sabato 31 ottobre 2015

Una nuova retorica: la crisi come opportunità

Una nuova retorica: la crisi come opportunità
Francesco Indovina

da L. Fregolent e M. Savino, Città e politiche in tempi di crisi, Franco Angeli, 2014

I curatori di questo volume hanno costruito quella che è insieme  un’indagine e una riflessione sugli effetti della crisi nel governo degli enti locali, con particolare attenzione alla problematica del  governo del territorio. Hanno usato diverse tecniche come le interviste ad alcuni assessori, e hanno raccolto anche  il parere di esperti sui singoli aspetti. Le interviste riguardano 15 città, medio e grandi,  nella loro maggioranza città del centro-nord; gli assessori intervistati sono risultate 8 donne e 7 uomini. Tale composizione delle città hanno probabilmente influito sui risultati (Bari, Napoli e Palermo, sicuramente città importanti e cariche di problemi, non possono essere assunti come rappresentativi della situazioni urbane del sud e del meridione). Questa osservazione non vuole mettere in discussione i risultati di questo lavoro, del resto non era intenzione dei curatori fornire uno spaccato statisticamente rappresentativo, quanto piuttosto affondare l’occhio su alcuni casi, alcuni tra i più complicati (non si pensi solo a Napoli o Palermo, ma anche a Genova e Roma), per esplorare il comportamento e le scelte di governo urbano attivate in presenza di una profonda crisi e di conseguenza una non marginale riduzione delle risorse disponibili. Va riconosciuta ai curatori la sicura fatica che hanno dovuto fare per raccogliere e far raccogliere le 15 interviste  (la reticenza dei politici è massima quando si tratta di interloquire con studiosi, minima quando si parla alla “stampa”). I risultati ottenuti, che paiono notevoli, sono all’altezza dello sforzo fatto.       
Il lavoro merita grande attenzione; di una esplorazione di questo tipo  si sentiva la mancanza, ma anche la necessità. Anche se dall’indagine  emergono  atteggiamenti politici diversi, che vanno assunti non solo come le opinioni degli assessori, ciascuno con il proprio bagaglio non solo professionale ma anche politico, ma anche come l’espressione della capacità e delle modalità diverse di intervento delle singole  amministrazioni, nonché dei rapporti di forza esistenti all’interno della singola città. Le scelte mettono in luce una sorte di filo comune del discorso sul governo della città, come se la crisi avesse, in qualche modo, semplificato gli atteggiamenti anche se complicato l’operatività. Si evidenzia, anche, un atteggiamento comune critico nei riguardi dei “tagli” e la ricerca di soluzioni che riducono al minimo i disagi della popolazione in relazioni agli stessi tagli. L’Ente locale, per quanto grande sia la città, costituisce il primo gradino che il cittadino in difficoltà sale. È alla sua porta che si   bussa quando un servizio non funziona o si riduce, quando il padrone di casa dà lo sfratta e quando il bisogno supera la speranza. L’Amministrazione locale (il sindaco) vicino ai propri cittadini fa parte della retorica politica, ma di fatto essa, volente o nolente, è il loro più prossimo referente.  Un pressione che cresce con le difficoltà delle famiglie; quando tutto va bene la casa dell’Ente locale è poco frequentata, ma quando le condizioni economiche delle famiglie peggiorano, quando nella scuola finiscono per mancare gli strumenti essenziali, quando … anche il piccolo disaggio diventa insopportabile, allora la richiesta di intervento all’Ente locale diventa pressante.
Non meno importante, nel volume, appare la parte nei quali studiosi ed esperti hanno focalizzato aspetti significativi nell’attuale intemperia su singoli settori nei quali l’amministrazione è coinvolta. Vanno dalle infiltrazioni criminali nel governo del territorio, alla nuova fiscalità locale, all’immigrazione e ai sui problemi, alle difficolta del mercato immobiliare, alla scarsa propensione dei privati a investire, all’”abitabilità”, alle aree dismesse ecc.; contributi di diverso taglio approfondimento ma che  costituiscono un arricchimento su questioni, per così dire, canoniche del governo degli enti locali o su aspetti nuovi che la crisi mette in primo piano. Tanto più le famiglie entrano in un circuito di disagio, tanto più la Chiesa (non la fede) e il Municipio (non la politica) costituiscono i referenti principali, sia come fonte di “aiuto”, sia come strumento per il  desiderato cambiamento.        
