domenica 18 dicembre 2011

Diario 155 12-18 dicembre

Diario 155 12-18 dicembre

F.I.

- La Fiducia, una nuova divinità … maligna

- Quale democrazia, quali istituzioni?

- Equità

- Liberalizzazioni

- Marchionne e la controriforma contrattuale

- Scajola, cambia versione

- Citazioni: nel bene e nel male

La Fiducia, una nuova divinità … maligna

C’è una nuova divinità alla quale i governi occidentali sacrificano, con riti propiziatori e offrendo il sangue e le lacrime del popolo, cercando di farsela amica: è la dea FIDUCIA DEL MERCATO.

Le istituzioni comunitarie, anche quelle che per esperienza dei loro governanti dovrebbero saperla lunga, suggeriscono e indicano ai singoli stati sottoposti alla speculazione e a quelli che lo saranno in futuro, decisioni restrittive che dovrebbero permettere loro di conquistare la dea Fiducia del mercato. Ormai le azioni politiche che i governi prendono non hanno a che fare con gli interessi dei loro cittadini ma servono solo ad onorare la nuova divinità. Anche le possibili trasformazioni della UE non sono finalizzate a beneficio dei popoli, ma a guadagnare l’apprezzamento del nuovo idolo.

Ma la fiducia è una dea maligna, fa finta di essere contenta e di apprezzare i sacrifici (non virtuali ma reali); per un giorno dormicchia e poi sferra un nuovo attacco chiedendo (spaventando con lo spread) nuove sangue.

Sarà sempre così fino a quando non ci si renderà conto che quella della Fiducia del mercato è una bufala metropolitana messa in giro proprio dal mercato finanziario speculativo per rendere il proprio lavoro più facile e ingrassante. La speculazione, o meglio gli speculatori (istituzioni, persone fisiche, fondi di investimento, ecc.) hanno tante e tali risorse e messo a punto adeguate tecnologie che non scrutano le opportunità, ma essi stessi se le creano e le realizzano (della fiducia non sanno che farsene).

Quale democrazia, quali istituzioni?

Pare di un certo interesse, non accademico, la discussione che si è avviata sugli esiti che possono scaturire dal “dopo governo Monti” in ordine alla nostra democrazia, alle stesse istituzioni, e ai partiti.

Che il governo Monti sia una “anomali” è certo, che la maggioranza che lo sostiene sia un’altra anomalia è altrettanto certo (nonostante i distinguo sui quali si esercitano sia il PD che il PDL), che si tratti di una soluzione emergenziale (la “casa brucia”) è un racconto che si ripete.

Che la manovra del governo sia stata approvata da quasi tutti i partiti (questa è la sostanza) mentre ciascun partito (ad eccezione del Terzo polo) aveva critiche e perplessità su suoi contenuti ci dice che la democrazia parlamentare è “sospesa”. Il Parlamento, lodato dal Presidente della repubblica, è costretto ad approvare, di fatto, quello che il governo propone. Una situazione fortemente anomala e preoccupante, non solo ma che costituisce una “esperienza” utile (molti lo pensano anche se pochi lo dicono).

Alcuni commentatori pensano che chiusa questa esperienza tutto può tornare come prima (i partiti riprendono il loro ruolo, dopo aver di fatto dichiarato la loro incapacità di governo), il Parlamento torna ad essere l’aula libera di confronto e di scelta (sic!), i partiti rappresenteranno i cittadini contenti e soddisfatti (forse no!). Altri pensano che non sia così. Che quello che sta avvenendo è un’incisione profonda sul corpo della nostra democrazia e sul potere di deliberare del Parlamento. È inutile affermare che è il Parlamento che decide sulle proposte del “governo tecnico”, non è così sia perché il Parlamento è “costretto” (non solo la casa brucia, ma può crollare, si minaccia), ma non lo è ancora di più quando il “governo tecnico” usa uno degli strumenti più biechi della tradizione politica per mortificare il Parlamento, il “voto di fiducia”.

Il tema appare complesso ma anche vitale, forse varrà la pena di tornarci su ancora.

Equità

Molti partiti, con divisione interne, i sindacati, in questo uniti, accusano il Governo Monti di aver messo in piedi una manovra rigorosa ma non equa. Che la manovra abbia fatto propria la necessità (unanime?) di “riforme impopolari” non deve meravigliare, sarebbe stato strano e sconvolgente il contrario, è mesi che si ripoete della necessità di riforme impopolari. Che a partire da questa assunzione essa sarebbe potuta essere equa, pare una speranza immotivata. Neanche Robin Hood sarebbe stato capace, a partire dalle premesse che ha mosso questo governo. Anche perché il prof Monti pensa che sia la “concorrenza” a regolare la distribuzione delle risorse: a ciascuno secondo i propri meriti, al massimo lo Stato può svolgere il ruolo della Croce Rossa in zona di guerra: può curare i feriti ma non può fare nulla perché altri non siano feriti.

Liberalizzazioni

È certo che in una società complessa come la nostra, alcune delle transazioni devono essere svolte dal mercato, un mercato che deve essere in grado di evitare i suoi errori e le distorsioni distributive alle quali spontaneamente è portato. Il punto di vista che deve prevalere è l’interesse del cittadino (il consumatore) e i suoi vantaggi; a questi devono guardare i governanti, ma tale interesse non si raggiunge semplicemente rendendo più aperto il mercato, tale apertura, in realtà, può dare risultati perversi. È noto per altro che nella nostra società (italiana, ma non solo) la fanno da padroni corporazioni e chiusure di mercato che non portano nessun beneficio al consumatore e che vanno frantuimate.

Liberalizzare si può, forse si deve, se insieme si mettono in campo strumenti di controllo per evitare distorsioni e, appunto, affinché siano beneficiati i consumatori. Questi ultimi non costituiscono una figura astratta, buona magari per l’elaborazione di una teoria o un modello economico, sono persone, donne e uomini, e i benefici che questi devono e possono ricavare bisognerà misurare e controllare.

Che Bersani sia un fautore delle liberalizzazioni (quasi un fondamentalista) è certo, tutti ci ricordiamo le sue “lenzuolate”, ma che lo stesso non si ponga il problema dei benefici concreti che possono derivare alla popolazione dei consumatori fa un po’ specie. Dico benefici concreti e reali, non “teoria”; dovrebbe sapere che di per sé l’apertura del mercato non garantisce tali benefici generalizzati.

Sono molto interessanti e istruttive le due pagine de La Repubblica (17 dicembre), inneggianti alle liberalizzazioni e a individuare le resistenze delle lobby. Nelle stesse pagine è stata pubblicata una tabellina che mette in evidenza gli effetti delle liberalizzazioni effettuate in passato (con indicazione dell’anno della liberalizzazione, delle variazioni del prezzo del servizio, della variazione dell’inflazione nel periodo e l’eventuale aumento del servizio in relazione all’inflazione). Una tabellina, elaborata dalla Cgia di Mestre, molto istruttiva che il giornale pubblica come un foto riempitiva, senza commento alcuno e senza che la sua analisi susciti qualche riflessione. In sintesi riporto il settore, l’anno di liberalizzazione e l’aumento rispetto all’inflazione: Assicurazioni auto, 1994, + 4,2 volte l’inflazione; servizi bancari 1994, + 2,5 volte; trasporti ferroviari, 2000, + 2 volte; autostrade, 1999, +1,7 volte; aerei, 1997 + 1,4 volte; gas, 2003, + 1,9 volte; trasporti urbani, 2009, +1,9 volte; i servizi postali, 1999, sono rimasti uguali; sono invece diminuiti: energia elettrica, prodotti farmaceutici, servizi telefonici. Mi pare che ci sia materia per riflettere.

L’idea, infine, che le liberalizzazioni siano un contributo allo sviluppo e possano contribuire allo sviluppo non è chiaro da dove venga? Il liberismo è il problema non la soluzione.

Marchionne e la controriforma contrattuale

Il finanziere della Fiat, non riesce a vendere le sue macchine, ma in compenso è bravo a fare (con il ricatto) la controriforma dei diritti dei lavoratori. Il “contratto Pomigliano”, che a detta dei sindacati che l’avevano firmato, non costituiva il modello per tutto il gruppo, ora è il contratto di tutto il gruppo, cancella il contratto nazionale, mette i lavoratori in balia delle necessità dell’azienda, ed esclude i sindacati che non firmano. Oggi la Fiom, e domani?

Su questo bell’esempio si innesta la volontà del governo Monti, ribadita a più voci, di metter mano alla questione del lavoro, art. 18, ecc. Un premessa, questa Fiat molto pericolosa.

Scajola, cambia versione

Tutti si ricordano che l’ex ministro Scajola è stato il protagonista di una delle maggiori bugie pubbliche dell’era berlusconiana. Se la palma per la bufala maggiore spetta a Silvio Berlusconi (Ruby, nipote di Mubarak), Scajola si colloca al secondo posto: ha comprato una magnifica casa con vista sul Colosseo pagandola meno della metà perché a sua insaputa, qualcuno aveva pagata la differenza. Il misterioso benigno e generoso folletto era l’imprenditore Anemone. Scajola si fece forza della sua ignoranza, ma non potendo scansare lo scandalo, si dimise: si disse alto senso dello Stato. Ora si viene a sapere che in una sua “memoria” consegnata ai giudici che indagano sul fatto, ha cambiato versione: non un misterioso donatore, ma un gentile regalo personale di Anemone.

