Una
nuova retorica: la crisi come opportunità
Francesco Indovina
da L. Fregolent e M. Savino, Città e
politiche in tempi di crisi, Franco Angeli, 2014
I curatori di questo volume hanno
costruito quella che è insieme un’indagine
e una riflessione sugli effetti della crisi nel governo degli enti locali, con particolare
attenzione alla problematica del governo
del territorio. Hanno usato diverse tecniche come le interviste ad alcuni
assessori, e hanno raccolto anche il
parere di esperti sui singoli aspetti. Le interviste riguardano 15 città, medio
e grandi, nella loro maggioranza città
del centro-nord; gli assessori intervistati sono risultate 8 donne e 7 uomini.
Tale composizione delle città hanno probabilmente influito sui risultati (Bari,
Napoli e Palermo, sicuramente città importanti e cariche di problemi, non possono
essere assunti come rappresentativi della situazioni urbane del sud e del
meridione). Questa osservazione non vuole mettere in discussione i risultati di
questo lavoro, del resto non era intenzione dei curatori fornire uno spaccato
statisticamente rappresentativo, quanto piuttosto affondare l’occhio su alcuni
casi, alcuni tra i più complicati (non si pensi solo a Napoli o Palermo, ma
anche a Genova e Roma), per esplorare il comportamento e le scelte di governo
urbano attivate in presenza di una profonda crisi e di conseguenza una non
marginale riduzione delle risorse disponibili. Va riconosciuta ai curatori la sicura
fatica che hanno dovuto fare per raccogliere e far raccogliere le 15
interviste (la reticenza dei politici è
massima quando si tratta di interloquire con studiosi, minima quando si parla
alla “stampa”). I risultati ottenuti, che paiono notevoli, sono all’altezza
dello sforzo fatto.
Il lavoro merita grande attenzione; di
una esplorazione di questo tipo si
sentiva la mancanza, ma anche la necessità. Anche se dall’indagine emergono
atteggiamenti politici diversi, che vanno assunti non solo come le
opinioni degli assessori, ciascuno con il proprio bagaglio non solo
professionale ma anche politico, ma anche come l’espressione della capacità e delle
modalità diverse di intervento delle singole amministrazioni, nonché dei rapporti di forza
esistenti all’interno della singola città. Le scelte mettono in luce una sorte
di filo comune del discorso sul governo della città, come se la crisi avesse,
in qualche modo, semplificato gli atteggiamenti anche se complicato
l’operatività. Si evidenzia, anche, un atteggiamento comune critico nei
riguardi dei “tagli” e la ricerca di soluzioni che riducono al minimo i disagi
della popolazione in relazioni agli stessi tagli. L’Ente locale, per quanto
grande sia la città, costituisce il primo gradino che il cittadino in
difficoltà sale. È alla sua porta che si bussa quando un servizio non funziona o si
riduce, quando il padrone di casa dà lo sfratta e quando il bisogno supera la
speranza. L’Amministrazione locale (il sindaco) vicino ai propri cittadini fa
parte della retorica politica, ma di fatto essa, volente o nolente, è il loro
più prossimo referente. Un pressione che
cresce con le difficoltà delle famiglie; quando tutto va bene la casa dell’Ente
locale è poco frequentata, ma quando le condizioni economiche delle famiglie
peggiorano, quando nella scuola finiscono per mancare gli strumenti essenziali,
quando … anche il piccolo disaggio diventa insopportabile, allora la richiesta
di intervento all’Ente locale diventa pressante.
Non meno importante, nel volume, appare
la parte nei quali studiosi ed esperti hanno focalizzato aspetti significativi
nell’attuale intemperia su singoli settori nei quali l’amministrazione è
coinvolta. Vanno dalle infiltrazioni criminali nel governo del territorio, alla
nuova fiscalità locale, all’immigrazione e ai sui problemi, alle difficolta del
mercato immobiliare, alla scarsa propensione dei privati a investire, all’”abitabilità”,
alle aree dismesse ecc.; contributi di diverso taglio approfondimento ma che costituiscono un arricchimento su questioni,
per così dire, canoniche del governo degli enti locali o su aspetti nuovi che
la crisi mette in primo piano. Tanto più le famiglie entrano in un circuito di
disagio, tanto più la Chiesa (non la fede) e il Municipio (non la politica) costituiscono
i referenti principali, sia come fonte di “aiuto”, sia come strumento per
il desiderato cambiamento.