La sintetica, ma molto densa,  introduzione di Ada Becchi sull’origine della “specifica” crisi italiana costituisce un contributo molto interessante, nel quale vengono individuati i meccanismi propri e specifici e le figure di riferimento che hanno contribuito a definire e sostanziare la crisi del nostro paese. La Becchi, come è solita fare, rigetta le facili interpretazioni, magari molto di moda e di successo, per fornire un quadro di verità diversa. Il quadro tracciato appare condivisibile nel suo impianto e nelle sue line complessive, anche se, sarebbe possibile dissentire sul  poco peso concesso  alle profonde modifiche che sono intervenute negli ultimi anni nella struttura stessa dell’economia capitalista, e su gli effetti che sull’economia e sulla società italiana ha avuto e ha il debito sovrano. Sulla prima questione il testo appare, nella sua formulazione, come il rifiuto delle facili interpretazione della crisi e  fine del capitalismo, una “moda” che tuttavia non produce, se fosse un’ipotesi realistica, contromisure. Sulla seconda  pare che manchi una riflessione più adeguata al problema. Il testo si chiude con  molto pessimismo, che si può condividere a pieno: mancanza di strategia, di volontà e di immaginazione, sia politica che economica, non danno molte speranze.
Dalle parole degli assessori delle città considerate sembra di poter rilevare che la “crisi”, considerata con preoccupazione, sia assunta quasi con ottimismo, un’opportunità. Si tratta di un punto di vista contraddittorio ma pur tuttavia comprensibile a condizione che esso produca un’operatività all’altezza dei problemi e che soprattutto non diventi una nuova retorica. La crisi è sofferenza, la crisi è assenza di speranza, la crisi moltiplica il disaggio, la crisi contribuisce a spostare i rapporti di forza dentro la società, la crisi aumenta le sperequazione, la crisi alimenta il ribellismo di destra, la crisi riduce la democrazia, non può essere un’opportunità, può modificare gli atteggiamenti e le politiche ma deve soddisfare esigenze nuove, e misurarsi con situazioni politiche molto diverse, e deve contrastare condizioni che non immaginavamo potessero ritornare, sia sul piano sociale che su quello politico.  
Il rilievo dato alla riduzione delle risorse è generalizzato, è da qui che nasce una nuova e diversa operatività. La ridotta pressione sulla città della produzione edilizi privata e delle grandi operazioni speculative è salutato, in generale, come positivo (non so capire se si fa virtù di una situazione immodificabile). Ma attenzione se l’intervento privato nella e sulla città poco ha avuto a che fare con l’interesse della popolazione  e con la vivibilità stessa della città, e se esso ha avuto per lo più connotati speculativi, ha costituito, tuttavia, uno dei fattori dinamici dell’economia della città. Lontano da me ogni valutazione positiva delle grandi operazioni immobiliari, ma va tenuto conto che la loro assenza costituisce un fattore di rallentamento dell’economia della città (si pensi, per esempio,  a Roma dove il peso dell’attività edilizia e preponderante) e dell’occupazione (senza accettare il trito refrain “quando l’edilizia va tutta l’economia va”). Tutto questo sarebbe  perfetto se a questa carenza di iniziativa privata fosse possibile sostituire un altrettanto importante, sul piano quantitativo e qualitativo intervento pubblico.  In sostanza  il circuito vizioso della produzione edilizia si intreccia con il suo aspetto virtuoso dell’occupazione. Ma questo intreccio è il risultato  delle politiche sbagliate del passato. I comuni dall’espansione edilizia hanno ricevuto risorse e hanno, molto spesso, chiuso gli occhi sul tipo e finalità di questa espansione, ritrovandosi poi cariche di problemi; una riduzione dell’attività edilizia privata è vista come salutare per la città, ma così vengono a mancare consistenti risorse. Un perverso intreccio costruito nel passato con cinica determinazione, presenta oggi il conto.
È a questo proposito che da più parti si avvia una riflessione sull’errore sostanziale costituito dal fatto che le risorse delle amministrazioni locali risultavano legate all’ampliamento dell’edificazione e all’allargamento  dell’urbanizzazione (oneri di urbanizzazione). Non più una riflessione dei soliti studiosi  che hanno messo in luce da anni questo problema, ma esito di un errore che è diventato carne viva dentro la crisi, e gli amministratori se lo ritrovano nei  loro bilanci.
