Il ritorno delle
periferie
di Francesco
Indovina
da Archivio di
studi urbani e regionali, n. 12, 2015 Franco Angeli
Alcuni eventi drammatici, come il manifestarsi della “lotta
tra poveri” in molti quartieri romani, altri positivi, come l’impegno di Renzo
Piano per il “rammendo della città”, hanno riportato in primo piano il tema delle
periferie. Un ritorno necessario ma non completamente felice per l’equivoco
sotteso ad ogni considerazione su queste parti della città come zone di degrado
urbanistico ed edilizio. Non nego che quelle che chiamiamo “periferie” presentino
spesso situazioni, anche gravi, di degrado urbanistico ed edilizio, ma c’è
dell’altro.
Intanto c’è la trasformazione della città: la regolarità
di un “centro” e di periferie sempre più degradate a mano a mano che da questo
centro ci si allontana, si riscontra solo in piccole città: le maggiori città
ormai si presentano sempre più a pelle di leopardo, dove è possibile
individuare più centri e diverse periferie che con questi centri si mischiano
presentando gradi di marginalità diversa e non sempre le aree con maggior
disagio risultano le più distanti dai centri.
Va sottolineato che appare problematico disegnare una
“mappa urbana” che distingua nettamente le periferie dai centri e i diversi
livelli e gradi di periferizzazione. Nella città contemporanea si può cogliere
una simbiosi tra le diverse zone ancorché caratterizzate socialmente in modo
fortemente diverso, fenomeno questo promosso o almeno facilitato dalla diversa
dotazione di servizi (pubblici e privati) e dall’offerta di beni (anche illegali) che caratterizza ciascuna zona.
Emerge una nuova geografia urbana che definisce un
territorio nel quale si incontrano situazioni insediative qualitativamente
diverse ma accostate. La città è questo insieme: non può essere considerata per
frammenti autonomi; ogni zona non solo è vicina ad una zona di diversa qualità
e di diverso tipo di insediamento, ma ciascuna vive in simbiosi con le altre.
La frammentazione che spesso ci pare di cogliere non è che il nostro sguardo
superficiale.
A definire questa situazione contribuiscono diversi
fattori: prima di tutto la crisi economica che falcia i redditi di tutta la
popolazioni (non ci interessano le frange fortunate, diciamo così), ma che si
fa sentire con maggiore aggressività nelle fasce più povere; non solo, la crisi
incrementa la disoccupazione e il lavoro marginale (la felice flessibilità – ciascuno
che amministra il suo tempo di lavoro – grava soprattutto sui più giovani e i
licenziati di una certa età che non trovano lavoro da amministrarsi); la crisi
fiscale dello Stato e degli enti locali porta alla riduzione crescente dei
servizi pubblici, sempre molto scarsi in molti dei quartieri che definiamo “periferie”,
finendo per negare valenza operativa ad ogni concetto di diritto di
cittadinanza. Ma c’è anche l’esasperazione che prende alla gola chi si sente
abbandonato e privo di prospettiva; c’è la ricerca di un capro espiatorio
individuato nel diverso per colore della pelle, l’extracomunitario, ma non solo.
C’è spesso il sovraffollamento abitativo e la solitudine urbana.
Quello delle periferie è un tessuto sociale costruito
dalle diseguaglianze, fatto di “invidia”, ma anche di disperazione, un terreno
fertile per una propaganda politica di destra che indica nello “straniero”, che
ti “ruba il pane”, l’oggetto sul quale scaricare la tua disperazione con una
falsa possibilità di riscatto. Se fosse sbagliato considerare queste zone come
focolai della nuova (e vecchia) destra xenofoba, sarebbe, tuttavia, necessario
considerare che l’assenza di alternative sociali e politiche non facilita una
positiva dialettica politica. Alcune di queste zone periferiche vengono
considerate delle discariche sociali nelle quali alle difficoltà di vivere dei
locali si somma quelle degli immigrati, più o meno rinchiusi nei “centri di
accoglienza” (mai titolazione è stata più ironica), o rintanati in edifici
abbandonati o, ancora costretti a convivenze numerosissime in abitazioni
fatiscenti, unico modo per soddisfare le esose pretese di padroni di casa senza
scrupoli. Una situazione oltremodo favorevole per determinare situazioni di
degrado, di traffici illeciti, di violenza.
Quando si prenderà coscienza e consapevolezza che sono le
diseguaglianze, il degrado sociale, culturale ed economico il segno distintivo
di una qualsiasi periferia, e qualora
questa consapevolezza aiutasse a delineare politiche di intervento conseguenti
e articolate, solo allora si potrà affermare che il tema delle periferie viene
affrontato. Ma anche in questo caso non c’è da illudersi: qualsiasi tipo di
intervento non sarà mai risolutivo, data la “produzione” di miseria ed
emarginazione verso la quale è indirizzato il nostro sistema sociale.
Le politiche di riqualificazione urbana ed edilizia delle
periferie, nel nostro sistema economico, producono spesso processi di
valorizzazione e quindi di espulsione: per una periferia risanata se ne crea
una di nuova. Questo processo sembra ineliminabile, ma i suoi effetti possono
essere ridotti solo se l’intervento usasse una ricca tastiera di provvedimenti,
non solo quelli urbanistici ed edilizi.
