venerdì 30 maggio 2014

Il 40% è troppo. Pericoli crescenti

Diario 263

Il 40% è troppo. Pericoli crescenti

Mi ha molto, ma molto, preoccupato la dichiarazione del vincitore Renzi quando ha detto il PD deve allargarsi fino a diventare il partito della nazione. Evidentemente il 40% dei voti dà alla testa.

Il partito della nazione è il contrario della democrazia, sia perché rende anche impossibile quel brutto esemplare di democrazia che è l’alternanza, sia perché cancella l’articolazione politica (e democratica) delle forze sociali. Il partito della nazione si traduce come un partito della totalità. Un partito e un uomo prende tutto. Il 40% ha fatto male anche alle forze articolate, si fa per dire, del PD, la versione del salire sul carro del vincitore viene oggi tradotto nel “il partito è di tutti”, anche il ribelle Citati chiede un posto in segretaria (perché negarglielo, non potrà fare niente di male). 

Ma la sindrome imperversa su tutto l’arco parlamentare: il partito di Monti si è squagliato, e le gocce premono per essere assorbite nella spugna renziana (del resto alcune di queste gocce da quel partito provenivano e si erano accasate con Monti farneticando di un centro trionfante). 

Non mi meraviglierei se anche alcuni orfani di Berlusconi, invece di bussare alla porta di Alfano bussassero a quella di Renzi.

Ma quello che intristisce e fa cadere le braccia, come si dice, è l’atteggiamento di una parte (solo una parte?) di SEL. Pare che ci sia una parte che vorrebbe che SEL entrasse al governo come premessa per una confluenza nel PD (o viceversa, non fa differenza). Si poteva sperare, come ho scritto in precedenza, che a partire del risicato successo della lista per l’Europa, risicato ma niente affatto scontato, quell’area, vista l’aria che soffiava dalla parte del PD, si impegnasse a fare qualche cosa di diverso dall’entrismo (spettacolo già visto in altre occasioni). Si poteva sperare ma non era certo che ci si poteva credere. Così mi pare è.

La “democrazia” non è volti sorridenti e soddisfatti, non è promessa di riforme forse utili, del pensiero dell’uomo al comando o anche del “suo” partito, vive di dialettica, di conflitti, di antagonismi, di differenze, di diverse opzioni sociali, di diverse visioni del mondo, cioè di un confronto non solo di interessi ma anche di idee e di prospettive. Il coltivare gli interessi può generare mostruosità, Certo che la situazione attuale vive dell’orgia della governabilità, cioè non tanto di un punto di equilibrio temporaneo tra diversità, ma di una prevaricazione (fosse anche istituzionalmente garantita). 

I tempi che ci vengono incontro sono molto instabili, essi meriterebbero un surplus di democrazia, ma la malattia di questa, dichiarata da tutti i medici, almeno in Italia, sembra adottare la cura dell’unanimismo. Brutto, brutto temporale.

Del resto, e questo è l’altro grande problema, quando l’alternativa si focalizza tra M5* e FI, non c’è scampo. 

Si può sperare solo in una pioggia torrenziale che spazi via i miserabili, ma possenti, ripari costruiti con l’unanimismo.