Berlusconi non si preoccupi, anche con questa seconda inverosimile versione, il primo posto per la maggiore bufala non è in discussione. Anche i giudici che indagano non hanno creduto al “dono” (circa 1 milione di euro, non poco) e hanno rinviato l’ex ministro a giudizio.

Citazioni: nel bene e nel male

Christian Marazzi (intervistato da Ida Dominijanni)

“L’Europa dei debiti sovrani è l’equivalente del mercato statunitense dei subprime, solo che al posto dei singoli individui indebitati ci sono gli stati indebitati. Ma una differenza c’è, a tutto svantaggio dell’Europa, ed è politica, anzi istituzionale e costituzionale: in Europa non c’è Costituzione e non c’è una banca centrale. C’è la BCE che delega la monetizzazione dei debiti ai mercati, emettendo liquidità su richiesta di quelle stesse banche che hanno contribuito a creare debito pubblico e ora ci speculano sopra”, Il Manifesto 3 dicembre 2011-12-17

Rossana Rossanda

“In verità è assai poco chiaro il confine tra quelli che chiamiamo politica, diritto, economia. La misure della UE, riprese da Monti, sono ‘economiche’ se economia si riduce a ‘contabilità di bilancio, ma sono ‘politiche’ sotto quello dei rapporti fra le classi e le conseguenze sull’intera società”. Il Manifesto, 13 dicembre 2011 (cito dal resoconto di Rossanda dell’incontro di Firenze “La Rotta d’Europa”, del 9 dicembre. Ne consiglio la lettura integrale, mette il luce i nodi dell’oggi e la mancanza di un a spada per tagliarli)

Fabbrizio Barca (ministro per la coesione territoriale)

“La peculiarità del sud, questa sì, e nella debolezza straordinaria del contratto sociale: i cittadini non sono affatto certi che lo Stato produca beni collettivi, ritengono piuttosto che persegua interessi particolari. Così rinunzia a pensare che lo Stato abbia un dovere verso la comunità. È questo che rompe il contratto sociale. E alla sua ricostruzione si deve lavorare. Da qui il nostro progetto: non nuove opere , ma l’ambizione di realizzare un servizio migliore per i cittadini.” (dei 3,1 miliardo: 1 alla scuola, 400 milioni per l’agenda digitale, 140 milioni credito per l’occupazione, il resto per un fondo investimenti ferroviari). La Repubblica 16 dicembre 2011 (Importante, ma non convincono i due tempi, prima il contratto sociale e poi lo sviluppo, non si può tentare ambedue insieme?)

Christine Lagarde (Fmi)

“Siamo sull’orlo di una crisi tipo 1929” La Repubblica 16 dicembre 2011 (lo sospettavamo! Ma il Fmi cosa fa ?)

Angelo Bagnasco (Cardinale)

“Lo spazio per i cattolici non dovrebbe trovare pregiudiziali rispetto alle questione decisiva dell’etica della vita, come per la libertà scolastica. È questo un valore sancito dalla Costituzione che prevede l’istruzione come un diritto da garantire a tutti senza darne l’esclusiva allo Stato” Corriere della Sera, 17 dicembre 2011 (No, eminenza, la Costituzione non nega l’esclusività della scuola statale, invece obbliga lo stato ad organizzare scuole di ogni ordine e grado, ma ritiene che privati ed Enti possano “istituire scuole e istituti di educazione senza oneri per lo Stato”. Il suo eloqui è cripto, ma tradotto significa che lo spazio dei cattolici in politica è legato all’accettazione da parte di tutti delle pregiudiziali, così sono citate, sull’etica della vita e sulla libertà scolastica ( da nessuno mai negata). In compenso il capo della chiesta italiana si dice disposto a corregger la questione dell’ICI se si evidenziassero delle elusioni. Grazie)

domenica 11 dicembre 2011

Entrando nel Merito


Entrando nel Merito
(recensione di Nicola da Neckir, Contro la meritocrazia, La Meridiana, 2011)
Su Alfalibri – Alfabeta2 n. 15 dicembre 2011

Chi non considera l’università un’azienda ma piuttosto una istituzione “che ha il compito di garantire lo sviluppo della ricchezza sociale in termini di conoscenze, competenze e consapevolezze” non può che guardare con apprensione quello che sta avvenendo il quella istituzione, il suo degrado crescente e la sua difficoltà a svolgere la funzione prima indicata. Tutta responsabilità di questo governo e della inconsapevole avvocato Gelmini ministro della “pubblica istruzione”? sicuramente no, ma con altrettanta sicurezza si può convenire che il contributo di questo governo appare fondamentale. Non sono poche le responsabilità di chi all’università ci lavora o la “governa”: incapacità, incomprensione, brama di potere, nepotismo, ecc.
Non aver circa vent’anni fa eliminate le facoltà in concomitanza con la creazione dei Dipartimenti, che sostituivano gli anacronistici Istituti, è stato un errore fondato sulla necessità di garantire posizioni di prestigio (“Il Preside”, con annessa segreteria e altre strutture). Giungere oggi a questo soluzione sembra un passo avanti se non si considerasse la perniciosa e correlata disposizione che i Dipartimenti sono possibili e obbligatori solo a partire da un certo “numero di docenti” (40, mi pare); forse si tratta di un riflesso aziendale: la realizzazione di economie di scala (senza nessun rispetto per il prodotto). Non ha importanza il progetto culturale, didattico e di ricerca di un Dipartimento, esso ha diritto di “essere” solo se raggiunge il definito numero di professori aderenti. E se un progetto un gruppo di docenti non fosse sufficiente, allora si aggregano altri, di altre discipline, con altri progetti culturali, in una mistificazione di strutture nel migliore dei casi, in un annullamento di ogni progetto culturale, didattico e di ricerca nella normalità dei casi.
Che ci sia nepotismo dentro le università non si può negare, ma l’argomento non produce una seria riflessione ma solamente la presa di posizione, ovviamente scandalizzata, dei ben pensanti. La omonimia diventa dimostrazione di nepotismo. Gli “Indovina” nell’università di Palermo credo siano numerosi (o lameno lo erano un tempo), ma escludo siano miei parenti (senza dire che in quella università non ho mai insegnato). Le semplificazioni non aiutano a comprendere, a capire e quindi eventualmente a provvedere. Qualche mese fa un ricercatore italiano ma che lavora negli USA, omonimo di un rilevante editorialista del Corriere della Sera, anch’esso docente negli USA, ha pubblicato, e il Corriere a riportato, una sua ricerca (si fa per dire) sulle omonimie ricorrenti nelle università italiane (indice di nepotismo). È sembrato strano che questo stesso ricercatore, anche solo come segno di autoironia, non avesse segnalato la sua omonimia con l’editorialista del Corriere e docente in USA (magari non sono parenti, non insinuo nulla, mi riferisco allo scarso senso di opportunità e di ironia). Ma tant’è il moralismo è senza ironia. Detto questo non voglio cancellare scandalosi casi di nepotismo, ma solo segnalare che il problema è più serio e complesso della semplice omonimia, che piace agitare, c’è dentro una complessa questione di “selezione”, che non può essere semplificata.
Arnaldo Cecchini, docente all’università di Sassari, sotto lo pseudonimo di Nicola da Neckir (anagramma del nome dell’autore) ha scritto un prezioso libretto provocatoriamente dal titolo Contro la meritocrazia (Edizione la Meridiana, pag. 82, €12, 2011). Per non scandalizzare il ben pensante, vorrei chiarire subito che il prof. Cecchini non è contro i “meriti”, che rivendica, ma contro la burocratica idea che la valutazione meritocratica possa essere effettuata sulla base di indicatori. Utili, sostiene l’autore, ma non determinanti per una valutazione di “merito”.
Vorrei fare un appunto all’autore: il libro doveva essere dedicato all’avvocato Maria Stella Gelmini, ministro della pubblica istruzione, perché riducesse la sua inconsapevolezza circa i meccanismi e il ruolo dell’università e della scuola in genere. Le gaffe recenti del ministro (o dei suoi collaboratori) potrebbero esserle perdonate se avesse cognizione di che cosa parla, questo è il guaio.
È abbastanza comico e tragico, nella stesso tempo, la distorsione operata da R. Abravenel (documentata nel libretto) del testo di M. Young, che in un libro di critica sociale, nel quale esaltava le “differenze individuali”, aveva elabora ironicamente la formula della meritograzia M=I+E (dove I è l’intelligenza ed E – effort – lo sforzo dei migliori). Nel libro di Abravanel la formula perde il suo connotato satirico e diventa operativa. Il testo di Abravanel riportato da Cecchini, piacerebbe sicuramente al duo Gelimi-Tremonti: “La “I” porta a selezionare i migliori molto presto, azzerando i privilegi della nascita e valorizzandoli attraverso il sistema educativo: è l’essenza delle “pari opportunità”. La “E” è sinonimo del libero mercato e della concorrenza, che, sino a prova contraria, sono il metodo più efficace per creare gli incentivi economici dei migliori”. C’è da dire che l’ingegnere Abravanel, laureato al Politecnico di Milano, avrebbe dovuto avere, dati i tempi, qualche dubbio circa l’efficienza del mercato per premiare i “migliori” (quando la teoria è in disaccordo con la realtà, è la realtà in errore).
Il merito è rilevante, da esso “in molti casi non si può prescindere” per scegliere le persone a cui affidare specifici compiti; ma riconoscere il merito non ha niente a che fare con la computazione meritocratica. Il merito non è un assoluto, è un qualità da considerare insieme ad altre (“la capacità di relazione, l’empatia, la solidarietà, l’umorismo, la generosità ….). Non può essere un assoluto anche perché è difficile da misurare, ma sicuramente è una componente importante per la selezione dei docenti e per la valutazione degli studenti, ma come afferma Cecchini, non unica. Gli studenti “anomali”, intelligenti ma che non sopportano la routine, che seguono loro percorsi, sono preziosi, mettono in discussione la struttura e la stimolano, ma noi forse li … bocciamo.
L’università non è né deve essere considerata un’azienda, i parametri di giudizio devono essere diversi. Così l’autogoverno non è né un’aberrazione né il risultato di autoreferenzialità, mentre sono il pilastro fondamentale della libertà di insegnamento e di apprendimento.
Così la misurazione dell’efficienza di un Dipartimento o di un Ateneo sulla base della “produttività” della ricerca, misurata in volumi, testi, articoli, ecc., è un assurdo, che produce solo, molto spesso, montagne di carta, spesso senza un’idea. Costruiamo la psicologia dei dottorandi, no tanto ad avere almeno un’idea, ma a pubblicare; la compilazione diventa la linea guida della ricerca, o detto alla Sraffa “produzione di saggi a mezzo saggi”.
Se esistesse oggettivamente una difficoltà a valutare seriamente la ricerca, e non vale il numero di citazione, l’impatto, e similari, che spingono non già all’innovazione ma al conformismo, tale difficoltà sarebbe estremamente più rilevante per la misura della didattica. Le tesi seguite, i risultati conseguiti, gli studenti promossi, i voti ottenuti, ecc. tutte cose utili ma non sufficienti per una valutazione seria. Come afferma il nostro autore spesso il criterio di discussione e le soluzioni individuate per l’università sono del tipo “Bar dello sport”, ad un problema complesso una soluzione facile e … sbagliata.
Spendiamo poco, meno di altri paesi, per l’Università; c’è una parte di docenti che lavora poco (preso da altri impegni, dalla professione, agli incarichi politici, dagli affari alle consulenze, ecc.); la selezione dei docenti è complessa essa non può avere carattere assoluta ma deve misurarsi con le esigenze di quella specifica sede (un premio Nobel, potrebbe non essere adeguato, perché si ha bisogno nello specifico non di un geniale ricercatore ma di una persona che si dedichi prevalentemente alla didattica); ci sono arrugginite strutture; nuclei di potere che di difendono; nepotismi; strutture talvolta fatiscenti; risorse scarse; gerarchie impossibili da scalfire e che costituiscono vincoli all’assunzione di giovani; ecc. I mali sono tanti e diversi, ma non esistono soluzioni semplici, ma soprattutto non esistono soluzioni che sfuggano all’autogoverno, né soluzioni che introducano sistemi di valutazioni applicabili in altre strutture (la famosa azienda). C’è sicuramente la necessità di una ricostruzione sociale e politica del ruolo dell’insegnamento universitario, c’è sicuramente la necessità di ridisegnare ruoli e poteri interni, sicuramente qui semplificando (il docente unico articolato in fasce), c’è la necessità che il paese investa di più.
Di questo e di altro ancora tratta il testo, spesso corrosivo, di Cecchini meritevole di diffusione e di riflessione, si può essere in disaccordo su qualche punto, si può non condividere qualche affermazione, ma si tratta di un contributo onesto e riflessivo di chi ha a cuore l’università e la sua funzione ed ad essa dedica intelligenza e lavoro.
“Non siamo venditori della merce “sapere” e neppure i fornitori di un servizio. Siamo, o dovremmo essere, parte di una comunità di liberi e uguali che ha lo scopo … di accompagnare giovani donne e giovani uomini a diventare cittadini colti e competenti, persone “verticali”, con la schiena dritta, capaci di pensare e di ribellarsi alle ingiustizie, e capaci di farlo perché competenti e istruiti, capaci di sviluppare le loro capacità, i loro talenti, di proteggere le differenze, le relazioni, la cura e i cui risultati devono dipendere, in ultima istanza, dai loro meriti”.
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Niente è come prima

