La città e le sue crisi
Francesco Indovina
(da F. Eckardt - Javier Ruizi Sànchez, eds., City of Crisis, UrbanStudies, Transcript Verlag, Blelefeld, 2015)
La crisi Fiscale
Trattando della crisi
della città, che è soprattutto una crisi di risorse, sembra opportuno premettere un riferimento ad
un testo che tanto successo ha avuto alla sua pubblicazione (il 1973, in USA e il 1977 in Italia): James
O’Connor, La crisi fiscale dello stato. L’autore
sosteneva che la crisi fiscale dello stato, determinata dalla crescita delle
spese pubbliche senza una corrispondente crescita delle entrate, non era il risultato
di una qualche anomalia del sistema, né
l’esito di una cattiva amministrazione, ma essa costituiva una necessità per il
“capitalismo monopolistico”. Oggi possiamo
tranquillamente, e a ragion veduta, allargare
il punto di vista dell’autore il riferimento non è più il “capitalismo monopolistico” ma piuttosto il
“capitalismo finanziario”.
La conclusione di
O’Connor, fatta propria da Federico Caffè nell’introduzione all’edizione 1979
del saggio, era: “Per concludere, in assenza di una prospettiva socialista, che
sia in grado di proporre delle alternative in ogni aspetto della società
capitalista […], i militanti sindacali , gli organizzatori e gli attivisti
continueranno a muoversi in un relativo vuoto
teorico. […] ciò di cui si avverte la necessità è una prospettiva
socialista che si forzi di ridefinire i bisogni in termini collettivi. In
realtà, se anche la classe operai riuscisse a socializzare l’intera quota del
reddito nazionale assorbita dai
profitti, la crisi fiscale riapparirebbe in una nuova forma, a meno che non si
ridefiniscano tanto l’investimento sociale e il consumo sociale quanto il
consumo individuale e i modelli
individualistici di vita”.
I tempi sono mutati, le
condizioni hanno subito una forte trasformazione, le forme della crisi fiscale
dello Stato hanno assunto nuovi e più drammatiche aspetti, ma sia il
riferimento al “vuoto teorico” che la necessità di una prospettiva socialista
adeguata ai tempi paiono valere ancora.
La crisi economica
Volendo far riferimento
alla crisi economica diventa fondamentale cercare di delinearne le
caratteristiche.
Che non si tratti di una
crisi, diciamo così, congiunturale sembra molto evidente ed è da molti
affermato, così come appare altrettanto evidente che le “politiche” adottate
per superarla paiono del tutto inefficienti. Ma tale inefficienza non può
essere attribuita soltanto alle aberranti
politiche di austerità che, imposte dalla Germania, caratterizzano gli
interventi dell’insieme dei paesi della Comunità europea ( esiste una conferma
indiretta della relazione individuata da O’Connor ). Gli strumenti proposti, si
collocano nella “tradizione” e non sembrano cogliere la novità della crisi; è
questa la ragione della loro inefficienza. L’esito negativo costituisce il
risultato del rifiuto di guardare negli occhi la natura della crisi che
attanaglia tutte le economie (anche quelle che non adottano politiche di
austerità). Come al Minotauro si offrivano vergini per tenerlo buono, così alla
crisi si offrono in sacrificio uomini, donne e interi paesi, mentre non si vede
all’orizzonte nessun Teseo in grado di uccidere la bestia.
La crisi economica è
figlia di una modifica sistemica del capitalismo. Non è l’eccesso di credito
che ha causato le “bolle”, che deflagrando hanno determinato la crisi, ma l’eccesso
di credito è l’effetto, non la causa, mentre questa va individuata nella nuova modalità di accumulazione di
ricchezza (speculativa) che esce fuori dal sistema di produzione. Nella logica
del funzionamento dei rapporti sociali di produzione del capitalismo si trovano
le spiegazioni del continuo incremento del “capitale” a scapito del “reddito”
ed è in questo esito che va trovato la base della crisi attuale che corrisponde
ad un mutamento di sostanza del capitalismo. L’accumulazione del capitale sembra
continuare ad essere realizzata secondo la nota formula (denaro-merce-denaro) D-M-D,
nella realtà la parte più consistente si rende autonoma da questo meccanismo
per realizzare una crescita del capitale senza produzione di merci. Il denaro
diventa il mezzo diretto per produrre altro denaro (si potrebbe scrivere D-D).
Il valore della Finanza mondiale è dieci volte superiore al PIl mondiale.
Alle origini dell’era
moderna i mercanti, i più ricchi tra di loro, funzionavano da “banca” e
prestavano denari a re, principi, imperatori,
ecc., per le loro avventure (per lo più belliche) in cambio di un tasso
spesso di usura, o di concessioni commerciali, o di altri vantaggi. Lo stesso
fanno oggi i moderni finanzieri (compresi anche alcuni finanzieri di stato,
come la Cina ):
prestano agli Stati, regioni, comuni e spingono i ceti medi ad indebitarsi
(mutui sulla casa, finanziamento al consumo, ecc.) e si garantiscano contro una
sicura insolvenza (le famose “bolle”) con l’invenzione di meccanismi finanziari
(i derivati) per trovare su chi scaricare tale insolvenza.
Che si tratti di una
strada che porta al suicidio dello stesso sistema sociale, che chiamiamo
capitalismo, appare evidente; non si sostiene che siamo alla fine del
capitalismo, ma che le condizioni strutturali sarebbero favorevoli per un cambiamento di regime sociale
(mentre la soggettività politica in questa direzione risulta carente – chi, come,
cosa, quando – per ragioni ideologiche). Si possono prendere, e in modo
contraddittorio si stanno prendendo, dei provvedimenti tamponi, che non
invertono la tendenza in atto, ma possono costituire delle stazioni di “riposo”
nel percorso del treno della crisi; ma il convoglio avanza.
Per esempio, e questo ha
a che fare con il tema specifico della città, non capire che la crisi non è
figlia dal dissesto della finanza pubblica (debiti sovrani), ma che tale
dissesto nasce dalle necessità e dalle imposizioni della finanza, che
costituisce un potere a sé, e che ha evirato ogni dimensione nazionale. I
politici nazionali, quando sono incapaci e corrotti, si fanno prendere per mano
dalla finanza internazionale, quando sono capaci e poco corrotti si mettono, di
fatto, a servizio di quella rivendicando
sia l’oggettività dei processi sia il presunto futuro miglioramento della
situazione dei popoli. Dopo l’occupazione coloniale il mondo intero e
colonizzato dal capitale finanziario. Le istituzioni politiche sovranazionali
che dovrebbero garantire i popoli contro la strapotere della finanza,
garantiscono questa contro i popoli, anche perché tali istituzioni si avvalgono
di tecnostrutture che spesso vengono direttamente da tali istituzioni
finanziarie.
È anche il buon senso che
suggerisce, e questo vale non solo per la finanza pubblica ma anche per le
famiglie, che i debiti pagati con altri debiti non possono essere la soluzione:
il debito, infatti, finisce per assumere una dimensione tale che non sarà mai possibile
saldarlo. L’esempio della Grecia, che nonostante avesse ottenuto una riduzione
del debito non riuscirà a pagare quello che gli è rimasto, e per
questo sarà ulteriormente punita con nuove limitazioni, costituisce una
dimostrazione di come il meccanismo si avviti su se stesso.
