale. I Piani urbanistici generali e attuativi dovranno individuare coni visuali lungo i quali non va preclusa, con nuove edificazioni, la visibilità di tratti di paesaggio significativo, di masse arboree, di scenografie urbane, di parti di territorio rurale ai margini dell’edificato. I manufatti rurali tipici presenti nelle aree agricole e anche in quelle che hanno perduto l’originaria funzione, saranno salvaguardati e il loro abbattimento (o crollo accidentale) non potrà comportare la ricostruzione del volume perduto. Il risanamento, recupero, consolidamento di singoli edifici o borghi rurali avrà la priorità nella distribuzione dei finanziamenti statali e regionali destinati all’edilizia

19) impronta ecologica: nel Piano Urbanistico Comunale deve essere valutata l'impronta ecologica e la riduzione generata dal Piano nell'arco di previsione temporale dello stesso. Andranno monitorate le fasi intermedie al massimo ogni cinque anni

20) Invarianza idraulica dei suoli. Le Regioni valorizzano, anche attraverso sostegno economico, le operazioni di stombinamento dei corsi d’acqua realizzate dai Comuni nei centri edificati. Nelle norme di attuazione dei Piani saranno vietati in linea di massima gli interramenti di corsi d’acqua, fossi e scoline e preclusa l’edificabilità di aree soggette ad esondazione e allagamenti.

21) Concorsi di idee: le Amministrazioni pubbliche e private favoriranno la pratica dei concorsi di idee per risanare parti di città degradate soprattutto nelle aree periferiche, in quelle scarsamente dotate di verde e di servizi e nelle aree oggetto di importanti processi di trasformazione con cambiamenti di destinazione d’uso (caserme e fabbriche dismesse). L’obiettivo è quello di dare un’identità ai luoghi, creare condizioni di benessere per gli abitanti, favorire processi di integrazione sociale, costruire ambienti adatti alla vita dei bambini, inserire ogni area in un disegno urbano coerente, che trovi nella bellezza della forma un gradiente per costruire la città di tutti, la città intesa come bene comune.

22) Un Parco di aree pubbliche: i Comuni si dotano di un “parco di aree pubbliche anche edificabili” da utilizzare per i fini istituzionali connessi con l’attuazione del Piano Urbanistico e di un parco alloggi da destinare ai trasferimenti necessari, conseguenti alle trasformazioni di aree edificate

23) Le Regioni

a ) non possono imporre ai Comuni ( vedi Piano Casa) l’applicazione di misure in deroga alle NTA e ai Regolamenti edilizi approvati dai Comuni stessi, qualora peggiorative delle regole urbanistiche di “igiene urbana”, di qualità degli insediamenti e di tutela dei centri storici

b) provvedono a definire le condizioni nelle quali è vietato l'uso del sottosuolo, in base alla presenza di reperti archeologici, di falde freatiche e altri elementi presenti nel contesto in cui si colloca l'intervento, ai quali potrebbe essere di pregiudizio

c) individuano la distanza minima dalle strade di maggior traffico alla quale le colture di ortaggi e vitigni devono collocarsi

24) verrà istituito in ogni Comune un osservatorio sul patrimonio immobiliare pubblico e privato inutilizzato e sul consumo di suolo, che si conformerà a criteri di misurazione oggettivi, validi in tutto il territorio nazionale, in modo da assicurare l’omogeneità e la confrontabilità dei dati reperiti. I dati saranno accessibili e resi pubblici

25) la priorità dei finanziamenti destinati al settore dell'edilizia e dei lavori pubblici sarà rivolta alla prevenzione dai rischi idrogeologici e sismici, alla manutenzione, risanamento e alla cura del territorio, alla bonifica dei siti inquinati, al recupero dei beni architettonici di valore artistico e documentale e dei singoli edifici e borghi rurali, al consolidamento statico degli edifici pubblici, al risparmio energetico, alle fonti di energia rinnovabile, alla riconversione ecologica delle città, all'edilizia sociale.



sabato 26 ottobre 2013

Drago famelico



Drago famelico

L’unione bancaria europea va avanti. Sembra una buona cosa, ma invece si tratta di una evento con pessimi effetti. Il presidente della Bce, Mario Draghi, ha illustrato ai capi di stato riuniti a Bruxelles che la verifica della situazione delle banche europee non potrebbe essere scissa dalla necessità che gli stati membri predispongano risorse pubbliche per ricapitalizzare le banche che ne avessero necessità. 

La maggior parte delle 15 banche italiane sono sottocapitalizzate, quindi la collettività deve predisporsi a ricapitalizzarle. Come? Ma è semplice c’è sempre da tagliare la sanità, la scuola, le pensioni , ecc. Al debito sovrano si sommano i vincoli di disavanza della UE ed ora anche la “delicata” situazione dei nostri istituti di credito che non possono fallire pena la diffusione del … panico. Ma siamo talmente nel panico che ci fa un baffo quello derivante da questa nuova evenienza passiva.

Certo si potrebbero sequestrare i beni mobili e immobili dei dirigenti e amministratori, presenti e passati, di queste banche, che con i loro lauti stipendi, bonus, liquidazioni faraoniche, ecc. hanno spolpato clienti e proprietari; si potrebbero nazionalizzare remunerando gli attuali proprietari con 1 €; si potrebbe… chi sa quante cose si potrebbero fare prima di addossare alla collettività, a noi e a ciascuno di noi la responsabilità e il carico della ricapitalizzazione. Ma così va il mondo, ma non è necessario che continui con questo andazzo. 



Ancora diritti e solidarietà

Il diario precedente su diritti e solidarietà ha suscitato un certo interesse, approvazioni e critiche. Di seguito pubblico i testi più articolati (depurati da aspetti personali) di alcuni amici, Alfio, Valeria e Angelo che propongo a tutti i lettori del Diario. 

Hai ragione. La parola solidarietà proviene dal lessico cattolico ed è pertanto viziata di compassione e paternalismo. Malgrado l’etimo consentirebbe di depurarla di questa componente.

Purtroppo, anche la cultura dei diritti non manca di inconvenienti.

Quando T. H. Marshall ne gettava le basi, fresco delle riforme del Labour (se non l’hai visto ti segnalo l’ottimo: The Spirit of 1945), il tema era il welfare. Peraltro era lo spirito del tempo. La costituzione italiana prevede qualcosa di simile. Anche se fa un uso molto parsimonioso del termine.

Quel che però è capitato, col neocostituzionalismo, è la proliferazione dei diritti. Gli spagnoli hanno riconosciuto pure quelli delle scimmie...

Con questo conseguendo almeno due effetti devastanti: il primo è dare ai diritti una curvatura individualistica. L’individuo e il suo usbergo di diritti, da far valere per via giudiziaria (altro che azione collettiva!). Il secondo inconveniente è di mettere i diritti ormai ridondanti in rotta di collisione. La sinistra oggi si preoccupa tanto del matrimonio omosessuale e se ne infischia del diritto al lavoro. Anzi, usa il primo diritto per calpestare il secondo. Non ci sto, lo trovo uno dei tanti tradimenti di questa orribile sinistra.

E allora? Bel pasticcio. Che avessero ragione i nostri nonni quando non parlavano né di diritti (che erano solo quelli di libertà), né di solidarietà, ma molto semplicemente di fraternité?

Un saluto affettuoso,

Alfio






Una riflessione sul diario.
Per la prima volta da quando lo ricevo non sono del tutto d'accordo, mi sembra, con quello che dice.



La parola solidarietá puó certo avere il senso che le attribuisci, la deriva paternalista che le rimproveri, in qualcuna delle sue molteplici letture. Tuttavia secondo me non evoca il "fare una favore", bensí l'empatia e la compassione (nel senso romantico della parola). Possono i poteri pubblici occuparsi dell'empatia e della compassione? Regolarla? Assicurarla? Desideriamo e crediamo possibili politiche pubbliche cosí perfette, cosí complete, da rendere innecessaria la solidarietá? Mah, secondo me no. Solidarietá è una bella parola che parla di una pulsione umana, non la piú forte, ma comunque diffusa e commovente, a riconoscersi "fratelli" o "soci" su una stessa barca, governata da un destino spesso cieco, spesso crudele. La solidarietá potrebbe essere l'umanesimo degli atei. Davvero non possiamo trovare un'altra parola che esprima il concetto, sacrosanto, di societá dei diritti, di cittadini con diritti, senza immolare la solidarietà?? È vero che puó esistere una relazione tra la solidarietà e i diritti, che quando si consolidano i diritti, la solidarietá si puó spostare, ridefinre, ma mi sembra necesssario non perderla come valore. Simbolizza che la nostra rete di protezione, il nostro tessuto, sono i nostri diritti e le nostre relazioni di solidarietá (e di affetto). Che siamo animali social, non animali statali ;-)

Valeria



Le tue osservazioni sulla solidarietà mi trovano totalmente d'accordo. Anche la tua descrizione dei diritti la condivido perfettamente. Solo che non posso fare a meno di osservare che i diritti presuppongano delle leggi che li stabiliscano, il che comporta, e tu lo dici chiaramente, non solo una "cittadinanza" che dia il diritto di esercitare il diritto, ma soprattutto una "legge" che ne stabilisca i limiti e le occasioni.

