giovedì 29 ottobre 2015

La città e le sue crisi

 La città e le sue crisi
Francesco Indovina

(da F. Eckardt - Javier Ruizi Sànchez, eds., City of Crisis, UrbanStudies, Transcript Verlag, Blelefeld, 2015)

La crisi Fiscale
Trattando della crisi della città, che è soprattutto una crisi di risorse,  sembra opportuno premettere un riferimento ad un testo che tanto successo ha avuto alla sua pubblicazione (il 1973, in USA e il 1977 in Italia): James O’Connor, La crisi fiscale dello stato. L’autore sosteneva che la crisi fiscale dello stato, determinata dalla crescita delle spese pubbliche senza una corrispondente crescita delle entrate, non era il risultato di  una qualche anomalia del sistema, né l’esito di una cattiva amministrazione, ma essa costituiva una necessità per il  “capitalismo monopolistico”. Oggi possiamo tranquillamente, e a ragion veduta,  allargare il punto di vista dell’autore il riferimento non è più il  “capitalismo monopolistico” ma piuttosto il “capitalismo finanziario”.
La conclusione di O’Connor, fatta propria da Federico Caffè nell’introduzione all’edizione 1979 del saggio, era: “Per concludere, in assenza di una prospettiva socialista, che sia in grado di proporre delle alternative in ogni aspetto della società capitalista […], i militanti sindacali , gli organizzatori e gli attivisti continueranno a muoversi in un relativo vuoto  teorico. […] ciò di cui si avverte la necessità è una prospettiva socialista che si forzi di ridefinire i bisogni in termini collettivi. In realtà, se anche la classe operai riuscisse a socializzare l’intera quota del reddito nazionale  assorbita dai profitti, la crisi fiscale riapparirebbe in una nuova forma, a meno che non si ridefiniscano tanto l’investimento sociale e il consumo sociale quanto il consumo individuale  e i modelli individualistici di vita”.
I tempi sono mutati, le condizioni hanno subito una forte trasformazione, le forme della crisi fiscale dello Stato hanno assunto nuovi e più drammatiche aspetti, ma sia il riferimento al “vuoto teorico” che la necessità di una prospettiva socialista adeguata ai tempi paiono valere ancora.       

La crisi economica  
Volendo far riferimento alla crisi economica diventa fondamentale cercare di delinearne le caratteristiche.
Che non si tratti di una crisi, diciamo così, congiunturale sembra molto evidente ed è da molti affermato, così come appare altrettanto evidente che le “politiche” adottate per superarla paiono del tutto inefficienti. Ma tale inefficienza non può essere attribuita soltanto alle aberranti politiche di austerità che, imposte dalla Germania, caratterizzano gli interventi dell’insieme dei paesi della Comunità europea ( esiste una conferma indiretta della relazione individuata da O’Connor ). Gli strumenti proposti, si collocano nella “tradizione” e non  sembrano cogliere la novità della crisi; è questa la ragione della loro inefficienza. L’esito negativo costituisce il risultato del rifiuto di guardare negli occhi la natura della crisi che attanaglia tutte le economie (anche quelle che non adottano politiche di austerità). Come al Minotauro si offrivano vergini per tenerlo buono, così alla crisi si offrono in sacrificio uomini, donne e interi paesi, mentre non si vede all’orizzonte nessun Teseo in grado di uccidere la bestia.
La crisi economica è figlia di una modifica sistemica del capitalismo. Non è l’eccesso di credito che ha causato le “bolle”, che deflagrando hanno determinato la crisi, ma l’eccesso di credito è l’effetto, non la causa, mentre questa va individuata  nella nuova modalità di accumulazione di ricchezza (speculativa) che esce fuori dal sistema di produzione. Nella logica del funzionamento dei rapporti sociali di produzione del capitalismo si trovano le spiegazioni del continuo incremento del “capitale” a scapito del “reddito” ed è in questo esito che va trovato la base della crisi attuale che corrisponde ad un mutamento di sostanza del capitalismo. L’accumulazione del capitale sembra continuare ad essere realizzata secondo la nota formula (denaro-merce-denaro) D-M-D, nella realtà la parte più consistente si rende autonoma da questo meccanismo per realizzare una crescita del capitale senza produzione di merci. Il denaro diventa il mezzo diretto per produrre altro denaro (si potrebbe scrivere D-D). Il valore della Finanza mondiale è dieci volte superiore al PIl mondiale.
Alle origini dell’era moderna i mercanti, i più ricchi tra di loro, funzionavano da “banca” e prestavano denari a re, principi, imperatori,  ecc., per le loro avventure (per lo più belliche) in cambio di un tasso spesso di usura, o di concessioni commerciali, o di altri vantaggi. Lo stesso fanno oggi i moderni finanzieri (compresi anche alcuni finanzieri di stato, come la Cina): prestano agli Stati, regioni, comuni e spingono i ceti medi ad indebitarsi (mutui sulla casa, finanziamento al consumo, ecc.) e si garantiscano contro una sicura insolvenza (le famose “bolle”) con l’invenzione di meccanismi finanziari (i derivati) per trovare su chi scaricare tale insolvenza.
Che si tratti di una strada che porta al suicidio dello stesso sistema sociale, che chiamiamo capitalismo, appare evidente; non si sostiene che siamo alla fine del capitalismo, ma che le condizioni strutturali sarebbero  favorevoli per un cambiamento di regime sociale (mentre la soggettività politica in questa direzione risulta carente – chi, come, cosa, quando – per ragioni ideologiche). Si possono prendere, e in modo contraddittorio si stanno prendendo, dei provvedimenti tamponi, che non invertono la tendenza in atto, ma possono costituire delle stazioni di “riposo” nel percorso del treno della crisi; ma il convoglio avanza.
Per esempio, e questo ha a che fare con il tema specifico della città, non capire che la crisi non è figlia dal dissesto della finanza pubblica (debiti sovrani), ma che tale dissesto nasce dalle necessità e dalle imposizioni della finanza, che costituisce un potere a sé, e che ha evirato ogni dimensione nazionale. I politici nazionali, quando sono incapaci e corrotti, si fanno prendere per mano dalla finanza internazionale, quando sono capaci e poco corrotti si mettono, di fatto,  a servizio di quella rivendicando sia l’oggettività dei processi sia il presunto futuro miglioramento della situazione dei popoli. Dopo l’occupazione coloniale il mondo intero e colonizzato dal capitale finanziario. Le istituzioni politiche sovranazionali che dovrebbero garantire i popoli contro la strapotere della finanza, garantiscono questa contro i popoli, anche perché tali istituzioni si avvalgono di tecnostrutture che spesso vengono direttamente da tali istituzioni finanziarie.
È anche il buon senso che suggerisce, e questo vale non solo per la finanza pubblica ma anche per le famiglie, che i debiti pagati con altri debiti non possono essere la soluzione: il debito, infatti, finisce per assumere una dimensione tale che non sarà mai possibile saldarlo. L’esempio della Grecia, che nonostante avesse ottenuto una riduzione del debito non riuscirà a pagare quello che gli è rimasto,   e per questo sarà ulteriormente punita con nuove limitazioni, costituisce una dimostrazione di come il meccanismo si avviti su se stesso.
La così detta “catena di Sant’Antonio” non è solo l’espediente di chi vuole truffare i propri clienti pagando con le quote dei nuovi clienti gli interessi dei vecchi clienti (come Bernard Madoff), ma costituisce il riferimento in auge, anche se in forma diversa, a tutti i livelli della finanza internazionale. La “finanza” creativa e i propri specifici strumenti , che anche se contrastati si rinnovano continuamente, sono utilizzati dalla finanza internazionale che ha determinato una struttura economica nuova nella quale somma alla produzione di “ricchezza” con lo sfruttamento diretto dei lavoratori, la tosatura dei popoli per pagare i debiti e  “costruisce” un mondo di depressione e di sempre maggiore diseguaglianze.  La finanziarizzazione dell’economia e la velocità assunta dal progresso tecnico stringono il sistema economico-sociale mondiale in una morsa mortale, nella quale il capitale superfluo e la manodopera superflua non trovano (e non possono trovare, allo stato dei fatti), impieghi reali.
L’economia reale, in questo quadro, appare un’appendice dell’economia finanziaria insieme irrilevante e utile. Utile per accumulare quelle risorse, che la contrazione della domanda ancora permette, per essere poi “prelevate” dalla finanza; irrilevante perché quota sempre più modesta della “ricchezza” complessiva (che in realtà non esiste, ma la cui esistenza è determinata dalla decisione di “voler pagare i debiti”).
Si comincia a fare strada, in molti osservatori, la consapevolezza che la piramide sociale dei diversi paesi è sottoposta a profonde tensioni e modifiche. Il ceto medio risulta molto compresso, un risultato che sottrae alla finanza uno dei suoi “mercati” privilegiati (è stato questo ceto che ha alimentato le varie forme di domande di indebitamento: mutui per la casa, prestiti al consumo, ecc.), mentre il mercato dei vecchio e nuovi ricchi non garantisce l’accumulazione complessiva. La compressione del ceto medio, inoltre, produce la rottura della continuità tra i diversi strati sociali, spesso compromissoria, ma anche  fonte di conflitti e  contrasti, di  sviluppo e di organizzazione di lotte di massa.