Niente è come prima

da Alfabeta2, n. 15 dicembre 2011


La ripetizione che niente è, e sarà, come prima non corrisponde alla consapevolezza che la formazione sociale capitalistica è cambiata. Il capitalismo, pare, abbia concluso la sua fase “rivoluzionaria”, e come l’apprendista stregone no riesce a governare le forze che ha evocato.

Questione che può essere affrontata da diversi punti di vista e che qui si affronta, in forma molto semplificata, dal punto di vista della trasformazione del denaro in capitale (Marx, Il Capitale, Libro primo).

Dal Sole 24ore (6 agosto) si ricavano i seguenti dati di valore riferiti al 2010 del sistema mondo:

- PIL 74.000 miliardi;

- Borse 50.000 miliardi;

- Obbligazioni 95.000 miliardi;

- “altri” strumenti finanziaria 466.000 miliardi.

La produzione reale, merci e servizi (74.000 miliardi), è pari al 13% degli strumenti finanziari (economia di carta), tenendo fuori da questo calcolo il valore delle Borse che, ci si può illudere, hanno riferimento con l’economia reale. Detto in altro modo quello che uomini e donne producono, in tutto il mondo, rappresenta poco più di 1/10 del valore della “ricchezza” finanziaria che circola.

Si tratta del fenomeno della finanziarizzazione dell’economia un tema non nuovissimo (già esplorato da Hilferding nel 1910) ma che negli ultimi trenta anni ha avuto un’esplosione e si è reso autonomo rispetto al capitale produttivo. È proprio la sua dimensione e la sua autonomia che rende teso e, apparentemente, conflittuale il legame tra apparati dello stato e capitale finanziario.

I dati precedenti non possono scandalizzarci, ma non sono indifferenti; essi indicano una trasformazione di fondo del capitalismo.

Il processo di trasformazione del denaro in capitale si fonda sul processo di trasformazione del denaro in merce e quindi in denaro (in formula marxiana:

D-M-D*; dove D* è maggiore di D). Questa relazione ha costituito il tratto “rivoluzionario” del capitale (inteso come rapporto sociale); essa sussiste ancora (riguarda la produzione di merci e servizi, anche con forti trasformazioni), ma è largamente sovrastata da un processo che possiamo descrivere come basato su D-D-D (denaro-denaro-denaro). Nel processo definito dalla relazione D-M-D* era implicito, come è noto, il rapporto di sfruttamento, che storicamente i lavoratori hanno contrastato. Il capitale nella sua azione “creava” un antagonista che gli sottraeva risorse ma che era anche uno stimolo al raggiungimento di nuove frontiere di sviluppo, di avanzamenti tecnologici e organizzativi. Nello stesso tempo questo “antagonista” riusciva attraverso la sua azione sindacale e politica a conquistare diritti di cittadinanza sempre più estesi. Questa dinamica, che è stata positiva per lungo tempo, si avvantaggiava di una relazione triangolare capitale-lavoro-stato nella quale la pressione del “lavoro”, sia a livello sindacale che politico, sebbene spesso differenziata, esprimeva la rivendicazione del “diritto” ad una società migliore e dove il “capitale” accollava allo Stato detti miglioramenti per alleggerire la pressione del lavoro su di sé.

Quando detto è sicuramente una semplificazione, ma utile per leggere quello che pare un cambiamento di fondo. Nel ‘900 si possono contare diverse “crisi”, per ciascuna delle quali è possibile individuare una “spiegazione”, ma cosa succede nella società con il prevalere del processo D-D-D (senza dimenticare la crisi che di quel processo è figlia)? simultaneamente tre cose che tendono a cambiano la natura della società:

- è il “gioco” nel mercato finanziario che costituisce la componente principale della produzione di “ricchezza”;

- il “capitale” finanziario è impalpabile, non ha carne e ossa visibile. Non può essere contrastato da chi ne subisce gli effetti negativi (la popolazione); è “impersonale”, è un indice di borsa, contro di esso non si può scioperare (si possono rompere le vetrine come atto simbolico, ma non di più). Diventa un’entità metafisica ma pesante sulla vita di ciascuno;

- la relazione triangolare, poiché il capitale finanziario non ha “corpo” si frantuma; lo Stato, sulla base dell’apparato ideologico (il mercato, il debito, ecc.), è spinto ad “opprime” il popolo per soddisfare la bramosia di quello (avviene in tutti i paesi – i debiti sovrani - con l’aggiunta esplicita degli apparati repressivi già in Grecia).

Il debito Italiano

Il debito dello Stato ammonta 1.900 miliardi di euro (il 119% del Pil); un debito, secondo molti, che dipende dal fatto che il paese ha vissuto al di sopra delle sue possibilità. Ma sarà vero? Facciamo un po’ di conti, anche se semplificati.

Il mancato gettito dell’evasione fiscale è pari a 120 miliardi di euro annui. Una seria politica di contrasto avrebbe potuto ridurre almeno alla metà il mancato gettito; negli ultimi dieci anni questo avrebbe significato entrate per 600 miliardi, e quindi una diminuzione della stessa cifra del debito.

La voce “corruzione”, assumendo la valutazione della Corte dei Conti, comporta un costo per lo Stato di 50-60 miliardi annui; una seria lotta alla corruzione avrebbe significato minore spese in dieci anni di 550 miliardi, con una minore spesa dello stato e una riduzione della stessa cifra del debito.

È difficile valutare l’elusione, di cui un importante ministro sembra essere il maggior esperto, ma tra scudi e condoni la cifra non deve essere modesta se oggi si discute di un condono edilizio e fiscale per recuperare 35 miliardi di euro. In dieci anni, molto prudentemente, si può valutare in almeno 150 miliardi di euro le minore entrate.