Non voglio fare il trito discorso ideologico sull' anarchia che non accetta le leggi, ma quello pratico per permettere di osservare qualcosa di necessario se il fine che si vuole raggiungere è quello della giustizia.

1° - Lo dici tu: "...i diritti sociali conquistati con fatica, lotta e intelligenza..." Ma un uomo, a prescindere che gli vengano o meno riconosciuti da una "Dichiarazione dei diritti dell'uomo " o da una costituzione qualunque essa sia, non credi che abbia i suoi propri diritti solo per il semplice fatto di essere un uomo? 

2° - La legge (anche quella fornita di sacralità costituzionale) come conseguenza del diritto è uno strano animale al quale può cambiarsi pelle ad ogni stormir di foglie dando agli uomini l'alibi per poter compiere qualunque nefandezza giustificandosi appunto con l'esistenza della legge. Ed in più, anche quando una società nel suo complesso si rende cosciente delle nefandezze, per smettere di compierle occorre fare una legge che elimini quella in corso (Bossi, Fini, Maroni ti dice qualcosa?)

3° - Pur non avendo niente a che fare con Pascal e pur odiando citare non posso fare a meno di ripetere la sua considerazione "la legge senza forza è ridicola, la forza senza legge è sopraffazione" (cito a memoria).

La fine che faranno i diritti la descrivi tu insieme alle motivazioni che vengono addotte.

Naturalmente meglio i diritti che niente, ma personalmente preferirei che si parlasse di "Doveri verso l'essere umano".

Angelo



Lontano da me l’idea di mettere il cappello sulla discussione. Gli amici mi hanno scritto tutti cose interessanti, ma vorrei avanzare alcune altre poche osservazioni .

1. La mia obiezione è alla solidarietà come “virtù collettiva”, che essa debba e possa albergare nei cuori dei singoli lo spero. Il potere pubblico non credo che possa farsi carico dell’empatia, preferisco, personalmente, la gelida razionalità organizzativa che il caos emotivo. Capisco che partorire a casa, circondate da mamma, sorella, zia, nonna, ecc. determina un ambiente carico di affetto, di empatia e di solidarietà, rispetto al partorire in sala operatoria, ma questa è più sicura. Io sposo il punto di vista del dottor House: “preferisce che io sia gentile e affettuoso o che la guarisco”. 

2. La solidarietà perde la qualità di rapporto personale che alla fine esclude gli altri quando diventa diritto per tutti. Certo che si può eccedere, ed è anche vero che esistono “ambiti” nei quali il pubblico lo Stato non deve intervenire perché sono ambiti di diritti individuali inalienabili e non cedibili (i rapporti sessuali, il fine vita, ecc.).

3. Perché i diritti siano reali e operativi ci vogliono le “leggi”; si possono fare leggi cattive (vedi quelle sull’immigrazione) ma le leggi non nascono dalla testa di Giove, sono il risultato, di cultura, di pensiero e di forza, sono l’esito dei meccanismi operanti nella società, e in quest’ambito non esiste la “verità” (per fortuna), ma la ricerca delle migliori condizioni per una convivenza soddisfacente. Le “buone cause” , per così dire, non si affermano in sé stesse, ma possono diventare diritto operativo esercitando la “forza”.

4. Per chiudere scherzando., ma non troppo, mi rifiuto di considerarmi insieme a tutti dentro la stessa barca, se mi guardo in giro decido che è meglio buttarsi a mare e nuotare; sarebbe bello se molti facessero lo stesso.


giovedì 24 ottobre 2013

Solidarietà e Diritti






Si potrebbe, forse, scrivere la storia della modernità come un processo continuo in cui uomini e donne hanno teso a liberarsi da una rapporto di solidarietà per acquisire diritti.

La solidarietà è oggi considerata, soprattutto a “sinistra”, come una “virtù collettiva”. Una posizione che non mi pare di potere convivere e che costituisce un errore di prospettiva.

Che la solidarietà possa essere una “virtù individuale”, si può accettare, me ben altri dovrebbero essere i valori che incarnano le virtù collettive: la convivenza, la giustizia sociale, l’equità, la difesa dei diritti sociali.

La solidarietà, intanto, ha un sottile sapore di paternalismo: chi solidarizza è sempre in condizione migliore di chi la solidarietà riceve. La solidarietà, per quanto onesta e priva di ogni principio di potere, determina una situazione di sudditanza, di obbligo, di riconoscenza, da parte di chi la riceve verso chi la concede (la concede il verbo usato non è casuale). Spesso è anche un atto d’amore: la nonna che bada al o ai nipotini, quando la madre deve andare a lavorare, lo fa per amore, la cosa non è in discussione. Ma si crea, comunque, sia una situazione di dipendenza che di riconoscenza. Per evitare l’una e l’altra si è rivendicato il diritto all’asilo nido, che libera la madre e la nonna e ne migliora i rapporti, oltre al fatto che il o la bambina possono crescere meglio.

Si può sostenere che tutti i diritti sociali sono ascrivibili all’interno del processo di rendere la specie indipendente da rapporti di solidarietà.

È la piena realizzazione dei diritti di cittadinanza che rende liberi i singoli, e migliora la società innalzandone lo statuto civile e la convivenza. Moltissime delle difficoltà di convivenza sono ascrivibili, infatti, al disconoscimento di qualche diritto, a fronte del quale l’invocazione della solidarietà è immediata e sembra una buona cosa.

Il disoccupato o la vecchietta che chiedono l’elemosina, invocano la mia personale solidarietà perché privati dal diritto al lavoro o ad una pensione decente. Si potrebbe sostenere che i diritti incarnano la solidarietà collettiva, ma questo spesso si dimentica facendo appello alla solidarietà individuale (che non può che essere limitata soggettivamente e oggettivamente).

Se si volesse essere solidali il nostro impegno personale dovrebbe essere posto sia nel pretendere che i diritti sociali siano rispettati (prima e soprattutto), sia nell’ampliare continuamente l’ambito di questi diritti in ragione dei mutamenti sociali. Ma oggi la linea politica suggerita sembra seguire percorsi contrari: il “non possiamo permettercelo” è la giustificazione (falsa) per negare i diritti sociali conquistati con fatica, lotta e intelligenza, producendo un degrado della società e l’incanaglirsi individuale.

Qualche anno addietro sono stato invitato al convegno annuale di Libera, l’associazione guidata da don Ciotti. Ho fatto presente che ero ateo e che il “volontariato” era fuori dalle mie corde. Hanno insistito perché volevano che dessi un contributo ad una sezione dedicata alla città. Spinto molto dalla curiosità ho accettato l’invito. Sono arrivato con un po’ di ritardo e sono entrata in una sala, stracolma (per lo più giovani) mentre don Ciotti si avviava alla conclusione della sua introduzione. Le parole conclusive di don Ciotti che sintetizzo nella frase “basta solidarietà, non vogliamo solidarietà, ma diritti” mi hanno dislocato in un “altrove”, indietro nel tempo, in assemblee di diverso segno ma delle quali mi sembrava si fosse persa memoria. Parole che mi hanno fatto comprendere che esistevano buone piante anche in giardini imprevisti.

È la cultura dei diritti che dobbiamo coltivare sia di quelli civili che di quelli sociali; una “società di diritti” non è, come ci vogliono fare credere, una società ingabbiata, ostile al cambiamento, refrattaria alle novità e “spendacciona”, ma, piuttosto, una società di liberi uomini e donne, capaci di costruire un futuro migliore basato sull'equità, la convivenza, l’inclusione e il rispetto reciproco.



sabato 19 ottobre 2013

10 domande, ma potrebbero essere molte di più




1. Perché il Presidente del consiglio a Lampedusa, di fronte a tante bare, promette “funerali di stato” per quelle vittime e poi se ne dimentica?

2. Perché la “stabilità” continua ad essere considerata e presentata come il “bene supremo” di cui l’Italia ha bisogno, se poi essa produce modesti accordi governativi mediati sotto il ricatto della crisi di governo?