divendres, 30 maig de 2014

Innovació i conflicte social: Can Vies com a símptoma

Els incidents d’aquests darrers dies en el barri de Sants i en diversos barris de Barcelona arran del desallotjament de Can Vies evidencien, més allà de la gravetat dels fets concrets, dues qüestions principals: per un costat, la creixent distància de sectors significatius de la ciutadania envers la política institucional; per l’altre, la importància que prenen les iniciatives d’innovació social en l’actual conjuntura de crisi econòmica i social.
Comencem per aquest darrer tema. En un context en el les administracions públiques –per impotència o per pròpia voluntat- renuncien a satisfer les promeses de l’Estat del Benestar, les iniciatives ciutadanes destinades a fer front a la crisi i els seus efectes prenen una importància creixent. Com ja hem tingut ocasió de comentar aquí, aquestes iniciatives són de dos tipus: unes prenen formes caritatives i solidàries amb l’objecte, sobretot, de pal·liar les situacions de privació material; d’altres, sense renunciar a aquesta tasca solidària, tracten, a més, d’apoderar les comunitats locals per tal de reclamar els seus drets i per construir allò que podrien ser alternatives a l’actual organització social. Aquests darrers són els denominats moviments d’innovació social.
Resulta interessant i significatiu que l’acció d’aquests moviments es centri, sobretot, en l’àmbit de la reproducció social, més que no pas en el món del treball, on per molt de temps s’han concentrat els principals conflictes socials. Això fa que la seva acció tingui una incidència rellevant en allò que podríem considerar els corol·laris urbans de la pugna sobre l’Estat del Benestar: la qüestió de la casa (Plataforma d’Afectats per la Hipoteca), els espais verds (horts urbans), el consum (cooperatives, Som Energia) i els centres cívics (espais autogestionats com la Carboneria o Can Vies).
Al nostre entendre, allò que confereix força i capacitat d’irradiació a aquest moviments en la ciutat és precisament el retrocés de les polítiques socials, per una banda, i la prevalença dels interessos privats en l’àmbit de l’habitatge i de la gestió urbana, per l'altra. La seva naturalesa i evolució no es troba, tanmateix, exempta de limitacions i aspectes polèmics. Com ha mostrat elMapa de la Innovació Social elaborat recentment a la Universitat Autònoma de Barcelona, els moviments d’innovació social tendeixen a radicar-se no tant en aquells barris amb població més pobra i més desproveïts de serveis, sinó en d’altres relativament més benestants que compten amb un més alt capital urbà i major capacitat de reacció (Sants, en seria un bon exemple). D’altra banda, l’efectivitat de les iniciatives s’ha mostrat alta des del punt de vista defensiu (la PAH n’és una bona mostra) i a l’hora de promoure accions significatives, però de cap manera han assolit la dimensió que els permeti substituir les polítiques públiques, ni tan sols compensar els efectes del retrocés d’aquestes.
Són aquestes limitacions les que han portat a afirmar que els conflictes a l’entorn de les iniciatives d’innovació han de ser considerats, de moment, més com a símptoma que com a expressió d’una alternativa en vies de consolidació. Ara bé, hi ha un segon aspecte que fomenta la seva importància i atracció: la creixent desconfiança de parts significatives de la ciutadania envers els canals establerts de representació política i les institucions. En aquest context, els moviments de caràcter disruptiu, exteriors a la política institucional, generen una simpatia i tenen una atracció major. Aquesta circumstància hauria de constituir una crida a la responsabilitat: per a uns, a no malbaratar amb accions estèrils aquesta simpatia i capacitat d’irradiació; per als altres, a no preservar en les polítiques i les pràctiques que contribueixen a anar eixamplant més i més aquella desconfiança. 
[Foto: Wikipedia Commons]

mercoledì 28 maggio 2014

Elezioni europee, sorridere si deve

Diario 262

Elezioni europee, sorridere si deve

Per quello che vale, personalmente sono moderatamente soddisfatto per come è andata la lista di sinistra per Tsipras. Come si erano avviate le cose, avere superato lo sbarramento può essere considerato un successo in sé, ma non conforta la prospettiva. Potrebbe essere un buon segnale se fossero/fossimo capace di una riflessione collettiva, di massa, non di gruppi dirigenti, su quello che è necessario, se fossero/fossimo in grado di annullare ogni egotismo e ogni volontà di prevaricazione, se fossero/fossimo in grado di dismettere il termometro ideologico e mettessero/mettessimo l’intelligenza a ricostruire un corpo di idee fondate a partire dalla “matrice” su quello che dovrebbe servire nella nuova fase della società capitalista. Ne saranno/saremmo capaci? sperare è d’obbligo, ma crederci è difficile. Comunque un risultato che molti di noi ritenevano impossibile è stato realizzato. Bene il sorriso illumini oggi il nostro viso.

Sono molto soddisfatto per la sconfitta del M5*; nonostante la convinzione di alcuni amici, ritengo la sconfitta salutare e forse liberatoria. L’unica contrarietà è nel fatto che Grillo non ha mantenuto la promessa di ritirarsi se avesse perso. Ha perso ma pari che non si ritiri. Non mi convincono gli amici che sottolineano che il voto per Grillo è un voto di protesta e quindi la sconfitta del M5* indebolisce la protesta nel paese. La protesta non è garanzia di nulla. Il M5* è un seminatore di umori di destra, per nulla progressisti, e violenti. La capacità di Grillo deve preoccupare, il suo ridimensionamento mi pare una boccata di aria pulita.

