venerdì 10 luglio 2015

Ancora sui fiumi carsici

Diario n. 296


Un mio amico (Nico), mi ha fatto presente che tra i fiumi individuati nel precedente diario ho tralasciato  “un quarto fiume che definirei il fiume del senso del limite, del valore della misura nel rapporto uomo-natura; insomma il fiume di una nuova idea di natura che comprende la specie umana e la aiuta a riportare la sua attitudine prometeica (tecnologia-tecnocrazia) nel ruolo di una variabile dipendente, senza frustrare la sua tensione conoscitiva. Anche questo quarto fiume offre una vasta fenomenologia di esperienze e di prove.”
Faccio ammenda, è nota la mia diffidenza verso questo settore (non è una scusante ma un’aggravante), non è che non sia consapevole della sua importanza, ma lo trovo spesso venato di irrazionalità, talvolta mi sembra una moda, e soprattutto mi sembra segnato dalla “volontà di immortalità della specie”, che per sopravvivere oggi si adatta. Ma devo convenire con Nico che si tratta di un fiume, composito si, ma che esprime esperienze e volontà da non sottovalutare.
Di questi fiumi, se posso ancora ancora usare la metafora, la cosa che mi sembra interessante e che essi nascono non solo da bisogni materiali, ma anche da aspirazione alla libertà e alla “buona vita”, oltre che dalla volontà di essere in qualche modo determinanti.

Detto questo, ecco la nota pessimistica: Tutto questo mi sembra sarà disperso, non darà frutti, anzi potrebbe dare frutti velenosi, se insieme non riuscissimo individualmente e collettivamente di liberarci delle identità che ci vengono continuamente disegnati addosso e nelle quali ci si rifugia come in un porto sicuro (dentro questi fiumi le identità sono forti oltre che artificiali). A stento valgono le identità  biologiche (M/F), oggi messi in discussioni dalle scelte sessuali, dai modi di amare, tutte le altre sono catene che ci legano, che ci costringono ad amare od odiare, che ci spingono a combatterci, che ci rendono corporativi. Nessuno di noi ha una solo identità, anche quella che sembra più forte, quella etnica-culturale non resiste alle diverse esperienze, e se resiste è solo strumento di difesa. Non credo che l’identità, per fare un esempio estremo, di chi attraversa il deserto, viene chiuso in un prigione o campo, riesce a scappare, sale su un barcone, attraversa il mediterraneo, viene richiuso in un altro campo, liberato o fuggito riesce a lavorare secondo criteri, orari, ritmi, ruoli, ecc. sconosciuti, resti identica e immutata.
Dico questo perché mi pare che senza una liberazione da queste identità, che solo attraverso una  pratica cosciente si conquista, non mi pare sia possibile costruire una società della convivenza, dell’eguaglianza e della libertà.

No modelli, quali?, ma interpretazioni si, a me pare che gli strumenti di interpretazione della società con i quali molti di noi hanno avuto a che fare restano nella sostanza validi, diverso è il discorso sulla società da costruire. Si deve sperimentare, si deve provare, ma si deve anche pensare e ragionare: l’orizzonte non può che essere chiaro.



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