Commento al libro di Giandomenico Amendola
(Apparsa sulla CittàBene Comune, Casa della Cultura, Milano)
Il libro curato da Giandomenico Amendola, L’immaginario e le
epidemie (Mario Adda Ed., 2020), è
tutto costruito su “una modalità di rappresentazione che diversamente dalla
razionalità, spesso invocata per affermare l’oggettività della percezione, non
ha come obiettivo l’astrazione o la prova inconfutabile ed universalmente accettata”
(p. 7). Questo nella convinzione che “la nostra esperienza è filtrata,
consapevolmente o meno, dall’immaginario” (p. 8) che altera la nostra
percezione della realtà in modo ancora più pervasivo e deformante quando ci
troviamo di fronte a fenomeni che non trovano una spiegazione razionale, come
può essere – o, meglio, come è stata nei secoli passati e come lo è anche ai
nostri giorni – un’epidemia.
Amendola, nell’introduzione al volume, disegna un reticolo ricco e
convincente del problema delle epidemie e di come queste siano state “trattate”
– nel senso di assorbite e rielaborate – nell’immaginario sociale. Su tale
maglia si innestano poi una serie di saggi di diversi autori – Antonio
Ciuffreda, Rino Caputo, Andrea Leonardi, Fabrizio Violante, Silvia Surrenti,
Letizia Carrera – che approfondiscono argomenti specifici attingendo dalla
letteratura, dall’arte, dal cinema, dalla storia. Il curatore riflettendo
sulla situazione attuale – cioè sull’epidemia di coronavirus che flagella
l’Italia, l’Europa e il mondo intero – nota che alcuni nostri atteggiamenti non
sono dissimili da quelli dal passato, cioè da quelli di secoli nei quali scarse
erano le conoscenze scientifiche (rispetto a quelle di oggi) e molto carente la
medicina. Il riferimento principale è alla peste del Seicento che colpì
l’Europa (quella descritta da Manzoni per Milano e da Defoe per Londra). Tra le
costanti Amendola evidenzia alcune costanti come la mancanza di una terapia,
l’incertezza sul periodo di durata, la ricerca del colpevole che ha dato inizio
alla pestilenza. Su tali aspetti oggi come allora l’immaginario collettivo si è
spesso scatenato dando luogo alla costruzione di scenari improbabili, eppure
per molti strati della popolazione credibili, come dimostra la loro rapida
diffusione, estremamente favorita dalla rete. Saranno capitate anche al lettore
situazioni come quella di cui io stesso sono stato personalmente testimonio che
provano quanto la tesi di Amendola sia convincente. Ero nella sala d’attesa del
mio medico, si era ancora all’inizio del contagio e non erano attivi i divieti
attuali, eravamo in cinque o sei, quando uno dei presenti, con la sicumera del
fanatico, ci ha spiegato che l’epidemia era causata dalle attenne per aumentare
la velocità della rete Internet (5 Giga). Nessuno ha provato a replicare o a
chiedere qualche plausibile, razionale o almeno ragionevole spiegazione sui
nessi tra due cose evidentemente prive di ogni collegamento. Quelle
affermazioni, al contrario, in quel clima di paura e insicurezza misto a credulità
e ignoranza, stavano già facendo breccia nell’immaginario dei presenti.
Dunque, tra le due epidemie ci sono sicuramente elementi comuni. Per
esempio, in termini di salute pubblica, il tema del distanziamento sociale che
a quel tempo assumeva i connotati del lazzaretto, oggi quelli
dell’autoisolamento prescritto dalle norme imposte dalle autorità. Ma anche –
più simili ai lazzaretti – quelli di quegli hotel riconvertiti in centri di
ospitalità per i malati di Covid-19. O, ancora, le mascherine che oggi trovano
una giustificazione sanitaria precisa mentre nel Seicento assumevano l’aspetto
di vere maschere con grandi nasi che venivano riempiti da sostanze che
avrebbero dovuto – così si credeva – precludere l’entrata dei “miasmi” e
dell’aria infetta nell’organismo e quindi evitare il diffondersi della
malattia. Oppure, per citarne ancora una, quella delle credenze
pseudo-religiose che, oggi come allora, non escludono che la vera causa
dell’epidemia sia l’esito della “collera divina”, un castigo per il comportamento
peccaminoso degli umani. Invece, ciò che sembra maggiormente caratterizzare la
situazione contemporanea è che “l’immaginazione è dominata dai media.