È’ costante e generalizzata l’osservazione sulla inadeguatezza del “piano”, sulla necessità di un suo rinnovamento in grado di rispondere meglio alle aspettative e necessita della società. È ragionevole pensare che, sicuramente, molti amministratori  si trovano in difficoltà a gestire in una fase di crisi un “piano” elaborato in una fase di crescita economica; da questo punto di vista (e non solo) la critica al piano appare fondata, ma pericolosa se essa significa mancanza di governo delle trasformazioni. Da tempo si prospetta la necessità di passare dal “piano” alla “pianificazione”, cioè ad uno strumento di governo urbano che coordini i diversi aspetti e i diversi settori di intervento (attraverso politiche definite) e dove quello delle destinazioni d’uso delle aree sia solo un aspetto. In questa direzione sembrano muoversi alcune amministratori, ed è positivo, soprattutto in una fase di crisi e di necessaria dilatazione dell’intervento pubblico con risorse scarse.
L’intervento pubblico sembra dilatarsi ma anche si assottigliarsi; la scarsità, la possibilità molto ridotta di possibili partenariati pubblico/privato, determinano una estensione territoriale degli interventi pubblici ma costituiti prevalentemente da interventi di ridotta dimensione e che cercano di rispondere ad esigenze avanzate dalla popolazione. In un certo senso si manifesta una capacità di ascolto molto superiore del passato, soprattutto perché il canto delle sirene dei grandi interventi tace e si sentono le voci di protesta di quanti pesantemente colpiti dalla crisi. Non potendo operare in estensione, l’intervento pubblico sembra sviluppare  una maggiore attenzione alla qualità e al dettaglio.
Così le periferie non vengono sconvolti da grandi progetti di ristrutturazione (cioè di valorizzazione e di espulsione dei precedenti abitanti), quanto piuttosto da progetti di rigenerazione urbana. È, in sostanza, sulla vivibilità che sembra spostarsi, in molte delle amministrazioni indagate, l’attenzione massima. Tramontano le opere buone per il marcheting urbano, le opere alla cui realizzazione sono interessati interessi non sempre legali, opere frutto di amicizia o di corruzione, o semplicemente di stupidità amministrativa. È difficile dire se quella fase si sia definitivamente chiusa, anche nelle ristrettezze della crisi si possono individuare casi nei quali la dimensione speculativa sembra prevalere e che da luogo all’incompiuto o al perennemente in lavorazione. Un catalogo, certo incompleto di  opere incompiute si possono “ammirare” nel sito incompiutosiciliano.org; si tratta di un numero di opere inimmaginabile (la cartina con le localizzazioni è molto istruttiva), che danno luogo, secondo gli autori, non solo ad un nuovo stile architettonico, appunto, l’incompiuto, ma anche ad una tipologia e ad una “formazione culturale” di governo del territorio.
Quello dell’intervento nelle periferie sembra un dato comune e prevalente, si tratta di scelte dettate sia da una maggiore attenzione politica e sia da un atteggiamento  che non sarebbe sbagliato classificare come “opportunismo virtuoso”. Sul piano politico l’evidenza che il disaggio della popolazione, anche se generale, trova un punto di maggior coagulo proprio nelle periferie, e che spesso questo si manifesta copn forme diverse di proteste, spinge verso un intervento localizzato. Si tratta di periferie diverse nelle diverse città, ma tutte con le stigmate del disaggio sociale. Intervenire nelle periferie può essere un modo per mitigare il disaggio di tante famiglie e individui e rende anche evidente come l’attenzione politica del governo della città si focalizza dove maggiore è il disaggio. Niente grandi opere ma piccoli interventi di qualità, non ristrutturazione urbana, ma rigenerazione della città con l’attivazione di servizi, di micro servizi, di spazi pubblici, ecc.  È come se si fosse presa coscienza che il dettaglio conta. Il termine rigenerazione urbana è presentato diverso dall’intervento di riqualificazione e ristrutturazione, esso tuttavia, sembra contenere ipotesi di intervento diverse e non omogenee. Certo la rigenerazione deve fare i conti con la realtà, non può essere un modello buono ovunque, ma questo non toglie che dovrebbe essere caratterizzata da principi chiari.  