3. Perché Angelino Alfano aveva richiesto il cambio dei capi gruppi alle due camere, l’allontanamento di Verdini e Santachè, nonché un cambio di direzione del Giornale, e non avendo ottenuto nulla di quanto richiesto fa finta di niente?

4. Perché Fassina minaccia le dimissioni da vice ministro (ma poi le darà?) per questione di “metodo”, la scarsa collegialità, e non per i contenuti del patto di stabilità?

5. Perché le trasmissioni di dibattito politico sono tutte prevedibili?

6. Perché senatore, deputati, uomini di cultura, professori, ecc. hanno abbandonato l’ironia a favore dell’aggressività più prevedibile?

7. Che cosa sia la privacy è un mistero. Abbiamo anche un’autorità a sua difesa. Ma nella società dello spettacolo essa può essere un valore, quando non c’è limite alla propria esposizione. Di tutti quelli che hanno una notorietà sappiamo tutto, ci vogliono fare sapere tutto (la mia giornata è così divisa: 4 ore di sonno, 4 ore di lavoro, 4 ore di incombenze varie e 4 ore di sesso. Vi ricordate). Ma tutti in generale sono disposti a raccontare tutto di se stessi, su questo vivono le televisioni (e non sono attori): tutti con le budella di fuori, fino alle preferenze sessuali. E che dire del controllo esercitato da un’agenzia americana, per ragioni di sicurezza, su tutte le nostre telefonate, mail, sms … Che dire dell’Angenzia delle entrate, allo scopo di trovare gli evasori, che conosce tutti i nostri dati economici. Ma allora la privacy e una valore da salvaguardare solo per i loschi affari dei potenti?

8. Se uno o una racconta tutto di sé (come la fidanzata di B.), dei suoi palpiti infantili, dell’infatuazione giovanile, della conquista, ecc. perché si dovrebbe sentire offesa e richiedere un risarcimento se qualcuna mette in dubbio la sua femminilità?

9. Perché la “Giunta” ha estromesso deputati e senatori dalle rispettive camere perché condannati , invece ci sono infiniti problemi per estromettere B.?

10. Perché la rinascita di forze politiche fasciste e naziste, nazionalisti e xenofobe non preoccupa le forze democratiche e viene assunto come una sorta di giro di giostra: ora tocca a loro?


giovedì 17 ottobre 2013

Le architetture raccontano



Giandomenico Amendola, Il brusio delle città. Le architetture raccontano, Liguori editore, Napoli, 2013; pp. 100, € 15,99



Libro di piacevole lettura, che si fa apprezzare non tanto per la novità della tesi, le architetture narrano la storia e una loro storia, ma perché questo viaggio attraverso i diversi edifici del potere e della sua rappresentazione, nelle diverse epoche, è armonizzato con le trasformazioni sociali ed economiche e accompagnato di continui riferimenti letterari e di filmografia. Un dialogo tra forme diverse di rappresentazione e di uso stesso della rappresentazione che sollecita l’immaginazione e la riflessione.

Nella trattazione si mischiano epoche e ruoli, stili canonici e innovazione rappresentativa. Il “potere” ha avuto bisogno sempre di rappresentarsi, o per meglio dire, dare di sé un’immagine che fosse soprattutto una comunicazione del potere incarnato. Sia esso politico, che religioso che economico. Ma non va dimenticato quello stesso potere che si rappresenta offre anche manifestazioni di potenza (spesso distruttiva): dal bruciare eretici e streghe al controllo della finanza che toglie respiro ai popoli.

Tra le chiese gotiche e barocche, non c’è soltanto un cambio di stile quanto piuttosto il cambio del ruolo e dell’aspirazione della religiosità; tra il castello del signore e il palazzo del “comune”, non c’è solo una cambio dimensionale e di stile, ma anche di ruolo politico. Così le democrazie moderne si acconciano a celebrare nei loro palazzi la democraticità del potere e questi edifici portano, con il loro stile, le stimmate di un’epoca nuova.

Viene in mente che in Italia, sarà forse perché il potere politico si è “sistemato” dentro i palazzi lasciati dal vaticano, rappresentazione di un potere spirituale e materiale tanto chiuso, quanto autoritario, che la nostra democrazia è così opaca e separata? Sarebbe cedere ad un determinismo troppo grezzo assecondare questo pensiero, ma è certo che la “rappresentazione, in questo caso, non appare coerente. Anche se, come sostiene l’autore, la stessa architettura può raccontare storie diverse nel tempo, il segno dell’inizio resta e si riverbera anche nella trasformazione del significato.

Gli esempi che Amendola porta di questo “libro di pietra” sono numerosissimi, e l’interpretazione che ne dà è condivisibile: da Mosca a Pechino, dalla Roma mussoliniana, alla Berlino di Hitler, dal palazzo del congresso a Washington (nessuno edificio poteva essere più alto del palazzo del congresso, neanche la Casa Bianca, dato che il “potere democratico” stava proprio nel Congresso). Per non parlare delle cattedrali, ecc. Come si è detto una lettura tanto piacevole quanto sollecitante.

Ma l’autore non resta invischiato nella sua tesi, ha chiaro ed esplicita la dinamica e il mutamento. Mette in luce come “contenuti, riferimenti e significati mutano in relazione ai cambiamenti della funzione dell’edificio, degli interessi e della cultura dei fruitori, dei codici e dei valori condivisi in un determinato momento storico”. E ancora “Mutano, perciò, profondamente le narrazioni degli edifici la cui architetture cambiano anche perché ciò che devono raccontare è diverso dal passato”.

Ma è alla città, al suo modificarsi, alla sua dinamica che l’autore è attento in relazione al tema della narrazione del “libro di pietra”: “Quello urbano è oggi più che un testo coerente una sorta di geroglifico su cui coesistono – contagiandosi reciprocamente – una quantità enorme e crescente di linguaggi e di codici”. Su questo si tornerà in chiusura, ma prima si vorrebbe rendere conto dell’attenzione che l’autore mette sulle stazioni ferroviarie; è una parte molto interessante del testo.

Le stazioni sono considerate il “monumento pratico e narrativo della modernità industriale”. E se all’inizio, anche nei nomi (Waterloo o piuttosto Austerlitz), volevano essere una rappresentanza oltre che della modernità (la macchina a vapore, l’uso del vetro e dell’acciaio) anche della “storia” della nazione. Essa era di fatto il varco attraverso il quale si “entrava” in città, divisa, si potrebbe dire, in due parti: la “porta”, vera e propria, di accesso alla città e di abbandono di essa, per lo più monumentale nei diversi stili dell’epoca; ma dietro la porta il recinto della modernità la parte interna di arrivi e partenze dei treni, rotai, il fumo delle locomotive, ecc. “La stazione ferroviaria ottocentesca è, come gran parte dell’architettura civica dell’epoca, un monumento pratico, cioè dove vivono sinergicamente funzioni pratiche – controllo e gestione della mobilità – e simboliche – monumento celebrativo della modernità e della borghesia che di questa è artefice e protagonista”. Pur nelle differenze la stazione è un “luogo pubblico”, accessibile a tutti. Ma il tempo scorre, la dinamica sociale, tecnologica e culturale non si ferma: la stazione cambia. L’autore, sempre attento alle dinamiche, propone una periodicizzazione della storia delle stazioni che può essere condivisa.

Un primo periodo che giunge fino agli anni ’20 del ‘900: è la fase della stazione “monumento”, dominata dall’ecclettismo degli stili, simbolo dell’avanzamento tecnologico ma anche della borghesia imperante.

A questo periodo succede quello funzionalista, caratterizzata da quello che è definito “mutismo simbolico”, ad eccezione dei regimi totalitari dove le nuove stazioni assumono compiti di rappresentanza e di legittimità. I due dittatori, Mussolini e Hitler, prediligono l’incontro in stazione, sia all’arrivo che alla partenza, con il coro plaudente di moltitudini.

Nel secondo dopoguerra, fino agli anni ’80, si può registrare la decadenza simbolica e un degrado cumulativo delle stazioni. Le stazioni, per esempio in Italia ma in tutta l’Europa, sono il punto di arrivo dell’emigrazione alla ricerca di un lavoro (filmografia sterminata), ma sono anche il rifugio di un’umanità “altra”.

Nel periodo più prossimo si ha la, così detta, “rinascita”: la stazione ridiventa una centralità, certo perché centro dell’intermodalità dei trasporti, ma anche e soprattutto perché monumento allo shopping. La stazione non è più soltanto il luogo da dove si parte e dove si arriva, ma un luogo dove si va per quello che offre; un’offerta commerciale per tutti i cittadini, con i vari negozi specializzati e no, con luoghi di ristoro, ecc. Ha perso largamente la sua funzionalità ed anche molto del suo simbolismo (e fascino).