L’informazione televisiva e quella su Internet e i social è
monopolizzata dal virus”. La quantità di informazioni e la continua ricerca
di nuove informazioni allo scopo di placare l’ansia, in realtà – secondo
Amendola ma anche secondo chi scrive – determina maggiore spavento. Una
situazione nella quale la narrazione della realtà è fatta di voci, di “si dice”
e da false notizie. Questa spettacolarizzazione della pandemia è
accresciuta dalle affermazioni di tecnici, scienziati, politici, la cui
narrazione non sempre è coerente e comprensibile. Col risultato che alcuni
credono e altri no a cose vere e false e ciò che si determina è una situazione
confusa nella quale, sostanzialmente, prevalgono ansia e incertezza.
Antonio Ciuffreda nel suo saggio (Cronache e racconti della peste,
Firenze, Roma e Napoli) ci porta ad esplorare come in queste città, ma per accenni
anche a Milano, l’epidemia di peste che imperversò in Europa nel Seicento, fu
interpretata e combattuta come questione di interesse “pubblico”, come
oggi potremmo dire, ma che le soluzioni adottate non sempre sono state
efficaci. La diffusione dei lazzaretti, il seppellimento dei morti fuori
dalla città, la formazione di fosse comuni – non solo per i più poveri ma, in
relazione al numero dei morti, senza distinzione di censo – di fatto
risultarono inefficaci, soprattutto perché non si conosceva esattamente la
natura della malattia. Un morbo con il quale, in realtà, la popolazione
europea conviveva da lungo tempo, anche se la sua virulenza si presentava ad
ondate. L’epidemia, tuttavia, determinò sconvolgimenti sociali non solo per il
numero di morti ma anche perché finì per incidere su abitudini consolidate. E
se in alcune città la ricerca degli untori costituì una parte rilevate
dell’atteggiamento popolare e delle autorità, in altre, come a Roma, la
questione non si pose. Va anche segnalato che le epidemie sono state
l’occasione non solo per instituire apposite strutture di cura e/o confinamento
sociale, come i lazzaretti e gli ospedali, ma per la costituzione di apposite
istituzioni di tutela e di potere.
La conclusione – che qui riporto per inciso: “la questione dell’uso di
sostanze stupefacenti a fini artistici, per così dire, esula quindi dal
rapporto tra letteratura e malattia. Questi due termini, invece, possono essere
considerati come due aspetti fondamentali di quella grammatica più complessiva
che è il nostro orizzonte antropologico culturale” (p. 69) – costituisce la
chiave di lettura del saggio di Rino Caputo (Letteratura e malattia: un
contagio permanente). L’autore in questo testo ci conduce attraverso una
rapida – e non poteva essere diversamente – esplorazione della letteratura e
del suo rapporto con la malattia, a partire da Tucidide fino a Gadda. Del
resto, lo scopo non poteva essere quello di richiamare tutti gli autori che in
qualche forma avevano trattato il tema della malattia, quanto, piuttosto,
quello di mettere in luce come la condizione della malattia, o se si preferisse
del malato, sia stata sempre elemento costitutivo del panorama antropologico al
punto da pervadere la letteratura in ogni epoca.