Si potrebbe continuare tentando un calcolo degli sprechi effettuati per contentare l’arroganza di qualche politico (aeroporti inutili, strade che finiscono nel nulla, ecc.), per l’incapacità progettuale che facilita la corruzione (ospedali non finiti, la famosa Salerno_Reggio Calabria, ecc.), il costo della “politica”, qualsiasi cosa si intenda esso è superiore alla media europea; ecc. Ma lasciamo stare.

Ecco a questo punto che i 1.900 miliardi di debito oggi, a spese immutate, avrebbero potuto essere pari a (1.900 – 600 – 550 – 150) 600 miliardi di euro (38% del Pil). Con questo non si vuole negare l’esistenza del debito, ma negare che esso sia il frutto del troppo alto costo dei diritti di cittadinanza (scuola, salute, casa, pensioni, ammortizzatori sociali, ecc.). Esso è il risultato del colposo e doloso comportamento dei nostri governanti, che niente o poco hanno fatto per guarire la società italiana di alcuni suoi cancri come l’evasione e la corruzione; al contrario questi comportamenti sono stati giustificati (dichiarando che le tasse erano troppo alte), promossi (attraverso i condoni) o facilitati (ancora si aspetta la legge anticorruzione).

Pagare o non pagare?

La speculazione finanziaria, come tutti i creditori, pretende di essere pagata. Abbandonata, di fatto, la speculazione sulle azioni delle imprese, si è concentrata sui titoli sovrani (e sulle banche che li possiedono). Un’attenzione particolare viene esercitata sui titoli dei paesi con governi “deboli”. Deboli perché non in grado né di combattere la speculazione con armi efficaci, né perché possono opporsi alla pressione per imporre sacrifici ai rispettivi popoli per pagare i debiti (riduzione di salari e pensioni; cancellazione dei servizi sociali; licenziamenti; ecc.).

Tale debolezza si misura con il fatto che questi Stati privilegiano il debito pubblico rispetto ad altri debiti come quelli nei riguardi dei lavoratori e delle popolazioni. Lo Stato contrae un debito non solo verso chi gli presta denari, ma ha anche verso la popolazione (sanità, scuola, e welfare), contrae debiti nei riguardi dei suoi dipendenti, dei pensionati, per garantire la cultura, il paesaggio, ecc. Privilegiare un debitore appartiene alla fattispecie della “bancarotta preferenziale” perseguita penalmente.

Ma pagare o non pagare è una questione esclusivamente politica. Se i connotati del “nuovo” capitalismo fossero quelli descritte prima, allora la società mondiale si avvia a trasformare il triangolo, rappresentativo della scala delle diseguaglianze, in una “clessidra”: nella la bolla superiore, più piccola, si collocano i “ricchi”, speculatori e no, e chi a quelli risultano funzionali; nella bolla inferiore un’umanità impoverita, privata dei diritti, ribellista e oppressa con violenza.

Se questa pare una prospettiva da accettare allora bisogna pagare; i provvedimenti che si stanno prendendo di fatto alimentano la speculazione, offrendole carne fresca su cui affondare i denti; né la tassazione sulle intermediazione e gli altri provvedimenti allo studio serviranno, la massa di risorse finanziarie che la speculazione muove sono tali da non essere che intaccata lievemente.

Ci sono indizi che suggeriscono che questa sia la strada che si sta percorrendo: tra il 1981 e il 2011 le imposte sugli scaglioni di reddito più alti sono fortemente diminuite (Francia dal 60% al 40%; Germania dal 55% al 43%; Gran Bretagna dal 60 al 52%; Italia dal 68 al 41%; USA dal 65% al 33%); il “capitalista” più ricco della Repubblica popolare cinese si appresta ad entrare nel Comitato Centrale del Partito comunista cinese; il capo delle strategie della JP Morgan Chase, ha dichiarato che “ i margini di profitto sono ai massimi storici da molti decenni e questo si spiega con la compressione dei salari”; secondo la rivista Forbes il mondo ha 1.011 miliardari, persone con più di un miliardo, nello scorso anno, solo il 12% hanno visto le loro fortune declinare (per loro la crisi è un ingrasso; i primi dieci hanno incrementato il loro patrimonio di 42 miliardi di $). Mentre le nuove povertà si sommano alle vecchie.

Non pagare il debito è una scelta politica che un governo alternativo a quello attuale dovrebbe prendere. E la vedova con il suo Bot da cui semestralmente stacca la cedola per sopravvivere, vogliamo farla morire di inedia? Ipocrisie e opportunismi.

Il debito pubblico italiano è detenuto per il 56% in Italia e per il 44% all’estero; per lo più da istituzioni bancarie e assicurative italiane e straniere, gli investitori individuali italiani ne detengono solo il 14% e tra questi c’è la “vedova”. Non pagare si può fare in tanti modi: con un concordato garantendo ai creditori non più del 25% di quanto dovuto (così fanno le imprese sull’orlo del fallimento); si può garantire che ai possessori individuali, con un massimale di capitale da stabilire, si possono garantire interessi e rimborsi interi, o si può chiudere il rubinetto dei pagamenti, provvedendo in modo diverso alla “vedova”. Dipende dalla forza politica del governo e soprattutto della sua linea strategica.

Colpire le “tasche” degli speculatori è l’unico modo per combatterli e perché l’economia possa riprendersi su basi diverse; questa non può fondarsi sui meccanismi noti e sulle imprese che conosciamo, né tanto meno sulle banche così come sono. I provvedimenti presi e allo studio sono finalizzati a salvare la speculazione e le banche che a quella tengono il sacco. Si tratta, al contrario, di affermare un modello diverso, di produzione e di società, che garantisca democrazia, libertà, equità, salvaguardia dell’ambiente e cultura, e la possibilità di godere delle nuove frontiere della scienza e della tecnologia.

La questione oggi si pone in modo diverso che nel passato: mentre il capitalismo, fino ad ieri, pur nelle sue iniquità, violenze e sfruttamento, garantiva sviluppo (squilibrato socialmente e geograficamente), oggi tutto è mutato, niente è come nel passato, le peggiori fantasie della fantascienza e dei disastri climatici bussano alla porta.

Siamo al bivio: o la dilatazione, senza ipocrisie, della violenza di stato e la chirurgia della guerra o la modifica della società, anche se questa avrà tempi non immediati di elaborazione e di affermazioni (le proteste mondiali di questi giorni fanno ben sperare almeno su una presa di coscienza).

È il cambiamento dell’impresa, del rapporto sociale di produzione, del lavoro, della qualità della democrazia, della libertà individuale, con un reddito garantito per tutti e un limite ai guadagni individuali, che devono costituire il traguardo strategico, da sperimentare e da inventare quotidianamente in solidarietà con l’umanità tutta. Non ci sono ricette, ma ci vuole forza, intelligenza e pazienza.

O il “niente sarà come prima” ha questa dimensione politica e sociale o rappresenta un modo per addomesticare l’intelligenza dei popoli. L’economia soccomberà ad un atto dell’immaginazione (R. Ford citato in E. Nesi, Storia della mia gente).

Niente è come prima

Niente è come prima

su Alfabeta2 n. 15 dicembre 2011


La ripetizione che niente è, e sarà, come prima non corrisponde alla consapevolezza che la formazione sociale capitalistica è cambiata. Il capitalismo, pare, abbia concluso la sua fase “rivoluzionaria”, e come l’apprendista stregone no riesce a governare le forze che ha evocato.

Questione che può essere affrontata da diversi punti di vista e che qui si affronta, in forma molto semplificata, dal punto di vista della trasformazione del denaro in capitale (Marx, Il Capitale, Libro primo).

Dal Sole 24ore (6 agosto) si ricavano i seguenti dati di valore riferiti al 2010 del sistema mondo:

- PIL 74.000 miliardi;

- Borse 50.000 miliardi;

- Obbligazioni 95.000 miliardi;

- “altri” strumenti finanziaria 466.000 miliardi.

La produzione reale, merci e servizi (74.000 miliardi), è pari al 13% degli strumenti finanziari (economia di carta), tenendo fuori da questo calcolo il valore delle Borse che, ci si può illudere, hanno riferimento con l’economia reale. Detto in altro modo quello che uomini e donne producono, in tutto il mondo, rappresenta poco più di 1/10 del valore della “ricchezza” finanziaria che circola.

Si tratta del fenomeno della finanziarizzazione dell’economia un tema non nuovissimo (già esplorato da Hilferding nel 1910) ma che negli ultimi trenta anni ha avuto un’esplosione e si è reso autonomo rispetto al capitale produttivo. È proprio la sua dimensione e la sua autonomia che rende teso e, apparentemente, conflittuale il legame tra apparati dello stato e capitale finanziario.

I dati precedenti non possono scandalizzarci, ma non sono indifferenti; essi indicano una trasformazione di fondo del capitalismo.