Di questa “rinascita” si potrebbero dire molte cose, ma la cosa principale è che il viaggiatore è l’ultimo degli interessi in questa nuova sistemazione (non pare che il testo colga questo aspetto). Per esempio il tracciato non ti porta velocemente dall’entrata ai binari, ma ti costringe ad un giro vizioso obbligato perché si possa essere attratti dalle vetrine (è il caso di Milano, per esempio). Che il viaggiatore sia negletto è evidente dal fatto che nella ristrutturazione (è il caso di Roma) sia stato eliminato il “Cobianchi”, che era un luogo di parziale delizie per chi arrivando la mattina presto (da Milano tra le 6 e le 7) poteva fare una doccia calda, che ti scrollava la stanchezza di una notte non comodissima di viaggio. Ma certo, i “treni della notte” sono molto ridotti, ma l’indifferenza verso il viaggiatore è palese.

Si vorrebbe, a questo punto, indicare alcuni disaccordi. Pare che il punto di vista di Benjamin, che l’autore rifiuta, secondo il quale le opere d’arte urbane sono fruite in condizioni di “distrazione”, appare sempre più attuale e generalizzato. Chi “attraversa” la città raramente ha interesse per essa, del resto ci sono tante incombenze a cui rispondere che non si ha tempo per guardarsi in giro, o l’attenzione è attratta dalle vetrine dal loro contenuto, ma dal loro contenente. Anche quando lo scopo dovrebbe essere quello di “vedere” si fa con distrazione; certo ci sono i luoghi che bisogna visitare (Piazza San Marco a Venezia, per dirne una), ma si guarda ma non si vede. Ci vuole attenzione e disposizione d’animo per svelare il contenuto del libro di pietre, ma rara appare questa attenzione e la voglia di leggere (fa da contrappunto a questa inconsapevolezza un coro di Oh! meravigliati).

Non pare che la città “è per la prima volta centrata sulla domanda della gente. Un’alta qualità della vita è oggi il più importante degli asset di una città che grazie a questa risorsa vede aumentare le chances di attrarre imprese e famiglie. A patto, però, che questa qualità sia ben visibile. Qui torna in gioco l’architettura” . Non disconosco che la “grande” architettura (qualsiasi cosa significhi “grande”) possa essere un elemento di qualificazione della città (il caso di Bilbao è sempre citato) ma non basta. La qualità della città non si fonda solo sulla “bellezza” ma anche sulla “bontà”. Una città di alta qualità deve essere bella e buona, deve cioè coniugare insieme e strettamente la sua bellezza (fisica, artistica, di localizzazione, naturale, ecc.), con una gestione pubblica onesta, trasparente e finalizzata al bene collettivo e con un atteggiamento della popolazione accogliente e convivente. La semplificazione della “grande architettura” ha portato a molte spese inutili, ad opere magniloquenti dagli esiti incerti. Si possono ammirare ma non garantiscano la qualità della vita.

Che le città siano centrate a soddisfare le domande dei cittadini mi pare un punto di vista molto ottimista, forse troppo ottimista. In quest’epoca di esibizione la verità è che anche le città amano esibirsi, il gesto architettonico è quello più usato allo scopo, si finisce sulle riviste, ma forse i risultati fattuali spesso sono deludenti per i cittadini alla ricerca di una qualità della vita.

A questo punto, apprezzando il lavoro di Amendola, la domanda è: il “libro di pietra”, che narra della città, della sua trasformazione e della sua evoluzione, è fatto solo delle pagine dei “monumenti” (intesi nella versione larga dell’autore) o è la “pietra” di tutta la città che fa sentire il suo brusio?

Amendola ha scelto di riferirsi alle “architetture che raccontano”, sembra chiaro, altrimenti avrebbe scritto un altro libro. Ma un libro è rilevante anche per i corti circuiti che crea, per i rimandi involontari che sollecita, per la ricerca di un … oltre. Le note che seguono non sono una critica al fatto che gli “uomini e le donne” in larga misura mancano in questa esplorazione, quanto piuttosto rendere conto di questo “oltre” che il libro esercita.

Sono tutte le pietre della città che raccontano la storia e l’evoluzione dell’insediamento di uomini e donne in quel posto. A differenza del periodo pre-capitalista oggi domina la divisione sociale dello spazio, ciascuno a posto suo, in gironi di qualità e di omogeneità sociale. Ma le periferie non sono un’altra città, se mai potrebbero essere classificate come città senza città, ma anch’esse hanno una storia. E la storia che raccontano è sociale e politica, ma essa è fatta non solo di costruzioni ma anche di “architetture”; molti architetti si sono impegnati, non sempre con buoni risultati, a queste architetture, a sperimentare, e le amministrazioni pubbliche l’hanno lasciato fare dimentiche che la città è opera collettiva e sociale. Se si volesse esplorare questo segmento della storia, se si vuole da un lato estremo ma reale, un buon viatico potrebbe essere rappresentato dal lavoro di Julia Schulz-Dornburg (Ruinas Modernas, 2012, Ambit, Barcellona), che mette in luce come l’attenzione al benessere collettivo sia nullo e massimo quello verso la speculazione (spesso fallimentare in sé, come queste rovine dimostrano).

In epoca più recente la banalizzazione sembra la cifra che caratterizza l’urbano. Tutto uguale ovunque tu sia, spesso si prova un senso di spaesamento, quello che si vede lo si è già visto identico e si perdono le coordinate di dove uno si trovi.
Forse il punto di vista di Francesc Munoz (Urbanalization, Gilli, 2010,Barcellona) può non essere condiviso, ma pare che significativamente dà conto di una realtà in evoluzione. Secondo questo autore la globalizzazione ha come esito, per quanto riguarda la città, una standardizzazione del paesaggio urbano.


Insomma, il libro di Amendola non solo è interessante in sé, ma anche per le questioni che fa emergere, domande sottaciute, ma presenti nella filigrana del testo.

mercoledì 9 ottobre 2013

L'imperialismo contemporaneo




Intervista a Ernesto Screpanti sull’imperialismo contemporaneo

Apparsa su politica&economia.blog

di Michele Castaldo

È appena uscito il libro di Ernesto Screpanti L’imperialismo globale e la grande crisi. Lodevolmente, è stato pubblicato in edizione online scaricabile gratis. È un tentativo di spostare avanti, adeguandolo ai tempi, il dibattito sull’imperialismo. La globalizzazione sta realizzando una nuova forma di dominio imperiale nella quale il grande capitale multinazionale, attraverso il mercato, priva di sovranità e di autonomia politica le organizzazioni locali, i sindacati, i partiti e le istituzioni deliberative. La grande crisi del 2007-13 ha fatto esplodere le contraddizioni tra stato e capitale. Nello stesso tempo sta accelerando il processo di affermazione dell’imperialismo globale. Si configura come una crisi di transizione fra il sistema tardo-novecentesco delle relazioni e dei pagamenti internazionali e un nuovo sistema basato sul multilateralismo, su un Super-Sovereign Currency Standard e su una forma del tutto inedita del potere mondiale del capitale. Ho rivolto delle domande a Ernesto Screpanti per chiarire alcune questioni cruciali e per portare alla luce il senso in cui la sua analisi, che si presenta come altamente innovativa pur entro la tradizione marxista, ci permette di capire l’attuale fase dell’accumulazione capitalistica.

