mercoledì 22 luglio 2015

Delle imposte: cambiare

Diario n. 299


Da diverse settimane è un fiorire, sulla stampa quotidiana e no, di articoli in difesa dello stato liberale, o meglio del liberismo, unica ricetta per lo sviluppo, rivendicando il necessario arretramento dello stato e delle istituzioni pubbliche. Qualcuno ha anche affermato che la teoria che vorrebbe l’intervento pubblico in presenza di una “fallimento del mercato” si fonda su una cattiva interpretazione: in realtà il fallimento del mercato è la conseguenza dell’intervento pubblico.
Non si capisce questa veemente campagna, come se in Italia e in Europa si  fosse in presenza di un allargamento dell’intervento pubblico e non nell'esaltazione delle virtù miracolistiche del mercato. Capisco fossimo negli USA dove Obama vuole una sanità pubblica, ma in Italia e in Europa ci si muove in senso inverso. O forse si tratta di una campagna preventiva perché la gente si sente bastonata dal mercato? Ma poi finiamola con la storia dei “fallimenti del mercato”, questi esistono ma quello che è più rilevante è la natura discriminatoria del mercato. Il mercato prima che essere un meccanismo di allocazione ottima delle risorse e lo strumento che conferma, cristallizza, e determina le discriminazioni. Beni con valori d’uso abbastanza simili e valori di scambio molto differenti servono a dare esplicito riconoscimento a chi ha, a chi ha e quanto ha e a chi non ha o ha poco.
Tutto questo ha a che fare anche con l’imposizione fiscale: azzeriamo le tasse e ciascuno si rifornisca di beni e servizi secondo la propria capacità a pagare. Ma nessuno è così aguzzino: servizi pubblici e collettivi soltanto per chi non ha o ha molto poco. Un sistema questo che è premessa per la privatizzazione dei servizi pubblici (scuola e salute in primis), con il falso teorema che i privati sarebbero più efficienti (dell’efficacia si parla poco). Non sostengo che nella sanità non ci siano sprechi, figuriamoci, ma dico che l’efficienza che dovrebbe essere raggiunta con la privatizzazione è solo un imbroglio. La maggior efficienza, com'è noto, si raggiunge con un aumento di produttività (produzione nel periodo di tempo), ma in tutte quelle attività nelle quali il bene prodotto dall'operatore (un’operazione chirurgica, una visita medica, una lezione, ecc.) corrisponde al lavoro stesso dell’operatore (il tempo necessario per l’operazione, il tempo di una lezione, ecc.) l’aumento di produttività appare problematico. Certo si possono avere aule di 50 bambini, una visita medica può durare pochi minuti, ecc. ma questo corrisponde ad un peggioramento del servizio (anche se c’è un aumento di produttività).
Non credo che nella complessa vita odierna si possa fare a meno del “mercato”, ma questo andrà controllato e regolato, ma non secondo criteri interni al mercato stesso, ma secondo criteri “sociali” e di interesse collettivo (per esempio si potrebbe ridurre quasi a zero il mercato dei soldi!).
Questo ha a che fare con l’imposizione fiscale.
Lo stato nei suoi organi politici e istituzionali definisce il quanto di imposte (si dice secondo criteri progressivi) e contemporaneamente definisce come spendere queste entrate (difesa, sicurezza, scuola, salute, ecc. ecc.). In che cosa consiste la rivolta contro le imposte? Nella mancanza di fiducia del popolo delle forze sociali e dell’opinione pubblica sulla correttezza della politica e delle istituzioni sia a definire il quanto e il chi di imposta e, soprattutto come queste entrate sono spese.  Una crisi di fiducia, almeno.
L’idea di ridurre le entrate (il taglio di 50 miliardi di imposte nei prossimi tre anni, promessi da Renzi) senza indicare cosa salta della spesa mi pare pericoloso, non solo ma alimenta l’idea dello spreco totale.
È noto che la materia fiscale non è ammessa a referendum, ma proprio perché siamo di fronte ad una crisi di fiducia, la sinistra e il centro-sinistra (se questo secondo appellativo fosse reale) dovrebbe impostare la questione delle imposte in modo diverso. Non partire dalla entrate, ma delle spese: ma non attraverso i meccanismi spesso oscuri del bilancio preventivo, che comunque sconta una previsione di entrate, ma significativamente rendere esplicito il fabbisogno di risorse in relazione alla fornitura di servizi alla popolazione (dalla scuola, alla sicurezza, alla difesa, alla manutenzione, ecc.), fornire occasioni di dibattito e di discussione locale su questo quadro che mostra sia la qualità e quantità dei servizi e dei beni pubblici sia la quantità di risorse (magari con ipotesi esplicite di riduzione di alcuni dei servizi e dei beni pubblici in presenza di una riduzione delle entrate). Rendere trasparenti i centri di spesa e magari attivare esperimenti di cooperazione collettiva nella gestione, ecc. Gli strumenti tecnologici moderni possono permettere questo e altro.
Solo quando definito il fabbisogno di risorse sarà possibile passare alla tassazione progressiva, secondo disegni anche di politica economica e soprattutto di politica sociale.

Capovolgere il sistema, partire dalle necessità di spesa per arrivare alle necessità di entrate, potrebbe forse rompere l’onda di sfiducia nei riguardi delle istituzioni e della politica (che possono anche cambiare) che non promette niente di buono.    

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