Il processo di trasformazione del denaro in capitale si fonda sul processo di trasformazione del denaro in merce e quindi in denaro (in formula marxiana:

D-M-D*; dove D* è maggiore di D). Questa relazione ha costituito il tratto “rivoluzionario” del capitale (inteso come rapporto sociale); essa sussiste ancora (riguarda la produzione di merci e servizi, anche con forti trasformazioni), ma è largamente sovrastata da un processo che possiamo descrivere come basato su D-D-D (denaro-denaro-denaro). Nel processo definito dalla relazione D-M-D* era implicito, come è noto, il rapporto di sfruttamento, che storicamente i lavoratori hanno contrastato. Il capitale nella sua azione “creava” un antagonista che gli sottraeva risorse ma che era anche uno stimolo al raggiungimento di nuove frontiere di sviluppo, di avanzamenti tecnologici e organizzativi. Nello stesso tempo questo “antagonista” riusciva attraverso la sua azione sindacale e politica a conquistare diritti di cittadinanza sempre più estesi. Questa dinamica, che è stata positiva per lungo tempo, si avvantaggiava di una relazione triangolare capitale-lavoro-stato nella quale la pressione del “lavoro”, sia a livello sindacale che politico, sebbene spesso differenziata, esprimeva la rivendicazione del “diritto” ad una società migliore e dove il “capitale” accollava allo Stato detti miglioramenti per alleggerire la pressione del lavoro su di sé.

Quando detto è sicuramente una semplificazione, ma utile per leggere quello che pare un cambiamento di fondo. Nel ‘900 si possono contare diverse “crisi”, per ciascuna delle quali è possibile individuare una “spiegazione”, ma cosa succede nella società con il prevalere del processo D-D-D (senza dimenticare la crisi che di quel processo è figlia)? simultaneamente tre cose che tendono a cambiano la natura della società:

- è il “gioco” nel mercato finanziario che costituisce la componente principale della produzione di “ricchezza”;

- il “capitale” finanziario è impalpabile, non ha carne e ossa visibile. Non può essere contrastato da chi ne subisce gli effetti negativi (la popolazione); è “impersonale”, è un indice di borsa, contro di esso non si può scioperare (si possono rompere le vetrine come atto simbolico, ma non di più). Diventa un’entità metafisica ma pesante sulla vita di ciascuno;

- la relazione triangolare, poiché il capitale finanziario non ha “corpo” si frantuma; lo Stato, sulla base dell’apparato ideologico (il mercato, il debito, ecc.), è spinto ad “opprime” il popolo per soddisfare la bramosia di quello (avviene in tutti i paesi – i debiti sovrani - con l’aggiunta esplicita degli apparati repressivi già in Grecia).

Il debito Italiano

Il debito dello Stato ammonta 1.900 miliardi di euro (il 119% del Pil); un debito, secondo molti, che dipende dal fatto che il paese ha vissuto al di sopra delle sue possibilità. Ma sarà vero? Facciamo un po’ di conti, anche se semplificati.

Il mancato gettito dell’evasione fiscale è pari a 120 miliardi di euro annui. Una seria politica di contrasto avrebbe potuto ridurre almeno alla metà il mancato gettito; negli ultimi dieci anni questo avrebbe significato entrate per 600 miliardi, e quindi una diminuzione della stessa cifra del debito.

La voce “corruzione”, assumendo la valutazione della Corte dei Conti, comporta un costo per lo Stato di 50-60 miliardi annui; una seria lotta alla corruzione avrebbe significato minore spese in dieci anni di 550 miliardi, con una minore spesa dello stato e una riduzione della stessa cifra del debito.

È difficile valutare l’elusione, di cui un importante ministro sembra essere il maggior esperto, ma tra scudi e condoni la cifra non deve essere modesta se oggi si discute di un condono edilizio e fiscale per recuperare 35 miliardi di euro. In dieci anni, molto prudentemente, si può valutare in almeno 150 miliardi di euro le minore entrate.

Si potrebbe continuare tentando un calcolo degli sprechi effettuati per contentare l’arroganza di qualche politico (aeroporti inutili, strade che finiscono nel nulla, ecc.), per l’incapacità progettuale che facilita la corruzione (ospedali non finiti, la famosa Salerno_Reggio Calabria, ecc.), il costo della “politica”, qualsiasi cosa si intenda esso è superiore alla media europea; ecc. Ma lasciamo stare.

Ecco a questo punto che i 1.900 miliardi di debito oggi, a spese immutate, avrebbero potuto essere pari a (1.900 – 600 – 550 – 150) 600 miliardi di euro (38% del Pil). Con questo non si vuole negare l’esistenza del debito, ma negare che esso sia il frutto del troppo alto costo dei diritti di cittadinanza (scuola, salute, casa, pensioni, ammortizzatori sociali, ecc.). Esso è il risultato del colposo e doloso comportamento dei nostri governanti, che niente o poco hanno fatto per guarire la società italiana di alcuni suoi cancri come l’evasione e la corruzione; al contrario questi comportamenti sono stati giustificati (dichiarando che le tasse erano troppo alte), promossi (attraverso i condoni) o facilitati (ancora si aspetta la legge anticorruzione).

Pagare o non pagare?

La speculazione finanziaria, come tutti i creditori, pretende di essere pagata. Abbandonata, di fatto, la speculazione sulle azioni delle imprese, si è concentrata sui titoli sovrani (e sulle banche che li possiedono). Un’attenzione particolare viene esercitata sui titoli dei paesi con governi “deboli”. Deboli perché non in grado né di combattere la speculazione con armi efficaci, né perché possono opporsi alla pressione per imporre sacrifici ai rispettivi popoli per pagare i debiti (riduzione di salari e pensioni; cancellazione dei servizi sociali; licenziamenti; ecc.).

Tale debolezza si misura con il fatto che questi Stati privilegiano il debito pubblico rispetto ad altri debiti come quelli nei riguardi dei lavoratori e delle popolazioni. Lo Stato contrae un debito non solo verso chi gli presta denari, ma ha anche verso la popolazione (sanità, scuola, e welfare), contrae debiti nei riguardi dei suoi dipendenti, dei pensionati, per garantire la cultura, il paesaggio, ecc. Privilegiare un debitore appartiene alla fattispecie della “bancarotta preferenziale” perseguita penalmente.

Ma pagare o non pagare è una questione esclusivamente politica. Se i connotati del “nuovo” capitalismo fossero quelli descritte prima, allora la società mondiale si avvia a trasformare il triangolo, rappresentativo della scala delle diseguaglianze, in una “clessidra”: nella la bolla superiore, più piccola, si collocano i “ricchi”, speculatori e no, e chi a quelli risultano funzionali; nella bolla inferiore un’umanità impoverita, privata dei diritti, ribellista e oppressa con violenza.

Se questa pare una prospettiva da accettare allora bisogna pagare; i provvedimenti che si stanno prendendo di fatto alimentano la speculazione, offrendole carne fresca su cui affondare i denti; né la tassazione sulle intermediazione e gli altri provvedimenti allo studio serviranno, la massa di risorse finanziarie che la speculazione muove sono tali da non essere che intaccata lievemente.

Ci sono indizi che suggeriscono che questa sia la strada che si sta percorrendo: tra il 1981 e il 2011 le imposte sugli scaglioni di reddito più alti sono fortemente diminuite (Francia dal 60% al 40%; Germania dal 55% al 43%; Gran Bretagna dal 60 al 52%; Italia dal 68 al 41%; USA dal 65% al 33%); il “capitalista” più ricco della Repubblica popolare cinese si appresta ad entrare nel Comitato Centrale del Partito comunista cinese; il capo delle strategie della JP Morgan Chase, ha dichiarato che “ i margini di profitto sono ai massimi storici da molti decenni e questo si spiega con la compressione dei salari”; secondo la rivista Forbes il mondo ha 1.011 miliardari, persone con più di un miliardo, nello scorso anno, solo il 12% hanno visto le loro fortune declinare (per loro la crisi è un ingrasso; i primi dieci hanno incrementato il loro patrimonio di 42 miliardi di $). Mentre le nuove povertà si sommano alle vecchie.

Non pagare il debito è una scelta politica che un governo alternativo a quello attuale dovrebbe prendere. E la vedova con il suo Bot da cui semestralmente stacca la cedola per sopravvivere, vogliamo farla morire di inedia? Ipocrisie e opportunismi.

Il debito pubblico italiano è detenuto per il 56% in Italia e per il 44% all’estero; per lo più da istituzioni bancarie e assicurative italiane e straniere, gli investitori individuali italiani ne detengono solo il 14% e tra questi c’è la “vedova”. Non pagare si può fare in tanti modi: con un concordato garantendo ai creditori non più del 25% di quanto dovuto (così fanno le imprese sull’orlo del fallimento); si può garantire che ai possessori individuali, con un massimale di capitale da stabilire, si possono garantire interessi e rimborsi interi, o si può chiudere il rubinetto dei pagamenti, provvedendo in modo diverso alla “vedova”. Dipende dalla forza politica del governo e soprattutto della sua linea strategica.

Colpire le “tasche” degli speculatori è l’unico modo per combatterli e perché l’economia possa riprendersi su basi diverse; questa non può fondarsi sui meccanismi noti e sulle imprese che conosciamo, né tanto meno sulle banche così come sono. I provvedimenti presi e allo studio sono finalizzati a salvare la speculazione e le banche che a quella tengono il sacco. Si tratta, al contrario, di affermare un modello diverso, di produzione e di società, che garantisca democrazia, libertà, equità, salvaguardia dell’ambiente e cultura, e la possibilità di godere delle nuove frontiere della scienza e della tecnologia.

La questione oggi si pone in modo diverso che nel passato: mentre il capitalismo, fino ad ieri, pur nelle sue iniquità, violenze e sfruttamento, garantiva sviluppo (squilibrato socialmente e geograficamente), oggi tutto è mutato, niente è come nel passato, le peggiori fantasie della fantascienza e dei disastri climatici bussano alla porta.