La così detta “catena di Sant’Antonio” non è solo
l’espediente di chi vuole truffare i propri clienti pagando con le quote dei
nuovi clienti gli interessi dei vecchi clienti (come Bernard Madoff), ma
costituisce il riferimento in auge, anche se in forma diversa, a tutti i
livelli della finanza internazionale. La “finanza” creativa e i propri
specifici strumenti , che anche se contrastati si rinnovano continuamente, sono
utilizzati dalla finanza internazionale che ha determinato una struttura economica
nuova nella quale somma alla
produzione di “ricchezza” con lo sfruttamento diretto dei lavoratori, la
tosatura dei popoli per pagare i debiti e
“costruisce” un mondo di depressione e di sempre maggiore diseguaglianze. La finanziarizzazione dell’economia e la velocità
assunta dal progresso tecnico stringono il sistema economico-sociale mondiale
in una morsa mortale, nella quale il capitale
superfluo e la manodopera superflua
non trovano (e non possono trovare, allo stato dei fatti), impieghi reali.
L’economia reale, in
questo quadro, appare un’appendice dell’economia finanziaria insieme
irrilevante e utile. Utile per accumulare quelle risorse, che la contrazione
della domanda ancora permette, per essere poi “prelevate” dalla finanza;
irrilevante perché quota sempre più modesta della “ricchezza” complessiva (che
in realtà non esiste, ma la cui esistenza è determinata dalla decisione di
“voler pagare i debiti”).
Si comincia a fare
strada, in molti osservatori, la consapevolezza che la piramide sociale dei
diversi paesi è sottoposta a profonde tensioni e modifiche. Il ceto medio
risulta molto compresso, un risultato che sottrae alla finanza uno dei suoi
“mercati” privilegiati (è stato questo ceto che ha alimentato le varie forme di
domande di indebitamento: mutui per la casa, prestiti al consumo, ecc.), mentre
il mercato dei vecchio e nuovi ricchi non garantisce l’accumulazione
complessiva. La compressione del ceto medio, inoltre, produce la rottura della
continuità tra i diversi strati sociali, spesso compromissoria, ma anche fonte di conflitti e contrasti, di sviluppo e di organizzazione di lotte di massa.
La città nella crisi
Il riverbero, per così
dire, sul governo della città e del
territorio dei fenomeni prima indicati (anche se in modo sommario)
costituisce uno degli aspetti drammatici dell’attuale situazione, anche perché
le politiche che si adottano finiscono per scaricare i propri esisti proprio
sull’organizzazione urbana.
Si sono sempre esaltate
le amministrazione locali come l’anello politico che meglio di ogni altro
potevano esercitare la promozione della democrazia. La “prossimità” tra la
decisione politica e la popolazione doveva (poteva) costituire, infatti, una
relazione virtuosa per rendere più sensibile la politica (le Amministrazioni
locali) ai bisogni della popolazione e, nello stesso tempo, avrebbe potuto
manifestarsi una maggiore attenzione da parte della popolazione sulla politica e sulle
proprie scelte elettorali (votare con i piedi). È noto, tuttavia, che questa relazione virtuosa ha funzionato molto
meno di quanto fosse sperabile, per responsabilità di ambedue le polarità e
soprattutto per indifferenza e preoccupazione della parte politica.
Quest’ultima, in sostanza, non ha gradito un controllo pressante della
popolazione e non ha accetta che il conflitto, espressione dei bisogni della
popolazione, potesse diventare un dato
fondamentale per la “buona politica”. La crisi della democrazia non è, infatti,
solo nazionale, ma anche locale.
Il peggioramento della
situazione delle città, per effetto della crisi economica, ha reso la politica
locale meno autoreferenziale, in qualche caso si, sia per l’evidente disagio del
vissuto di molti uomini e donne, sia per la crescente pressione della
popolazione e delle relative organizzazioni (tradizionali e nuove, strutturate
e occasionali) affinché siano prese delle decisioni che siano funzionali ad alleviare le situazioni di disagio. Ma
questo mutato atteggiamento non ha avuto, in generale, esisti positivi.
I disagi che la
popolazione affronta per effetto della crisi si sommano a quelli strutturali prodotti dai meccanismi economici tradizionali.
In particolare i fenomeni più rilevanti riguardano: la povertà, la disoccupazione, la crescente domanda di
sostegno economico, l’aumentata domanda di servizi, la questione della casa (sua
assenza e suo costo), l’assistenza agli anziani e ai disabili. In sostanza, alla
fase in cui ciascuno poteva immaginare
di cancellare le carenze che si manifestavano a livello urbano
(insoddisfazione per i servizi, situazione abitativa, qualità dell’ambiente,
ecc.) attraverso proprie risorse (una
sorta di privatizzazione delle soluzioni), sembra far seguito una fase nella
quale forte e pregnante appare la domanda di più città e di una migliore città
e di un aumento dell’intervento pubblico.
Si osservi che la povertà
relativa al 2013 a livello nazionale è pari al 12,6% della popolazione mentre
il dato della povertà assoluta è pari al 7,9% . I dati sono peggiori per il sud
d’Italia, e per le famiglie numerose e con capofamiglia anziano.
Che la crisi è
più profonda nel Mezzogiorno d’Italia è confermato da altri dati: in quest’area
il numero delle persone in stato di povertà assoluta è salito di 725
mila unità nel 2013, toccando quota 3 milioni e 72 mila. Anche il dato della povertà relativa incide in modo
pesante nel Mezzogiorno: si attesta al 26% , a fronte del 6% del
Nord e del 7,5% del Centro. Le
situazioni più gravi si osservano tra le famiglie residenti in Calabria (32,4%)
e Sicilia (32,5%), dove un terzo del campione è relativamente povero.
E ancora: iI consumi mensili tra il 2012 e il 2013 sono
diminuiti del 4,3%; mentre le famiglie che hanno ridotto qualità e quantità
degli acquisti sono il 65%. Delle persone
senza casa, costrette per
strada o in alloggi di fortuna non esistono statistiche credibili. Solo la
Caritas, struttura delle chiesa cattolica, distribuisce pasti e mette a
disposizioni qualche letto per la notte, nei suoi rapporti la Caritas mette in
luce che in proporzione diminuiscono gli immigrati e aumentano i cittadini
italiani, che spesso si tratta di famiglie e non di individui, gli italiani
hanno un’età media doppia di quella degli immigrati, la maggior parte è
disoccupata, ecc. Un quadro drammatico (si consideri che ad Orvieto e Todi, due
citta di media dimensione, non considerati l’epicentro della povertà l’anno
scorso la Caritas ha distribuito 30.000 pasti) .
A Milano, la capitale economica del paese, nel 2013 la spesa media mensile è stata di 2.874 euro, contro
i 3.068 del 2012.
A fronte di questa
situazione le Amministratori locali dispongono di sempre minori risorse.
Intanto perché sempre costante è la riduzione dei trasferimenti dello Stato,
minori le entrate fiscali (dirette o per quota di imposte nazionali) per
effetto proprio della crisi economica, maggiore, nella difficoltà economica
delle famiglie e delle imprese, la tendenza all’evasione fiscale, inoltre non poche
amministrazioni sono gravate da debiti sia verso le banche che verso i
fornitori (e mentre i primi sono quelli che impongono di essere saldati secondo
gli impegni presi, i secondi si tende a procrastinarli nel tempo e così facendo
contribuendo a deprimere l’economia).
