sabato 31 ottobre 2015

Il ritorno delle periferie

Il ritorno delle periferie
di Francesco Indovina
da Archivio di studi urbani e regionali, n. 12, 2015 Franco Angeli


Alcuni eventi drammatici, come il manifestarsi della “lotta tra poveri” in molti quartieri romani, altri positivi, come l’impegno di Renzo Piano per il “rammendo della città”, hanno riportato in primo piano il tema delle periferie. Un ritorno necessario ma non completamente felice per l’equivoco sotteso ad ogni considerazione su queste parti della città come zone di degrado urbanistico ed edilizio. Non nego che quelle che chiamiamo “periferie” presentino spesso situazioni, anche gravi, di degrado urbanistico ed edilizio, ma c’è dell’altro.
Intanto c’è la trasformazione della città: la regolarità di un “centro” e di periferie sempre più degradate a mano a mano che da questo centro ci si allontana, si riscontra solo in piccole città: le maggiori città ormai si presentano sempre più a pelle di leopardo, dove è possibile individuare più centri e diverse periferie che con questi centri si mischiano presentando gradi di marginalità diversa e non sempre le aree con maggior disagio risultano le più distanti dai centri.
Va sottolineato che appare problematico disegnare una “mappa urbana” che distingua nettamente le periferie dai centri e i diversi livelli e gradi di periferizzazione. Nella città contemporanea si può cogliere una simbiosi tra le diverse zone ancorché caratterizzate socialmente in modo fortemente diverso, fenomeno questo promosso o almeno facilitato dalla diversa dotazione di servizi (pubblici e privati) e dall’offerta di beni (anche illegali) che caratterizza ciascuna zona.
Emerge una nuova geografia urbana che definisce un territorio nel quale si incontrano situazioni insediative qualitativamente diverse ma accostate. La città è questo insieme: non può essere considerata per frammenti autonomi; ogni zona non solo è vicina ad una zona di diversa qualità e di diverso tipo di insediamento, ma ciascuna vive in simbiosi con le altre. La frammentazione che spesso ci pare di cogliere non è che il nostro sguardo superficiale.
A definire questa situazione contribuiscono diversi fattori: prima di tutto la crisi economica che falcia i redditi di tutta la popolazioni (non ci interessano le frange fortunate, diciamo così), ma che si fa sentire con maggiore aggressività nelle fasce più povere; non solo, la crisi incrementa la disoccupazione e il lavoro marginale (la felice flessibilità – ciascuno che amministra il suo tempo di lavoro – grava soprattutto sui più giovani e i licenziati di una certa età che non trovano lavoro da amministrarsi); la crisi fiscale dello Stato e degli enti locali porta alla riduzione crescente dei servizi pubblici, sempre molto scarsi in molti dei quartieri che definiamo “periferie”, finendo per negare valenza operativa ad ogni concetto di diritto di cittadinanza. Ma c’è anche l’esasperazione che prende alla gola chi si sente abbandonato e privo di prospettiva; c’è la ricerca di un capro espiatorio individuato nel diverso per colore della pelle, l’extracomunitario, ma non solo. C’è spesso il sovraffollamento abitativo e la solitudine urbana.
Quello delle periferie è un tessuto sociale costruito dalle diseguaglianze, fatto di “invidia”, ma anche di disperazione, un terreno fertile per una propaganda politica di destra che indica nello “straniero”, che ti “ruba il pane”, l’oggetto sul quale scaricare la tua disperazione con una falsa possibilità di riscatto. Se fosse sbagliato considerare queste zone come focolai della nuova (e vecchia) destra xenofoba, sarebbe, tuttavia, necessario considerare che l’assenza di alternative sociali e politiche non facilita una positiva dialettica politica. Alcune di queste zone periferiche vengono considerate delle discariche sociali nelle quali alle difficoltà di vivere dei locali si somma quelle degli immigrati, più o meno rinchiusi nei “centri di accoglienza” (mai titolazione è stata più ironica), o rintanati in edifici abbandonati o, ancora costretti a convivenze numerosissime in abitazioni fatiscenti, unico modo per soddisfare le esose pretese di padroni di casa senza scrupoli. Una situazione oltremodo favorevole per determinare situazioni di degrado, di traffici illeciti, di violenza.
Quando si prenderà coscienza e consapevolezza che sono le diseguaglianze, il degrado sociale, culturale ed economico il segno distintivo di una qualsiasi periferia, e qualora questa consapevolezza aiutasse a delineare politiche di intervento conseguenti e articolate, solo allora si potrà affermare che il tema delle periferie viene affrontato. Ma anche in questo caso non c’è da illudersi: qualsiasi tipo di intervento non sarà mai risolutivo, data la “produzione” di miseria ed emarginazione verso la quale è indirizzato il nostro sistema sociale.
Le politiche di riqualificazione urbana ed edilizia delle periferie, nel nostro sistema economico, producono spesso processi di valorizzazione e quindi di espulsione: per una periferia risanata se ne crea una di nuova. Questo processo sembra ineliminabile, ma i suoi effetti possono essere ridotti solo se l’intervento usasse una ricca tastiera di provvedimenti, non solo quelli urbanistici ed edilizi.