Siamo al bivio: o la dilatazione, senza ipocrisie, della violenza di stato e la chirurgia della guerra o la modifica della società, anche se questa avrà tempi non immediati di elaborazione e di affermazioni (le proteste mondiali di questi giorni fanno ben sperare almeno su una presa di coscienza).

È il cambiamento dell’impresa, del rapporto sociale di produzione, del lavoro, della qualità della democrazia, della libertà individuale, con un reddito garantito per tutti e un limite ai guadagni individuali, che devono costituire il traguardo strategico, da sperimentare e da inventare quotidianamente in solidarietà con l’umanità tutta. Non ci sono ricette, ma ci vuole forza, intelligenza e pazienza.

O il “niente sarà come prima” ha questa dimensione politica e sociale o rappresenta un modo per addomesticare l’intelligenza dei popoli. L’economia soccomberà ad un atto dell’immaginazione (R. Ford citato in E. Nesi, Storia della mia gente).

Diario 154 5-11 Dicembre 201

Diario 154

5-11 Dicembre 2011

F.I.

I “tecnici” al servizio del … popolo

Viva il pareggio di bilancio costituzionale

Angelo Panebianco e la scuola

Analfabetismo di ritorno

Citazioni: nel bene e nel male




I “tecnici” al servizio del … popolo

Sulla manovra elaborata dai professori, si è detto tutto, essa non è equa, usa strumenti molto semplificati, gli interventi per lo sviluppo sono modesti e non si sa quanto efficaci, non taglia le spese inutili, ecc. ma è piena di buone intenzioni.

Alcune norme sono inapplicabili, sembra, non credo proprio, i capitali “scudati”, possono benissimo essere rintracciati, né vale il ragionamento che essi possono essere stati investiti, infatti non si tassano nella loro consistenza di oggi, ma di quella del tempo. Si dice lo Stato ha promesso di liberarli di ogni altra incombenza con il pagamento del 5%, quindi non si può chiedere di più. Strano ragionamento Lo Stato si era impegnato, dico una cosa per tutte, ad adeguare le pensioni all’inflazione e ha deciso di non farlo tranne che per alcune fasce (ancora da definire). Sono rintracciabili e si può chiedere di pagare, se mai lo scandalo è nel 1,5% che dovrebbero pagare (i capitali rientrati hanno risparmiato almeno il 40% sul piano fiscale, per alcuni poi c’è anche il risparmio … penale). C’è poi la ribellione parlamentare avversa al comma che prevedere di intervenire sulle remunerazioni dei parlamentari. Non sono una fanatico fustigatore dei guadagni dei parlamentari, c’è un po’ di qualunquismo, ma è certo che i troppi privilegi storpiano.

I giustificazionismi, per così dire, sostengono che in 17 giorni non potevano fare di più. Non credo forse si sarebbe potuto fare di più e meglio, molte cose sono più simboliche che reali (le barche, ecc.), altre hanno tempi lunghi (le provincie), altre sono proprio sbagliate (per esempio l’obbligo dei pensionati ad aprire un conto in banca, questo si che è un favore alle stesse).

Ma quello che a me pare un errore di impostazione (che si ritrova sulle decisioni della Comunità, quando saranno operative): non porsi il problema del debito e della speculazione. Il riconoscimento che il mercato è sovrano (molto più del debito sovrano) non ci fa uscire (a noi e a tutti i paesi indebitati) fuori dalla crisi. Non c’è dubbio che su questo Monti sia intransigente; ma questo è un vero e proprio guaio. Senza mettere in moto provvedimenti seri contro la speculazione saremo sempre sottoposti (intendo l’economia complessiva del mondo) al “gioco” della speculazione. Fino a quando non si fa un ragionamento serio su che cosa fare del debito saremo sempre in crisi nonostante tutte le belle cose che si dicono dell’Italia e della nostra … economia.

Senza una loro specifica volontà, e forse anche senza una loro specifica consapevolezza, i “tecnici” chiamati a governarci per 13 mesi, forse non stanno servendo il … popolo, ma altro e altri.

Viva il pareggio di bilancio costituzionale

Il pareggio di bilancio è legge costituzionale. Questa è una bella notizia. Per alcuni economisti questo è un errore perché non si potranno fare più politiche keynesiane di

sostegno alla domanda, non credo sia vero, ma non posso argomentare in poco spazio. È una buona notizia perché ci libera del debito sovrano, di quello futuro, che sarà impossibile, ma anche e soprattutto di quello presente. Non si sente parlare d’altro della fiducia che bisogna riconquistare nel mercato finanziario, anche Fassina che passa per un terribile sinistro del PD, tanto che l’ala liberale ne aveva richiesto le dimissioni da responsabile economico del partito, in questi giorni ci ricorda che “dobbiamo” piazzare sul mercato titoli per alcune centinaia di miliardi di euro (mi pare 400) e che quindi è assolutamente necessaria la fiducia del mercato e il governo Monti in questo è fondamentale. Ma andiamo per ordine.

Perché abbiamo bisogno di piazzare sul mercato titoli per centinaia di miliardi di euro? Per rinnovare i titoli in scadenza, cioè facciamo un nuovo debito per pagare un vecchio debito. E come se scadesse una cambiale chiediamo il suo rinnovo, in questo caso,come è noto, si paga un diritto di mora, che nel caso specifico del rinnovo del debito sovrano è costituito dai maggiori interessi che il “mercato” ci chiede giusto il differenziale di fiducia misurato rispetto ai titoli tedeschi (il famoso spread).

Se fosse vero, ed è vero, che si fa un nuovo debito per pagarne uno vecchio, e se fosse vero, e dovrebbe essere vero, che dato il pareggio di bilancio costituzionale, non sarà possibile fare un nuovo debito per eventuali bisogni del paese (il bilancio deve essere sempre in pareggio) se ne deduce che sia possibile decidere di non pagare il debito passato, tanto sul “mercato” non potremo andare per legge (e questo vale per tutti i paesi che hanno in costituzione l’obbligo del pareggio di bilancio); inoltre le agenzie di rating posso chiudere i battenti e finirla di giocare di sponda o direttamente con la speculazione finanziaria.

Certo il paese sarebbe disonorato, ma il paese è in queste condizione per il disonore degli evasori fiscali, della corruzione e della speculazione finanziaria e della inettitudine colposa e dolosa dei suoi governanti (che il paese si è scelto).

Del resto anche l’economista “veggente” Roubin ci ha suggerito o di svalutare il nostro debito di almeno il 25% o di trasformarlo in debito di lungo periodo (20-30 anni).

Se il paese tenesse molto alla sua onorabilità e non volesse cancellare il debito, tenuto conto delle difficoltà economiche del momento (e per quanto?) potrebbe decidere di congelare il debito, senza bisogno di rinnovarlo, e di destinare il 30% dell’avanzo primario di bilancio dei prossimi anni al pagamento di questo debito cominciando a rimborsare le persone fisiche italiane, a partire da quelli con il minore valore di titoli posseduti, per poi passare alle persone fisiche straniere e poi alle istituzioni italiane e infine a quelle straniere (o un qualsiasi altro ordine). Una moratoria che ci permetterebbe di vivere con il “nostro”, cosa che siamo obbligati a fare per la legge costituzionale sul pareggio di bilancio, ma senza l’assillo di andare sul mercato per rinnovare il vecchio debito.

Angelo Panebianco e la scuola

Il professore, sottolineo professore, ha preso spunto da una ricerca della Fondazione Agnelli, che denunzia il basso livello della nostra scuola media, per fare, nella rubrica che tiene settimanalmente su Sette (il settimanale del Corriere della Sera), una proposta tanto reazionaria quanto impraticabile. Dopo essersela presa con i professori, egli propone di dividere le nostre scuole medie in tre famiglie: buone, mediocri e pessime. Fatta questa classificazione si dovrebbe procedere a chiudere le pessime (e ovviamente licenziare insegnanti, presidi,bidelli, ecc e soprattutto rimandare i bambini a casa); dare tre anni di tempo a quelle classificate medie per mettersi alla pari delle migliore; premiare insegnati e personale delle migliori con aumenti di stipendio.

Il professore Panebianco dimentica che l’istruzione,compresa la media, è obbligatoria, e che lo Stato deve provvedere ad organizzarla per tutti. Il problema non è quello di chiudere le pessime ma di renderle migliori, lo Stato può fare molto a questo proposito e non solo ha fatto poco ma tende a fare sempre meno (stipendi, attrezzature, stato delle scuole, innovazione, ecc.). Ma questo al professore Panebianco interessa poco, il suo scopo è quello di meravigliare i suoi lettori con una rigida meritocrazia a prescindere da tutto il resto e dimentico del dettato costituzionale.

Analfabetismo di ritorno

Il professore Tullio De Mauro, riferendosi ad alcune ricerche internazionali ha messo in luce la grave situazione dell’alfabetismo della popolazione italiana. Ad un convegno, a Firenze, ha snocciolato le seguenti cifre:

"Il 71% della popolazione si trova al di sotto del livello minimo di lettura e comprensione di un testo scritto in italiano di media difficoltà: il 5% non è neppure in grado di decifrare lettere e cifre, un altro 33% sa leggere, ma riesce a decifrare solo testi di primo livello su una scala di cinque ed è a forte rischio di regressione nell'analfabetismo, un ulteriore 33% si ferma a testi di secondo livello. Non più del 20% possiede le competenze minime per orientarsi e risolvere, attraverso l'uso appropriato della lingua italiana, situazioni complesse e problemi della vita sociale quotidiana. Ce lo dicono due recenti studi internazionali, ma qui da noi nessuno sembra voler sentire" La Repubblica, 28 novembre).