D) La differenza tra le tue tesi e quelle di Lenin sono legate a una nuova fase dell’accumulazione del capitale o si tratta di una diversa impostazione teorica nell’affrontare la questione?
R) Dai tempi di Lenin è cambiata non solo la fase dell’accumulazione, ma anche la forma del capitalismo. L’analisi di Lenin era adeguata per il capitalismo trustificato dell’era degli imperi coloniali. Il capitale di ogni nazione cresceva coi profitti monopolistici entro un mercato parzialmente protetto, e spingeva lo stato a espandere il mercato nazionale con l’impero. Oggi il grande capitale ha travalicato i confini degli imperi e si accumula su scala mondiale senza riguardo agli interessi nazionali di questo o quel paese, neanche quelli in cui risiedono le case madri delle imprese multinazionali. Degli imperi nazionali costituirebbero delle limitazioni geografiche all’espansione commerciale e all’accumulazione. Per questo il grande capitale di oggi è libero-scambista. La sua ideologia è quella della globalizzazione come processo di abbattimento delle barriere protezionistiche, mentre quella del capitale dei tempi di Lenin era il nazionalismo protezionistico. La mia impostazione metodologica è la stessa di Marx, e parte dalla tesi che la tendenza del capitale a proiettarsi sui mercati mondiali è una proprietà intrinseca dell’accumulazione capitalistica e non dipende da un difetto distributivo, come invece argomentava Hobson, il quale individuava la radice dell’imperialismo nella cattiva distribuzione del reddito e nella conseguente tendenza al sottoconsumo.  Lenin, pur riprendendo molte tesi di Hobson, non dà importanza al sottoconsumo e, sulla scorta di Hilferding, sviluppa un’analisi più generale. Certamente è più marxista dell’economista laburista inglese: non pensa che l’imperialismo possa essere combattuto con una politica riformista di redistribuzione del reddito.  La mia analisi non è in contrasto con quella di Lenin. È una generalizzazione della teoria dell’imperialismo e un adeguamento alla fase attuale dell’accumulazione.
D) Volendo fissare a scala storica il rapporto dei due conflitti mondiali con l’accumulazione capitalistica, questa era in espansione o in depressione quando esplosero i due conflitti?
R) La prima guerra mondiale scoppiò al culmine di un’onda lunga di crescita della produzione e del commercio internazionale. Scoppiò perché gli imperi coloniali avevano raggiunto il massimo di espansione geografica ed erano arrivati a un punto di conflittualità tale che solo una guerra poteva ridisegnarne i confini e i rapporti di potere. Tra le due guerre ci fu invece un periodo di depressione, di forte protezionismo, di svalutazioni e deflazioni competitive, specialmente dopo la crisi del ’29. Il sistema dei pagamenti internazionali vigente prima della prima guerra mondiale era entrato in crisi, il Gold Standard creava più problemi di quanti ne risolveva, la Gran Bretagna aveva perso l’egemonia economica e la capacità di regolare l’economia mondiale con la sua politica monetaria, ma gli Stati Uniti non erano ancora pronti a subentrare. Quindi il sistema dei pagamenti internazionali entrò nel caos, e ciò acutizzò alcune contraddizioni inter-imperiali. Il Giappone era uscito dalla crisi del ‘29 adottando forti politiche di riarmo e avanzava ambizioni imperiali sul Pacifico che gli americani non potevano tollerare. In Europa la Germania era uscita dalla crisi prima degli altri paesi, e anch’essa con delle politiche di riarmo. L’Unione Sovietica non aveva risentito della crisi e cresceva a ritmi sostenuti, suscitando grandi preoccupazioni in tutte le grandi potenze imperialiste. In altri termini il superamento della crisi del ’29 aveva consentito alla Germania, al Giappone, all’Unione Sovietica e agli Stati Uniti di crescere in potenza economica, e aveva declassato le potenze inglese e francese. D’altronde la prima guerra mondiale non aveva risolto i conflitti inter-imperiali europei, né aveva fatto emergere una super-potenza capace di sostituirsi alla Gran Bretagna. Così i conflitti sono riesplosi. Insomma la seconda guerra mondiale si configura come una ripresa della prima, tanto che alcuni parlano di “guerra dei trent’anni”.
D) Potresti chiarire meglio la tesi secondo cui un paese di giovane capitalismo ma di grandi dimensioni, come per esempio la Cina, soffre meno l’influsso depressivo della globalizzazione e del dominio delle multinazionali rispetto a paesi minori come per esempio la Siria, la Tunisia o l’Egitto?
R) La Cina, dopo un periodo di accumulazione primitiva durato quasi mezzo secolo, si è aperta agli scambi internazionali e  ha potuto far trainare la sua crescita dalle esportazioni. Ha usufruito di vantaggi competitivi connessi al basso costo del lavoro e alle deboli politiche ambientali. Tuttavia non ha adottato l’ideologia neoliberista. Il governo ancora dirige l’economia nazionale: con le politiche monetarie(L’80% del sistema bancario cinese è controllato pubblicamente); con le politiche fiscali (ad esempio ha risentito poco della crisi dei subprime perché ha adottato politiche fiscali espansive, compensando la diminuzione delle esportazioni con un aumento dei consumi pubblici); con le politiche industriali, che mirano ad attrarre investimenti esteri mentre favoriscono al formazione di grandi agglomerati industriali nazionali, e che sostengono gli investimenti pubblici e privati nella ricerca scientifica e tecnologica; con le politiche commerciali verso il Sud del mondo, in cui i cinesi propongono ai singoli paesi accordi bilaterali di baratto che non sono in linea con l’ideologia libero-scambista del WTO. Tuttavia il fattore più importante del successo cinese è che le politiche governative si trovano in sintonia con gli interessi del grande capitale multinazionale, i cui investimenti diretti esteri in Cina e le cui esportazioni di merci dalla Cina sono incoraggiati e favoriti. Tutti i paesi emergenti godono di questi vantaggi, ma quelli piccoli che hanno liberalizzato completamente i movimenti di capitale, e che dipendono dagli investimenti esteri speculativi, sono più vulnerabili alle crisi finanziarie, e i loro governi hanno meno margini di autonomia politica.
D) Sembra di capire che una tua tesi, in sintonia con Marx, è che l’imperialismo abbia creato nei paesi di giovane capitalismo solo il proletariato, che il movimento dei capitali nel suo insieme non abbia consentito il formarsi di più classi sociali al di sopra del proletariato, ovvero di una vera e propria borghesia indigena. Da alcuni dati empirici, relativi a Cina, India, Brasile, ma anche Siria, Libia, Tunisia, Algeria e cosi via, sembrerebbe che le cose non stanno così. Puoi chiarire meglio l’argomento?
R) La globalizzazione fa aumentare la disuguaglianza economica in tutto il mondo, fa diminuire la quota salari sul reddito nazionale e aumentare la concentrazione del reddito e della ricchezza nelle mani dei grandi capitalisti finanziari e industriali. Tuttavia, per quanto riguarda le classi medie, ha effetti diversi nei diversi paesi. In quelli avanzati, in cui l’accumulazione rallenta, le classi medie s’impoveriscono e, in seguito alla crisi 2007-13, larghi strati di piccola borghesia si stanno proletarizzando. In quelli emergenti invece, a causa del forte sviluppo economico, le classi medie tendono a crescere sia in ricchezza che in numerosità.
D) Alexander Gerschenkron, in Il problema storico dell’arretratezza economica, formula questo tipo di interrogativo: “è stato il capitalismo a ‘creare’ lo spirito del capitalismo o è stato lo spirito capitalista a ‘creare’ il capitalismo? Puoi fornire una tua risposta?
R) Sono propenso a credere che, nonostante alcune ideologie religiose (come il calvinismo) abbiano favorito la formazione del capitalismo moderno, tuttavia è lo sviluppo materiale del capitalismo che ha fatto emergere le ideologie che lo sostengono. E le ideologie possono essere le più diverse. Anche il cattolicesimo può essere adattato per servire l’accumulazione del capitale, come dimostra il successo del capitalismo italiano dei secoli XIII-XV e i miracoli economici italiano e francese del secondo dopoguerra. Anche lo stalinismo ha potuto essere utilizzato per sostenere l’accumulazione del capitale (nei sistemi a capitalismo di stato).
D) Secondo un concetto di Vico, ripreso da Lafargue in Il determinismo economico di Marx, esiste una legge fondamentale dello sviluppo delle società secondo cui tutti i popoli raggiungono le stesse tappe storiche, qualunque siano le loro origini etniche e il loro habitat geografico. Possiamo affermare a questo stadio di sviluppo dei rapporti sociali a livello mondiale che il capitalismo si è ormai imposto in tutto il pianeta con le sue leggi in maniera irreversibile?