Infine grava sugli enti
territoriali il patto di stabilità, imposto
dalla Comunità europea agli Stati membri
e dal governo italiano traslato agli enti territoriali, introducendo un limite di spesa anche per quelle Amministrazione
che disponevano di risorse proprie (gli enti locali più virtuosi finiscono per
essere più penalizzati).
Il risultato è che molti
comuni (un paio di centinaia) si trovano in situazione di dissesto, alle soglie
della “banca rotta”. Non si tratta solo di grandi comuni, come Napoli, Catania,
Reggio Calabria, Messina, ecc. m anche di piccoli e medi comuni. E se il
governo è intervenuto a salvare Roma (con la legge Roma capitale) per gli altri
comuni fa poco.
In questa situazione, che
sarà sicuramente di lungo periodo (la fuoriuscita dalla crisi viene annunziata
e poi posticipata di anno in anno), le Amministrazione si trovano tra
l’incudine delle limitate risorse e il martello delle domande crescenti della
popolazione, senza capacità di intervenire. La “pressione” sulle
Amministrazioni locali spesso diventa intimidazione verso gli amministratori o
i tecnici degli uffici: automobili sfasciate, minacce personali e alle
famiglie, copertoni delle auto tagliate, porta di casa bruciata, ecc. Nel 2013
i casi di intimidazione accertati si avvicinano a 300 (niente si sa di quelli
non accertati). Le Amministrazioni locali, le più vicine alla popolazione,
finiscono per essere individuati come i responsabili dei disastri sociali.
Può essere utile,
delineare, in modo sintetico, quale sia la situazione di molte delle città
italiane:
-
una crescente polarizzazione sociale e una
riduzione del “ceto medio”. Una condizione questa che tende a frantumare la
“continuità sociale” che mentre rendeva più complessa e meno facile la
trasformazione delle domande in conflitti, garantiva a questi uno sbocco
politico gestibile;
-
un
peggioramento dei servizi collettivi con fenomeni crescenti di esclusione delle
fasce sociali più bisognose, quindi con una sostanziale inversione degli scopi stessi
di tali servizi;
-
l’abbandono
di ogni intervento di manutenzione urbana, con conseguente peggioramento della
vivibilità della città;
-
il
peggioramento dell’ambiente (qualità dell’aria, per esempio) per riduzione dei
controlli, per la scelta di soluzioni tecnologiche più arretrate e quindi più
inquinanti (per esempio mezzi di trasporto), ecc.
Ciascuna di queste
situazioni potrebbe essere articolato in sotto voci in grado di specificare
meglio la condizione alla quale si fa riferimento, ma per lo scopo di questo
scritto l’articolazione proposta sembra sufficiente.
Anche a livello comunale
la crisi non colpisce tutti nello stesso modo, al punto che sono
individuabili segmenti sociali che dalla
crisi hanno tratto e traggono vantaggi economici. In questa situazione scendere
al dettaglio delle situazioni di disagio, per definire azioni politiche
coerenti, dovrebbe essere opportuno, inoltre le Amministrazioni territoriali
hanno le conoscenze per definire ventagli di disagio realistici.
Esistono, infatti, segmenti
di popolazione che anche solo per condizione
demografiche risultano a rischio più di altri (anziani, famiglie numerose,
ragazze madri, portatori di handicap, ecc.). Se all’articolazione precedente si
sovrappone il reticolo delle situazione economiche (disoccupati, pensionati,
occupati precari, ecc.) allora l’articolazione delle condizioni di disagio si
moltiplicano ma si precisano nelle loro caratteristiche. La formazione della
mappa della condizione di disagio, dovrebbe costituire il riferimento per
l’articolazione degli interventi delle amministrazioni locali. Ma non sempre
questa operazione di individuazione viene fatta.
Le condizioni alle quali
operano gli Enti locali riguardano: l’universalità dei servizi collettivi
(anche se stemperata da ticket e similari), la progressività della tassazione
(mai rispettata), la responsabilità verso i creditori (più o meno fatta valere
a secondo del potere del creditore), la trasparenza amministrativa (di fatto
una chimera), la corretta amministrazione (al netto della dilagante
corruzione), la difesa del patrimonio comune (spesso negletto e abbandonato),
la democraticità delle decisioni (sottomessa al potere dei contraenti forti),
la responsabilità verso la qualità urbana (meglio non parlarne). Queste
condizioni trovano diversità di articolazioni e di applicazione nelle varie
situazioni e, di fatto, contribuiscono a determinare la qualità delle diverse città
e ne determinano anche la capacità di intervento.
In questa situazione la “buona politica” dovrebbe suggerire alle Amministrazioni locali di
aumentare le proprie disponibilità economiche e proporsi di far ridurre le
pretese dei propri cittadini. Cose ambedue non facili.
Le Amministrazioni
territoriali, sotto lo stimolo della Comunità europea e del governo, in più sfiancati
dalla pressione dei mezzi comunicazione di massa, individuano come prima operazione da fare quella della vendita del loro patrimonio immobiliare.
La vendita del patrimonio (abitazioni sociali, edifici abbandonati, ex caserme
o opifici, aree, e una infinità di altre fattispecie) costituisce una vera
assurdità: impoverisce il venditore (cioè la comunità) per un “sollievo”
momentaneo e non ripetibile (una parte di questo patrimonio, effettivamente non
utile sul piano operativo e irrilevante dal punto di vista culturale e storico,
potrebbe anche essere venduto con accortezza).
Ma proprio perché il
venditore risulterebbe “costretto” a disfarsi di pare del patrimonio, il
compratore si trova in mano carte molto buone che adopera prima di tutto per sottovalutare
il valore del bene e poi per porre condizioni capestro. Di fatto l’Amministrazione
pubblica (locale e nazionale) è costretta, in queste condizioni, più a svendere
che a vendere. Ma non basta, l’interesse del compratore è, come ovvio, la trasformazione
funzionale e volumetrica del bene acquisito, quindi l’acquisto viene
strettamente legato ad una modifica di destinazione d’uso e ad un aumento di volumetrie.
La modifica delle destinazione d’uso e delle volumetrie non sono un “delitto”
in una città che si trasforma, ma si tratta comunque di operazioni molto
delicate, esse cambiano la pressione della popolazione in quella determinata
zona (traffico compreso), richiedono l’attivazione di servizi non previsti,
ecc. In sostanza i “cambi d’uso” non rispettano un “progetto per la città” ma
costituiscono soltanto un’occasione per fare
“cassa”.
Con accorte politiche il
patrimonio immobiliare delle Amministrazioni locali (ma anche nazionali) in
parte potrebbe essere riattivato per scopi collettivi, sociali e
produttivi senza necessità di vendere,
magari proponendo meccanismi di auto-restauro e di auto-ristrutturazione da
parte di chi in futuro lo adopererà (abitazioni, attività produttive
artigianali, imprese innovative promosse da giovani, ecc.).
Ma il patrimonio dei
comuni non è solo quello immobiliare, sotto l’occhio avido e le mani artigliate
della finanza, si trovano molti dei servizi
che le amministrazione erogano ai cittadini attraverso proprie imprese o
partecipate (acqua, energia, raccolta rifiuti, ecc.).