La situazione appare grave e corrisponde alla denunzia della Fondazione Agnelli sul pessimo stato della nostra scuola media. Sono necessari interventi urgenti (non certo punitive delle scuole come proposto da Panebianco), sul piano dell’organizzazione della scuola, della motivazione degli insegnanti, della loro preparazione, ecc. ma non pare che la scuola interessi i governi, bisogna solo “tagliare” come se fosse una spesa inutile.

Accanto ,tuttavia, c’è un problema culturale generale e riguarda l’uso del dialetto. Negli ultime vent’anni, un mal riposto principio di identità ha assegnato al dialetto la forza espressiva di tale identità. Oggi nessuno si sforza più di parlare in italiano, neanche quello televisivo, moltissimi si esprimono in dialetto, a tutti livelli dal familiare al commerciale, dagli uffici, alla … scuola. Trovo scandaloso che nella scuola, a tutti i livelli si permetta l’uso del dialetto agli studenti e non poche volte esso è usato anche dai professori e maestri con la giustificazione di raggiungere una migliore comunicazione. In queste condizioni la lingua italiana, ovviamente, si … perde e la sua comprensione è sempre più scarsa.

Citazioni: nel bene e nel male

Non è una citazione ma una raccomandazione: leggete l’articolo “le pensioni degli altri” sull’Espresso di questa settimana con un elenco di pensionati “eccellenti”, che cumulano più pensioni, pensioni e stipendi, ecc. Tutto lecito ma un po’ … scandaloso.

Rosy Bindi

“Mi dispiace, l’Italia non ha abbastanza pensionati da dare in pasto allo spread”, L’Espresso, 8/15 dicembre 2011.

Tarcisio Bertone, Segretario di stato vaticano

“Il problema dell’ICI è un problema particolare : un problema da studiare e da approfondire”, La Repubblica, 9 dicembre 2011. (attenzione cardinale, c’è un proverbio che dice “mentre il medico studia il malato muore”. Facciamo presto a studiare e a pagare)

Cesare Geronzi

“La massoneria conta più di prima”, Corriere della Sera, 9 dicembre 2011. (ci crediamo e ci… dispiace)

Alessandra Mussolini

“Senza vitalizio è come se ci mandassero nudi per strada. La gente vuole vederci soffrire” La Repubblica, 10 dicembre 2011. (onorevole si compra non è un bel vedere, con un cappotto non è necessari la pelliccia)

Guido Rossi

“Nessuna parola (a Bruxelles) è stata spesa invece per evitare la speculazione sui titoli degli Stati, … E nemmeno è stato previsto qualcosa per disciplinare una mercato finanziario assolutamente fuori controllo, che fa danzare altalenare le borse e gli spread con i bund tedeschi giorno dopo giorno, secondo gli umori degli speculatori… La maggiore assenza e quella della lotta all’evasione fiscale e alla corruzione pubblica e privata, senza la quale l’abusa parola equità diventa un riferimento vuoto”, Il Sole 24 Ore, 11 dicembre 2011.

Beppe Pisanu

“Monti ha giustamente concentrato l’attenzione sul traguardo 2013. Ma la via di uscita dalla recessione è assai più lunga ed ha un tracciato europeo che si adatta a lui come la montagna a Gino Bartali. Se dunque il governo concludesse positivamente la legislatura potremmo anche immaginare Monti alla guida di una coerente coalizione politica”, La Repubblica, 11 dicembre 2011. (troppo Monti storpia: Monti senatore a vita; Monti tecnico al governo; Monti guida di una coalizione politica; Monti al Quirinale. Calma!)

Attilio Befera, direttore dell’Agenzia delle entrate

“Non basterà un giorno per ridurre a livelli europei un’evasione di 120 miliardi l’anno. Oggi, però, abbiamo tutti gli strumenti per operare: l’informazione completa sui movimenti finanziari, il redditometro, la tracciabilità del contante. È finito il segreto bancario”, Corriere della Sera, 11 dicembre 2011. (Lo prendiamo in parola: Basta scuse!)

domenica 4 dicembre 2011

Dalla realtà passiamo alla politica

Dalla realtà passiamo alla politica

Francesco Indovina e Angelo Tirrito

per Il Manifesto

C’è una grande attesa per gli eurobond, ma per il debito degli Stati non cambierà nulla, sarebbero debitori in eurobond. Ma, si dice, gli eurobond sarebbero più affidabili e … assicurerebbero gli speculatori. Che illusione. Inoltre cosa potrà cambiare dal punto di vista dei rendimenti; inoltre gli eurobond avranno un rendimento unico o sarà il mercato che li stabilirà Stato per Stato?

Ma torniamo all’Italia. Lo spread indica la nostra debolezza e dobbiamo abbozzare. Non è possibile operare sullo debito, si dice. È necessario subire i rialzi dei rendimenti perché, si argomenta, in caso contrario non si troverebbe sul mercato chi sarebbe disposto a prestarci nuovo danaro. Ma attenzione dobbiamo cercare nuovo danaro sul mercato solo per rinnovare i debiti già contratti. I risparmiatori e gli speculatori i soldi ce li hanno già dati, è il nostro debito.

Banche, fondi, individui, ecc. hanno in mano titoli in scadenza, titoli che all’atto della loro sottoscrizione non superava il 3-4%; titoli perfettamente validi anche se alla scadenza non venissero onorati (sono cambiali dello Stato). In sostanza chiediamo soldi per rinnovare il nostro debito e il loro credito. Una sorta del rinnovo di una cambiale. Gli interessi più alti che paghiamo sono una sorta di “diritto di mora” per il rinnovo della cambiale, cioè del debito. L’asta che periodicamente si fa dei titoli di stato serve solo per pagare i titoli scaduti, cioè per rinnovare il debito spostandone nel tempo la scadenza; i rinnovi avvengono ad elevati rendimenti per danaro già prestatoci, con la scusa di favorirci con nuove e più lontane scadenze.

Che si può fare? Dato che i governi nella migliore delle ipotesi non sanno che pesci pigliare, la cosa da fare, senza arrivare agli estremi del fallimento che fa orrore, è congelare per cinque anni il debito. Cosa che dovrebbe interessare anche il “piccolo” risparmiatore, meglio del fallimento che vedrebbe vanificare il proprio capitale. Cinque anni nei quali non dobbiamo chiedere prestiti.

In questi cinque anni i governi potrebbero capire quali sono i mutamenti che sono avvenuti nel capitalismo e nella finanza e potrebbero prendere provvedimenti adatti (dal controllo sui tassi d’interesse, al controllo sui cambi, alla eliminazione delle Borse, alla riorganizzazione delle banche alle quali sarebbe proibito operare nella “finanza”, mettere imposte sulle transazioni finanziarie e sui patrimoni, ecc.) e attivare politiche industriali e di sviluppo (magari ecologiche). Tutti provvedimenti che tuttavia non inciderebbero, almeno crediamo, sulla natura del “nuovo capitalismo” e che non coglie l’opportunità di un cambiamento profondo. Per chi credesse invece che sarebbe una buona occasione per cominciare a sperimentare nuove società, attivando forme avanzate di democrazia, nuove e diverse organizzazioni sociali ed economiche. Cinque anni potrebbero essere una grande occasione.

Certo questa soluzione dovrebbe essere comune a tutti i paesi, almeno all’Europa (ammesso che i decisori politici fossero indipendenti dalla “finanza”); in questa direzione il professor Monti potrebbe esercitare la forza della sua serietà e credibilità, il guaio è che egli pensa cose diverse.

Ma si potrebbe fare da soli. Le forze ci sono, ma la politica sarà in grado di fare la sua parte?

Anche Nouriel Roubin propone qualcosa di simile: o la svalutazione del 25% del debito, o il suo rinnovo a 20-30 anni (La Repubblica 30.11.2011).

Diario 153 28 novembre 4 dicembre 2011


Diario 153
28 novembre 4 dicembre 2011
F.I.

Lucio Magri
Il fallimeno o la moratorio ... si può
La manovra del governo
L'incastro politico
Monti uno di ... Loro
Il governo liquida il presidente della Finmeccanica
Mi viene da ridere mi viene da piangere
Citazioni: nel bene e nel male

Lucio Magri
Lucio volontariamente ha abbandonato il mondo. Voglio ricordarlo agli amici con la conclusione  dell’Introduzione al suo ultimo libro (Il sarto do Ulm):
Per una persona ormai anziana l’isolamento è dignitoso, ma per un comunista è il peccato più grave, di cui rendere conto. L’”ultimo dei moicani” può essere un mito, il comunista solo e arrabbiato, rischia il ridicolo se non si tira da parte.
Ma se il peccato (perdonate l’ironica concessione alla moda e alla convenienza che oggi spinge tanti all’improvvisa ricerca di Dio) apre la via del Signore, proprio l’isolamento potrebbe permettere un utile distacco. Non posso affermare “non c’ero”, non sapevo; qualcosa anzi l’ho detta quand’era scomodo, ho perciò la libertà di difendere ciò che non va ripudiato e di chiedermi ciò che si poteva fare o si potrebbe ancora fare al di là del bric-a-brac della politica di ogni giorno.
Non è vero che la storia passata, dei comunisti e di tutti, era già tutta predeterminata, così come non è vero che il futuro è tutto in mano ai giovani che verranno. La “vecchia talpa” ha scavato e continua a scavare, ma, essendo cieca, non sa bene da dove viene e dove va, o se gira in circolo. Chi non vuole o non può affidarsi alla provvidenza, deve pur fare ciò che può per capirlo e così aiutarla.    