La città nella crisi  

Il riverbero, per così dire, sul governo della città e del territorio dei fenomeni prima indicati (anche se in modo sommario) costituisce uno degli aspetti drammatici dell’attuale situazione, anche perché le politiche che si adottano finiscono per scaricare i propri esisti proprio sull’organizzazione urbana.
Si sono sempre esaltate le amministrazione locali come l’anello politico che meglio di ogni altro potevano esercitare la promozione della democrazia. La “prossimità” tra la decisione politica e la popolazione doveva (poteva) costituire, infatti, una relazione virtuosa per rendere più sensibile la politica (le Amministrazioni locali) ai bisogni della popolazione e, nello stesso tempo, avrebbe potuto manifestarsi una maggiore attenzione da parte  della popolazione sulla politica e sulle proprie scelte elettorali (votare con i piedi). È noto, tuttavia,  che questa relazione virtuosa ha funzionato molto meno di quanto fosse sperabile, per responsabilità di ambedue le polarità e soprattutto per indifferenza e preoccupazione della parte politica. Quest’ultima, in sostanza, non ha gradito un controllo pressante della popolazione e non ha accetta che il conflitto, espressione dei bisogni della popolazione, potesse diventare  un dato fondamentale per la “buona politica”. La crisi della democrazia non è, infatti, solo nazionale, ma anche locale.
Il peggioramento della situazione delle città, per effetto della crisi economica, ha reso la politica locale meno autoreferenziale, in qualche caso si, sia per l’evidente disagio del vissuto di molti uomini e donne, sia per la crescente pressione della popolazione e delle relative organizzazioni (tradizionali e nuove, strutturate e occasionali) affinché siano prese delle decisioni che siano funzionali  ad alleviare le situazioni di disagio. Ma questo mutato atteggiamento non ha avuto, in generale, esisti positivi.
I disagi che la popolazione affronta per effetto della crisi si sommano a quelli  strutturali prodotti dai meccanismi economici tradizionali. In particolare i fenomeni più rilevanti riguardano: la povertà,  la disoccupazione, la crescente domanda di sostegno economico, l’aumentata domanda di servizi, la questione della casa (sua assenza e suo costo), l’assistenza agli anziani e ai disabili. In sostanza, alla fase in cui ciascuno poteva immaginare  di cancellare le carenze che si manifestavano a livello urbano (insoddisfazione per i servizi, situazione abitativa, qualità dell’ambiente, ecc.)  attraverso proprie risorse (una sorta di privatizzazione delle soluzioni), sembra far seguito una fase nella quale forte e pregnante appare la domanda di più città e di una migliore città e di un aumento dell’intervento pubblico. 
Si osservi che la povertà relativa al 2013 a livello nazionale è pari al 12,6% della popolazione mentre il dato della povertà assoluta è pari al 7,9% . I dati sono peggiori per il sud d’Italia, e per le famiglie numerose e con capofamiglia anziano.
Che la crisi è più profonda nel Mezzogiorno d’Italia è confermato da altri dati: in quest’area il numero delle persone in stato di povertà assoluta è salito di 725 mila unità nel 2013, toccando quota 3 milioni e 72 mila. Anche il dato della povertà relativa incide in modo pesante nel Mezzogiorno: si attesta al 26% , a fronte del 6% del Nord e del 7,5% del Centro. Le situazioni più gravi si osservano tra le famiglie residenti in Calabria (32,4%) e Sicilia (32,5%), dove un terzo del campione è relativamente povero.
E ancora: iI consumi mensili tra il 2012 e il 2013 sono diminuiti del 4,3%; mentre le famiglie che hanno ridotto qualità e quantità degli acquisti sono il 65%. Delle persone
senza casa, costrette per strada o in alloggi di fortuna non esistono statistiche credibili. Solo la Caritas, struttura delle chiesa cattolica, distribuisce pasti e mette a disposizioni qualche letto per la notte, nei suoi rapporti la Caritas mette in luce che in proporzione diminuiscono gli immigrati e aumentano i cittadini italiani, che spesso si tratta di famiglie e non di individui, gli italiani hanno un’età media doppia di quella degli immigrati, la maggior parte è disoccupata, ecc. Un quadro drammatico (si consideri che ad Orvieto e Todi, due citta di media dimensione, non considerati l’epicentro della povertà l’anno scorso la Caritas ha distribuito 30.000 pasti) .
A Milano, la capitale economica del paese, nel 2013 la spesa media mensile è stata di 2.874 euro, contro i 3.068 del 2012.
A fronte di questa situazione le Amministratori locali dispongono di sempre minori risorse. Intanto perché sempre costante è la riduzione dei trasferimenti dello Stato, minori le entrate fiscali (dirette o per quota di imposte nazionali) per effetto proprio della crisi economica, maggiore, nella difficoltà economica delle famiglie e delle imprese, la tendenza all’evasione fiscale, inoltre non poche amministrazioni sono gravate da debiti sia verso le banche che verso i fornitori (e mentre i primi sono quelli che impongono di essere saldati secondo gli impegni presi, i secondi si tende a procrastinarli nel tempo e così facendo contribuendo a deprimere l’economia).
Infine grava sugli enti territoriali  il patto di stabilità, imposto dalla Comunità europea  agli Stati membri e dal governo italiano traslato agli enti territoriali, introducendo  un limite di spesa anche per quelle Amministrazione che disponevano di risorse proprie (gli enti locali più virtuosi finiscono per essere più penalizzati).
Il risultato è che molti comuni (un paio di centinaia) si trovano in situazione di dissesto, alle soglie della “banca rotta”. Non si tratta solo di grandi comuni, come Napoli, Catania, Reggio Calabria, Messina, ecc. m anche di piccoli e medi comuni. E se il governo è intervenuto a salvare Roma (con la legge Roma capitale) per gli altri comuni fa poco.
In questa situazione, che sarà sicuramente di lungo periodo (la fuoriuscita dalla crisi viene annunziata e poi posticipata di anno in anno), le Amministrazione si trovano tra l’incudine delle limitate risorse e il martello delle domande crescenti della popolazione, senza capacità di intervenire. La “pressione” sulle Amministrazioni locali spesso diventa intimidazione verso gli amministratori o i tecnici degli uffici: automobili sfasciate, minacce personali e alle famiglie, copertoni delle auto tagliate, porta di casa bruciata, ecc. Nel 2013 i casi di intimidazione accertati si avvicinano a 300 (niente si sa di quelli non accertati). Le Amministrazioni locali, le più vicine alla popolazione, finiscono per essere individuati come i responsabili dei disastri sociali.   
Può essere utile, delineare, in modo sintetico, quale sia la situazione di molte delle città italiane:
-           una crescente polarizzazione sociale e una riduzione del “ceto medio”. Una condizione questa che tende a frantumare la “continuità sociale” che mentre rendeva più complessa e meno facile la trasformazione delle domande in conflitti, garantiva a questi uno sbocco politico gestibile;
-          un peggioramento dei servizi collettivi con fenomeni crescenti di esclusione delle fasce sociali più bisognose, quindi con una sostanziale inversione degli scopi stessi di tali servizi;
-          l’abbandono di ogni intervento di manutenzione urbana, con conseguente peggioramento della vivibilità della città;
-          il peggioramento dell’ambiente (qualità dell’aria, per esempio) per riduzione dei controlli, per la scelta di soluzioni tecnologiche più arretrate e quindi più inquinanti (per esempio mezzi di trasporto), ecc.
Ciascuna di queste situazioni potrebbe essere articolato in sotto voci in grado di specificare meglio la condizione alla quale si fa riferimento, ma per lo scopo di questo scritto l’articolazione proposta sembra sufficiente.
Anche a livello comunale la crisi non colpisce tutti nello stesso modo, al punto che sono individuabili  segmenti sociali che dalla crisi hanno tratto e traggono vantaggi economici. In questa situazione scendere al dettaglio delle situazioni di disagio, per definire azioni politiche coerenti, dovrebbe essere opportuno, inoltre le Amministrazioni territoriali hanno le conoscenze per definire ventagli di disagio realistici.
Esistono, infatti, segmenti  di popolazione che anche solo per condizione demografiche risultano a rischio più di altri (anziani, famiglie numerose, ragazze madri, portatori di handicap, ecc.). Se all’articolazione precedente si sovrappone il reticolo delle situazione economiche (disoccupati, pensionati, occupati precari, ecc.) allora l’articolazione delle condizioni di disagio si moltiplicano ma si precisano nelle loro caratteristiche. La formazione della mappa della condizione di disagio, dovrebbe costituire il riferimento per l’articolazione degli interventi delle amministrazioni locali. Ma non sempre questa operazione di individuazione viene fatta.
Le condizioni alle quali operano gli Enti locali riguardano: l’universalità dei servizi collettivi (anche se stemperata da ticket e similari), la progressività della tassazione (mai rispettata), la responsabilità verso i creditori (più o meno fatta valere a secondo del potere del creditore), la trasparenza amministrativa (di fatto una chimera), la corretta amministrazione (al netto della dilagante corruzione), la difesa del patrimonio comune (spesso negletto e abbandonato), la democraticità delle decisioni (sottomessa al potere dei contraenti forti), la responsabilità verso la qualità urbana (meglio non parlarne). Queste condizioni trovano diversità di articolazioni e di applicazione nelle varie situazioni e, di fatto, contribuiscono a determinare la qualità delle diverse città e ne determinano anche la capacità di intervento. 
In questa situazione  la “buona politica” dovrebbe  suggerire alle Amministrazioni locali di aumentare le proprie disponibilità economiche e proporsi di far ridurre le pretese dei propri cittadini. Cose ambedue non facili.
Le Amministrazioni territoriali, sotto lo stimolo della Comunità europea e del governo, in più sfiancati dalla pressione dei mezzi comunicazione di massa, individuano come  prima operazione da fare quella della vendita del loro patrimonio immobiliare. La vendita del patrimonio (abitazioni sociali, edifici abbandonati, ex caserme o opifici, aree, e una infinità di altre fattispecie) costituisce una vera assurdità: impoverisce il venditore (cioè la comunità) per un “sollievo” momentaneo e non ripetibile (una parte di questo patrimonio, effettivamente non utile sul piano operativo e irrilevante dal punto di vista culturale e storico, potrebbe anche essere venduto con accortezza).
Ma proprio perché il venditore risulterebbe “costretto” a disfarsi di pare del patrimonio,   il compratore si trova in mano carte molto buone che adopera prima di tutto per sottovalutare il valore del bene e poi per porre condizioni capestro. Di fatto l’Amministrazione pubblica (locale e nazionale) è costretta, in queste condizioni, più a svendere che a vendere. Ma non basta, l’interesse del compratore è, come ovvio, la trasformazione funzionale e volumetrica del bene acquisito, quindi l’acquisto viene strettamente legato ad una modifica di destinazione d’uso e ad un aumento di volumetrie. La modifica delle destinazione d’uso e delle volumetrie non sono un “delitto” in una città che si trasforma, ma si tratta comunque di operazioni molto delicate, esse cambiano la pressione della popolazione in quella determinata zona (traffico compreso), richiedono l’attivazione di servizi non previsti, ecc. In sostanza i “cambi d’uso” non rispettano un “progetto per la città” ma costituiscono  soltanto un’occasione per fare “cassa”.