R) Non tutte le nazioni raggiungono il capitalismo con le stesse tappe e con le stesse modalità. Basti confrontare la Gran Bretagna e la Russia. Ma è vero che tutte hanno ormai raggiunto o stanno per raggiungere la fase di piena affermazione del capitalismo. Storicamente si è verificato un processo di convergenza al capitalismo attraverso diverse fasi, diverse istituzioni, diverse ideologie, diverse politiche. Il capitalismo del grande capitale multinazionale oggi domina incontrastato tutto il globo, che tende a rendere sempre più omogeneo in termini di struttura produttiva, di composizione sociale e di egemonia ideologica. E’ irreversibile? Certamente lo è rispetto alle forme economiche precedenti. Ma non c’è ragione di credere che sia eterno.
D) Il cuore del libro mi pare risiedere nella tesi sull’impersonalità dei capitali, sulle leggi naturali che ne regolano il funzionamento del moto, sull’accettazione di queste da parte del personale burocratico, amministrativo, politico  e cosi via.  Ma i luoghi fisici potranno essere soltanto le sedi delle multinazionali e dei grandi istituti finanziari?
R) Quando parlo di “Leggi naturali” ci metto sempre le virgolette. Sono “naturali” nel senso che non risultano da un piano centrale, né dai complotti di alcuni circoli esclusivi (Trilaterale, Bildenberg ecc.). Benché ci siano indubbiamente alcuni centri di potere che cercano di dirigere l’orchestra, nessuno è in grado di dominarla. Le leggi “naturali” che regolano i mercati internazionali sono la risultante inintenzionale delle azioni intenzionali di miriadi di agenti decisionali (i manager delle grandi multinazionali in primis, ma anche le lobby, i dirigenti degli organismi economici internazionali, i governatori di alcune banche centrali, i capi di alcuni governi). Gli agenti decisionali sono così tanti e così “piccoli” rispetto al concerto complessivo, che nessuno di essi (e nessuna loro coalizione) riesce a dettar legge a tutto il sistema. Le leggi che lo regolano tuttavia sono coerenti, per il semplice fatto che (quasi) tutti gli agenti perseguono, direttamente o indirettamente, lo stesso obiettivo: l’accumulazione del capitale. Né si deve credere che la crescita delle dimensioni delle imprese e la loro tendenza a creare potere oligopolistico possa portare prima o poi alla formazione di pochi grandi centri decisionali cartellizzati, come riteneva Kautsky. Le multinazionali crescono di scala ma anche di numero. Nel 1976 ce n’erano circa 11.000. Nel 2010 sono diventate 103.788. La forma di mercato prevalente nel capitalismo contemporaneo non è il monopolio, bensì la concorrenza oligopolistica.
D) Ad un certo punto affermi che “La legge del valore è una legge fondamentale del capitalismo. E’ essa che determina il suo ‘equilibrio sociale’”. Puoi chiarire meglio cosa intendi per “equilibrio sociale”?
R) Il concetto di “equilibrio sociale” è di Marx. Io mi limito a riprenderlo e applicarlo all’analisi del capitalismo contemporaneo. Marx con quel concetto vuol dire che attraverso la concorrenza di mercato il capitale riesce ad allocare il lavoro in modo efficiente, cioè in modo da massimizzare il profitto estraendo dal lavoro il massimo di produttività e pagando il minimo di salario. È un equilibrio di riproduzione, nel senso che vengono eliminate dalla concorrenza le imprese inefficienti e quindi gli usi scarsamente produttivi del lavoro e nel senso che la risultante distribuzione del reddito assicura la riproduzione del capitale su scala allargata. È un equilibrio sociale capitalisticoin quanto determina un rapporto di classe compatibile con il perseguimento della valorizzazione e dell’accumulazione del capitale.
D) “Ebbene – scrivi a pagina 124 - nell’imperialismo globale contemporaneo non si può certo dire che s’è raggiunta la pace mondiale o che si stia realizzando anche solo una vaga tendenza a raggiungerla. Tuttavia ha preso corpo una certa predisposizione collaborativa dei principali stati. Tale predisposizione si manifesta sia nella tendenza a organizzare operazioni militari concertate nei tentativi di aprire i paesi recalcitranti alla penetrazione del capitale, sia negli sforzi più o meno velleitari dei vari G2, G7, G10, G20 volti a predisporre delle politiche economiche concordate. In molti casi entrambe le tendenze sono incoraggiate dal grande capitale. Possono essere favorite dall’azione di potenti lobby capitalistiche nazionali. La cosa interessante è che nel sistema capitalistico globale queste lobby, che siano americane, europee o giapponesi, si lavorano le classi politiche nell’interesse di tutto il capitale multinazionale.” Emergerebbe in questo modo una sorta di equilibrio di “paura” da parte delle varie componenti lobbystiche che  tendono all’accordo contro i paesi più deboli piuttosto che sfidare il concorrente per sbranare il dominato? Insomma gli imperialisti più forti si sono indeboliti e quelli meno forti si sono rafforzati al punto da tenersi in “pauroso”equilibrio come gli ultimi accadimenti per la Siria dimostrerebbero?
R) I conflitti politici sono determinati innanzitutto dalle ambizioni geopolitiche delle grandi potenze, le quali esprimono gli interessi di potere delle classi politiche che governano gli stati. Non dipendono direttamente dagli interessi del capitale. Questi ultimi si fanno sentire attraverso l’azione delle lobby, le quali però non sempre riescono a determinare direttamente l’azione degli stati. Tuttavia accade che, alla lunga, il conseguimento degli obiettivi politici delle grandi potenze viene piegato, attraverso il mercato, a servire gli interessi del grande capitale globale. Oggi viviamo in un’epoca in cui l’unilateralismo americano segna il passo, incalzato com’è dalla crescita della potenza economica dei paesi emergenti. I recenti avvenimenti della guerra in Siria si capiscono in quest’ottica. I russi appoggiano Assad soprattutto per conservare le proprie basi militari nel Mediterraneo. Gli americani vorrebbero intervenire in Siria sia per contrastare i russi sia per favorire la politica di Israele, che vorrebbe cronicizzare la guerra civile in Siria in modo da indebolire il suo principale nemico. Gli interessi del capitale russo non sono in cima alle preferenze di Putin, così come quelli del capitale americano non sono in cima alle preferenze di Obama. Non sappiamo come andrà a finire, ma non si può escludere che gli accordi delle grandi potenze portino all’apertura dei mercati e dei porti siriani alla penetrazione del grande capitale americano, russo, cinese, europeo ecc. In tal caso gli interessi politici delle grandi potenze sarebbero stati piegati a servire gli interessi economici del capitale multinazionale.
D) A pagina 136 poni in evidenza il ridursi dello stato a mera funzione di poliziotto per il mantenimento dell’ordine sociale e addirittura a una aperta contraddizione tra le multinazionali e gli apparati burocratici e politici – dunque anche  partiti e sindacati – dello stato nazionale. La domanda è d’obbligo: ma esisterebbe una linea di tendenza verso il superamento degli stati nazionali, una sorta di estinzione di confini geografici per arrivare a istituzioni internazionali derivanti e perciò immediatamente controllati dalle multinazionali, insomma il rapporto esistente a livello nazionale si accrescerebbe a livello internazionale polverizzando in questo modo il ruolo delle burocrazie nazionali degli stati?
R) Il potere che il capitale esercita sugli stati deriva dalla capacità degli investimenti diretti esteri e di portafoglio di muoversi liberamente nei mercati mondiali. Gli stati, così come i sindacati e le grandi organizzazioni politiche nazionali, sono messi sotto ricatto: o si abbassa il costo del lavoro, la pressione fiscale sulle imprese, il costo sostenuto dalle imprese per la tutela ambientale e la difesa dei diritti dei lavoratori e dei cittadini, oppure il capitale delocalizza. Ciò genera crisi fiscale dello stato, riduzione dello stato sociale e redistribuzione del reddito dai salari ai profitti. Lo stato perde la capacità di agire come “capitalista collettivo nazionale”, cioè di creare un blocco sociale che coinvolga tutte le classi nella difesa degli interessi “nazionali”. Le politiche fiscali degli stati sono sottoposte a vincoli così stretti che i governi possono decidere solo come distribuire i tagli di benessere sociale. In queste condizioni s’inaspriscono le spinte alla conflittualità e i governi nazionali sono indotti a svolgere il ruolo di repressione e controllo del conflitto, cioè ad assumere esclusivamente la funzione di “gendarme sociale”. Il grande capitale multinazionale mira a una governance globale senza sovrano, cioè un governo del mondo assicurato dai mercati, non dai parlamenti. L’ideologia neoliberista dello “stato minimo” si è infine concretizzata in un sistema in cui non esiste uno stato globale, mentre gli stati nazionali sono ridotti a svolgere solo una funzione di disciplanamento della classe operaia e di repressione poliziesca interna. Per questo non esiste alcuna tendenza al superamento degli stati nazionali e alla formazione di organismi di governo sopranazionali. Le multinazionali non sanno che farsene dell’ONU. Né hanno bisogno di forze armate dell’ONU. Le azioni di polizia locale sono assicurate dagli stati nazionali. Quelle di apertura dei “paesi canaglia” alla penetrazione del capitale sono svolte dalle forze armate degli Stati Uniti e dei suoi alleati. Lo “sceriffo globale” produce un bene pubblico nell’interesse di tutto il capitale mondiale, meglio di quanto possa fare l’ONU, e per il semplice fatto che le forze armate americane non sono controllate da un parlamento mondiale.