In un rapporto presentato
dalla Deutsche Bank alla Commissione europea (anno 2011) si afferma che i
comuni italiani mostrano un alto potenziale di privatizzazione. Questa banca,
come è noto, è maestra in operazioni finanziarie di spoliazione di popolazioni.
In sostanza, lo suggerisce l’Unione europea e lo sollecita il governo
nazionale, si vuole anche la
privatizzazione di molti dei servizi erogati da aziende locali di proprietà
comunale. Una linea di indirizzo questa a tutto vantaggio dei cittadini: i
servizi saranno meglio gestiti, e le aziende raggiungeranno adeguati livelli di
efficienza, i cittadini avranno migliori servizi e, forse, li pagheranno meno.
Inoltre le eventuali perdite di queste imprese private
non graveranno sui bilanci delle Amministrazioni locali (ma finiranno per
gravare sui bilanci delle famiglie). Questa ideologia efficientistica è
contraddetta dalle esperienze: i privati subentrati per raggiungere gli sperati
livelli di remunerazione del capitale investito, aumentano le tariffe o
peggiorano i servizi (contraddicendo che le privatizzazione siano a vantaggio
delle popolazioni).
Non si può disconoscere
che spesso la gestione di questi servizi hanno rappresentano centri di spreco (e non
raramente di corruzione); ma proprio partendo
da questa situazione sarebbe facile
migliorarne l’efficienza e la
soddisfazione delle famiglie; mentre la crisi fiscale degli enti e di
conseguenza la riduzione della capacità delle Amministrazioni locali di realizzare investimenti in tali aziende
diventano la giustificazione per
spingere alla privatizzazione.
È proprio la carenza di risorse che tenta le
Amministrazioni locali di mettere sul mercato
queste aziende, con il conseguente impoverimento sia della
Amministrazione che dei cittadini
costretti a tariffe in crescita. In sostanza si è di fronte al tentativo di
sottrarre alle comunità le aziende di erogazione di servizi, per farne delle
macchine da soldi, senza rispetto per la soddisfazione dei bisogni della
popolazione, soprattutto delle fasce più
deboli.
Diversa è la situazione
dell’indebitamento verso le banche (titoli spazzatura compresi) che costituisce
un altro punto dolente della loro situazione finanziaria. Sarebbe necessario
ottenere, almeno la ristrutturazione del debito: tempi di rientro del debito, riduzione
dei tassi, ecc. Ma il potere contrattuale delle Amministrazione e debole anche
per l’assenza di un sostegno dello Stato centrale. Come si è già detto sono
molte le amministrazioni sul punto di fallire.
La riduzione delle spese,
che molte amministrazioni comunali sono “costrette” a prendere in
considerazione, determinano un peggioramento dei servizi e aggravano la
situazione economica (meno occupati, meno consumi, più depressione). In
contrapposizione alla riduzione delle spese alcuni comuni adottano l’aumento
delle tariffe (per esempio negli asili) determinando così l’esclusione di fasce
di popolazione, non in grado di pagare gli eventuali aumenti.
Vengono inoltre ridotti
gli aiuti alle famiglie disagiate: assistenza vera e propria alle famiglie
bisognose, contributi per l’affitto, “buoni” di acquisto, assistenza
domiciliare, ecc. Il fenomeno, inoltre, tede ad incidere sull’occupazione per il
taglio di molto personale “ausiliario”, anche se precari, (che possono andare
dai controllori del traffico, agli operatori ecologici, alle maestre d’asilo, ecc.).
Inoltre i comuni in
difficoltà tendono a ridurre gli investimenti in manutenzione della città
(spazzi pubblici, edifici pubblici, ecc.). Questa linea di non intervento non solo
incide sulla qualità della città ma anche sui livelli di occupazione.
Stretti tra la mancanza
di risorse e la pressione dei cittadini (elettori) e in carenza di strumenti
codificati per interventi adeguati, tende a prevalere la ristrettezza delle
risorse, cioè una politica di “tagli”. In conseguenza il disaggio determinato
dalla situazione di crisi tende a non trovare nessuna contrapposizione
nell’attività dei governi locali. Si determinano così un accumularsi delle
situazioni negative della crisi su singoli cittadini: disoccupazione, riduzione
del reddito disponibile, ecc. a cui sommare i tagli ai servizi delle
Amministrazioni locali.
È possibile seguire strade diverse per venire incontro alle necessità della
popolazione? Si dovrebbe rigettare l’ideologia del “realismo” (questa è la
situazione e non è possibile fare niente) per affrontare la “realtà” (una linea
che, sebbene con contraddizioni alcune Amministrazione tentano di seguire). Si dovrebbero
seguire i seguenti indirizzi:
-
prendere le
risorse dove ci sono;
-
sospendere momentaneamente l’universalità dei
servizi collettivi;
-
sviluppare e
incrementare i processi di mobilizzazione democratica.
Le Amministrazioni
territoriali hanno una ridottissima propria capacità impositiva (oggi in
aumento) e non sono in grado quindi, anche volendo, né di fare una politica
perequativa e progressista e quindi incidere sulle crescenti diseguaglianze, né
di raccogliere adeguate risorse. Le strade da seguire in questo caso potrebbero
essere diverse.
Se, per esempio, uno dei fattori che alimenta il disagio fosse
la questione abitativa (sfratto, impossibilità di accedere al mercato libero, ecc.),
l’Amministrazione potrebbe farsi
portatrice di iniziative per accordi con la proprietà immobiliare, concordando riduzione dei fitti, sospensione degli
sfratti, ecc. o, in assenza della collaborazione dei padroni di casa, operare
delle requisizione di case vuote assegnandole
ai “senza casa” (a fitti concordati). L’apertura
in questo caso di un possibile contenzioso, non dovrebbe spaventare anche
perché potrebbe essere l’occasione per rendere esplicito che la “proprietà” non
risolve il problema della casa e che la riduzione del disagio sociale in questo
settore costituisce elemento prioritario di una società responsabile. Si tratterebbe,
inoltre, di un intervento volto a contrastare le inique diseguaglianze, che a
parole vengono criticate sia dal punto di vista della “civiltà”, sia per gli
effetti depressivi sull’economia, ma che di fatto aumentano.
Nella stessa direzione
perequativa si dovrebbero muovere anche
quei provvedimenti di momentanea sospensione della universalità dei diritti di
cittadinanza assicurati dai servizi
collettivi. La nuova concezione del welfare che cerca di fare breccia nella
nostra società prevede che i servizi collettivi siano garantiti soltanto ai
“bisognosi”; una concezione dei diritti
di cittadinanza sicuramente perverso che viola il principio della universalità,
omogeneità e accessibilità di tali diritti. Quanto proposto non esclude nessuno
dall’utilizzazione dei servizi collettivi, ma dovrebbe, soprattutto in ragione
della crisi, modulare temporaneamente la tariffazione in relazione alla
condizione economica della famiglia e dell’individuo. La poca trasparenza della
distribuzione della ricchezza, crea dubbi sull’applicabilità di questo
principio, ma l’Amministrazione locale potrebbe avere una cognizione diretta della situazione economica di ogni
famiglia e provare a definire parametri
più veritieri di quanto molto spesso non siano le denunzie dei redditi.
Inoltre il corrispettivo
di molte concessioni comunali, come per esempio il plateatico, potrebbero essere
modulati secondo una valutazione delle differenze di redditività prodotte dalle
concessioni stesse.