Molto soddisfatto per la sconfitta di FI, Silvio Berlusconi è finito, e la dimensione della sconfitta scongiura la farsa della successione ereditaria. Nel centro destro si apre un terremoto di cui non sono chiari ne prevedibili gli esiti.

Abbastanza soddisfatto e molto preoccupato sono per la limpida e di dimensione non prevista vittoria di Renzi. Oggi Renzi è il meglio che ci possa capitare, ma non è quello che ci vuole, non solo, la dimensione del successo ne rafforza i suoi tratti meno esaltanti. È evidente, tuttavia, che la fonte della mia soddisfazione dovrebbe essere la base per una mia contemporanea soddisfazione (i vasi comunicanti), ma non è così e si tratta non tanto di una contraddizione logica, quanto di un’esigenza politica. Sono inquieto: le politiche economiche e sociali di Renzi non solo non sono convincenti, ma sono, a mio parere, contrarie alle necessità. Il successo, invece, è interpretato come la loro esaltazione. Non si tratta da dove ha pescato i voti per la sua vittoria e quindi del prezzo (di riconoscenza) che dovrà pagare, non credo che Renzi pensi a questo. Egli persegue la sua politica che non garantisce sviluppo equilibrato, redistribuzione, equità, e soprattutto lotta alla finanza. Ora il nemico è l’austerità, va bene, ma non solo non basta ma rischia di essere oltre che un’illusione, un diversivo.

Ci sarebbe da ragionare sul comportamento degli italiani, ma se ne potrà riparlare.

Per oggi sorridiamo.

giovedì 22 maggio 2014

Euro, maledetto euro

Diario 261



Euro, maledetto euro 
I test di ammissione per le facoltà a numero chiuso 
Il processo popolare promesso da Grillo: l’intolleranza al potere 


Euro, maledetto euro

In occasione della campagna elettorale per il Parlamento europeo, spesso viene avanzata una richiesta politica di “abbandonare” l’euro, essendo la moneta unica responsabile del disastro economico del nostro paese. Si fa strada tra le gente il convincimento che tutto il male dipenda dall’euro, mentre tornare alla lira risolverebbe i problemi. 

Si tratta di una proposizione opportunistica, si scarica su una “cosa” che tutti conoscono e maneggiano, appunto l’euro, l’insofferenza per il disaggio economico e sociale senza andare alla ricerca dei veri “responsabili”.

Anche quanti si oppongono a questa “ricetta”, discettano dei meccanismi complessi e non chiari, e forse non previsti, attraverso i quali questa fuoriuscita possa avvenire. Altri, giustamente, sostengono che l’abbandono dell’euro con il ritorno alla lira che dovrebbe permette una svalutazione in modo da aiutare e facilitare le nostre esportazioni, e quindi avviare un nuovo periodo di sviluppo, trova una sua contropartita negativa nell’aumentato costo delle importazioni, ed essendo il nostro paese dipendente dalle importazioni per beni essenziali non solo all’economica ma anche alla vita quotidianità, si pensi solo all’energia, la svalutazione finirebbe per essere negativa e produrrebbe ulteriori processi di redistribuzione negativi. 

Ma tutti questi ragionamenti sono fuffa e soprattutto si vuole consapevolmente nascondere il nodo fondamentale. Si possono dividere le questioni considerando due aspetti principali. 

Da una parte va detto che la crisi da cui non si riesce ad uscire, e non parlo solo dell’Italia, è generato dalla speculazione finanziaria (fare denaro con denaro), e negli strumenti che la finanza internazionale ha “inventato” per poter concentrare sempre più il potere economico in poche mani, il famoso 1%, e scaricare, sul 99% , il costo dell’operazione.

Dall’altra parte le politiche di austerità attivate in Europa (ma non solo) hanno aggravato la crisi per il semplice fatto che esse non erano finalizzate a cercare, in qualche modo, delle soluzioni, anche parziali, alla crisi, ma solo a garantire finanza e banche. Si salvano le banche e si affamano i popoli, questa è la fondamentale guida delle politiche dell’Unione Europea e delle istituzioni pubbliche finanziarie internazionali.