Con accorte politiche il patrimonio immobiliare delle Amministrazioni locali (ma anche nazionali) in parte potrebbe essere riattivato per scopi collettivi, sociali e produttivi  senza necessità di vendere, magari proponendo meccanismi di auto-restauro e di auto-ristrutturazione da parte di chi in futuro lo adopererà (abitazioni, attività produttive artigianali, imprese innovative promosse da giovani, ecc.).
Ma il patrimonio dei comuni non è solo quello immobiliare, sotto l’occhio avido e le mani artigliate della finanza, si trovano molti dei servizi che le amministrazione erogano ai cittadini attraverso proprie imprese o partecipate (acqua, energia, raccolta rifiuti, ecc.).
In un rapporto presentato dalla Deutsche Bank alla Commissione europea (anno 2011) si afferma che i comuni italiani mostrano un alto potenziale di privatizzazione. Questa banca, come è noto, è maestra in operazioni finanziarie di spoliazione di popolazioni. In sostanza, lo suggerisce l’Unione europea e lo sollecita il governo nazionale, si vuole anche  la privatizzazione di molti dei servizi erogati da aziende locali di proprietà comunale. Una linea di indirizzo questa a tutto vantaggio dei cittadini: i servizi saranno meglio gestiti, e le aziende raggiungeranno adeguati livelli di efficienza, i cittadini avranno migliori servizi e, forse, li pagheranno meno. Inoltre   le eventuali perdite di queste imprese private non graveranno sui bilanci delle Amministrazioni locali (ma finiranno per gravare sui bilanci delle famiglie). Questa ideologia efficientistica è contraddetta dalle esperienze: i privati subentrati per raggiungere gli sperati livelli di remunerazione del capitale investito, aumentano le tariffe o peggiorano i servizi (contraddicendo che le privatizzazione siano a vantaggio delle popolazioni). 
Non si può disconoscere che spesso la gestione di questi servizi hanno  rappresentano centri di spreco (e non raramente di corruzione);  ma proprio partendo da questa situazione sarebbe  facile migliorarne l’efficienza  e la soddisfazione delle famiglie; mentre la crisi fiscale degli enti e di conseguenza la riduzione della capacità delle Amministrazioni  locali di realizzare investimenti in tali aziende  diventano la giustificazione per spingere alla privatizzazione.
È  proprio la carenza di risorse che tenta le Amministrazioni locali di mettere sul mercato  queste aziende, con il conseguente impoverimento sia della Amministrazione  che dei cittadini costretti a tariffe in crescita. In sostanza si è di fronte al tentativo di sottrarre alle comunità le aziende di erogazione di servizi, per farne delle macchine da soldi, senza rispetto per la soddisfazione dei bisogni della popolazione,  soprattutto delle fasce più deboli.
Diversa è la situazione dell’indebitamento verso le banche (titoli spazzatura compresi) che costituisce un altro punto dolente della loro situazione finanziaria. Sarebbe necessario ottenere, almeno la ristrutturazione del debito: tempi di rientro del debito, riduzione dei tassi, ecc. Ma il potere contrattuale delle Amministrazione e debole anche per l’assenza di un sostegno dello Stato centrale. Come si è già detto sono molte le amministrazioni sul punto di fallire.
La riduzione delle spese, che molte amministrazioni comunali sono “costrette” a prendere in considerazione, determinano un peggioramento dei servizi e aggravano la situazione economica (meno occupati, meno consumi, più depressione). In contrapposizione alla riduzione delle spese alcuni comuni adottano l’aumento delle tariffe (per esempio negli asili) determinando così l’esclusione di fasce di popolazione, non in grado di pagare gli eventuali aumenti.
Vengono inoltre ridotti gli aiuti alle famiglie disagiate: assistenza vera e propria alle famiglie bisognose, contributi per l’affitto, “buoni” di acquisto, assistenza domiciliare, ecc. Il fenomeno, inoltre,  tede ad incidere sull’occupazione per il taglio di molto personale “ausiliario”, anche se precari, (che possono andare dai controllori del traffico, agli operatori ecologici, alle maestre d’asilo, ecc.).
Inoltre i comuni in difficoltà tendono a ridurre gli investimenti in manutenzione della città (spazzi pubblici, edifici pubblici, ecc.). Questa linea di non intervento non solo incide sulla qualità della città ma anche sui livelli di occupazione.
Stretti tra la mancanza di risorse e la pressione dei cittadini (elettori) e in carenza di strumenti codificati per interventi adeguati, tende a prevalere la ristrettezza delle risorse, cioè una politica di “tagli”. In conseguenza il disaggio determinato dalla situazione di crisi tende a non trovare nessuna contrapposizione nell’attività dei governi locali. Si determinano così un accumularsi delle situazioni negative della crisi su singoli cittadini: disoccupazione, riduzione del reddito disponibile, ecc. a cui sommare i tagli ai servizi delle Amministrazioni locali.
È  possibile seguire strade diverse per  venire incontro alle necessità della popolazione? Si dovrebbe rigettare l’ideologia del “realismo” (questa è la situazione e non è possibile fare niente) per affrontare la “realtà” (una linea che, sebbene con contraddizioni alcune Amministrazione tentano di seguire). Si dovrebbero seguire i seguenti indirizzi:
-          prendere le risorse dove ci sono;
-          sospendere momentaneamente l’universalità dei servizi collettivi;
-          sviluppare e incrementare i processi di mobilizzazione democratica.
Le Amministrazioni territoriali hanno una ridottissima propria capacità impositiva (oggi in aumento) e non sono in grado quindi, anche volendo, né di fare una politica perequativa e progressista e quindi incidere sulle crescenti diseguaglianze, né di raccogliere adeguate risorse. Le strade da seguire in questo caso potrebbero essere diverse.
Se, per esempio,  uno dei fattori che alimenta il disagio fosse la questione abitativa (sfratto, impossibilità di accedere al mercato libero, ecc.), l’Amministrazione potrebbe  farsi portatrice di iniziative per accordi con la proprietà immobiliare, concordando  riduzione dei fitti, sospensione degli sfratti, ecc. o, in assenza della collaborazione dei padroni di casa, operare delle requisizione di case vuote  assegnandole  ai “senza casa” (a fitti concordati). L’apertura in questo caso di un possibile contenzioso, non dovrebbe spaventare anche perché potrebbe essere l’occasione per rendere esplicito che la “proprietà” non risolve il problema della casa e che la riduzione del disagio sociale in questo settore costituisce elemento prioritario di una società responsabile. Si tratterebbe, inoltre, di un intervento volto a contrastare le inique diseguaglianze, che a parole vengono criticate sia dal punto di vista della “civiltà”, sia per gli effetti depressivi sull’economia, ma che di fatto aumentano.
Nella stessa direzione perequativa si  dovrebbero muovere anche quei provvedimenti di momentanea sospensione della universalità dei diritti di cittadinanza  assicurati dai servizi collettivi. La nuova concezione del welfare che cerca di fare breccia nella nostra società prevede che i servizi collettivi siano garantiti soltanto ai “bisognosi”;  una concezione dei diritti di cittadinanza sicuramente perverso che viola il principio della universalità, omogeneità e accessibilità di tali diritti. Quanto proposto non esclude nessuno dall’utilizzazione dei servizi collettivi, ma dovrebbe, soprattutto in ragione della crisi, modulare temporaneamente la tariffazione in relazione alla condizione economica della famiglia e dell’individuo. La poca trasparenza della distribuzione della ricchezza, crea dubbi sull’applicabilità di questo principio, ma l’Amministrazione locale potrebbe avere una cognizione  diretta della situazione economica di ogni famiglia  e provare a definire parametri più veritieri di quanto molto spesso non siano le denunzie dei redditi.
Inoltre il corrispettivo di molte concessioni comunali, come per esempio il plateatico, potrebbero essere modulati secondo una valutazione delle differenze di redditività prodotte dalle concessioni stesse.
Questi e altri simili provvedimenti possono essere messe in campo a partire dall’insieme, molto ampio, delle attività e dei servizi forniti dall’Amministrazione locale. Tuttavia perché tali iniziative non assumano un connotato di arbitrarietà è necessario l’impegno per un notevole sviluppo della democrazia, che non va assunta solamente come strumento di “controllo” su chi governa, ma per gli apporti positivi che può produrre  in termini di una solidarietà di reciprocità.
Con questa terminologia si vorrebbe indicare qualcosa di molto diverso a cui allude  il semplice termine solidarietà, si tratta, cioè, dei singoli membri della comunità di assumersi anche compiti di gestione che garantiscano a tutti qualità e continuità collettiva, per esempio di un servizio, e di un sostegno diretto all’azione della popolazione secondo gli indirizzi prima indicati:
Si intende una mobilizzazione della popolazione finalizzata ad accrescere, per mezzo di specifici strumenti e iniziative, il tono democratico di una data realtà territoriale. Forme concrete di “democrazia diretta”, con capacità deliberativa, possono essere collegate e rapportate alle forme tradizionali di “democrazia delegata”, vivificando quest’ultima. Così come forme di collaborazione diretta nella gestione amministrativa dei servizi e delle diverse funzioni operative di un ente territoriale, possono permettere livelli di efficienza e di efficacia maggiore.
Oggi è sempre più manifesta un’ avversione  alla democrazia delegata, storicamente data, di questa forma di democrazia non credo si possa fare a meno ma sarebbe necessario la sua vivificazione collegandola con forme di democrazia diretta (decisionale e gestionale).    
Sono noti esperimenti volontari che nel tempo sono stati fatti, come la “banca del tempo”, così come sono noti i buoni risultati “consiliari” (si pensi alla scuola) fino a quando questi hanno avuto potere,  altrettanti noti le opportunità di risparmio creati volontariamente dai “mercati dei contadini”, o ancora dall’organizzazione autonoma dei GAS (gruppi di acquisto solidale), ecc. Niente da dire sulla capacità dei singoli gruppi di organizzarsi volontariamente ed essere operativi, ma pare necessario, proprio per la presenza della crisi, un salto di qualità e di quantità: le Amministrazioni locali possono e devono aiutare queste iniziative con contributi di organizzazione. Non si tratta di una strada per la fuoriuscita dalla crisi o a delineare assetti sociali diversi, ma sicuramente contribuiscono e ad alleggerire il disaggio.  
È con una mobilizzazione allargata che impegnando i diversi gruppi in azioni e funzioni specifiche a disposizione e fruizione di tutti che si da corpo a quella che si è chiamata solidarietà di reciprocità.

