(da Archivio di studi urbani e regionali; La città bene comune, Casa della cultura Milano, 2017)
Il
saggio di Ivan Blečić e Arnaldo Cecchini - Verso una pianificazione
antifragile. Come pensare al futuro senza prevederlo (FrancoAngeli, 2016) -
si raccomanda per più di un motivo: è intelligente, puzza di originalità, non è
accomodante e stimola punti di vista imprevisti. Non è la solita lamentazione intorno alle difficoltà della
pianificazione, né se ne prospetta l'abbandono - già questo sarebbe un motivo
di grande apprezzamento - ma si propone di costruire un punto di vista nuovo
sulla natura della città e le sue dinamiche.
In apertura gli autori
denunziano tre limiti del loro lavoro: aver posto attenzione alle città occidentali,
non aver considerato il ruolo del conflitto sociale e aver fatto riferimento
più alle "azioni di governo delle trasformazioni urbane" che alla
strumentazione e alla tecnica di piano. A
me pare che l'ultima piuttosto che un limite sia un giusto atteggiamento che fa
i conti con la realtà della pianificazione: non applicazione di modelli
astratti ma, piuttosto, "governo delle trasformazioni urbane".
Della prima non merita parlare: le situazioni urbane mondiali tendono a una
diversificazione di cui non sembra potersi intuire la logica, mentre più
omogenee appaiono le città occidentali. Invece, il non aver considerato il
ruolo del conflitto sociale e la dinamica degli interessi contrastanti nelle
trasformazioni urbane, può effettivamente essere considerato un limite.
"Conflitti" (in tutte le forme ed espressioni) e dinamica urbana
appaiono legati da strettissime relazioni. Si potrebbe azzardare che vivono in
simbiosi: le dinamiche urbane sono figlie dei conflitti e questi ultimi nascono
nell'alveo delle dinamiche urbane. A me pare che i due autori, anche se non
esplicitamente, proprio nella formulazione della loro tesi in realtà abbiano
fatto riferimento ai conflitti. Seppur in una visione individualista - quando,
per esempio, affermano con decisione che "la gente fa di testa
propria" - essi di fatto si riferiscono a quei conflitti che in varia
forma e con diversi esiti generano dinamiche urbane.
Blečić e Cecchini si muovono lungo la corrente che individua come scopo
del progetto l'adattamento "della forma alla funzione", un progetto
possibile solo se c'è "un soggetto che consapevolmente si pone e persegue
degli obiettivi". Ma, la relazione tra adattamento della
forma alla funzione e la necessità di una soggettività che si ponga degli
obiettivi applicata ai sistemi sociali non è priva di significative
implicazioni. Tra queste c'è l'imprevedibilità degli esiti dovuta alla natura
dei sistemi sociali, all'azione e all'intenzione dei soggetti sociali. È a
partire da queste considerazioni che i due autori formulano un lungo elenco di idola
(il riferimento è a Francesco Bacone) che tanta parte hanno nella "scarsa
efficacia" della pianificazione e gestione del territorio. Nonostante quello che appare, o meglio che si
crede, la pianificazione non ha rappresentato un corpo stabile e immobile di
regole, principi e strumenti. Da sempre la sua scarsa efficacia - per
dirla con i nostri autori - ha spinto a continui aggiustamenti, a considerare
nuove ipotesi, nuove interpretazioni. Qualcuna di queste ne ha messo perfino in
discussione la necessità e l'utilità al punto da determinare, molto più spesso
di quanto non si creda, una struttura di pensiero poco utile, degli idola
in parte identificati e descritti dai nostri autori. Non vorrei soffermarmi su
ciascuno di questi (sono 12) ma elencarli sì, perché da un lato sono
espressione dell'attenzione e dell'acume degli autori, dall'altro perché la
semplice loro elencazione dovrebbe o potrebbe fare arrossire qualche
pianificatore per la sua affezione ad alcuni di questi (va detto, non parlo di
errori, ma di convinzioni e diffuse credenze che questi comportino risultati
negativi). L'elenco comprende: Il dogma della continuità; La fallacia
dell'estrapolazione; L'assunto della retroattività dei principi morali;
La pretesa dell'universalità - spaziale e temporale - dei comportamenti;
L'oblio degli effetti contro-intuitivi; La sindrome del defroqué;
L'ipotesi dell'agire razionale; La querelle riduzionismo vs olismo;
La querelle bottom-up vs top-down; La querelle quantitativo vs
qualitativo; Il "buon dottore"; Le intelligenze sono
multiple e non trasferibili; Misurare non è valutare, valutare non è
decidere; Troppo tardi per smettere (una delle ragioni dei disastri
della pianificazione). Per ognuno di questi idola, gli autori
forniscono anche una ricetta per la loro cura "attraverso la concezione
del progetto come processo che si svolge a molti livelli e coinvolge molti
attori, e non come il prodotto di una mente razionale che disegna in modo fermo
e razionale la strada del futuro".
Le ricette - com'è noto
- sono sempre impastate con l'idola della semplificazione. Non sfuggono
a questa regola neanche quelle degli autori che, pur nella loro linearità
argomentativa, tralasciano molte questioni, la principale delle quali - mi pare
- sia un sostanziale sorvolare sulla questione del potere o dei poteri.