Se ipotizzassimo il nostro paese fuori dallo euro e dalla UE, avremmo lo stesso enorme debito, con la stessa percentuale del 130% sul PIL, questo rapporto non cambierebbe. Ma quale sarebbe la politica del governo? Non faccio fatica a pensare che sarebbe la stessa: la sua preoccupazione maggiore sarebbe quello di garantire i “possessori” del nostro debito, con il pagamento degli interessi e il rimborso del capitale, attraverso il rinnovo del debito. La finanza ci terrebbe per il collo e non saremmo capace di scioglierci da questo nodo. Continueremmo ad avere una continua tosatura della popolazione per garantire i creditori. Faremmo delle politiche di ristrutturazione del debito? non credo; faremmo delle politiche di taglio del valore del debito? non credo; ci rifiuteremmo di pagare il debito? non credo. Non solo perché non esiste nell’orizzonte della nostra politica andare contro la finanza, ma perché un paese solo (debole e piccolo, questa è l’Italia) non potrebbe fare una tale politica con risultati positivi. La fionda di David in questo caso non funziona. 

Non è l’euro il nostro problema e dell’Europa, sono solo in parte le politiche di austerità imposte dalla UE (pensare che sia possibile una politica di espansione e che questa sia la soluzione ci pare un’illusione), il nostro problema è la finanza internazionale, ma per combatterla bisogna essere forti e grandi. È la politica della UE che va cambiata, ma non solo in termine di meno austerità, certo anche questo, ma in termini di conflitto aperto e risolutivo verso la finanza internazionale. Ma di questo non si parla.


I test di ammissione per le facoltà a numero chiuso

Il destino della nostra Università è legata al “pensiero”, diciamo così, dei relativi ministri che si succedono al ministero. Ci deve essere qualcosa di malvagio, un incantesimo ministeriale: professori ed ex rettori di università prestigiose appena si siedono su quella poltrona perdono la conoscenza che hanno, o dovrebbero avere, dell’Università.

Non sfugge neanche l’attuale ministro, il quale raccogliendo il “grido di dolore” per i test di selezione per le facoltà a numero chiuso, indica una nuova strada: tutti dentro la selezione sarà effettuata alla fine del primo anno (ma si dice anche alla fine del secondo anno) sulla base dei risultati conseguiti. 

Intanto, i test non piacciono anche al ministro perché mal fatti, o come strumento in sé? Questo non è chiaro, e sarebbe un’opinione importante. Ma tralasciamo. Una volta deciso il numero chiuso un criterio di selezione si impone. Quello proposto dal ministro mi sembra peggiore dei test.

Anche se il ministro contemporaneamente avesse garantito al primo (o ai primi due anni) di quelle facoltà una triplicazione, e anche più, degli spazi, delle attrezzature, del personale docente e di assistenza, la soluzione mi sembra barbara, da una parte, e fondata sul “mercato”, dall’altra. Barbara perché promette a chi non riuscisse di avere perso uno o due anni. Va bene che i giovani non hanno niente da fare, resteranno senza lavoro anche se laureati, ma approfittare di questa situazione mi pare cinico. Di mercato, perché fioriranno gli “istituti” che prepareranno all’esame dietro pagamento di cospicue rette quanti potranno pagare.

Questa situazione sarebbe moltiplicata esponenzialmente se la Ministra non garantisse, come fa, maggiore risorse, allora dove prima ce ne stavano 150,ora ce ne devono stare 800 o più, chi insegnava e curava 150 studenti ora non insegna e non cura 800 e più studenti. Già si parla di lezioni in video conferenze (con strumenti che si interrompono, che mal trasmettono, ecc.); le video lezioni sono uno strumento che richiede mezzi e tempi di preparazione adeguati, non basta una piccola telecamera fissa davanti alla cattedra.

Insomma un vero pasticcio, cinico, di favoreggiamento, e, soprattutto, inefficace e inefficiente. 

Forse, con impegno, si possono trovare strumenti migliori, parametri più significativi, test più sensati, ecc. Si tratta di una selezione che ha grande importanza per il paese, meriterebbe che su questa necessità si misurassero energie creative e scientifiche serie. Ma questo sarebbe troppo, basta avviare la mandria in aule inospitali e inadeguate, poi la rigidità dell’esame (di 800 o più studenti esaminati) farà la selezione. Ma come? Uno studente deve superare tutti gli esami, l’80% o quale altra percentuale. 

La ministra ha sopra il suo tavolo l’esito dell’abilitazione di professore associato e ordinario, con i ricorsi, le ambiguità, gli scandali, ecc. La selezione di massa con mezzi inadeguati genera storture, non selezione.


Il processo popolare promesso da Grillo: l’intolleranza al potere

Il farneticare di Grillo non deve essere preso sotto gamba. Non perché farà i processi popolari, ma per il clima di violenza e di intolleranza che genera.