Il falimento o la moratoria … si può
Consola, sia fa per dire, che anche un economista “preveggente” come Nouriel Roubin, in una intervista a La Repubblica (30 novembre) dica: “Ci sono due strade. Una è la riduzione secca del 25% del valore nominale dei titoli in circolazione. L’altra consiste nella sostituzione dei bond attuali con altri recanti lo stesso importo ma una più lunga scadenza, diciamo 20-30 anni e una cedola più bassa…. La seconda ipotesi è preferibile soprattutto per banche e assicurazioni che possono tenere i bond fino alla scadenza  e non dovrebbero, a differenza della prima, contabilizzare in bilancio vistose perdite.”  Insomma il suggerimento di un fallimento controllato o di una moratoria, come ripeto da tempo. Chi sa se la parola di Roubin possa aiutare ad aprire le menti.

La manovra del Governo
Per parlare della manovra del governo bisogna aspettare la prossima settimana. Ci sono delle anticipazioni ma dopo gli incontri con i partiti e le organizzazioni sindacali può essere (?) che qualcosa cambi.
Se fossero confermate le anticipazioni si potrebbero sostenere le seguenti cose: a) la manovra riguarda la correzione dei conti pubblici (con questa nel 2011 la correzione ammonterebbe a 74,5 miliardi); c’è un aumento della tassazione; l’equità non si vede (“ci vuole la lente di in gradimento per vederla”, come dice la Camusso); è depressiva per l’economia; gli interventi per lo sviluppo fanno sorridere.
Non credo che lo sviluppo, con qualsiasi qualificazione, possa essere il freno alla crisi finanziaria (e alla speculazione), ma comunque sarebbe qualcosa, ma qui manca e manca, a quello che si sa, qualsiasi sua qualificazione. Ma quello che impensierisce più di tutto, ma questo vale per tutta l’Europa, è la convinzione dei governanti che l’attacco ai debiti sovrani sia una questione che riguardi il debito pubblico in quanto tale e non una delle occasione della speculazione finanziaria e che il problema sia la riduzione di tale debito. Se così fosse veramente saremmo fritti. Tanto per capirci se volessimo ridurre del 50% il nostro debito e ammesso che il nostro avanzo primario fosse e si mantenesse pari al 5% del Pil, e che quest’ultimo rimanesse sostanzialmente stabile  e che si potesse dedicare  il’60%  di tale avanzo alla diminuzione del debito (che è già troppo tenuto conto che con  l’avanzo primario bisogna pagare gli interessi del debito pubblico e si potrebbero fare anche altre cose), sarebbero necessari circa … 25 anni.

L’incastro politico
Neanche il terzo polo, dopo l’illustrazione della manovra da parte del Presidente del consiglio, si è detto completamente soddisfatto. PD e PDL ancora più perplessi. Qualcuno si illude che il Parlamento potrà apportare delle modifiche. Ma se Monti non cambiasse la manovra, se il Parlamento non fosse in grado di portare delle modifiche, se i partiti restassero insoddisfatti, questi ultimi come si comporterebbero? A me sembrano … incastrati, ma quello che il peggio sta nel fatto che il “paese” rimarrebbe incastrato.
Sarebbe stato necessario, soprattutto per il PD, conoscere per tempo, non solo la serietà e moralità del prof. Mario Monti, ma anche il suo pensiero economico. Ma qui la responsabilità del grande Giorgio non è piccola. La storia dirà.

Monti … uno di loro
L’idea che il Premier e qualche suo ministro vadano a “Porta a Porta” ha spiegare la manovra si spera possa concludere il ciclo, detto, dell’incenso. È uno di loro, non si tratta né di errore, né di necessità.
La manovra è stata spiegata e illustrata in Parlamento. È stata nuovamente illustrata in due “conferenze stampa”, il bisogno di andare dal dr. Vespa è pura vanità e … investimento.

Il governo liquida il presidente della Finmeccanica
Il licenziamento del presidente della Finmeccanica era obbligatorio e il meno che si potesse fare, ma 6,5 milioni di “buona uscita” fanno accapponare la pelle. In quale lato della manovra si colloca questa cifra in quella dei sacrifici o in quella dell’equità?

Mi viene da ridere e mi viene da piangere.
Ricevo dal mio amico Angelo questa nota che vi trasmetto perché  mi pare che con ironia descrive il dilemma, si fa per dire, di oggi
Mi viene da ridere o viceversa perché mentre si annunciano manovre terribili per salvare, e qui non si capisce bene se l’ Euro, l’ Europa, le banche, lo Stato, il debito pubblico, i pensionati, la sanità, il welfare,i comuni, le provincie, le regioni, il Parlamento, la democrazia, il clima, le balene, ecc. (scrivo ecc. solo perché in questo minuto non mi sovviene altro delle cose che salveremo, in un colpo solo, con le decisioni del 5 e del 9 dicembre).
Mi viene da piangere o viceversa perche nessuno (tecnico o politico o giornalista) mi dice che accadrà dopo che si son salvate queste cose,  Come sarà la nostra vita? Come l’anno scorso? Come dieci anni fa? Saremo tutti ricchi? Il lavoro sarà per tutti in abbondanza e altamente retribuito con la conseguenza di fare subito una nuova legge sulle pensioni che ridurrà l’età a 40 anni?  Verranno ridotte drasticamente le tasse? Il clima muterà in meglio? I treni arriveranno in orario? Gli zingari diventeranno i ricchi turisti più amati? La corruzione non ci sarà più? I mafiosi si dedicheranno alle opere di bene?
Mi viene da ridere, o viceversa, quando considero che quando le persone serie di questo paese ci dicono che il provvedimento sulle pensioni mira anche ad impedire che i vecchietti stiano a casa o ai giardinetti senza sapere che fare. E piango o rido quando mi accorgo che nessuno dice la semplice verità e cioè che non si tratta di andare in pensione a 74 anni ma di pagartela la pensione a cominciare da quell’età. E questa e una verità con conseguenze terribili se messa in relazione con la facilità di licenziare per motivi di economicità aziendale. Nessuno vuole gente di più di cinquantanni per fare lavori pesanti o perché “obsoleti” professionalmente. Allora “per favorire i giovani” i cinquantenni verranno licenziati e dai 50 ai 70 non troveranno lavoro ma dovranno pagare lo stesso i contributi perché se no a 70 anni la pensione che percepiranno sarà irrisoria. E chi li camperà e chi gli pagherà i contributi? Ma è chiaro, saranno i giovani favoriti nel lavoro dal licenziamento dei vecchi!
Mi viene da piangere e solo da piangere quando penso cosa riserva l’ avvenire ai giovani!
Mi viene da piangere e da ridere quando vedo che nessuno sottolinea  l’ineluttabilità di quanto ho scritto sopra e quindi nessuno afferma che se si vuole portare il minimo della pensione a 70 anni occorrerebbe una legge che proibisse di licenziare quando si raggiunge una età giudicata difficile per  lavorare (50 anni).


Citazioni: nel bene e nel male

Massimo Zedda (sindaco di Cagliari)
“Dopo Berlusconi, vedere una persona seria la governo è comunque un sollievo. Ma non penso che saranno i tecnici a salvarci da questa crisi. E credo che la politica stia venendo meno al suo ruolo…. Quando riesco ci vado a mangiare i ricci. La politica è una cosa seria, ma i ricci sono patrimonio dei piaceri dell’umanità” , intervista di V. Zincone, in Sette, settimanale del Corriere della Sera, 1 dicembre 2011.

Josè Saramago
“Dire “No alla disoccupazione” è ostacolare il genocidio  lento ma implacabile a cui il sistema condanna milioni di persone. Sappiamo di poter uscire da questa crisi, sappiamo di non chiedere la luna. E sappiamo di avere voce per usarla. Di fronte alla superbia del sistema, invochiamo il nostro diritto alla critica e alla protesta. Loro non sanno tutto. Si sono sbagliati. Ci hanno ingannati. Non accetteremo di essere le loro vittime”, da libretto che accompagna il film Josè e Pilar , Feltrinelli editore.

 Roberta de Monticelli
“Guardi che l’etica non è un comandamento, ma è il pensiero che dà linguaggio all’esperienza morale. Cioè a quella, per esempio che facciamo ogni giorno quando vediamo una città brutta, lo sporco per terra, il degrado, la speculazione che fa stracci del territorio, che è la risorsa non solo economica, ma culturale e spirituale. È un dovere dei filosofi trasformare in concetti e giudizi queste esperienze. Sennò che ci stiamo a fare?” , L’Espresso, 8 dicembre 2011

Massimo Cacciari
“Questa esperienza (il governo Monti) dovrebbe, invece, indicarci come di fronte alla straordinaria complessità delle relazioni economiche e finanziarie, dominanti il mondo globale, sia ormai necessario pensare ad assetti politici di governo, che interiorizzino le più alte competenze, eliminando non solo ogni demagogia, ma anche ogni conservatorismo sul ruolo delle assemblee elettive”, L’Espresso, 8 dicembre 2011 (Le “più alte competenze” sono angeliche? hanno tutti la stessa visione del mondo? Hanno tutti la stessa idea di interesse generale? Ecc. Certo che sono in crisi le forme e capacità di governo – vedi l’Italia ma anche il governo Monti – ma la soluzione della “più alte competenze” non è neanche nuova. Il problema esiste, varrebbe la pena rifletterci seriamente)