Correlato all’intervento di rigenerazione urbana è spesso  il tentativo di una mobilizzazione della popolazione: si punta  non tanto ad una generica partecipazione, quanto piuttosto l’assunzione di responsabilità diretta nella gestione degli spazi e dei servizi. Non è il caso di costruire una nuova retorica su questo aspetto, ma  assumere che in un momento di crisi, del quale l’Ente locale ha qualche  responsabilità ma soprattutto nessuna capacità di incidere, la partecipazione della popolazione alla gestione oltre che alla decisione può essere un contributo di rilievo. Se questo costruisse una nuova cittadinanza e una nuova politica sarebbe tutto da verificare;  non mi pare che nel medio-lungo periodo si possa caricare sulla popolazione delle funzioni che spesso, con dure lotte, sono state affidate ad una funzione pubblica che ha liberato famiglie e individui da impegni e da carichi. I cittadini hanno il dovere, oltre che il diritto, di interessarsi dell’amministrazione pubblica e di controllarne i diversi aspetti, passare alla “gestione” sembrerebbe un salto verso la democrazia diretta di cui tuttavia mancano le premesse teoriche e politiche (al di là della retorica). Non può essere che il mal funzionamento dell’amministrazione pubblica, o di sue parti, oltre a determinare disagi nella popolazione, richieda a questa di assumersene la gestione, non fornendo, per altro né gli strumenti (politici e amministrativi), né le competenze. L’opportunismo virtuoso, si intende dire, non deve eccedere i limiti determinati dalla responsabilità che istituzionalmente e nella prassi viene assegnata all’amministrazione pubblica. La divisione di compiti e ruoli deve essere mantenuta, almeno di rivoluzionare funzioni e ruoli. Detto questo non è inopportuno che in un momento di “crisi” e di scarsità di risorse i cittadini mettono mano alle loro competenze e disponibilità per realizzare obiettivi d’interesse generale.       
Ci sono ancora due aspetti che per effetto della  crisi vengono liberati da  i veli mistificanti che li ricoprivano. Il primo di questi riguarda la “aree dismesse”, da sempre salutate come la grande occasione per le amministrazioni locali per risolvere alcune delle carenze endemiche della città: dalla mancanza di spazi di vivibilità (verde pubblico e quant’altro), alla necessità di ampliamento dei servizi tradizionali e alla necessità di  attivarne di nuovi, per finire  alla predisposizione di abitazioni sociali o destinati a giovani coppie  o ad anziani soli.
Di tutto questo si parlava, ma poco si realizzava (tranne rari casi); le aree dismesse hanno continuato a crescere, sia quelle private (manufatti industriali prevalentemente) sia quelli pubblici o para pubblici (caserme, opifici, palazzi di uffici, ecc.), questo immenso patrimonio veniva a costituire quello che si è chiamato dei “vuoti urbani”, terminologia che alludeva alla possibilità di una ricucitura della città, sfruttando appunto tali vuoti, dando hai cittadini servizi, verde e abitazioni sociali. Si dimenticava che questo patrimonio (in senso specifico) non era costituito da “vuoti” ma era un pieno di rendita. In concreto la possibilità per l’amministrazione pubblica di far conto su queste aree è stata molto ridotta, ma dentro la crisi (virtuosa) si torna a sperare che questo patrimonio possa venire utile. Non è allarmismo rilevare che i proprietari di queste aree in passato, direttamente o indirettamente, hanno elaborato dei progetti (alcuni veramente grandi) che hanno concordato con l’operatore pubblico sulla base di pochi benefici concessi alla città (ma spesso generando grossi “affari” segnati da corruzione). Il cambio d’uso, da industriale a residenziale o commerciale, per esempio, se da una parte non poteva essere evitato, trattandosi di ciò che era indispensabile per la convenienza dell’operato immobiliare, dall’altra non portava i vantaggi per la collettività che si era sperato.
Non si capisce perché dentro la crisi le pretese dei proprietari della aree dismesse dovrebbero diminuire. In realtà è possibile proprio il contrario: la difficoltà del mercato immobiliare spinge all’attesa o se si preferisse all’inoperosità dei promotori immobiliari, ove si pensasse che una riattivazione della produzione edilizia fosse auspicabile è certo che maggiori devono essere le convenienze che l’amministrazione pubblica deve concedere. Proprio l’inverso di quello che si spera.