Grillo ha sostenuto che senza il M5* oggi l’Italia sarebbe attraversata dalla violenza, mentre il movimento incanala politicamente (sia fa per dire) il malcontento popolare, il disaggio sociale, la rabbia per la disoccupazione giovanile, ecc. A me pare il contrario è Grillo ad alimentare violenza e intolleranza.

La convivenza non è assenza di conflitto, ma è sicuramente assenza di intolleranza individuale, che è quella che arma la mano non solo contro il politico, ma contro le donne, i nonni, chi ti guarda storto, ecc. 

Si può ridere della proposta dei processi popolari, si possono ricostruire tutti i motivi che non giustificano questo atteggiamento morale da parte di Grillo, ma io penso che bisogna avere preoccupazione per il clima di intolleranza che genera. Questa è una battaglia da fare contro Grillo e il suo movimento, per la convivenza, la civiltà e la libertà.



martedì 13 maggio 2014

Liberare Claudio Scajola

Diario 260

Liberare Claudio Scajola

Tenere in carcere l’ex ministro Claudio Scajola lede i diritti umani; l’Italia potrebbe essere condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Non si può tenere in carcere, infatti, un uomo privo della capacità di intendere e di volere, né vale che si tratti di uomo molto abile, con una capacità innata, per tenere nascosto questo suo handicap.

Si hanno diverse prove di tale incapacità, anche se prende la forma prevalente della “smemoratezza”: il caso della casa pagatagli da un amico a sua insaputa; l’aiuto dato al un latitante condannato con sentenza definitiva per sostegno alla criminalità organizzata, pensava di fare un’opera buona, umanitaria; la dichiarata conoscenza quasi formale per la signora Rizzo, moglie del latitante, quando i loro rapporti sono registrati frequenti e continui e finalizzati a garantire la latitanza del marito di lei. Gli ultimi sintomi sono emersi in questi giorni: da dieci anni usava impropriamente un telefono e una sim di proprietà del Ministero degli interni. Non si ricordava, credeva fossero suoi, anzi no della scorta, e ovviamente non ricorda che la sua scorta è impropria. Inoltre imponeva alla sua scorta di chiamarlo Signor ministro, non ricordando che da tempo non lo era più.

Insomma anche chi fosse collocato politicamente in altro schieramento da quello dell’ex ministro, deve sentire l’obbligo umanitario di richiederne la scarcerazione.