Renzo Piano è sicuramente un grande architetto, è persona civile e sensibile, l’iniziativa di utilizzare il suo stipendio di senatore a vita per finanziare gruppi di giovani che sotto la sua direzione si occupino delle periferie di alcune città appare meritevole e apprezzabile. In un suo articolo (la Repubblica, 26 novembre 2014) esplicita le sue intenzioni. Ma un articolo per un quotidiano non è sufficiente a rendere chiaro un progetto così ambizioso.
Spero che sia stata la necessaria semplificazione e la voglia di trasmettere il proprio entusiasmo a tradire le intenzioni del progetto. Il richiamo fatto, così en passant, ad alcuni suoi interventi indicati come significativi per la riqualificazione di periferie (la Columbia University ad Harlem, il palazzo di giustizia in una banlieue parigina o il polo ospedaliero a Sesto San Giovanni) non danno conto della sua intelligenza e sono riferimenti incomprensibili ove non si chiariscano gli interessi in gioco, lo sforzo economico dei promotori ma soprattutto non si espliciti che cosa è avvenuto degli abitanti di ogni specifica periferia a fronte del miglioramento del “luogo”. Non c’è dubbio, per esempio, che il rinnovamento e il recupero di parte di Harlem sia un episodio edilizio (meno urbanistico) molto importante, ma ugualmente non c’è alcun dubbio che la valorizzazione del quartiere abbia prodotto l’espulsione di parte rilevante della popolazione insediata (non è un caso che la percentuale della popolazione nera sia fortemente diminuita).
Sicuramente non è questo quello che vuole realizzare Renzo Piano con il suo progetto G124: “si tratta di piccoli interventi di rammendo che possono innescare la rigenerazione anche attraverso mestieri nuovi, microimprese start-up, cantieri leggeri e diffusi, creando così nuova occupazione”.
Mi spiace, ma ci sono tutte le retoriche del caso. Ma quello che più rende perplessi è l’appello all’identità e all’orgoglio di essere periferia. Alla retorica delle “bellezze del nostro paese”, dobbiamo aggiungere anche quella delle nostre periferie, alcune delle quali veramente orrende?
Ma continuo a pensare che il progetto che Renzo Piano ha in mente sia socialmente, culturalmente e politicamente ambizioso, sano nei propositi e che possa dare qualche risultato positivo a condizione di prendere assolutamente consapevolezza della natura delle periferie nella città contemporanea.
Nel nostro paese disponiamo di tipologie molto diverse di periferie che non si identificano come una “fatto” geografico o di luogo, ma come concentrazione di problematiche sociali, economiche, culturali e di illegalità. Si può, tuttavia, tentare una sommaria definizione di tale tipologie, purché si tenga conto della possibile integrazioni tra le diverse zone.
I centri storici di grandi proporzioni, in parte abbandonati e molto spesso privi di servizi, si presentano a loro volta come un’articolazione interna: attività artigianali e di vari commerci, zone con ristoranti o pizzerie molto frequentate, zone specializzati in traffici illegali, zone occupate da popolazione marginale e zone occupati da extracomunitari (con o senza il permesso di risiedere). Un insieme segnato da un sostanziale degrado che dà corpo ad una zona di periferia centrale. Tipici i casi dei centri storici di Napoli e Palermo, che per la loro grande dimensione metabolizzano gli interventi di riqualificazione di edilizia residenziale (non numerosissimi ma pur presenti), il riutilizzo di vecchie strutture come teatri, la nascita di qualche albergo di charme, ecc.; tutti interventi che hanno poco impatto complessivo perché metabolizzati nel degrado prevalente. Un caso a parte è quello del centro storico di Bari, dove una minore dimensione e un intervento abbastanza esteso di riqualificazione abitativa e monumentale ha portato al ricambio di una quota non modesta di popolazione che convive con la popolazione di vecchio insediamento, con una basso livello di conflitto e forse con un’alta tendenza all’integrazione.
Le periferie formate prevalentemente da edilizia pubblica, le “case popolari”, si presentano al loro interno molto articolate. Mentre gli interventi dei primi del ’900 oggi in larga parte fanno parte del “centro”, i nuovi interventi sono stati localizzati in aree spesso mal collegate con la città, compromesse da insediamenti para-industriali, con impianti di riciclaggio, ecc., spesso con pochi servizi collettivi, determinando una situazione di quartiere emarginato. Non tutta l’edilizia pubblica ha il connotato di periferia, né appare significativo (ma conta) l’impegno di alcuni dei maggiori architetti, quello che risulta dirimente alla sua qualificazione e la realizzazione completa del “progetto”, comprensiva della parte dedicata ai servizi. Quando questi ultimi sono realizzati solo in parte, o mancano del tutto, allora il degrado non può che essere assicurato. L’esempio più emblematico di questi casi non può che essere l’insediamento Zen di Palermo: un insediamento isolato, privo di servizi, tende ad essere abbandonato mettendo in modo un processo cumulativo di degrado, luogo di insediamento di popolazione marginale e sempre più povera, oggetto di vandalismo e base di traffici illegali. Ci sono poi gli interventi il cui progetto può essere definito … discutibile, come il caso del Corviale a Roma, che tuttavia appartiene solo in parte a questa tipologia.