Conclusioni
La popolazione che in quote crescenti si trova in condizione di disagio se da una parte spera e richiede soluzioni complessive (nazionali e internazionali) dall’altro più, immediatamente, trasforma, per così dire, il proprio disagio in domande alle Amministrazioni locali (il livello di governo prossimo). Le Amministrazioni locali, per altro, sono investite dalla stessa crisi fiscale dello stato, con una riduzione delle risorse. Crescente “domande” e minori “risorse” costituiscono la tenaglia che tende a stritolare l’operatività delle stesse Amministrazioni locali.
Queste ultime  costituiscono il palcoscenico dove con più evidenza si manifestano gli effetti devastanti della crisi e dove con altrettanta evidenza si mostra l’incapacità e impossibilità di dare risposte soddisfacenti alla situazione. Inoltre le Amministrazione tendono a seguire delle linee di intervento non solo fallimentari ma che tendono a peggiorare la situazione presente (riduzione dei servizi, aumento delle tariffe, esclusione della manutenzione, ecc.) e quella prossima (alienazione del proprio patrimonio). I governi nazionali hanno scaricato sulle Amministrazioni locali le crescenti contraddizioni sociali che la crisi produceva (la politica ha un tasso di  cinismo insopportabile).

Per quanto detto è evidente che le Amministrazioni locali non sono in grado né di combattere la crisi, né di affrontare i disagi da quella generata. Eppure qualche modesta possibilità di mitigare il disagio esiste:  rigettando gli indirizzi prevalenti, opponendosi ai processi di privatizzazione, usando in modo opportuno il proprio patrimonio immobiliare, facendo appello alle forze sociali sulla base di un principio di solidarietà reciproca gli amministratori possono mitigare gli effetti di una crisi di cui, nonostante gli annunzi, non si vede la fine. Alcune amministrazione ci provano, ma sono poche. 




The city and its crises
Francesco Indovina
(da  F. Eckardt and J. Ruiz Sánchez (a cura di), City of Crisis, The multiple Contestation of Southern European Cities, transcript Verlag, Blelefeld, 2015

Since the crisis of the city is above all a crisis of resources, it seems appropriate to start by referring to a text that was very successful when it was published (in 1973 in the U.S.A. and in 1977 in Italy): James O’Connor’s “The fiscal crisis of the State”. The author maintained that the fiscal crisis of the State, caused by growth in public expenditure without an equivalent rise in revenue, was not the result of some abnormality in the system, or the outcome of bad administration, but constituted a need for “monopoly capitalism”. Nowadays we can safely, and with good reason, expand the author’s point of view: the reference should no longer be to “monopoly capitalism” but rather to “financial capitalism”.
O’Connor’s conclusion, which Federico Caffè adopted as his own in the introduction to the edition of 1979 of the essay, was: “To conclude, in the absence of a socialist perspective able to propose alternatives for every aspect of the capitalist society […], trade union militancy, organizers and activists will continue to proceed in a relative theoretic void. […] what it is felt is required is a socialist perspective that will make the effort to redefine needs in collective terms. In actual fact, even if the working class were to manage to nationalize the whole share of national income absorbed by profits, the fiscal crisis would reappear in a new form, unless both social investment and social consumption were redefined as well as individual consumption and individualist life models”. Times have changed, conditions have undergone great transformation and the forms of fiscal crisis of the State have taken on new, more dramatic aspects, but both the reference to the “theoretic void” and the need for a socialist perspective fit for the present time still seem to be valid.