domenica 11 maggio 2014

Marina B., una vita straordinaria

Diario 259

Marina B., una vita straordinaria



Diario 259

Marina B., una vita straordinaria

Ciascuno di noi vive una vita normale, direi banale, una vita dove gli avvenimenti sono previsti e prevedibili, l’imprevisto è un’eccezionale (e non parlo della caduta dalle scale o dall’essere investititi sulle strisce pedonali). Molti pensano “la mia vita è un romanzo”, ma si tratta di un riflesso di cattive letture e di tanta Tv. Per alcuni, pochi, la vita si presenta come eccezionale, direi straordinaria, dove la realtà si scontra con le aspirazioni, i contorcimenti di carattere risultano funzionale ad un destino che non si voleva, dove i desideri sono continuamente frustrati.  È il caso di Marina B.
Marina nasce in provincia di Varese, suo padre usciere al comune e sua madre casalinga. Una vita grama ma tranquilla. Marina cresce circondata dall’affetto dei suoi, sua madre sogna di farne una sarta, le sembra che abbia una disposizione innata da come gioca con le bambole. Ma a sette anni, perde all’improvviso il padre, la madre è disperata non solo per la perdita del marito ma per la condizione economica nella quale la famiglia è caduta, la magrissima pensione permette  di pagare l’affitto e comprare il pane. La madre si dispera, non sa a che santo rivolgersi e le sue preghiere restano inascoltate. Marina è estremamente colpita dalla morte del padre, la sua giovanissima età, sette anni, le permetterebbe il dolore ma anche una sorta di smemoratezza, Marina no, si lascia accompagnare soltanto dal dolore. 
Una coppia facoltosa che veniva dal capoluogo per fare acquisti di frutta e verdura, spesso si fermava a carezzare Marina, che giocava per strada facendole regali e chiacchierava con la madre. Non avevano figli per quanto desiderati. Un incontro fortuito, quasi casuale che cambia la vita di Marina, questa coppia, infatti, si offre di prendere con sé Marina. La madre è combattuta tra l’attaccamento alla figlia, il possesso, e il desiderio di garantirle un avvenire migliore. Vince l’amore e la bambina viene affidata a questa coppia.
Marina sviluppa un sentimento di astio verso sua madre: non l’ha voluta, l’ha ceduta, non l’ama. È troppo giovane per far conto del suo avvenire.
Nel nuovo ambiente, la città, Marina esplode. Si impegna nello studio, assorbe gli stimoli che venivano dalla nuova famiglia, culturalmente ricca anche se moralmente e socialmente rigida. Marina cresce, per i nuovi genitori ha un sentimento di riconoscenza ma non d’amore, li sente e li vuole tenere distanti, la vera madre dimenticata in una nuvola di astio.
Marina cresce, tra successi scolastici, buone compagnie, feste di ragazzi, vacanze estive. Vive tutto questo con gusto, ma è come se fosse in un ambiente alieno. Nessuna vera amicizia con le sue compagne, nessun cedimento ai giovani corteggiatori. Si sente sola e vuole essere sola.
Ma giunge l’Università, la grande città, la moltiplicazione degli ambienti sociali, la curiosità per il nuovo. È sola ed è felice. I “genitori” le hanno trovato un posto in un collegio femminile, le regole non le pesano, ma inizia a trasgredirne alcune (per un film, un concerto, chiacchiere con compagni), nessuna amica e nessun amico. Ma all’improvviso emerge, a lei sembra come se emergesse dalla folla dei giovani, Elena, giovane, intelligente, spiritosa, dissacrante, come un colpo di fulmine tra le due scocca la fiamma dell’amicizia. Elena inizia Marina allo spinello, al sesso, alla rivolta. Una coppia che spopola, ma impenetrabile: loro due contro il mondo.
Le suore chiamano i “genitori” non possono più tenere Marina in collegio, non rispetta nessuna regola, è arrogante, blasfema. I genitori accorrono, vogliono riportarla a casa, Marina si ribella, la sua vita ormai è un’altra. Non vuole niente, non dà niente, scompare da quel mondo.
Il suo mondo è la città, la sua Elena, lavoretti, giacigli occasionali, la solidarietà dei compagni, cibi arrangiati, case occupate. L’erba non basta più, passano ad altro, perdono i compagni, sempre più sole si prostituiscono a turno per la dose, la loro intelligenza si ribella ma i loro caratteri sono deboli, assuefatti a quella dimensione di degrado. Hanno ancora fame, rubano libri, rubano pane.
Ecco un giorno per un taglio malvagio Elena muore abbracciata a Marina.
Disperata, vaga per strada, stralunata ma non drogata, affamata ma senza fame, vorrebbe finirla, ma aveva promesso ad Elena di essere felice. Ma coma si fa?.
In qualche modo ripulita, rivestita, rinutrita, cerca lavoro. Viene assunta come fattorina in una grande azienda. E come se la sua intelligenza rifiorisca. È efficiente, è efficace, è innovativa, grande lavoratrice, aperta ma distaccata. Viene notata e si fa notare, ha capito che l’aspetto fisico in un donna è un importante ingrediente per attirare l’attenzione.
Non ha vita sociale, fuori dal lavoro, letture, di tutti i tipi, segue un corso di inglese, qualche cinema e ogni tanto gli è tornata la voglia di qualche concerto.
Notata viene promossa, sale gradini fino ad una delle tante segretarie dell’open space dell’azienda. Quella è la sua fortuna.
Il capo, il boss come viene chiamato da tutti, la individua. Forse l’ha scambiata per un’altra. Avendo perduta una delle sue segretarie la richiede. Marina cambia piano, sale all’ultimo. Ambiente raffinato ma un po’ carico (gli insegnamenti della sua famiglia adottiva hanno sviluppato un’attenzione ai particolari). Ma quello che la colpisce è l’ambiente ostile, le altre tre segretarie fanno un unico corpo contro. Marina fa finta di niente, ma giudica, le valuta come donnette ambiziose e senza carattere, in attesa spasmodica di un elogio del campo e drammatica evoluzione per un’osservazione, non parliamo per un rimprovero. Marina si da la regola della compostezza. Fa il suo lavoro, non piega la testa ma non è arrogante, spesso interloquisce con il boss. Elabora una strategia per il successo. Le altre tre segretarie non si rendono conto, ma sta tagliando loro l’erba sotto i piedi.
Soprattutto apprende: si fa consapevole delle relazione, ammantate di cinismo, con i potenti (politici, imprenditori, amministratori); capisce che per fare soldi bisogna procurarsi soldi e prenderli ovunque essi siano (i soldi non hanno sapore, non hanno odore); apprende come bisogna ridurre il danno che lo stato procuce con le tasse (evadere è un  diritto); scopre che molti possono essere comprati, hanno un prezzo (politici, magistrati, giornalisti). La sua educazione si completa, si guarda nello specchio e sorride rimirando la bambina che giocava per strada, la giovane per bene di buona famiglia, la sbandata, la fattorina. Sorride soddisfatta, il mondo è là pronto per essere preso, bisogna avere la mano pronta, il coraggio vigoroso e la coscienza opaca.
Ha smantellato la segreteria del boss, lei ormai e il capo, ha scelto altre cinque segretarie (tre uomini e due donne) che formano il suo ufficio, seduta alla sua scrivania, in una stanza ovattata, ormai riceve gli omaggi dei potenti, paga, non prega, ordina. Il boss si fida e gli affida il suo impero.
È giusto che una vita come quella di Marina B. meriti un’opera teatrale che la esalti, come quella che si sta preparando in questi giorni. La sua vita è un romanzo.                    