Tralascio tuttavia questo argomento, per arrivare al nocciolo del saggio che mi
pare molto interessante. Gli autori ci
guidano verso una distinzione che nel loro ragionamento appare centrale: gli
oggetti, sistemi, organismi, ecc. possono essere distinti in fragili, robusti
e antifragili. Sono fragili quelli che subiscono
negativamente gli effetti delle modifiche dell'ambiente; una tazza di vetro se
cade a terra si rompe, non sappiamo quando, ma nel lungo periodo è molto
probabile che ciò avvenga. Mentre robusto è un oggetto che non viene
sostanzialmente modificato da eventi che avvengono nell'ambiente. Così, mentre
"cadere" per un bicchiere genera una catastrofe, cioè la rottura
dell'oggetto, se cade un'incudine, questa non si modifica ma resta intatta.
Tuttavia, robusto non è il contrario di fragile, come non lo sono
durevole, resistente, resiliente, ecc. "L'opposto di essere fragile -
scrivono gli autori - sarebbe qualcosa che eventi, perturbazioni, fattori di
stress, volatilità, disordine - dunque il tempo - in generale non nocciono e
però nemmeno lasciano com'è. Sarebbe piuttosto qualche cosa che può, perlomeno
in alcune circostanze, guadagnare, migliorare, ossia prosperare nel
disordine". La parola adatta, allora, secondo gli Blečić e Cecchini è: antifragile.
Gli autori identificano
la città come un sistema antifragile, nel senso che nel disordine essa
può perfino migliorare. Possono cioè presentarsi dei "cigni neri" -
espressione che Blečić e Cecchini riprendono dal saggio di Nassim Nicholas
Taleb -, ovvero eventi con scarsa probabilità di avvenire ma, nel caso, con
notevoli conseguenze. Mi pare, però, che la città si presenti come antifragile
non solo per l'esistenza dei "cigni neri" - che in generale non è
possibile né prevedere, né controllare - ma per le dinamiche delle sue stesse
variabili. Mi viene comodo, per provare a spiegarmi, far riferimento a quanto
sottolineato in precedenza circa la relazione simbiotica esistente tra
conflitto e città: il primo crea disordine, mette cioè in discussione l'ordine
esistente e la città è costretta a migliorare, ma tale miglioramento determina
nuovo conflitto. La nozione di antifragilità
attribuita alla città pare dunque convincente, anche se appare utile un'altra
precisazione. La Città, cioè la specie città, l'idea di città, può
effettivamente essere considerata antifragile, mentre le singole città
possono essere fragili: non migliorare nel disordine ma perire. I motivi
possono essere esogeni ed endogeni: l'incapacità (soprattutto nella prima fase
della storia della città e nell'epoca attuale) di fare i conti con la
disponibilità di risorse; distruzioni belliche (che possono tuttavia
trasformarsi in occasioni di miglioramento); cataclismi naturali; epidemie, "piaghe";
ecc.
Ma qui sorge un altro
problema: la fragilità e la robustezza sono caratteristiche che distinguono
oggetti o sistemi, ma lo è anche l'antifragilità? In altri termini,
mentre le prime due sono caratteristiche degli oggetti o dei sistemi, l'antifragilità
appare piuttosto come una possibile "condizione". Una città sarà cioè
antifragile se "curata" con intelligenza e amore, mentre in
assenza di questa attitudine di governo una città può risultare fragile. Non è
casuale se alla nozione di antifragilità sia connessa la possibilità di
miglioramento. Una possibilità, non una certezza, perché devono essere presenti
le condizioni affinché quella potenzialità diventi effettiva. Sollevare questo problema non ha il
significato di mettere in discussione il contributo, anche di metodo, di questo
testo. Piuttosto quello di far notare come nell'antifragilità sia
contenuta un'azione consapevole per realizzarne le potenzialità. In modo
diretto e indiretto i due autori hanno messo in luce questo aspetto e non è
casuale che la seconda parte del testo sia dedicata alla pianificazione
antifragile.
L'aver impostato il
testo sull'antifragilità della città, mette in chiaro come la dinamica
urbana sia collegata al disordine, un disordine che eventualmente migliora. Il
governo della città, quindi, dovrebbe ritenere preziosi gli elementi di
disordine (il passare del tempo, ma non solo) e intervenire con mano
intelligente e amorosa per non distruggere gli elementi dinamici e migliorativi
della città e, nello stesso tempo, tentare di creare le condizioni per uno
sviluppo creativo della popolazione. Secondo
gli autori, infatti, i connotati di una pianificazione antifragile sono:
evitare di fare quel che è nocivo; cercare di costruire una visione condivisa e
garantire una certa azione autonoma delle forze sociali. In quest'ultimo
ambito pongono però dei paletti, dei punti fermi e fanno sfoggio di buon senso
"pianificatorio", avendo sempre presente la realtà che è spesso
contraddittoria e che "in ultima istanza - secondo gli autori - suggerisce
di intervenire solo quando e dove è necessario, con massima economia e
sfruttando il più possibile tendenze 'naturali', facendo il più possibile
scelte aperte e reversibili. Ciò
d'altro canto non vuol dire abbandonare l'idea delle regole. Al contrario. Ma
occorrono regole e vincoli che siano generali, sovraordinati e sottratti alle
contingenze e convenienze di breve periodo".