Questi e altri simili
provvedimenti possono essere messe in campo a partire dall’insieme, molto
ampio, delle attività e dei servizi forniti dall’Amministrazione locale.
Tuttavia perché tali iniziative non assumano un connotato di arbitrarietà è
necessario l’impegno per un notevole sviluppo della democrazia, che non va
assunta solamente come strumento di “controllo” su chi governa, ma per gli
apporti positivi che può produrre in
termini di una solidarietà di reciprocità.
Con questa terminologia
si vorrebbe indicare qualcosa di molto diverso a cui allude il semplice termine solidarietà, si tratta,
cioè, dei singoli membri della comunità di assumersi anche compiti di gestione
che garantiscano a tutti qualità e continuità collettiva, per esempio di un
servizio, e di un sostegno diretto all’azione della popolazione secondo gli
indirizzi prima indicati:
Si intende una
mobilizzazione della popolazione finalizzata ad accrescere, per mezzo di specifici
strumenti e iniziative, il tono
democratico di una data realtà territoriale. Forme concrete di “democrazia diretta”,
con capacità deliberativa, possono essere collegate e rapportate alle forme
tradizionali di “democrazia delegata”, vivificando quest’ultima. Così come
forme di collaborazione diretta nella gestione amministrativa dei servizi e
delle diverse funzioni operative di un ente territoriale, possono permettere
livelli di efficienza e di efficacia maggiore.
Oggi è sempre più
manifesta un’ avversione alla democrazia
delegata, storicamente data, di questa forma di democrazia non credo si possa
fare a meno ma sarebbe necessario la sua vivificazione collegandola con forme
di democrazia diretta (decisionale e gestionale).
Sono noti esperimenti
volontari che nel tempo sono stati fatti, come la “banca del tempo”, così come
sono noti i buoni risultati “consiliari” (si pensi alla scuola) fino a quando
questi hanno avuto potere, altrettanti
noti le opportunità di risparmio creati volontariamente dai “mercati dei
contadini”, o ancora dall’organizzazione autonoma dei GAS (gruppi di acquisto
solidale), ecc. Niente da dire sulla capacità dei singoli gruppi di organizzarsi
volontariamente ed essere operativi, ma pare necessario, proprio per la
presenza della crisi, un salto di qualità e di quantità: le Amministrazioni
locali possono e devono aiutare queste
iniziative con contributi di organizzazione. Non si tratta di una strada per la
fuoriuscita dalla crisi o a delineare assetti sociali diversi, ma sicuramente
contribuiscono e ad alleggerire il disaggio.
È con una mobilizzazione
allargata che impegnando i diversi gruppi in azioni e funzioni specifiche a disposizione e fruizione di tutti che si
da corpo a quella che si è chiamata solidarietà di reciprocità.
Conclusioni
La popolazione che in
quote crescenti si trova in condizione di disagio se da una parte spera e richiede
soluzioni complessive (nazionali e internazionali) dall’altro più,
immediatamente, trasforma, per così dire, il proprio disagio in domande alle
Amministrazioni locali (il livello di governo prossimo). Le Amministrazioni
locali, per altro, sono investite dalla stessa crisi fiscale dello stato, con
una riduzione delle risorse. Crescente “domande” e minori “risorse”
costituiscono la tenaglia che tende a stritolare l’operatività delle stesse
Amministrazioni locali.
Queste ultime costituiscono il palcoscenico dove con più
evidenza si manifestano gli effetti devastanti della crisi e dove con
altrettanta evidenza si mostra l’incapacità e impossibilità di dare risposte
soddisfacenti alla situazione. Inoltre le Amministrazione tendono a seguire
delle linee di intervento non solo fallimentari ma che tendono a peggiorare la
situazione presente (riduzione dei servizi, aumento delle tariffe, esclusione
della manutenzione, ecc.) e quella prossima (alienazione del proprio
patrimonio). I governi nazionali hanno scaricato sulle Amministrazioni locali
le crescenti contraddizioni sociali che la crisi produceva (la politica ha un
tasso di cinismo insopportabile).
Per quanto detto è
evidente che le Amministrazioni locali non sono in grado né di combattere la
crisi, né di affrontare i disagi da quella generata. Eppure qualche modesta
possibilità di mitigare il disagio esiste: rigettando gli indirizzi prevalenti,
opponendosi ai processi di privatizzazione, usando in modo opportuno il proprio
patrimonio immobiliare, facendo appello alle forze sociali sulla base di un
principio di solidarietà reciproca gli amministratori possono mitigare gli
effetti di una crisi di cui, nonostante gli annunzi, non si vede la fine. Alcune
amministrazione ci provano, ma sono poche.
The city and its crises
Francesco
Indovina
(da F. Eckardt and J. Ruiz Sánchez (a cura di), City of Crisis, The multiple Contestation of Southern European Cities, transcript
Verlag, Blelefeld, 2015
Since the
crisis of the city is above all a crisis of resources, it seems appropriate to
start by referring to a text that was very successful when it was published (in
1973 in the U.S.A. and in 1977 in Italy): James O’Connor’s “The fiscal crisis
of the State”. The author maintained that the fiscal crisis of the State,
caused by growth in public expenditure without an equivalent rise in revenue,
was not the result of some abnormality in the system, or the outcome of bad
administration, but constituted a need for “monopoly capitalism”. Nowadays we
can safely, and with good reason, expand the author’s point of view: the
reference should no longer be to “monopoly capitalism” but rather to “financial
capitalism”.
O’Connor’s
conclusion, which Federico Caffè adopted as his own in the introduction to the
edition of 1979 of the essay, was: “To conclude, in the absence of a socialist
perspective able to propose alternatives for every aspect of the capitalist
society […], trade union militancy, organizers and activists will continue to
proceed in a relative theoretic void. […] what it is felt is required is a
socialist perspective that will make the effort to redefine needs in collective
terms. In actual fact, even if the working class were to manage to nationalize
the whole share of national income absorbed by profits, the fiscal crisis would
reappear in a new form, unless both social investment and social consumption
were redefined as well as individual consumption and individualist life
models”. Times have changed, conditions have undergone great transformation and
the forms of fiscal crisis of the State have taken on new, more dramatic
aspects, but both the reference to the “theoretic void” and the need for a
socialist perspective fit for the present time still seem to be valid.
1.
The
economic crisis
If we wish
to refer to the economic crisis we must necessarily try to outline its
features.
That it is
not a question of a, let us say, short-term crisis seems very clear and this
has been stated by many, just as it appears equally clear that the “policies”
adopted to overcome it seem to be totally inefficient. But this inefficiency
cannot be attributed only to the aberrant austerity policies which, imposed by
Germany, have characterized the interventions of the group of European
Community countries (an indirect confirmation exists of the relation singled
out by O’Connor). The instruments proposed fit into “tradition” and do not seem
to grasp the novelty of the crisis; this is the reason for their inefficiency.
The negative outcome is the result of a refusal to look directly at the nature
of the crisis that is afflicting all economies (including those not adopting
austerity policies). Just as virgins were offered to the Minotaur to keep it
happy, so men, women and entire countries are offered in sacrifice to the
crisis, while no Theseus can be seen on the horizon who will be able to kill
the beast.