Vanno segnalate anche le periferie speculative, cresciute per lo più prive di legittimità urbanistica ed edilizia, che rispondevano ad una domanda crescente frutto dei grandi movimenti di immigrazione verso le grandi città. Si tratta di quelli he sono state chiamati “quartieri dormitorio” nei quali la previsione dei servizi era nulla, trattandosi di interventi speculativi, dove magari il degrado edilizio e sociale non è così incombente ma significativo è il senso di isolamento e di abbandono. Roma e Milano sono le città nelle quali più alta è l’esemplificazione di questo tipo di periferia.
All’interno della dinamica delle città, vecchi e tradizionali piccoli insediamenti hanno finito per essere inglobati dentro l’ampliamento del tessuto urbano. Per un periodo la loro ragion d’essere e la loro “conservazione” sta nella loro origine, nelle attività insediate, per la coesione della popolazione che le caratterizza, per la loro stessa natura di nucleo autonomo, ma poi vengono travolte dai processi dinamici e nel migliore dei casi conservano una loro valenza folcloristica, ma non sfuggono al loro destino di periferia. A Palermo e a Napoli si trovano alcuni di questi casi, che costituiscono anche la sede privilegiata di alcune delle famiglie della criminalità organizzata, ma anche a Roma, Milano e Torino non mancano casi del genere.
Questo semplificato, schematico e ridottissimo possibile catalogo mette in evidenza situazioni diverse tra di loro, con origine diverse e con problematiche non omogenee. Se, molto spesso, costanti sono alcune connotazione della popolazione (bassi redditi, occupazione marginale e disoccupazione, necessità di assistenza, ecc.), bisogna considerare anche che alcune di queste periferie sono prevalentemente occupate da strati di ceto medio sempre più in sofferenza economica e sociale. La crescita delle diseguaglianze, che non solo caratterizza il 99% della popolazione rispetto all’1% (secondo una versione sicuramente politica ma molto vicina alla realtà), mette radici anche nel 99% della popolazione creando situazioni di conflitto che per altro sono alimentati sia da improvvidi provvedimenti di governo sia da semplificazioni sociologiche (che, per esempio, esaltano la contrapposizione generazionale), o da crisi di identità che va tutto a discapito soprattutto delle donne e di ogni diverso. Non rari sono i casi di periferie dove alligna la violenza e le attività illegali, fenomeni questi non di poco conto nel determinare il degrado.
È tenendo conto di tale articolata realtà che va studiato l’intervento nella singola periferia, non nell’idea che la bellezza le cancellerà, nell’attuale sistema di diseguaglianze e discriminazione le periferie resteranno una costante perché una costante è la diseguaglianza prodotta dal nostro sistema economico-sociale, perché gravi saranno le ingiustizie sociali tra chi ha un lavoro e chi no, grave e diversa la disperazione di chi un lavoro lo cerca e di chi l’ha perduto. Mettiamo anche il “bello” nelle periferie dove manca, ma attiviamo politiche per il lavoro, magari socialmente utile, per l’istruzione e la formazione, politiche per i giovani, che vuol dire solo scuola, ma anche sport, attrezzature culturali, aree di divertimento e per il tempo libero, consultori, laboratori, ecc. ma anche sostegno alle famiglie. Vuol dire assistenza agli anziani non autonomi, come pure a quelli parzialmente autonomi, significa portarvi le attrezzature culturali, ecc. Ma significa soprattutto gestione di queste attività: un “centro”, non importa di che tipo, culturale, sportivo, teatrale, scolastico, ecc. deve essere gestito non può essere abbandonato sperando che da solo produca meravigliosi effetti. In questo ambito il lavoro di cogestione con le popolazioni insediate diventa importantissimo, non l’orgoglio di essere periferia ma l’orgoglio di essere un soggetto responsabile e attivo nel cambiare la realtà.
Significa ascolto della popolazione, di quella che ha voce come di quella afona, significa non generica partecipazione ma assunzione delle lotte come una “domanda” politica di cambiamento. È proprio la crisi che può essere una mobilizzazione collettiva, che da una parte esprime una domanda di cambiamento ma dall’altra si assume la responsabilità soggettiva del cambiamento. Non si tratta di combattere gli extracomunitari, quanto di far fronte comune per l’affermazione di diritti di cittadinanza per tutti, unico strumento di convivenza.

Bisogna sapere che, per quanto detto prima, al meglio di questo intervento ci saranno sempre espulsioni e la costituzione di nuove periferie. Un lavoro interminabile, ma necessario, indispensabile e utile.

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