1.      The economic crisis
If we wish to refer to the economic crisis we must necessarily try to outline its features.
That it is not a question of a, let us say, short-term crisis seems very clear and this has been stated by many, just as it appears equally clear that the “policies” adopted to overcome it seem to be totally inefficient. But this inefficiency cannot be attributed only to the aberrant austerity policies which, imposed by Germany, have characterized the interventions of the group of European Community countries (an indirect confirmation exists of the relation singled out by O’Connor). The instruments proposed fit into “tradition” and do not seem to grasp the novelty of the crisis; this is the reason for their inefficiency. The negative outcome is the result of a refusal to look directly at the nature of the crisis that is afflicting all economies (including those not adopting austerity policies). Just as virgins were offered to the Minotaur to keep it happy, so men, women and entire countries are offered in sacrifice to the crisis, while no Theseus can be seen on the horizon who will be able to kill the beast.
The economic crisis is the offspring of a systemic change in capitalism. It was not the excess of credit that led to the “bubbles” which caused the crisis as they burst; the excess of credit is the effect, not the cause, while the latter was to be found in the new (speculative) way of accumulation of wealth issuing from the production system. Within the logic of the functioning of the social relations of production in capitalism explanations are found for the continuous increment in “capital” to the detriment of “income”, and it is in this outcome that the base of the current crisis is to be found, which corresponds to a change in the substance of capitalism. The accumulation of capital appears to continue to occur according to the well-known formula ‘money-commodity-money’ (M-C-M), but actually the larger part has separated itself from this mechanism to create growth in capital without the production of commodities. Money has become the direct means to produce other money (we could write M-M). The value of World Finance is ten times greater than World GDP.
At the origins of the modern age, merchants, or the richest of them, acted as a “bank” and lent money to kings, princes, emperors, etc. for their adventures (mostly warlike) in exchange for a tax, often exorbitant, or for trade concessions or other advantages. Modern financiers do the same today (including some State financiers, like China); they lend to States, regions and municipalities, encourage the middle classes to get into debt (house mortgages, consumer good finance schemes, etc.) and cover themselves against certain insolvency (the famous “bubbles”) by inventing financial mechanisms (derivatives) to find who they can unload their insolvency on.
It appears obvious that this is a route leading to suicide of the social system itself, which we call capitalism; we are not saying that we are at the end of capitalism, but that the structural conditions are favorable for a change in the social regime (while political subjectivity in this direction is lacking – who, how, what, when – for ideological reasons). Buffer measures can be taken, and are, in a contradictory way, being taken, which do not reverse the tendency underway but may constitute “rest” stations along the route of the crisis train; but the convoy goes on.
For example – and this has to do with the specific theme of the city – not understanding that the crisis is not the offspring of the public finance break-up (sovereign debts), but that this break-up was born of the needs and impositions of finance, which constitutes a power in itself, and has deprived all national dimensions of strength. When national politicians are incapable and corrupt, they let their hand be taken by international finance; when they are capable and not very corrupt, they practically put themselves at its service, laying claim to both the objectivity of processes and the alleged future improvement in the situation of peoples. After colonial occupation the whole world has been colonized by financial capital. The supranational political institutions that should protect peoples against the excessive power of finance, protect the latter against peoples, also because these institutions have techno-structures at their disposal that often come directly from the financial institutions.
Common sense also suggests – and this holds not only for public finance but also for families – that debts paid with other debts cannot be the solution: the debt actually ends up taking on such a size that it will never be possible to settle it. The example of Greece, which, despite having obtained a reduction in their debt, will not manage to pay what is left, and will therefore be punished further with new restrictions, is a demonstration of how the mechanism revolves on itself.
The so-called “chain letter” is not just the expedient of those who want to cheat their clients by paying old clients’ interest with new clients’ subscriptions (like Bernard Madoff), but a benchmark that has been revived, though in a different form, at all levels of international finance. Creative “finance” and its specific instruments, which, though resisted, are continually renewed, are used by international finance that has determined a new economic structure in which it adds to “wealth” production by direct exploitation of workers, peoples being shorn to pay debts, and “builds” a world of depression and ever greater inequality. The ‘financialization’ of the economy and the speed of technical progress are clenching the world social-economic system in a deadly grip, in which superfluous capital and superfluous labor do not find (and cannot find, the way things are) real employment.
Real economics, in this picture, seems like an appendix to financial economy, at the same time insignificant and useful. Useful for accumulating those resources that the contraction of demand still permits, to then be “withdrawn” by finance; insignificant because it is an increasingly modest share of total “wealth” (which actually does not exist, but whose existence is determined by the decision to “want to settle debts”).
Awareness is increasing in many observers that the social pyramid of various countries is undergoing deep tensions and changes. The middle class has become greatly compressed, an outcome that is taking away one of finance’s privileged “markets” (this was the class that supplied the various forms of demand for getting into debt: house mortgages, loans for consumer goods, etc.), while the market of the old and new rich does not guarantee general accumulation. The compression of the middle class, moreover, produces a fracture in continuity between the different social strata, often compromising, but also a source of conflict and contrast, of development and organization of mass struggles.