Renzo Piano è sicuramente un grande architetto, è persona
civile e sensibile, l’iniziativa di utilizzare il suo stipendio di senatore a
vita per finanziare gruppi di giovani che sotto la sua direzione si occupino
delle periferie di alcune città appare meritevole e apprezzabile. In un suo articolo
(la Repubblica, 26 novembre 2014)
esplicita le sue intenzioni. Ma un articolo per un quotidiano non è sufficiente
a rendere chiaro un progetto così ambizioso.
Spero che sia stata la necessaria semplificazione e la
voglia di trasmettere il proprio entusiasmo a tradire le intenzioni del
progetto. Il richiamo fatto, così en
passant, ad alcuni suoi interventi indicati come significativi per la
riqualificazione di periferie (la Columbia University ad Harlem, il palazzo di
giustizia in una banlieue parigina o
il polo ospedaliero a Sesto San Giovanni) non danno conto della sua
intelligenza e sono riferimenti incomprensibili ove non si chiariscano gli
interessi in gioco, lo sforzo economico dei promotori ma soprattutto non si
espliciti che cosa è avvenuto degli abitanti di ogni specifica periferia a
fronte del miglioramento del “luogo”. Non c’è dubbio, per esempio, che il
rinnovamento e il recupero di parte di Harlem sia un episodio edilizio (meno
urbanistico) molto importante, ma ugualmente non c’è alcun dubbio che la
valorizzazione del quartiere abbia prodotto l’espulsione di parte rilevante
della popolazione insediata (non è un caso che la percentuale della popolazione
nera sia fortemente diminuita).
Sicuramente non è questo quello che vuole realizzare
Renzo Piano con il suo progetto G124: “si tratta di piccoli interventi di
rammendo che possono innescare la rigenerazione anche attraverso mestieri
nuovi, microimprese start-up, cantieri leggeri e diffusi, creando così nuova
occupazione”.
Mi spiace, ma ci sono tutte le retoriche del caso. Ma
quello che più rende perplessi è l’appello all’identità e all’orgoglio
di essere periferia. Alla retorica delle “bellezze del nostro paese”, dobbiamo
aggiungere anche quella delle nostre periferie, alcune delle quali veramente
orrende?
Ma continuo a pensare che il progetto che Renzo Piano ha
in mente sia socialmente, culturalmente e politicamente ambizioso, sano nei
propositi e che possa dare qualche risultato positivo a condizione di prendere assolutamente
consapevolezza della natura delle periferie nella città contemporanea.
Nel nostro paese disponiamo di tipologie molto diverse di
periferie che non si identificano come una “fatto” geografico o di luogo, ma
come concentrazione di problematiche sociali, economiche, culturali e di
illegalità. Si può, tuttavia, tentare una sommaria definizione di tale tipologie,
purché si tenga conto della possibile integrazioni tra le diverse zone.
I centri storici di grandi proporzioni, in parte abbandonati
e molto spesso privi di servizi, si presentano a loro volta come
un’articolazione interna: attività artigianali e di vari commerci, zone con
ristoranti o pizzerie molto frequentate, zone specializzati in traffici
illegali, zone occupate da popolazione marginale e zone occupati da
extracomunitari (con o senza il permesso di risiedere). Un insieme segnato da
un sostanziale degrado che dà corpo ad una zona di periferia centrale. Tipici i casi dei centri storici di Napoli e
Palermo, che per la loro grande dimensione metabolizzano gli interventi di
riqualificazione di edilizia residenziale (non numerosissimi ma pur presenti), il
riutilizzo di vecchie strutture come teatri, la nascita di qualche albergo di
charme, ecc.; tutti interventi che hanno poco impatto complessivo perché
metabolizzati nel degrado prevalente. Un caso a parte è quello del centro
storico di Bari, dove una minore dimensione e un intervento abbastanza esteso
di riqualificazione abitativa e monumentale ha portato al ricambio di una quota
non modesta di popolazione che convive con la popolazione di vecchio insediamento,
con una basso livello di conflitto e forse con un’alta tendenza
all’integrazione.
Le periferie formate prevalentemente da edilizia
pubblica, le “case popolari”, si presentano al loro interno molto articolate.
Mentre gli interventi dei primi del ’900 oggi in larga parte fanno parte del
“centro”, i nuovi interventi sono stati localizzati in aree spesso mal
collegate con la città, compromesse da insediamenti para-industriali, con
impianti di riciclaggio, ecc., spesso con pochi servizi collettivi,
determinando una situazione di quartiere emarginato. Non tutta l’edilizia
pubblica ha il connotato di periferia, né appare significativo (ma conta) l’impegno
di alcuni dei maggiori architetti, quello che risulta dirimente alla sua
qualificazione e la realizzazione completa
del “progetto”, comprensiva della parte dedicata ai servizi. Quando questi
ultimi sono realizzati solo in parte, o mancano del tutto, allora il degrado non
può che essere assicurato. L’esempio più emblematico di questi casi non può che
essere l’insediamento Zen di Palermo: un insediamento isolato, privo di
servizi, tende ad essere abbandonato mettendo in modo un processo cumulativo di
degrado, luogo di insediamento di popolazione marginale e sempre più povera,
oggetto di vandalismo e base di traffici illegali. Ci sono poi gli interventi
il cui progetto può essere definito … discutibile, come il caso del Corviale a
Roma, che tuttavia appartiene solo in parte a questa tipologia.