Data la vulgata nazionale, anche le amministrazioni locali si sono acconciate a vendere parti dei loro patrimoni. Che questa sia una politica saggia è difficile convenirne, ma quello che qui interessa è mettere in luce come, oggettivamente si potrebbe dire, gli Enti locali (e in generale gli enti pubblici) hanno dovuto rendere appetibile, come si dice, l’operazione ai privati. Insomma chi comprava doveva fare un “affare” (né poteva essere diversamente), un affare che si concretizzava in modifiche di cubatura, di destinazione d’uso, e altro ancora. Non solo un impoverimento della comunità ma anche un peggioramento della città.
Quello che pare emergere dalla storia recente dei processi di trasformazione urbana, è la inconsapevolezza (nei migliori dei casi, nei peggiori è roba da codice penale) degli enti locali del loro “potere” o spesso una consapevolezza giocata non a favore della città ma dei promotori e di se stessi. In realtà sarebbe gli enti locali a detenere il potere delle trasformazioni urbane da realizzare a  beneficio collettivo. Non sono né i proprietari delle aree, né i promotori immobiliari ad avere questo potere, ma questi dipendono dalle scelte e decisioni che, con strumenti vari, il governo della città prende. In  tutte le trasformazioni deve essere evidente il beneficio per la collettività. Non si intende dire che questo potere debba e possa  essere usato cervelloticamente o in modo autoreferenziale, né che in qualche modo non debba essere riconosciuto una remunerazione a chi le operazione di trasformazione di fatto realizza, ma tutte le cose devono stare insieme non dimenticando che i promotori hanno interesse alle operazioni di trasformazione ma che il potere di trasformazione sta in mano all’Ente locale che opera a beneficio dei cittadini e della città. E se questo potere viene mal usato non è ne per caso né per insipienza ma solo per interesse (personale).
Si potrebbe sostenere che  questo modo di operare  poteva valere in periodo di vacche grasse, quando cioè l’attività di trasformazione era rilevante, la spinta forte e, in certa misura, la concorrenza operante; oggi quando questa spinta  langue bisogna “adescare” i promotori con molte buone occasioni. Ma si osservi che, tranne pochi casi, anche in periodo di vacche grasse l’Ente locale non ha usato il suo potere, permettendo operazioni a tutto vantaggio dei promotori e poco della città, né pare convincente che la politica di trasformazione debba dipendere dal ciclo edilizio, sia nei periodi dinamici che in quelli di stagnazione,  sembrerebbe più sano per la salute  delle  città che fosse il ciclo edilizio da sottomettere ad una politica consapevole e dichiarata di trasformazione nell’interesse collettivo. 
Emerge dalle interviste agli assessori, in generale, la consapevolezza che con la crisi dovranno fare i conti, e per molto tempo ancora nonostante i reiterati annunzi di una prossima ripresa. Si nota una consapevolezza del ruolo che può giocare l’Ente locale per attenuare il disaggio della popolazione; insomma, usando una terminologia di moda, prevale il “pensiero positivo”. Pur apprezzando questo atteggiamento nasconde  un pericolo, la costruzione di un pensiero retorico: la crisi come opportunità.  Come si è già detto la crisi non può essere un’opportunità per le sofferenze che porta, non è neanche detto che ci renda migliori, potrebbe farci incanaglire, può portare ad una gestione più oculata, ad una politica più attenta, ma la retorica dell’opportunità  può finire per coprire inettitudine, inoperosità e ridurci al “piccolo” come dimensione ottimale.  La crisi non passa tanto facilmente, sta sconvolgendo la struttura sociale del paese (e di tutti i paesi), fa crescere umori autoritari, rende inoperosa la democrazia e sposta i rapporti di forza a favore dei pochi che molto hanno contro i molti che poco hanno. La crisi può essere un’opportunità se si mette mano a trasformare le nostre città, se ci si muove verso una politica dei diritti e verso l’eguaglianza. Non è detto che gli Enti locali possono fare poco su questo piano, senza velleitarismi “volere e potere”, si tratta come salmoni di nuotare contro corrente, rifiutare le banalità del fare, per fissare obiettivi di migliore vivibilità e convivenza. Se si riuscisse a fare “più città e migliore città”, allora nessuno sforzo sarebbe inutile.   


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