D) Le cause fondamentali della crisi attengono all’economia reale – scrivi a pag. 145. Stante dunque la legge del valore, siamo in presenza di una sempre più accentuata caduta tendenziale del saggio di profitto a livello globale?
R) Non so se oggi il saggio di profitto globale stia cadendo. È difficile misurarlo. Come calcoliamo il valore del capitale e dei profitti cinesi, russi, indonesiani? Come li omogenizziamo al livello mondiale? In Dollari, in Parità di Potere d’Acquisto, in valute nazionali? E nei profitti includiamo anche le rendite finanziarie e speculative incassate dalle multinazionali, i guadagni di capitale incassati dai manager con lestock option, le entrate pubbliche fornite dalle imprese statali? E ci mettiamo anche i profitti delle banche, dei fondi speculativi, delle assicurazioni, dei conduit? E gli stipendi dei grandi manager li consideriamo profitti o reddito da lavoro dipendente? E i portafogli finanziari degli speculatori, delle banche e delle imprese industriali li consideriamo  capitale? E il valore del capitale e delle attività che lo rappresentano lo calcoliamo ai costi storici, al valore nominale o al valore di mercato? La scelta che si fa riguardo al modo di trattare tutte queste variabili influenza il tasso di profitto rilevato, per cui chi vuole dimostrare che è caduto potrebbe riuscirci, ma anche chi vuole dimostrare che è aumentato. Quello che si sa per certo comunque è che la quota salari sul reddito nazionale sta diminuendo in quasi tutti i paesi del mondo, avanzati, emergenti e in via di sviluppo. D’altra parte la ricerca empirica ha dimostrato che anche la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi sta aumentando, così come sta aumentando la concentrazione della ricchezza nelle mani dei capitalisti e degli speculatori. Dubito che questa tendenza implichi la caduta del saggio di profitto.  La legge del valore di per sé non può far diminuire il tasso di profitto, perché serve la valorizzazione del capitale. E’ probabile che il saggio di profitto sia diminuito negli ultimi decenni in alcuni paesi avanzati, ma questa non è la causa della globalizzazione, invece ne è la conseguenza. Non sembra comunque che il saggio di profitto stia diminuendo a livello globale.
D) Nella conclusione del V capitolo, a pag. 169, affermi: “Oggi i governi dei paesi avanzati sembrano incapaci di capire e fronteggiare il problema andando alle radici, e quindi di risolverlo”.  Spontanea la domanda: possono governi diversi fronteggiare e risolvere problemi strutturali dell’economia reale? Se si, in che modo?
R) La parola da sottolineare in quella frase è sembrano. Nel libro spiego che in realtà dietro l’incapacità di risolvere la crisi in Europa c’è una precisa volontà di usarla per fare le cosiddette “riforme strutturali”, cioè tagli al costo del lavoro, privatizzazioni di imprese pubbliche e di risorse comuni ecc. Ma facciamo l’ipotesi che i governi volessero veramente risolvere la crisi migliorando le condizioni di vita dei popoli e dei lavoratori. Potrebbero farlo? La mia tesi è che nei paesi piccoli, come l’Italia, la Francia, la Gran Bretagna, il Giappone, non possono farlo. Prendiamo il Giappone, in cui Il governo Abe sta cercando di rilanciare l’economia con una politica fiscale e monetaria di tipo keynesiano. Ebbene la stessa politica prevede un attacco pesante ai salari, con l’inflazione scatenata dalla svalutazione dello Yen e con forti aumenti delle imposte indirette. È inevitabile, se le merci giapponesi devono diventare competitive con quelle cinesi. Alla fine si scoprirà che quella politica avrà fatto aumentare un po’ il tasso di crescita del PIL, ma avrà fatto diminuire ulteriormente la quota salari sul reddito nazionale. Né si può escludere, come sostengono alcuni, che porti prima o poi allo scatenamento di una grave crisi. Nei grandi paesi emergenti invece i governi hanno maggiori spazi di manovra perché quelle economie si trovano in sintonia con gli interessi del grande capitale multinazionale e possono godere dei vantaggi del basso costo del lavoro e dell’attrattività per gli investimenti diretti esteri. In Cina infatti il governo ha reagito alle crisi dei subprime e dell’euro adottando delle politiche keynesiane che hanno in parte sostituito le esportazioni con i consumi interni, soprattutto pubblici. Anche per la Cina tuttavia c’è il rischio dello scoppio di una grande crisi (forse per l’esplosione di una maxi-bolla immobiliare). Gli Stati Uniti hanno reagito alla crisi dei subprime con timide politiche fiscali espansive e audaci politiche monetarie. C’è la ripresa del PIL, ma anche una tendenza alla crisi fiscale dello stato, oltre al gonfiamento di bolle speculative che creano instabilità mondiale. Vedremo come andrà a finire. La mia previsione è che la ripresa americana sarà debole e di breve durata. E veniamo all’Europa. Forse questa è l’unica economia in cui una politica keynesiana espansiva potrebbe avere successo. Ma sottolineo forse. Se la Germania espandesse fortemente la sua spesa pubblica, portando l’economia alla piena occupazione e la bilancia commerciale in deficit, cioè assumendo il ruolo di locomotiva, tutte le economie del continente si rimetterebbero in moto. La bilancia commerciale europea tenderebbe al disavanzo cronico, ma questo non sarebbe un grosso problema, visto che l’euro verrebbe usato come moneta di riserva internazionale a fianco del dollaro. L’euro stesso avrebbe una tendenza alla svalutazione, che potrebbe essere controllata dalla BCE in modo da renderla non dirompente. La svalutazione stessa sosterrebbe le esportazioni e quindi la crescita del PIL. Perché l’Europa potrebbe avere questo privilegio politico mentre gli Stati Uniti lo stanno perdendo? Perché l’economia europea resta la più grande del mondo dal punto di vista commerciale. Oggi, se la Germania fosse capace di sostituirsi agli Stati Uniti nel rapporto privilegiato con la Cina, potrebbe svolgere insieme a questo paese il ruolo di motore dell’accumulazione mondiale. Ma allora perché le classi dirigenti tedesche non si muovono in questa direzione? Perché sono stupide? No. Perché in questa fase vogliono sfruttare la depressione e la crisi per fare le “riforme strutturali” in tutta Europa.
D) Accumulazione e forza dell’imperialismo. Nel VI capitolo, a pag. 183, affronti la tendenza all’indebolimento del signoraggio degli Usa, ovvero alla messa in discussione delle tre funzioni storiche su cui quel paese ha dominato per molti anni: banchiere, motore dell’accumulazione e sceriffo. Potresti precisare il rapporto crescente o decrescente degli investimenti Usa negli armamenti in rapporto alla propria decrescita dell’accumulazione? Secondo l’Engels dell’Antidhuring la forza di uno stato, di una nazione, è l’espressione concentrata della forza dell’economia a un certo stadio di sviluppo. Ne dovrebbe conseguire, con la decrescita dell’accumulazione, una decrescita degli investimenti negli armamenti, se è vero che ‘la moneta non figlia valore’ per dirla con Rosa Luxemburg, così come emerge a pag. 202 circa l’uso smodato della pompa monetaria.  A che punto è dunque quel tipo di rapporto?
R) Gli Stati Uniti stanno perdendo egemonia, e per il semplice fatto che la loro economia ha cessato di essere la più forte del mondo. Sul commercio internazionale pesano il 10%, quando nel 1948 pesavano il 25%. Sul PIL mondiale pesano il 19%, e nel 2010 sono sati superati dalla Cina (22%). Il dollaro è in un lungo trend di svalutazione rispetto allo yuan e all’euro. Le spese militari sono massicce. Nel 2008 costituivano il 17,1% della spesa pubblica, la quota più alta di tutti i capitoli di spesa, (le spese in istruzione costituivano il 3,2%). Il PIL non cresce abbastanza, poiché i salari e i consumi ristagnano, mentre le imprese tendono a delocalizzare gli investimenti. Quindi gli Stati Uniti, se vogliono continuare a fare lo sceriffo globale, dovranno aumentare il peso delle spese militari sul Prodotto Nazionale. Cosa che però farebbe aggravare i problemi di bilancio e la tendenza alla crisi fiscale dello stato. La bolla immobiliare d’inizio decennio ha consentito di sostenere lo sviluppo, ma ha generato un grave deficit della bilancia commerciale e quindi una forte crescita dell’indebitamento estero, e poi ha portato alla grande crisi. Insomma gli Stati Uniti stanno vivendo in una contraddizione insanabile. Se restano al servizio del capitale multinazionale, continuando a svolgere la funzione di sceriffo globale, aumentano il debito pubblico, il debito privato (delle imprese e delle famiglie) e il debito estero, sprofondano nella crisi fiscale, e il dollaro perde valore e prestigio. Se vogliono evitare tutti questi problemi devono rinunciare all’egemonia. Il governo non può più svolgere la funzione di motore dell’accumulazione mondiale. Tendenzialmente non potrà neanche svolgere bene la funzione di banchiere mondiale, visto che in tale veste genera più crisi che sviluppo. E comunque il mantenimento del signoraggio del dollaro dipende sempre più dalla benevolenza della Cina e di altri grandi paesi emergenti, che acquisiscono nei confronti degli USA un crescente potere di ricatto monetario.