2.      The city in the crisis
The reverberation, so to speak, of the phenomena mentioned above (though briefly) on the government of the city and territory is one of the dramatic aspects of the current situation, also because the policies that are adopted end up unloading their outcomes precisely on urban organization.
Local Authorities have always been praised as the political link that more than any other could exercise the promotion of democracy. The “closeness” between political decision and the people should (could), in fact, constitute a virtuous relationship, making politics (the Local Authorities) more sensitive to the needs of the population and, at the same time, making it possible for the population to pay greater attention to politics and to their electoral choices (voting with their ‘feet’). It is well-known, however, that this virtuous relationship did not work anything like as much as hoped for, with both sides being responsible, and especially due to indifference and uneasiness on the political side. The latter, basically, did not like the oppressive control of the population and did not accept that conflict, an expression of the needs of the people, could become a fundamental fact for “good politics”. The crisis of democracy is not, in effect, just national, but also local.
The worsening of the situation of cities, as an effect of the economic crisis, has actually made local politics less self-referential in some cases, due both to the obvious privations in the life of many men and women and to the growing pressure of the population and respective organizations (traditional and new, structured and casual) for decisions to be taken that would help alleviate the situations of hardship. But this change in attitude has not, generally speaking, had positive outcomes.
The hardships the population face because of the crisis are added to the structural ones produced by traditional economic mechanisms. In particular, the most important phenomena concern: poverty, unemployment, growing demand for economic support, increased demand for services, the housing issue (its absence and cost), assistance for the elderly and disabled. Fundamentally, the phase in which each one could imagine cancelling out the shortfalls arising at an urban level (dissatisfaction with services, housing situation, quality of the environment, etc.) with his own resources (a sort of privatization of solutions), seems to be followed by a phase in which the demand for more cities, a better city and an increase in public intervention is strong and significant.
Note that relative poverty in 2013 at a national level was at 12.6% of the population, while the figure for absolute poverty was 7.9%. The data are worse for the south of Italy, and for large families and those with an elderly head of family.
That the crisis is deeper in Southern Italy is confirmed by other data: in this area the number of people in a state of absolute poverty rose by 725,000 in 2013, to reach a level of 3,072,000. The relative poverty figure also has a severe influence in Southern Italy, reaching 26%, compared with 6% in the North and 7.5% in the Centre. The worst situations are seen in families resident in Calabria (32.4%) and Sicily (32.5%), where a third of the sample is relatively poor.
This is not all: monthly expenditure fell by 4.3% between 2012 and 2013, while 65% of families reduced the quality and quantity of their purchases. Credible statistics do not exist for homeless people, forced to live on the street or in makeshift living spaces. Only the Caritas, a Catholic church facility, distributes meals and offers some beds for the night; in its reports the Caritas highlights that immigrants are diminishing in proportion to an increase in Italian citizens, that it is often a case of families and not individuals, that the Italians have a mean age double that of immigrants and are mostly unemployed, and so on. A dramatic picture (if we consider that in Orvieto and Todi, two cities of average size not considered at the epicenter of poverty, last year the Caritas distributed 30,000 meals).
In Milan, the economic capital of the country, average monthly expenditure in 2013 was 2,874 euros, against 3,068 in 2012.
Faced with this situation, Local Authorities have less and less resources at their disposal. Whereas the reduction in State transfers continues to be constant, fiscal revenue (direct or per share of national taxes) is lower due precisely to the economic crisis and, in the economic difficulties of families and businesses, the tendency towards tax evasion is greater. Then a number of Local Authorities are in debt both with banks and suppliers (and while the former are those that impose settlement according to the commitments made, the latter tend to get postponed over time, thus contributing to depressing the economy).
Finally, the stability pact is a burden on regional boards, imposed by the European Community on Member States and passed on to the regional boards by the Italian government, introducing an expenditure ceiling also for those Authorities that had their own resources (the more virtuous local boards end up suffering greater penalization).
The result is that many municipalities (a couple of hundred) find themselves in difficulty, on the verge of “bankruptcy”. We are not just speaking about large municipalities like Naples, Catania, Reggio Calabria, Messina, etc. but also small and medium-sized ones. And if the government intervened to save Rome (with the Rome capital law), for the other municipalities it does little.
In this situation, which will certainly last a long time (each year the end of the crisis is announced but then postponed till the following year), the Authorities are in a cleft stick between limited resources and the growing demands of the population, with no capacity to intervene. “Pressure” on Local Authorities often becomes intimidation against administrators or technical office staff: wrecked cars, threats against people and their families, car tyres slashed, front doors burnt down, etc. In 2013 the ascertained cases of intimidation were almost 300 (nothing being known of those not verified). Being closest to the population, the Local Authorities end up being pinpointed as responsible for the social disasters.
It is useful to give a brief outline of the situation in many Italian cities:
• growing social polarization and a reduction in the “middle class”. This is a condition that tends to disintegrate the “social continuity” which, though it made turning demands into conflicts more complex and less straightforward, guaranteed them a manageable political outlet;
• deterioration of collective services with increasing phenomena of exclusion of the most needy social strata, thus substantially reversing the actual purposes of those services;
• abandoning of any urban maintenance action, with consequent worsening of liveability of the city; • deterioration of the environment (quality of the air, for example) due to a reduction in controls and to the choice of more outdated technological solutions that cause greater pollution (e.g. means of transport), etc.
Each of these situations could be subdivided into various sub-items able to specify better the condition referred to, but for the purpose of this article the list proposed appears adequate.
At a municipal level, too, the crisis does not hit everyone in the same way, to the extent that social segments can be singled out that have obtained economic advantages, and continue to do so, from the crisis. In this situation it would be advisable to go into detail as regards the hardships, so as to define coherent political action; territorial authorities also have the knowledge to define ranges of realistic hardships.
Segments of population exist, in fact, that for their demographic condition alone prove more at risk than others (the elderly, large families, unmarried mothers, the disabled, etc.). If the grid of economic situations (unemployed, pensioners, temporary workers, etc.) is superimposed on the previous breakdown, then the conditions of hardship are multiplied but their features become clear. The formation of a map of hardship conditions should be a reference point for organizing Local Authorities’ interventions. But this singling-out operation is not always carried out.
The conditions the local boards work at concern: the universality of collective services (even if weakened by part-payments and the like), progressive nature of taxation (never respected), liability towards creditors (more or less upheld depending on the power of the creditor), administrative transparency (virtually a fantasy), proper administration (‘after’ spreading corruption), defense of common assets (often neglected and abandoned), democratic nature of decisions (subordinate to the power of strong contracting parties), responsibility for urban quality (best not mentioned). These conditions are expressed and applied in a variety of ways in the different situations and actually contribute to determining the quality of the different cities, also creating their capacity to intervene.
“Good politics” in this situation should suggest to the Local Authorities that they increase their economic availability and aim at reducing their citizens’ claims. Neither of which is easy.
Regional Authorities, encouraged by the European Community and the government, as well as being drained by mass media pressure, picked out the sale of their property assets as the first operation to be carried out. The sale of these assets (social housing, abandoned buildings, ex barracks and factories, land and endless other kinds) is truly absurd: it impoverishes the seller (i.e. the community) giving short-lived “relief” that cannot be repeated (a part of these assets, not actually useful at an operative level and insignificant from the cultural and historic point of view, could also be sold with discernment).
But precisely because the seller is “forced” to get rid of some assets, the buyer finds he has a handful of good cards that he uses first of all to undervalue the property and then to place “straightjacket” conditions. The Public Authorities (local and national) are practically forced, in these conditions, to undersell rather than sell. But this is not enough, the buyer’s interest, as is obvious, is to transform the acquired property functionally and volumetrically, so the purchase is strictly tied to a change in intended use and an increase in size. Change in future use and volume is not a “crime” in a city that is changing, but it is nevertheless a case of very delicate operations, which change the pressure of population in that specific zone (including traffic), requiring services to be provided that were not envisaged, etc. Altogether, “changes in use” do not respect a “project for the city” but are just an opportunity to make “cash”.