Andrea Leonardi riflette invece sul rinnovamento dell’età barocca quale
– scrive – “ulteriore spunto di riflessione sui temi della fragilità umana e
dell’ineluttabilità del trapasso” (p. 73). È proprio questa tematica che guida
l’esplorazione dell’autore, che a partire dal Tintoretto (San Rocco e gli
appestati), ci fa attraversare l’arte del Seicento seguendo come filo
conduttore il tema della morte. Uno scenario artistico dove la peste,
paradossalmente, contribuì a costituire una condizione per un generale
rinnovamento dell’arte.
Dopo aver presentato alcuni dei principali film che presentano
narrazioni post apocalittiche, Fabrizio Violante ci introduce invece a una
serie di film che hanno attinenza con la pandemia attuale e mostra come, fin
nei particolari, l’immaginazione cinematografia abbia pienamente centrato i
caratteri del nostro presente. “Gli autori del cinema horror e catastrofico –
spiega – si [sono] spesso dimostrati dei cronisti di guerra in tempo di
pace” (p. 113). L’autore chiude la sua riflessione sul tema dell’isolamento con
un interrogativo che, a pensarci bene, apre la strada a una questione di fondo
che forse andrebbe affrontata a livello collettivo: “Come insegnano anche i più
disastrosi film a tema pandemico – scrive Violante –, dopo la tempesta del
contagio segue la quiete di una vita finalmente normale. Normale?” (116). In
altri termini – aggiungiamo noi – che cos’è la normalità? Siamo proprio certi
di voler tornare alla normalità pre-pandemica? Non sarebbe invece il caso di
cogliere questa occasione per ripensare la nostra condizione di normalità?
Ripercorrere le misure di sostanziale isolamento adottate nella pesta
seicentesca e accostarle, anche se in modo sommario, ai provvedimenti assunti
per contrastare l’epidemia attuale è quello che fa Silvia Surrenti nel suo
saggio (Il contagio, la cura ed il distanziamento sociale). Le
similitudini tra ieri e oggi sono impressionanti: in mancanza di cure
specifiche, allora come ora, massima attenzione veniva posta all’isolamento dei
malati dai sani nelle città. L’invenzione italiana dei lazzaretti, poi copiati
in tutta Europa, costituisce emblematicamente lo strumento principe
dell’isolamento. Anche la ricerca delle persone ritenute portatrici
dell’infezione – ieri i poveri o oggi soprattutto gli stranieri – ci dice che,
in fondo, nella cultura sociale le cose non sono cambiate di molto. In
questo saggio appare di notevole interesse la questione dell’odore. Si credeva
che la malattia avesse un odore che derivava dalla teoria miasmatica che
caratterizzava molte città: miasmi da evitare trasferendosi in luoghi più
salubri, ieri sulle colline toscane (Boccaccio) oggi nelle seconde case, o da
evitare con maschere che contenevano aceto, mentre oggi abbiamo le nostre
immancabili mascherine. Comunque, la malattia aveva nell’immaginario collettivo
una puzza che, in genere, corrispondeva a quella dei poveri, mentre oggi si
sperimentano, per ora con scarsi esiti, i cani per la ricerca, con il loro fine
olfatto, dei malati nelle stazioni e negli aeroporti.
Il connubio tra città e malattia viene da lontano, sostiene Letizia
Carrera nel suo saggio (Epidemie, città e immaginario urbano). La città è stata costruita a scopi
difensivi immaginando che i pericoli restassero “fuori le mura”, ma quel nemico
senza volto rappresentato dall’epidemia approfitta proprio della città per
mietere le sue vittime. Per questo nemico invisibile non esistono mura e la
città pare la condizione ideale per la sua diffusione. Solo a metà
dell’Ottocento, quando John Snow “realizza la sua famosa ricognizione del percorso
di contagio del colera nella Londra del XIX secolo” (p. 138), si affermano i
principi dell’igiene personale e di quella urbana, l’unico modo per combattere
i microrganismi che causavano le epidemie. L’affermarsi dell’idea di “città
sana” fa emergere – nota Carrera – che “le città sono rigorosamente due”,
quella della borghesia e quella degli slum. Una situazione che a Londra
viene “creata” attraverso la realizzazione di nuovi tessuti urbani, mentre a
Parigi sono gli interventi di Haussmann a darle corpo. L’idea che la città
sia pericolosa in quanto malsana entra così nel senso comune. La tubercolosi
assume il ruolo emblematico della malattia figlia della città malsana e a
quella si associa la sifilide come emblematica della città corrotta.