The
economic crisis is the offspring of a systemic change in capitalism. It was not
the excess of credit that led to the “bubbles” which caused the crisis as they
burst; the excess of credit is the effect, not the cause, while the latter was
to be found in the new (speculative) way of accumulation of wealth issuing from
the production system. Within the logic of the functioning of the social
relations of production in capitalism explanations are found for the continuous
increment in “capital” to the detriment of “income”, and it is in this outcome
that the base of the current crisis is to be found, which corresponds to a
change in the substance of capitalism. The accumulation of capital appears to
continue to occur according to the well-known formula ‘money-commodity-money’
(M-C-M), but actually the larger part has separated itself from this mechanism
to create growth in capital without the production of commodities. Money has
become the direct means to produce other money (we could write M-M). The value
of World Finance is ten times greater than World GDP.
At the
origins of the modern age, merchants, or the richest of them, acted as a “bank”
and lent money to kings, princes, emperors, etc. for their adventures (mostly
warlike) in exchange for a tax, often exorbitant, or for trade concessions or
other advantages. Modern financiers do the same today (including some State
financiers, like China); they lend to States, regions and municipalities,
encourage the middle classes to get into debt (house mortgages, consumer good
finance schemes, etc.) and cover themselves against certain insolvency (the
famous “bubbles”) by inventing financial mechanisms (derivatives) to find who
they can unload their insolvency on.
It appears
obvious that this is a route leading to suicide of the social system itself,
which we call capitalism; we are not saying that we are at the end of
capitalism, but that the structural conditions are favorable for a change in
the social regime (while political subjectivity in this direction is lacking –
who, how, what, when – for ideological reasons). Buffer measures can be taken,
and are, in a contradictory way, being taken, which do not reverse the tendency
underway but may constitute “rest” stations along the route of the crisis
train; but the convoy goes on.
For example
– and this has to do with the specific theme of the city – not understanding
that the crisis is not the offspring of the public finance break-up (sovereign
debts), but that this break-up was born of the needs and impositions of
finance, which constitutes a power in itself, and has deprived all national
dimensions of strength. When national politicians are incapable and corrupt,
they let their hand be taken by international finance; when they are capable
and not very corrupt, they practically put themselves at its service, laying
claim to both the objectivity of processes and the alleged future improvement in
the situation of peoples. After colonial occupation the whole world has been
colonized by financial capital. The supranational political institutions that
should protect peoples against the excessive power of finance, protect the
latter against peoples, also because these institutions have techno-structures
at their disposal that often come directly from the financial institutions.
Common
sense also suggests – and this holds not only for public finance but also for
families – that debts paid with other debts cannot be the solution: the debt
actually ends up taking on such a size that it will never be possible to settle
it. The example of Greece, which, despite having obtained a reduction in their
debt, will not manage to pay what is left, and will therefore be punished
further with new restrictions, is a demonstration of how the mechanism revolves
on itself.
The
so-called “chain letter” is not just the expedient of those who want to cheat
their clients by paying old clients’ interest with new clients’ subscriptions
(like Bernard Madoff), but a benchmark that has been revived, though in a
different form, at all levels of international finance. Creative “finance” and
its specific instruments, which, though resisted, are continually renewed, are
used by international finance that has determined a new economic structure in
which it adds to “wealth” production by direct exploitation of workers, peoples
being shorn to pay debts, and “builds” a world of depression and ever greater
inequality. The ‘financialization’ of the economy and the speed of technical
progress are clenching the world social-economic system in a deadly grip, in
which superfluous capital and superfluous labor do not find (and cannot find,
the way things are) real employment.
Real
economics, in this picture, seems like an appendix to financial economy, at the
same time insignificant and useful. Useful for accumulating those resources
that the contraction of demand still permits, to then be “withdrawn” by
finance; insignificant because it is an increasingly modest share of total
“wealth” (which actually does not exist, but whose existence is determined by
the decision to “want to settle debts”).
Awareness
is increasing in many observers that the social pyramid of various countries is
undergoing deep tensions and changes. The middle class has become greatly
compressed, an outcome that is taking away one of finance’s privileged
“markets” (this was the class that supplied the various forms of demand for
getting into debt: house mortgages, loans for consumer goods, etc.), while the
market of the old and new rich does not guarantee general accumulation. The
compression of the middle class, moreover, produces a fracture in continuity
between the different social strata, often compromising, but also a source of
conflict and contrast, of development and organization of mass struggles.
2.
The
city in the crisis
The
reverberation, so to speak, of the phenomena mentioned above (though briefly)
on the government of the city and territory is one of the dramatic aspects of
the current situation, also because the policies that are adopted end up
unloading their outcomes precisely on urban organization.
Local
Authorities have always been praised as the political link that more than any
other could exercise the promotion of democracy. The “closeness” between
political decision and the people should (could), in fact, constitute a
virtuous relationship, making politics (the Local Authorities) more sensitive
to the needs of the population and, at the same time, making it possible for
the population to pay greater attention to politics and to their electoral
choices (voting with their ‘feet’). It is well-known, however, that this
virtuous relationship did not work anything like as much as hoped for, with
both sides being responsible, and especially due to indifference and uneasiness
on the political side. The latter, basically, did not like the oppressive
control of the population and did not accept that conflict, an expression of
the needs of the people, could become a fundamental fact for “good politics”.
The crisis of democracy is not, in effect, just national, but also local.
The
worsening of the situation of cities, as an effect of the economic crisis, has
actually made local politics less self-referential in some cases, due both to
the obvious privations in the life of many men and women and to the growing
pressure of the population and respective organizations (traditional and new,
structured and casual) for decisions to be taken that would help alleviate the
situations of hardship. But this change in attitude has not, generally
speaking, had positive outcomes.
The
hardships the population face because of the crisis are added to the structural
ones produced by traditional economic mechanisms. In particular, the most important
phenomena concern: poverty, unemployment, growing demand for economic support,
increased demand for services, the housing issue (its absence and cost),
assistance for the elderly and disabled. Fundamentally, the phase in which each
one could imagine cancelling out the shortfalls arising at an urban level
(dissatisfaction with services, housing situation, quality of the environment,
etc.) with his own resources (a sort of privatization of solutions), seems to
be followed by a phase in which the demand for more cities, a better city and
an increase in public intervention is strong and significant.
Note that
relative poverty in 2013 at a national level was at 12.6% of the population,
while the figure for absolute poverty was 7.9%. The data are worse for the
south of Italy, and for large families and those with an elderly head of
family.
That the
crisis is deeper in Southern Italy is confirmed by other data: in this area the
number of people in a state of absolute poverty rose by 725,000 in 2013, to
reach a level of 3,072,000. The relative poverty figure also has a severe
influence in Southern Italy, reaching 26%, compared with 6% in the North and
7.5% in the Centre. The worst situations are seen in families resident in
Calabria (32.4%) and Sicily (32.5%), where a third of the sample is relatively
poor.
This is not
all: monthly expenditure fell by 4.3% between 2012 and 2013, while 65% of
families reduced the quality and quantity of their purchases. Credible
statistics do not exist for homeless people, forced to live on the street or in
makeshift living spaces. Only the Caritas, a Catholic church facility,
distributes meals and offers some beds for the night; in its reports the
Caritas highlights that immigrants are diminishing in proportion to an increase
in Italian citizens, that it is often a case of families and not individuals,
that the Italians have a mean age double that of immigrants and are mostly
unemployed, and so on. A dramatic picture (if we consider that in Orvieto and
Todi, two cities of average size not considered at the epicenter of poverty,
last year the Caritas distributed 30,000 meals).