With discerning politics Local Authorities’ property assets (but also national ones) could partly be reactivated for collective, social and productive purposes without the need to sell, perhaps by proposing self-restoration and self-renovation mechanisms on the part of those who will use them in the future (housing, handicraft production, innovative businesses promoted by young people, etc.).
But the municipalities’ assets do not only consist of property, under the greedy eye and claws of finance; there are also many services that the authorities provide for citizens through their own, or participated, companies (water, electricity, refuse collection, etc.).
It was stated in a report submitted by the Deutsche Bank to the European Commission (2011) that Italian municipalities show high potential for privatization. This bank, as is well-known, is an expert in financial operations that dispossess peoples. Essentially, the European Union suggests this and the national government presses for it; they would like many of the services provided by local companies belonging to the municipality to be privatized, too. A trend all to the advantage of the citizens: services will be managed better, companies will achieve adequate levels of efficiency, citizens will have better services and, perhaps, will pay less for them. Moreover, the possible losses of these private businesses will not weigh on the Local Authorities’ budgets (but will end up weighing on family budgets). This efficiency minded ideology has been contradicted by experience: private companies that took over to achieve the desired levels of remuneration for capital invested have raised tariffs or caused services to decline (contradicting the fact that privatization is to the advantage of the people).
We cannot fail to acknowledge that management of these services has often constituted centers of waste (and not infrequently of corruption); departing from this situation, however, it would be easy to improve their efficiency and the satisfaction of families. The fiscal crisis of the organizations and the subsequent reduction in the capacity of Local Authorities to create investment in these companies have thus become the justification for boosting privatization.
It is precisely the lack of resources that tempts Local Authorities to put these companies on the market, with a consequent impoverishment both of the Authority and the citizens forced to cope with rising tariffs. We are basically faced with an attempt to take the companies providing services away from the communities, so as to make money machines of them, with no respect for meeting the needs of the people, especially the weaker strata.
The situation of indebtedness to the banks is different (‘rubbish’ bonds included) and constitutes another painful issue in their financial circumstances. Reorganization of the debt should at least be obtained: repayment periods, reduction in rates, etc. But the contractual power of the Authorities is weak also due to the absence of central support from the State. As already said, many are the authorities on the point of collapse.
Expenditure reduction that many municipal authorities are “forced” to take into consideration causes deterioration in services and makes the economic situation worse (less employed, less consumption, more depression). To counter the reduction in expenditure some municipalities are adopting an increase in tariffs (for example at nurseries), thus causing exclusion of strata of population unable to pay possible increases.
Help for needy families is also being reduced: authentic assistance for poor families, rent contributions, “credit” vouchers, home-helps, etc. This phenomenon also tends to affect employment, with cuts in a large number of “auxiliary” staff, even if temporary (ranging, for example, from traffic controllers, refuse collectors, nursery school teachers, etc.). Moreover, municipalities in difficulty tend to reduce investments in city maintenance (public spaces, public buildings, etc.). This non-intervention trend not only affects the quality of the city but also employment levels.
Confined between the lack of resources and pressure from citizens (electors) and lacking in instruments coded for suitable intervention, the scarcity of resources tends to prevail, namely a “cuts” policy. Consequently, the hardships caused by the critical situation tend not to be counteracted in the work of local government. There is therefore an accumulation of negative situations of the crisis upon individual citizens: unemployment, reduction in available income, etc., to which cuts in Local Authority services are to be added.
Is it possible to follow different paths to meet the needs of the people halfway? We would need to reject the “realism” ideology” (this is the situation and nothing can be done) to face “reality” (a line that some Authorities are trying to follow, albeit with some contradictions). These are the paths that should be followed:
• take resources where they are available;
• temporarily suspend the universal nature of collective services;
• develop and increase democratic mobilization processes.
Territorial Authorities have very limited tax-raising ability (nowadays on the increase) and are therefore not able, even if they wished, either to follow equalizing, forward-looking politics and thus have an influence on growing inequality, or to collect enough resources. Various paths could be followed in this case.
If, for example, one of the factors causing hardship was the housing question (eviction, impossibility of access to the free market, etc.), the Authority could lead some initiatives for agreements with property owners, fixing lower rents, suspending evictions, etc. or, in the absence of collaboration from property owners, proceed to requisition empty houses, assigning them to the “homeless” (at agreed rents). The opening up in this case of a possible dispute should not be feared, also because it might be the opportunity to make it clear that “ownership” does not solve the problem of housing and that the reduction of social hardship in this sector constitutes a priority element in a responsible society. It would, moreover, be a case of an intervention aimed at opposing the unjust inequalities that are criticized in words both from the point of view of “civilization” and because of their depressive effects on the economy, but which are actually on the increase.
Those measures that momentarily suspend the universal nature of the rights of citizenship assured of collective services should move in the same equalizing direction. The new conception of welfare that is trying to find a way into our society envisages that collective services be guaranteed only for the “needy”, a decidedly adverse conception of the rights of citizenship which violates the principle of universality, uniformity and accessibility to those rights. What is proposed does not exclude anyone from the use of collective services but should temporarily modulate rates in relation to the economic condition of the family and the individual, especially because of the crisis. Poor transparency of the distribution of wealth creates doubts on the applicability of this principle, but the Local Authority might have direct knowledge of the economic situation of each family and try to define parameters that will be more accurate than tax statements very often are.
Furthermore, the cost of many municipal concessions, such as, for example, stall-renting, could be modulated following an evaluation of the differences in profitability such concessions produce.
These and other similar measures may be deployed based on the wide-ranging group of activities and services provided by the Local Authority. In order that these initiatives do not take on overtones of arbitrariness, however, commitment is needed for considerable development in democracy, which is not to be assumed just as an instrument of “control” over who is governing, but for the positive contributions it can produce in terms of reciprocity of solidarity.
By this term we wish to denote something very different from what the simple term solidarity refers to, i.e. in this case individual members of the community taking on tasks, including management, which guarantee everyone collective continuity and quality of, for example, a service, and direct support of the action of the population following the paths mentioned above.
Mobilization of the population is meant, aimed at enhancing the democratic tone of a given territorial reality by means of specific instruments and initiatives. Concrete forms of “direct democracy”, with a deliberative capacity, can be linked and related to the traditional forms of “delegated democracy”, reviving the latter. Just as forms of direct collaboration in the administrative management of services and the different operative functions of a territorial board can enable greater levels of efficiency and efficacy.
Nowadays an aversion to delegated democracy, historically given, is increasingly manifest; I do not believe we can do without this form of democracy but it needs to be revived, linking it with forms of direct democracy (decisional and managerial).
Voluntary experiments that have been carried out over time are well-known, such as the “time bank”, and also the good “council” results (think of schools), as long as these had power; just as well-known are the chances to save created voluntarily by the “farmers’ markets”, or by the autonomous organization of the GAS (ethical purchasing groups), etc. We have no problem with the capacity of single groups to voluntarily organize themselves and be operative, but a leap in quality and quantity seems necessary, precisely because of the crisis: local Authorities can and must help these initiatives with contributions to organization. It is not a case of a route out of the crisis or of outlining different social set-ups, but they do undoubtedly contribute and help to alleviate the discomfort.
It is with extended mobilization engaging the different groups in specific actions and functions at the disposal and for the use of everyone that what we have called reciprocity of solidarity comes into being.