Insomma, il male città si costruisce nell’immaginario collettivo anche
se, tra Otto e Novecento – come la storia dell’urbanistica insegna – la città
resiste, si modifica, si diffondono istituzioni per la cura e l’igiene, si
moltiplicano gli spazi aperti, i parchi, ecc. Insomma, le pestilenze – e, più
in generale la malattia o, meglio, la paura della malattia – contribuiscono a
modificare le città, e si cercano soluzioni funzionali all’igiene urbana pur
non venendo meno l’esistenza di quelle “due città” che sono una contraddizione
non della città ma della società. Lo stesso, secondo l’autrice, sta avvenendo
con l’attuale pandemia e così i luoghi che eravamo abituati a vedere affollati
diventano rarefatti, poco frequentati, perché sconsigliati o persino vietati.
E, rispetto all’immaginario sociale, siamo alle solite perché si rafforza
l’idea del male città.
Per concludere, quello che il volume curato da Giandomenico Amendola fa
emergere con chiarezza – la ragione ultima per cui questo testo è di
particolare interesse – è che le epidemie, passate e presenti, finiscono col
mettere in discussione l’idea stessa di città che, per la sua stessa
conformazione e per la sua natura di aggregato sociale ove gli scambi tra le
persone si moltiplicano, appare come il luogo ideale per la diffusione del
contagio. Questo libro è dunque una buona occasione per riflettere sui
condizionamenti che genera la malattia anche a livello dell’organizzazione
urbana. I singoli saggi tematici si intrecciano tra di loro e con il discorso
introduttivo di Amendola offrendoci molteplici chiavi interpretative del
presente e delle nostre attuali reazioni. Tra queste – anche se a giudizio di
chi scrive è destinata a stemperarsi – un’idea di rifiuto della città a favore
dei centri minori delle aree interne. Al contrario, è mia opinione che la
città cambia e resiste, per ovvi quanto chiari motivi. Perché, in primis,
così come nel Novecento, è ancora il motore della produzione della ricchezza,
il centro dello sviluppo e dell’innovazione culturale, il meccanismo che
favorisce la socialità, il luogo ove più normale è il riconoscimento
dell’altro, compreso il diverso, dove si organizzano le forze sociali per il
cambiamento: anche il cambiamento della città stessa. L’incontro tra le
persone, occasionale o di prassi, la coesistenza in un determinato luogo, è
nutrimento della comunità e della democrazia. La colloquialità urbana –
chiamiamola così – e il dibattito pubblico sono un’opportunità importante del
vivere quotidiano, per costruire la memoria individuale e collettiva, per
creare un’opinione pubblica consapevole, matura, colta, e anche per esercitare
le passioni. Ora, per tornare alla pandemia attuale è vero che nelle città,
soprattutto nelle grandi città, è più facile contrarre il contagio perché si
incontrano molte persone, si frequentano luoghi e mezzi di trasporto pubblico
affollati, sono molteplici le occasioni di contatto. Ma è altrettanto vero che
nelle città si trovano gli ospedali più attrezzati, è più attiva una catena sanitaria
a cui fare riferimento (autoambulanze, pronto-soccorso, centri di ricerca che
si occupano di salute, ecc.). Insomma, nella città si trovano tutt’e due
le facce della medaglia: cosa che non dovremmo dimenticare nel ragionare sul
futuro dopo la pandemia.