D) Punto complicato, circa l’oggettiva collusione di rapporto tra Usa e Cina, ove sostieni che la Cina ha alimentato la bolla statunitense. Ora se lo scoppio della bolla ha significato l’evaporazione di valore precedentemente accumulato – in Cina, con lo sfruttamento del  proletariato indigeno di quel paese –  quali potranno essere le conseguenze rispetto all’accumulazione in termini di valore, il non ritorno di quei prestiti sia in Cina che negli Usa stessi?
R) Per il momento sembra che la Cina non voglia rovesciare il tavolo. Sta consentendo una sistematica rivalutazione dello yuan rispetto al dollaro, così favorendo la ripresa delle esportazioni e della produzione americane. Accetta di perdere valore delle proprie riserve, e continua a finanziare l’economia americana seppure a ritmi meno sostenuti che nel passato. Nello stesso tempo, senza troppo rumore, si sta sostituendo agli Stati Uniti come potenza dominante in Asia, Africa e America Latina. Inoltre sta rinsaldando i propri legami diplomatici con la Russia e la Germania.  Sul piano monetario non ha fatto mistero della propria intenzione di superare il Dollar Standard, ad esempio con la trasformazione del Fondo Monetario Internazionale in una vera banca centrale mondiale che emetta una moneta (diritti speciali di prelievo) che gradualmente sostituirà il dollaro. Peraltro sta espandendo enormemente i propri investimenti diretti esteri, i quali nel 2030 (secondo una previsione della Banca Mondiale) saranno il 30% di quelli globali! Insomma la Cina sta lavorando ai fianchi. Quando arriverà l’uppercut, gli Stati Uniti perderanno il signoraggio del dollaro e la Cina rileverà (forse insieme all’Europa) la funzione di motore dell’accumulazione mondiale. Comunque anche la Cina ha i suoi problemi. La grande crisi 2007-13 non ha generato una recessione nella sua economia, ma ha fatto diminuire il tasso di crescita del PIL dal 12% al 7,5%. Nel 2013 sarà probabilmente ancora più basso.  Si tenga presente che la Banca Centrale cinese ha calcolato che un tasso di crescita di almeno l’8% è necessario per la stabilità sociale interna. Al disotto di quel tasso la disoccupazione aumenta in modo preoccupante. La conflittualità operaia è endemica e crescente. Nel 2010 è partita un’ondata di scioperi senza precedenti che è continuata fino a tutto il 2012. E sono azioni industriali spontanee e di massa che scavalcano il sindacato ufficiale e che tendono ad assumere contorni illegali ed effetti politici dirompenti. Questo è il tallone d’Achille della Cina: una classe operaia supersfruttata (dalle imprese multinazionali, ma anche da quelle nazionali e da quelle statali). Gli operai vengono disorganizzati dal sindacato ufficiale e quindi devono esprime le loro rivendicazioni sfidando l’ordine costituito. Non è da escludere che il disegno neo-imperiale e mercantilista della Cina venga messo in crisi da una nuova “rivoluzione culturale”.
D) Veniamo alla madre di tutte le questioni, ovvero se questa crisi ha come sbocco possibile o addirittura obbligato una guerra mondiale come lo furono la Prima e la Seconda.   “…Nel nord del mondo – scrivi a pag. 226 – la disoccupazione è continuata ad aumentare. Se nel 2013 gli speculatori realizzeranno che, trascinata verso il basso da Eurolandia o dal Giappone o addirittura la Cina, l’economia dei paesi  avanzati continuerà a ristagnare, è possibile che si verifichi a breve una nuova ondata di crash finanziari. Allora tutti i nodi dei contrasti economici mondiali verranno al pettine repentinamente e il riaggiustamento dei rapporti di forza tra blocchi politici continentali potrebbe essere brusco. Si tratta di rivalità inter-imperiali insanabili, di quelle che sboccano in grosse conflagrazioni belliche come prima e seconda guerra mondiale? Non credo. Oggi esiste il grande capitale globale. S’incarna in imprese multinazionali che hanno il mondo intero come campo d’azione. E tali imprese, che siano americane, europee, giapponesi, cinesi, hanno tutte un interesse comune all’abbattimento delle frontiere nazionali, cioè alla liberalizzazione dei mercati”. Si tratta di una tesi abbastanza ardita, perché assegnerebbe al meccanismo oggettivo del moto capitalistico l’attenuazione della concorrenza fra nazioni, il che potrebbe anche starci; ma la concorrenza fra le merci, e dunque fra gli stessi gruppi dell’oppressione del capitalismo globale, in base a quale principio ridurrebbe fino ad annientarli i motivi della guerra?
R) Oggi le spinte alla guerra tra grandi potenze provengono più dalle ambizioni geopolitiche degli stati che dagli interessi del capitale multinazionale. La crisi ha accentuato la conflittualità tra stati. Una guerra mondiale è già in atto, ma è una guerra valutaria: Stati Uniti, Gran Bretagna e Giappone hanno usato svalutazioni competitive (L’Europa ha adottato politiche di deprezzamento reale) con cui hanno cercato di scaricare sui paesi emergenti l’onere del rilancio della domanda mondiale. Ma non ha funzionato, in quanto ha scatenato delle crisi valutarie in molti di quei paesi (specialmente India, Brasile, Indonesia) spingendoli  al rallentamento della crescita. Tanto che la Federal Reserve ha dovuto rivedere i suoi programmi di “assottigliamento” delle politiche di moneta facile. Una guerra mondiale vera e propria mi sembra altamente improbabile. Più facile una qualche guerra per interposta persona in Medio Oriente, oppure la continuazione di una guerra economica di tipo mercantilista, combattuta col protezionismo e le svalutazioni e le deflazioni competitive. Il capitale globalizzato non gradisce questo tipo di guerra, perché riduce gli scambi internazionali e quindi i profitti. Per lo stesso motivo non gradirebbe una devastante guerra mondiale distruttiva.  Il capitale multinazionale non si identifica con gli interessi delle classi politiche nazionali. Non è la competizione tra nazioni che gl’interessa, ma la concorrenza oligopolistica tra le imprese sui mercati delle merci e del controllo societario, e la concorrenza a cui i mercati sottopongono gli stati. Questo tipo di guerra non si fa coi carri armati e i bombardamenti “chirurgici”, bensì con le innovazioni, la pubblicità, il marketing, il potere di mercato, la corruzione dei politici ecc. Gli stati servono, certamente, ma più per abbassare il costo del lavoro e assicurare la disciplina sociale che per erigere e allargare le barriere e i confini degli imperi nazionali.
D) In ultimo, nelle conclusioni, delinei una linea di tendenza verso una chiusura della forbice tra la condizione del proletariato delle metropoli e quello dei paesi emergenti o di giovane capitalismo, e l’estinzione dell’aristocrazia operaia, fino a ipotizzare quasi una tendenza verso un’oggettiva unità internazionale del proletariato gravida di possibili sbocchi rivoluzionari. Detto altrimenti: il capitalismo come Sistema Sociale e moto-modo di produzione si avvierebbe per sue stesse cause e leggi di funzionamento ad una sorta di crisi generale obbligando in questo modo il proletariato in quanto riflesso agente ad una azione rivoluzionaria dagli esiti tutt’altro che capitalistici? 
R) La contraddizione fondamentale del capitalismo è quella di classe. La globalizzazione la sta esasperando, in quanto tende a redistribuire reddito dai salari ai profitti e ad aumentare la povertà relativa del proletariato. Nello stesso tempo sta livellando su scala mondiale le condizioni di lavoro e i salari (diretti, indiretti e differiti). Sta creando un proletariato mondiale sempre più omogeneo in termini di livelli di sfruttamento e  di destituzione politica. Non solo, ma sta evirando le organizzazioni sindacali e riformiste del movimento operaio nei paesi avanzati, perché riduce la massa di valore che può essere usata per sostenere politiche d’integrazione operaia nei blocchi sociali capitalisti. E mentre si riducono fortemente gli spazi di manovra per le politiche riformiste nazionali, la conflittualità sociale aumenta in tutto il mondo. Non è detto che non possa sboccare in una grande ondata insurrezionale mondiale.