In Milan,
the economic capital of the country, average monthly expenditure in 2013 was
2,874 euros, against 3,068 in 2012.
Faced with
this situation, Local Authorities have less and less resources at their
disposal. Whereas the reduction in State transfers continues to be constant,
fiscal revenue (direct or per share of national taxes) is lower due precisely
to the economic crisis and, in the economic difficulties of families and
businesses, the tendency towards tax evasion is greater. Then a number of Local
Authorities are in debt both with banks and suppliers (and while the former are
those that impose settlement according to the commitments made, the latter tend
to get postponed over time, thus contributing to depressing the economy).
Finally,
the stability pact is a burden on regional boards, imposed by the European
Community on Member States and passed on to the regional boards by the Italian
government, introducing an expenditure ceiling also for those Authorities that
had their own resources (the more virtuous local boards end up suffering
greater penalization).
The result
is that many municipalities (a couple of hundred) find themselves in
difficulty, on the verge of “bankruptcy”. We are not just speaking about large
municipalities like Naples, Catania, Reggio Calabria, Messina, etc. but also
small and medium-sized ones. And if the government intervened to save Rome
(with the Rome capital law), for the other municipalities it does little.
In this
situation, which will certainly last a long time (each year the end of the
crisis is announced but then postponed till the following year), the
Authorities are in a cleft stick between limited resources and the growing
demands of the population, with no capacity to intervene. “Pressure” on Local
Authorities often becomes intimidation against administrators or technical
office staff: wrecked cars, threats against people and their families, car
tyres slashed, front doors burnt down, etc. In 2013 the ascertained cases of
intimidation were almost 300 (nothing being known of those not verified). Being
closest to the population, the Local Authorities end up being pinpointed as
responsible for the social disasters.
It is
useful to give a brief outline of the situation in many Italian cities:
• growing
social polarization and a reduction in the “middle class”. This is a condition
that tends to disintegrate the “social continuity” which, though it made
turning demands into conflicts more complex and less straightforward,
guaranteed them a manageable political outlet;
•
deterioration of collective services with increasing phenomena of exclusion of
the most needy social strata, thus substantially reversing the actual purposes
of those services;
•
abandoning of any urban maintenance action, with consequent worsening of
liveability of the city; • deterioration of the environment (quality of the
air, for example) due to a reduction in controls and to the choice of more
outdated technological solutions that cause greater pollution (e.g. means of
transport), etc.
Each of
these situations could be subdivided into various sub-items able to specify
better the condition referred to, but for the purpose of this article the list
proposed appears adequate.
At a
municipal level, too, the crisis does not hit everyone in the same way, to the
extent that social segments can be singled out that have obtained economic
advantages, and continue to do so, from the crisis. In this situation it would
be advisable to go into detail as regards the hardships, so as to define
coherent political action; territorial authorities also have the knowledge to
define ranges of realistic hardships.
Segments of
population exist, in fact, that for their demographic condition alone prove
more at risk than others (the elderly, large families, unmarried mothers, the
disabled, etc.). If the grid of economic situations (unemployed, pensioners,
temporary workers, etc.) is superimposed on the previous breakdown, then the
conditions of hardship are multiplied but their features become clear. The
formation of a map of hardship conditions should be a reference point for organizing
Local Authorities’ interventions. But this singling-out operation is not always
carried out.
The
conditions the local boards work at concern: the universality of collective
services (even if weakened by part-payments and the like), progressive nature
of taxation (never respected), liability towards creditors (more or less upheld
depending on the power of the creditor), administrative transparency (virtually
a fantasy), proper administration (‘after’ spreading corruption), defense of
common assets (often neglected and abandoned), democratic nature of decisions
(subordinate to the power of strong contracting parties), responsibility for
urban quality (best not mentioned). These conditions are expressed and applied
in a variety of ways in the different situations and actually contribute to
determining the quality of the different cities, also creating their capacity
to intervene.
“Good politics”
in this situation should suggest to the Local Authorities that they increase
their economic availability and aim at reducing their citizens’ claims. Neither
of which is easy.
Regional
Authorities, encouraged by the European Community and the government, as well
as being drained by mass media pressure, picked out the sale of their property
assets as the first operation to be carried out. The sale of these assets
(social housing, abandoned buildings, ex barracks and factories, land and
endless other kinds) is truly absurd: it impoverishes the seller (i.e. the
community) giving short-lived “relief” that cannot be repeated (a part of these
assets, not actually useful at an operative level and insignificant from the
cultural and historic point of view, could also be sold with discernment).
But
precisely because the seller is “forced” to get rid of some assets, the buyer
finds he has a handful of good cards that he uses first of all to undervalue
the property and then to place “straightjacket” conditions. The Public
Authorities (local and national) are practically forced, in these conditions,
to undersell rather than sell. But this is not enough, the buyer’s interest, as
is obvious, is to transform the acquired property functionally and
volumetrically, so the purchase is strictly tied to a change in intended use
and an increase in size. Change in future use and volume is not a “crime” in a
city that is changing, but it is nevertheless a case of very delicate
operations, which change the pressure of population in that specific zone
(including traffic), requiring services to be provided that were not envisaged,
etc. Altogether, “changes in use” do not respect a “project for the city” but
are just an opportunity to make “cash”.
With
discerning politics Local Authorities’ property assets (but also national ones)
could partly be reactivated for collective, social and productive purposes
without the need to sell, perhaps by proposing self-restoration and self-renovation mechanisms on
the part of those who will use them in the future (housing, handicraft
production, innovative businesses promoted by young people, etc.).
But the
municipalities’ assets do not only consist of property, under the greedy eye
and claws of finance; there are also many services that the authorities provide
for citizens through their own, or participated, companies (water, electricity,
refuse collection, etc.).
It was
stated in a report submitted by the Deutsche Bank to the European Commission
(2011) that Italian municipalities show high potential for privatization. This
bank, as is well-known, is an expert in financial operations that dispossess
peoples. Essentially, the European Union suggests this and the national
government presses for it; they would like many of the services provided by
local companies belonging to the municipality to be privatized, too. A trend
all to the advantage of the citizens: services will be managed better,
companies will achieve adequate levels of efficiency, citizens will have better
services and, perhaps, will pay less for them. Moreover, the possible losses of
these private businesses will not weigh on the Local Authorities’ budgets (but
will end up weighing on family budgets). This efficiency minded ideology has
been contradicted by experience: private companies that took over to achieve
the desired levels of remuneration for capital invested have raised tariffs or
caused services to decline (contradicting the fact that privatization is to the
advantage of the people).
We cannot
fail to acknowledge that management of these services has often constituted centers
of waste (and not infrequently of corruption); departing from this situation,
however, it would be easy to improve their efficiency and the satisfaction of
families. The fiscal crisis of the organizations and the subsequent reduction
in the capacity of Local Authorities to create investment in these companies
have thus become the justification for boosting privatization.
It is
precisely the lack of resources that tempts Local Authorities to put these
companies on the market, with a consequent impoverishment both of the Authority
and the citizens forced to cope with rising tariffs. We are basically faced
with an attempt to take the companies providing services away from the
communities, so as to make money machines of them, with no respect for meeting
the needs of the people, especially the weaker strata.