La pianificazione antifragile trova nei cittadini non solo quanti
dovranno sopportare le scelte di pianificazione, ma i soggetti attivi nella
determinazione degli obiettivi. Si tratta, dunque, di mettere in campo
nuovi strumenti in grado di coinvolgere i cittadini, con particolare attenzione
a quelli più svantaggiati. Quello degli "scenari" potrebbe essere lo
strumento adatto per costruire un punto di vista condiviso, mettendo in luce
quelli desiderabili e quelli da evitare. L'approccio teorico che i due autori
propongono per definire meglio la loro ipotesi programmatoria è quello della capability
approach, ovvero delle capacità urbane. Di ogni comunità "si
tratta [cioè] di stabilire, e possibilmente di isolare, come e sino a che punto
le loro capacità complessive - che ovviamente dipendono da molti altri fattori
a-spaziali e non legati al loro ambiente fisico - sono determinate da fattori
eminentemente urbani, legati al funzionamento della città e dell'ambiente
urbano". L'esempio dei parchi a cui ricorrono gli autori - uno dei tanti
che si potrebbero fare - chiarisce bene questa problematica: non si tratta
soltanto di determinare la quantità di verde necessaria per la specifica città
ma, piuttosto, di individuare le opportunità e gli ostacoli che permettono o
frenano le persone a "ricrearsi in luoghi naturalistici". In altri
termini - se mi posso produrre in una traduzione - il problema sta nel negare operatività ad approcci che privilegino
"quantità", secondo parametri quanto articolati si voglia ma comunque
astratti e non misurati nella specifica condizione urbana, e affermare invece
la necessità di realizzare funzionamenti urbani adatti agli individui più
svantaggiati. Questo perché se
fossero positivi per gli individui più svantaggiati a maggior ragione lo
sarebbero per gli altri dotati di maggior capacità urbana. Questo
approccio è certamente condivisibile anche se non privo di difficoltà
applicative. Altre volte ho affermato che il compito della pianificazione e
dell'organizzazione della città è quello di mitigare le condizioni più
svantaggiate, non essendo nella natura del piano modificarne l'origine. Non si
fa fatica a riconoscere nell'approccio di Blečić e Cecchini un atteggiamento
più universalistico, che è facilitato dall'avere espunto dal loro lavoro la
matrice dello svantaggio sociale, risolta - semplifico - nella capacità
urbana.
Per concludere, il testo mi sembra molto interessante per i
problemi che direttamente o indirettamente pone ai pianificatori e a chi ha
responsabilità di governo della città. Tuttavia, che siano state messe a punto
soluzioni complete ai problemi sollevati, non si può dire. Del resto, in
chiusura del libro, i due autori ci invitano a un "arrivederci" per
il lavoro che resta da fare. In altre parole, le novità introdotte nella
riflessione di Blečić e Cecchini sono molte, ma non mi pare che siano tutte
convincenti. Qui ho cercato di mettere in luce alcune obiezioni, la necessità
di approfondimenti, ecc. anche per evitare che l'elaborazione dei due autori
diventi non un modello di approccio teorico ma uno strumento standardizzato
(cosa che gli stessi autori - credo - non vorrebbero). È importante, infatti,
ricordare che dentro un dato sistema socio-economico le logiche che regolano il
funzionamento delle città sono abbastanza omogenee. Si potrebbe forse dire che
si tratta di un' "unica logica", con poche variazioni, mentre la
concreta realizzazione della singola città, pur rispondendo alla stessa logica,
si presenta diversa da ogni altra (in ragione del sito, della storia, dello
sviluppo economico, delle tipologie di produzione, ecc.). Si ha invece
l'impressione che nel testo questa "logica" venga se non cancellata
almeno messa tra parentesi: la città viene cioè "osservata" nella sua
antropologica realtà, ma non viene affrontato il tema dei meccanismi
generativi, degli interessi contrastanti, dei conflitti e, spesso,
dell'indisponibilità individuale. Per fare un solo esempio, l'uso del termine
"attore" sembra rimandare alla deprivazione dei singoli individui di
ogni propria componente sociale, cosa che nella realtà non è. Dunque,
personalmente ho trovato la lettura del testo molto interessante. Soprattutto, ho apprezzato la capacità di prospettare una
modalità di osservazione non usuale e che provoca nuovi pensieri. E un testo,
si sa, vale proprio per i pensieri che è capace di generare. Come, in concreto,
si possa poi organizzare una pianificazione antifragile resta un
problema aperto che ha la necessità di ulteriori approfondimenti, ricerche e
sperimentazioni. L'importante è non fermarsi, non guardarsi allo
specchio: il lavoro fatto è significativo e interessante, quello da fare è
ancora tanto.
Francesco Indovina