Vanno segnalate anche le periferie speculative, cresciute
per lo più prive di legittimità urbanistica ed edilizia, che rispondevano ad
una domanda crescente frutto dei grandi movimenti di immigrazione verso le grandi
città. Si tratta di quelli he sono state chiamati “quartieri dormitorio” nei
quali la previsione dei servizi era nulla, trattandosi di interventi
speculativi, dove magari il degrado edilizio e sociale non è così incombente ma
significativo è il senso di isolamento e di abbandono. Roma e Milano sono le
città nelle quali più alta è l’esemplificazione di questo tipo di periferia.
All’interno della dinamica delle città, vecchi e
tradizionali piccoli insediamenti hanno finito per essere inglobati dentro l’ampliamento
del tessuto urbano. Per un periodo la loro ragion d’essere e la loro
“conservazione” sta nella loro origine, nelle attività insediate, per la
coesione della popolazione che le caratterizza, per la loro stessa natura di
nucleo autonomo, ma poi vengono travolte dai processi dinamici e nel migliore
dei casi conservano una loro valenza folcloristica, ma non sfuggono al loro
destino di periferia. A Palermo e a Napoli si trovano alcuni di questi casi,
che costituiscono anche la sede privilegiata di alcune delle famiglie della
criminalità organizzata, ma anche a Roma, Milano e Torino non mancano casi del
genere.
Questo semplificato, schematico e ridottissimo possibile catalogo
mette in evidenza situazioni diverse tra di loro, con origine diverse e con
problematiche non omogenee. Se, molto spesso, costanti sono alcune connotazione
della popolazione (bassi redditi, occupazione marginale e disoccupazione,
necessità di assistenza, ecc.), bisogna considerare anche che alcune di queste
periferie sono prevalentemente occupate da strati di ceto medio sempre più in
sofferenza economica e sociale. La crescita delle diseguaglianze, che non solo
caratterizza il 99% della popolazione rispetto all’1% (secondo una versione
sicuramente politica ma molto vicina alla realtà), mette radici anche nel 99%
della popolazione creando situazioni di conflitto che per altro sono alimentati
sia da improvvidi provvedimenti di governo sia da semplificazioni sociologiche
(che, per esempio, esaltano la contrapposizione generazionale), o da crisi di
identità che va tutto a discapito soprattutto delle donne e di ogni diverso. Non
rari sono i casi di periferie dove alligna la violenza e le attività illegali,
fenomeni questi non di poco conto nel determinare il degrado.
È tenendo conto di tale articolata realtà che va studiato
l’intervento nella singola periferia, non nell’idea che la bellezza le
cancellerà, nell’attuale sistema di diseguaglianze e discriminazione le
periferie resteranno una costante perché una costante è la diseguaglianza
prodotta dal nostro sistema economico-sociale, perché gravi saranno le
ingiustizie sociali tra chi ha un lavoro e chi no, grave e diversa la
disperazione di chi un lavoro lo cerca e di chi l’ha perduto. Mettiamo anche il
“bello” nelle periferie dove manca, ma attiviamo politiche per il lavoro, magari
socialmente utile, per l’istruzione e la formazione, politiche per i giovani,
che vuol dire solo scuola, ma anche sport, attrezzature culturali, aree di divertimento
e per il tempo libero, consultori, laboratori, ecc. ma anche sostegno alle
famiglie. Vuol dire assistenza agli anziani non autonomi, come pure a quelli
parzialmente autonomi, significa portarvi le attrezzature culturali, ecc. Ma
significa soprattutto gestione di
queste attività: un “centro”, non importa di che tipo, culturale, sportivo,
teatrale, scolastico, ecc. deve essere gestito non può essere abbandonato
sperando che da solo produca meravigliosi effetti. In questo ambito il lavoro
di cogestione con le popolazioni insediate diventa importantissimo, non
l’orgoglio di essere periferia ma l’orgoglio di essere un soggetto responsabile
e attivo nel cambiare la realtà.
Significa ascolto della popolazione, di quella che ha
voce come di quella afona, significa non generica partecipazione ma assunzione
delle lotte come una “domanda” politica di cambiamento. È proprio la crisi che
può essere una mobilizzazione collettiva, che da una parte esprime una domanda
di cambiamento ma dall’altra si assume la responsabilità soggettiva del
cambiamento. Non si tratta di combattere gli extracomunitari, quanto di far
fronte comune per l’affermazione di diritti di cittadinanza per tutti, unico
strumento di convivenza.
Bisogna sapere che, per quanto detto prima, al meglio di
questo intervento ci saranno sempre espulsioni e la costituzione di nuove
periferie. Un lavoro interminabile, ma necessario, indispensabile e utile.
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