The
situation of indebtedness to the banks is different (‘rubbish’ bonds included)
and constitutes another painful issue in their financial circumstances. Reorganization
of the debt should at least be obtained: repayment periods, reduction in rates,
etc. But the contractual power of the Authorities is weak also due to the
absence of central support from the State. As already said, many are the authorities
on the point of collapse.
Expenditure
reduction that many municipal authorities are “forced” to take into
consideration causes deterioration in services and makes the economic situation
worse (less employed, less consumption, more depression). To counter the
reduction in expenditure some municipalities are adopting an increase in
tariffs (for example at nurseries), thus causing exclusion of strata of
population unable to pay possible increases.
Help for
needy families is also being reduced: authentic assistance for poor families,
rent contributions, “credit” vouchers, home-helps, etc. This phenomenon also
tends to affect employment, with cuts in a large number of “auxiliary” staff,
even if temporary (ranging, for example, from traffic controllers, refuse
collectors, nursery school teachers, etc.). Moreover, municipalities in
difficulty tend to reduce investments in city maintenance (public spaces,
public buildings, etc.). This non-intervention trend not only affects the
quality of the city but also employment levels.
Confined
between the lack of resources and pressure from citizens (electors) and lacking
in instruments coded for suitable intervention, the scarcity of resources tends
to prevail, namely a “cuts” policy. Consequently, the hardships caused by the
critical situation tend not to be counteracted in the work of local government.
There is therefore an accumulation of negative situations of the crisis upon
individual citizens: unemployment, reduction in available income, etc., to
which cuts in Local Authority services are to be added.
Is it
possible to follow different paths to meet the needs of the people halfway? We
would need to reject the “realism” ideology” (this is the situation and nothing
can be done) to face “reality” (a line that some Authorities are trying to
follow, albeit with some contradictions). These are the paths that should be
followed:
• take
resources where they are available;
•
temporarily suspend the universal nature of collective services;
• develop
and increase democratic mobilization processes.
Territorial
Authorities have very limited tax-raising ability (nowadays on the increase)
and are therefore not able, even if they wished, either to follow equalizing,
forward-looking politics and thus have an influence on growing inequality, or
to collect enough resources. Various paths could be followed in this case.
If, for
example, one of the factors causing hardship was the housing question
(eviction, impossibility of access to the free market, etc.), the Authority could
lead some initiatives for agreements with property owners, fixing lower rents,
suspending evictions, etc. or, in the absence of collaboration from property
owners, proceed to requisition empty houses, assigning them to the “homeless”
(at agreed rents). The opening up in this case of a possible dispute should not
be feared, also because it might be the opportunity to make it clear that
“ownership” does not solve the problem of housing and that the reduction of
social hardship in this sector constitutes a priority element in a responsible
society. It would, moreover, be a case of an intervention aimed at opposing the
unjust inequalities that are criticized in words both from the point of view of
“civilization” and because of their depressive effects on the economy, but
which are actually on the increase.
Those
measures that momentarily suspend the universal nature of the rights of
citizenship assured of collective services should move in the same equalizing
direction. The new conception of welfare that is trying to find a way into our
society envisages that collective services be guaranteed only for the “needy”,
a decidedly adverse conception of the rights of citizenship which violates the
principle of universality, uniformity and accessibility to those rights. What
is proposed does not exclude anyone from the use of collective services but
should temporarily modulate rates in relation to the economic condition of the
family and the individual, especially because of the crisis. Poor transparency
of the distribution of wealth creates doubts on the applicability of this
principle, but the Local Authority might have direct knowledge of the economic
situation of each family and try to define parameters that will be more
accurate than tax statements very often are.
Furthermore,
the cost of many municipal concessions, such as, for example, stall-renting,
could be modulated following an evaluation of the differences in profitability
such concessions produce.
These and
other similar measures may be deployed based on the wide-ranging group of
activities and services provided by the Local Authority. In order that these
initiatives do not take on overtones of arbitrariness, however, commitment is
needed for considerable development in democracy, which is not to be assumed
just as an instrument of “control” over who is governing, but for the positive
contributions it can produce in terms of reciprocity of solidarity.
By this
term we wish to denote something very different from what the simple term
solidarity refers to, i.e. in this case individual members of the community
taking on tasks, including management, which guarantee everyone collective
continuity and quality of, for example, a service, and direct support of the
action of the population following the paths mentioned above.
Mobilization
of the population is meant, aimed at enhancing the democratic tone of a given
territorial reality by means of specific instruments and initiatives. Concrete
forms of “direct democracy”, with a deliberative capacity, can be linked and
related to the traditional forms of “delegated democracy”, reviving the latter.
Just as forms of direct collaboration in the administrative management of
services and the different operative functions of a territorial board can
enable greater levels of efficiency and efficacy.
Nowadays an
aversion to delegated democracy, historically given, is increasingly manifest;
I do not believe we can do without this form of democracy but it needs to be
revived, linking it with forms of direct democracy (decisional and managerial).
Voluntary
experiments that have been carried out over time are well-known, such as the
“time bank”, and also the good “council” results (think of schools), as long as
these had power; just as well-known are the chances to save created voluntarily
by the “farmers’ markets”, or by the autonomous organization of the GAS
(ethical purchasing groups), etc. We have no problem with the capacity of
single groups to voluntarily organize themselves and be operative, but a leap
in quality and quantity seems necessary, precisely because of the crisis: local
Authorities can and must help these initiatives with contributions to organization.
It is not a case of a route out of the crisis or of outlining different social
set-ups, but they do undoubtedly contribute and help to alleviate the
discomfort.
It is with
extended mobilization engaging the different groups in specific actions and
functions at the disposal and for the use of everyone that what we have called
reciprocity of solidarity comes into being.
3.
Conclusions
If people
who find themselves in growing numbers in conditions of discomfort, on the one
hand, hope and request global solutions (national and international), they can,
on the other, immediately transform their discomfort, so to speak, into demands
to the Local Authorities (the close level of government). Local Authorities,
however, have been hit by the same fiscal crisis as the State, with a reduction
in resources. Growing “demands” and lower “resources” constitute the claws that
tend to crush the Local Authorities’ capacity to operate.
The latter
are the stage upon which the devastating effects of the crisis are more
obviously manifest and where, with just as much evidence, the incapacity and
impossibility of giving satisfactory answers to the situation are shown.
Authorities also tend to follow lines of intervention that are not only ruinous
but tend to worsen the present situation (reduction in services, increase in
tariffs, exclusion of maintenance, etc.) and the following one (alienation of
own assets). National governments have unloaded the growing social
contradictions the crisis was producing onto the Local Authorities (politics
has an unbearable level of cynicism).
From what
has been said, it is clear that the Local Authorities are not able either to
combat the crisis, or to tackle the hardships generated by it. Yet some slight
possibility of alleviating the discomfort does exist: by rejecting the
prevailing pathways, opposing privatization processes, using one’s own property
assets appropriately and appealing to the social forces on the grounds of a
principle of reciprocity of solidarity, administrators can mitigate the effects
of a crisis, the end of which, despite the predictions, is not in view. Some
Authorities are trying, but they are few.
Reference
O’Connor, J. (1973) The fiscal crisis of the state. New York: St. Martin’s
Press
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