Diario n. 296
Un mio amico (Nico), mi ha fatto
presente che tra i fiumi individuati nel precedente diario ho tralasciato “un quarto fiume che definirei il fiume del senso del limite, del valore
della misura nel rapporto uomo-natura; insomma il fiume di una nuova idea di
natura che comprende la specie umana e la aiuta a riportare la sua attitudine
prometeica (tecnologia-tecnocrazia) nel ruolo di una variabile dipendente,
senza frustrare la sua tensione conoscitiva. Anche questo quarto fiume offre
una vasta fenomenologia di esperienze e di prove.”
Faccio ammenda, è nota
la mia diffidenza verso questo settore (non è una scusante ma un’aggravante),
non è che non sia consapevole della sua importanza, ma lo trovo spesso venato
di irrazionalità, talvolta mi sembra una moda, e soprattutto mi sembra segnato
dalla “volontà di immortalità della specie”, che per sopravvivere oggi si
adatta. Ma devo convenire con Nico che si tratta di un fiume, composito si, ma
che esprime esperienze e volontà da non sottovalutare.
Di questi fiumi, se
posso ancora ancora usare la metafora, la cosa che mi sembra interessante e che
essi nascono non solo da bisogni materiali, ma anche da aspirazione alla
libertà e alla “buona vita”, oltre che dalla volontà di essere in qualche modo
determinanti.
Detto questo, ecco
la nota pessimistica: Tutto questo mi sembra sarà disperso, non darà frutti,
anzi potrebbe dare frutti velenosi, se insieme non riuscissimo individualmente
e collettivamente di liberarci delle identità che ci vengono continuamente
disegnati addosso e nelle quali ci si rifugia come in un porto sicuro (dentro
questi fiumi le identità sono forti oltre che artificiali). A stento valgono le
identità biologiche (M/F), oggi messi in
discussioni dalle scelte sessuali, dai modi di amare, tutte le altre sono
catene che ci legano, che ci costringono ad amare od odiare, che ci spingono a
combatterci, che ci rendono corporativi. Nessuno di noi ha una solo identità,
anche quella che sembra più forte, quella etnica-culturale non resiste alle
diverse esperienze, e se resiste è solo strumento di difesa. Non credo che l’identità,
per fare un esempio estremo, di chi attraversa il deserto, viene chiuso in un
prigione o campo, riesce a scappare, sale su un barcone, attraversa il
mediterraneo, viene richiuso in un altro campo, liberato o fuggito riesce a
lavorare secondo criteri, orari, ritmi, ruoli, ecc. sconosciuti, resti identica
e immutata.
Dico questo perché mi
pare che senza una liberazione da queste identità, che solo attraverso una pratica cosciente si conquista, non mi pare
sia possibile costruire una società della convivenza, dell’eguaglianza e della
libertà.
No modelli, quali?,
ma interpretazioni si, a me pare che gli strumenti di interpretazione della
società con i quali molti di noi hanno avuto a che fare restano nella sostanza
validi, diverso è il discorso sulla società da costruire. Si deve sperimentare,
si deve provare, ma si deve anche pensare e ragionare: l’orizzonte non può che
essere chiaro.
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