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CHIARA BERTOLA*
20 ottobre 2015 · di ytali · in op/ed.
Sarebbe stato bello che il Sindaco di Venezia nel momento in cui ha proposto la vendita di due capolavori del “suo” Museo Civico, certo per sanare il bilancio della città, si fosse ricordato di pensare anche alla comunità e alla sua crescita. Alla comunità che forma una città.
Mentre scrivo
questo commento sulla brutta proposta di vendere due capolavori dei Musei Civici, vorrei fosse solo banale provocazione e
propaganda per attirare l’attenzione del Governo su Venezia che sta male, che
sta velocemente scomparendo mentre tutti la stiamo a guardare inermi e
incapaci.
Sottolineo che
sarebbe stato importante e necessario pensare prima di tutto alla comunità di
una città e all’eredità che lasceremo alle generazioni future. Abbiamo ricevuto
un patrimonio da chi è stato più attento e capace di preservarlo, facendolo
arrivare fino a noi e abbiamo il dovere e la responsabilità di mantenerlo e
proteggerlo. Mi sembra così assurdo pensare di sanare i buchi di bilancio
vendendo le opere dei musei, che non vorrei tanto soffermarmi su questo gesto
ma piuttosto provare a capire perché questa proposta è tanto grave.
L’insieme delle
opere di ogni museo forma in qualche modo il suo patrimonio; un patrimonio che
spesso viene interpretato entro una logica “economica” (la cultura come
patrimonio da preservare o da sperperare) trascurando di considerarlo come
“patrimonio vivente”.
Ma la differenza
tra patrimonio ed eredità è evidente: il primo è una somma di beni, la seconda
l’accettazione di una memoria e il suo prolungamento nel presente. Come scrive
Federico Ferrari:
Il primo è l’insieme dei beni, fissati nelle gabbie interpretative degli
esecutori testamentari […] la seconda vuole mostrare che l’eredità non è
indissolubile ma costituita. Il patrimonio spetta solo ai legittimi successori;
l’eredità si sceglie, non è data da alcuna investitura, richiede una decisione,
una presa di posizione critica che obbliga gli abitanti del presente ad
assumersi la dismisura di un senso che non è mai dato una volta per tutte, in
quanto eternamente transitorio… (Federico Ferrari, Lo spazio critico, Luca Sossella editore, Roma 2004, p. 35).
Come abbiamo
scritto si tratta di rovesciare le logiche comuni che vedono il rapporto con il
passato come esclusivamente conservativo e statico, perché lo considerano
materia morta e non modificabile. Si tratta di pensare l’eredità di decine di
frammenti di sensi che sono ricomponibili in una miriade di costellazioni
possibili. Attraverso l’insieme dei frammenti prende vita un atlante della
memoria, si compongono narrazioni e la storia dei quadri, la costituzione delle
collezioni di un museo, diventano parole insostituibili. Di tutto questo il
museo e soprattutto il Museo Civico, è un laboratorio sperimentale, dove ogni
singolo pezzo della sua collezione diventa prezioso e fondamentale per capire
la nostra storia attuale.
Per fortuna a
partire dal 2004 – da quando gli uomini sono diventati più scellerati e avidi
di denaro dimenticando questi valori di trasmissione culturale – c’è
nell’articolo 10 del codice dei Beni Culturali un elenco di opere definite
«inalienabili» in quanto beni pubblici. Giustamente sono «le raccolte dei
musei, delle pinacoteche, degli archivi e delle biblioteche».
In linea con questa
prospettiva, il programma che curo alla Fondazione Querini
Stampalia dal 1999 si chiama Conservare il futuro,
un ossimoro che ho creduto interessante perché si articola tra due
responsabilità fondamentali che un’istituzione museale deve assumersi nei
confronti della comunità. “Conservare” da un lato significa rendere vivo e
permeabile un patrimonio ereditato; dall’altra vuol dire progettare a partire
da quello una visione per il futuro insieme agli artisti contemporanei. Ogni
opera d’arte crea un senso e una ragione al nostro essere in un luogo: è la più
alta eredità culturale che un essere umano abbia mai ricevuto.
Giorno dopo giorno,
attraverso la sua arte e bellezza, Venezia ci ha insegnato a guardare oltre, a
dialogare con molti altri linguaggi e altre culture. Ha continuato nel tempo a
trasmettere i suoi valori internazionali che l’hanno resa così unica. La Judith
o Salomè di Klimt è stata comprata proprio grazie all’internazionalità di
Venezia: nel 1910, dal Comune, alla Biennale Internazionale d’arte. Proprio
questa capacità caratterizza Venezia e, speriamo, riuscirà a salvarla.
Non certo le chiusure e i provincialismi.
Non certo le chiusure e i provincialismi.
Allora forse le
domande fondamentali attorno a cui dovrebbe ruotare questo dibattito sono: è
ancora possibile e necessario oggi ricongiungere l’arte con la storia sociale e
culturale? Si possono identificare temi e tendenze che vadano al di là della
suddivisione di movimenti, luoghi e periodi? Quanto pesa l’eredità culturale
nella formazione delle nuove generazioni?
Le risposte a
queste domande potrebbero contribuire a far comprendere il ruolo prioritario
della cultura, a renderla nuovamente obiettivo perseguito dalla politica
nazionale e regionale, aiutando Venezia a ritrovare la sua attitudine di
sempre: quella vocazione internazionale che la metteva in relazione con il
mondo intero, le consentiva di evidenziare i cambiamenti, di raffinare le sue
strategie di produzione e offerta, rendendo così viva l’opera dei suoi
artigiani e artisti, che oggi non riescono più a rimanere. La rinascita di un
vero interesse per la cultura, e un programma articolato e perseguito che la
valorizzi, risulterebbe fondamentale per far ritornare Venezia un luogo in cui
prendono voce e forma parole diverse, originali, sperimentali, sia locali che
globali.
*Responsabile per l’arte contemporanea della Fondazione Querini Stampalia di Venezia e curatrice della fondazione Furla fu Milano
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