3.      Conclusions
If people who find themselves in growing numbers in conditions of discomfort, on the one hand, hope and request global solutions (national and international), they can, on the other, immediately transform their discomfort, so to speak, into demands to the Local Authorities (the close level of government). Local Authorities, however, have been hit by the same fiscal crisis as the State, with a reduction in resources. Growing “demands” and lower “resources” constitute the claws that tend to crush the Local Authorities’ capacity to operate.
The latter are the stage upon which the devastating effects of the crisis are more obviously manifest and where, with just as much evidence, the incapacity and impossibility of giving satisfactory answers to the situation are shown. Authorities also tend to follow lines of intervention that are not only ruinous but tend to worsen the present situation (reduction in services, increase in tariffs, exclusion of maintenance, etc.) and the following one (alienation of own assets). National governments have unloaded the growing social contradictions the crisis was producing onto the Local Authorities (politics has an unbearable level of cynicism).
From what has been said, it is clear that the Local Authorities are not able either to combat the crisis, or to tackle the hardships generated by it. Yet some slight possibility of alleviating the discomfort does exist: by rejecting the prevailing pathways, opposing privatization processes, using one’s own property assets appropriately and appealing to the social forces on the grounds of a principle of reciprocity of solidarity, administrators can mitigate the effects of a crisis, the end of which, despite the predictions, is not in view. Some Authorities are trying, but they are few.


Reference O’Connor, J. (1973) The fiscal crisis of the state. New York: St. Martin’s Press

Nessun commento:

Posta un commento