giovedì 8 maggio 2014

La stravaganza: come si creano posti di lavoro?



Diario 258

La stravaganza: come si creano posti di lavoro?
Povero Scaiola, l’inconsapevole



La stravaganza: come si creano posti di lavoro?

Il Governo Renzi si è convinto, almeno così pare, che il problema della disoccupazione, di quella giovanile in particolare, sia da una parte un problema di rigidità contrattuale e dall’altra dipenda dal mancato incontro tra domanda e offerta di lavoro.

Che esista una rigidità contrattuale è una bella favola, i lavoratori, proprio in presenza di un’alta disoccupazione sono stati costretti ad accettare forme contrattuali super flessibili e ad alto tasso di sfruttamento. La nuova legislazione messa in campo, e che pare il parlamento, dopo contorcimenti vari, approverà, si può prevedere, avrà pochissimi effetti in termini di aumento dell’occupazione; forse, ma anche qua il dubbio non è un vezzo, regolerà solo alcune posizioni dando loro una forma ufficiale di precariato.

Inoltre che il governo si attrezza per spendere risorse (se ho capito bene un miliardo) per creare un sistema, ovviamente ad amplissimo contenuto informatico, per fare appunto incontrare domanda e offerta di lavoro che pare non si conoscano, non si incontrano, mentre forse non si trovano perché la domanda langue.

Pur all’interno di una crisi endemica e senza soluzione, l’unica soluzione essendo il cambiamento di regime sociale, sarebbe possibile fare qualcosa per alleviare i drammatici livelli di disoccupazione. Bisognerebbe mettere in moto un progetto reale non legislativo per creare nuovi posti di lavoro. Una politica per l’occupazione con un forte risvolto di politica industriale. Tanto per intenderci, farà molto di più, se effettivamente sarà realizzato, l’investimento di pochi milioni di euro per mettere in sicurezza le nostre scuole che non tutte le leggi sulle quali Renzi rischia sempre di impiccarsi.

Sembrava che i “giovani al potere” potessero significare maggiore comprensione dei fenomeni reali, maggiore immaginazione nel trovare soluzioni, maggiore progettualità. Niente di tutto questo, ma solo la ricerca dell’effetto popolare.



Povero Scaiola, l’inconsapevole

Diciamolo chiaramente il destino si accanisce contro il povero Scaiola: prima il pasticcio, diciamo così, della casa  in parte consistente pagatada “altri”, di cui l’ex ministro non sapeva niente; ora l’arresto con l’accusa di avere favorito la latitanza di un condannato con sentenza definitiva per collaborazione con la criminalità organizzata. Ma sono certo che Scaiola non sapesse proprio niente di quello che stava facendo. È un destino crudele, una maledizione, quella che si accanisce contro l’inconsapevole ex ministro e amico dell’ex cavaliere Silvio Berlusconi. A meno che sia propria l’amicizia con l’ex cavaliere che porta male, come dimostrano i troppi suoi amici inquisiti e condannati. Altro che accanimento giudiziario, si tratta di un caso evidente di iettatura.