La sintetica, ma molto densa, introduzione di Ada Becchi sull’origine della
“specifica” crisi italiana costituisce un contributo molto interessante, nel
quale vengono individuati i meccanismi propri e specifici e le figure di
riferimento che hanno contribuito a definire e sostanziare la crisi del nostro
paese. La Becchi, come è solita fare, rigetta le facili interpretazioni, magari
molto di moda e di successo, per fornire un quadro di verità diversa. Il quadro
tracciato appare condivisibile nel suo impianto e nelle sue line complessive, anche
se, sarebbe possibile dissentire sul poco peso concesso alle profonde modifiche che sono intervenute
negli ultimi anni nella struttura stessa dell’economia capitalista, e su gli
effetti che sull’economia e sulla società italiana ha avuto e ha il debito
sovrano. Sulla prima questione il testo appare, nella sua formulazione, come il
rifiuto delle facili interpretazione della crisi e fine del capitalismo, una “moda” che tuttavia
non produce, se fosse un’ipotesi realistica, contromisure. Sulla seconda pare che manchi una riflessione più adeguata
al problema. Il testo si chiude con molto pessimismo, che si può condividere a
pieno: mancanza di strategia, di volontà e di immaginazione, sia politica che
economica, non danno molte speranze.
Dalle parole degli assessori delle città
considerate sembra di poter rilevare che la “crisi”, considerata con
preoccupazione, sia assunta quasi con ottimismo, un’opportunità. Si tratta di un punto di vista contraddittorio ma pur
tuttavia comprensibile a condizione che esso produca un’operatività all’altezza
dei problemi e che soprattutto non diventi una nuova retorica. La crisi è
sofferenza, la crisi è assenza di speranza, la crisi moltiplica il disaggio, la
crisi contribuisce a spostare i rapporti di forza dentro la società, la crisi
aumenta le sperequazione, la crisi alimenta il ribellismo di destra, la crisi
riduce la democrazia, non può essere un’opportunità, può modificare gli
atteggiamenti e le politiche ma deve soddisfare esigenze nuove, e misurarsi con
situazioni politiche molto diverse, e deve contrastare condizioni che non
immaginavamo potessero ritornare, sia sul piano sociale che su quello politico.
Il rilievo dato alla riduzione delle
risorse è generalizzato, è da qui che nasce una nuova e diversa operatività. La
ridotta pressione sulla città della produzione edilizi privata e delle grandi
operazioni speculative è salutato, in generale, come positivo (non so capire se
si fa virtù di una situazione immodificabile). Ma attenzione se l’intervento
privato nella e sulla città poco ha avuto a che fare con l’interesse della
popolazione e con la vivibilità stessa
della città, e se esso ha avuto per lo più connotati speculativi, ha
costituito, tuttavia, uno dei fattori dinamici dell’economia della città. Lontano
da me ogni valutazione positiva delle grandi operazioni immobiliari, ma va
tenuto conto che la loro assenza costituisce un fattore di rallentamento
dell’economia della città (si pensi, per esempio, a Roma dove il peso dell’attività edilizia e
preponderante) e dell’occupazione (senza accettare il trito refrain “quando
l’edilizia va tutta l’economia va”). Tutto questo sarebbe perfetto se a questa carenza di iniziativa
privata fosse possibile sostituire un altrettanto importante, sul piano
quantitativo e qualitativo intervento pubblico.
In sostanza il circuito vizioso
della produzione edilizia si intreccia con il suo aspetto virtuoso
dell’occupazione. Ma questo intreccio è il risultato delle politiche sbagliate del passato. I
comuni dall’espansione edilizia hanno ricevuto risorse e hanno, molto spesso,
chiuso gli occhi sul tipo e finalità di questa espansione, ritrovandosi poi
cariche di problemi; una riduzione dell’attività edilizia privata è vista come
salutare per la città, ma così vengono a mancare consistenti risorse. Un
perverso intreccio costruito nel passato con cinica determinazione, presenta
oggi il conto.
È a questo proposito che da più parti si
avvia una riflessione sull’errore sostanziale costituito dal fatto che le
risorse delle amministrazioni locali risultavano legate all’ampliamento dell’edificazione
e all’allargamento dell’urbanizzazione
(oneri di urbanizzazione). Non più una riflessione dei soliti studiosi che hanno messo in luce da anni questo
problema, ma esito di un errore che è diventato carne viva dentro la crisi, e
gli amministratori se lo ritrovano nei loro bilanci.
È’ costante e generalizzata l’osservazione
sulla inadeguatezza del “piano”, sulla necessità di un suo rinnovamento in
grado di rispondere meglio alle aspettative e necessita della società. È
ragionevole pensare che, sicuramente, molti amministratori si trovano in difficoltà a gestire in una
fase di crisi un “piano” elaborato in una fase di crescita economica; da questo
punto di vista (e non solo) la critica al piano appare fondata, ma pericolosa
se essa significa mancanza di governo delle trasformazioni. Da tempo si
prospetta la necessità di passare dal “piano” alla “pianificazione”, cioè ad
uno strumento di governo urbano che coordini i diversi aspetti e i diversi
settori di intervento (attraverso politiche definite) e dove quello delle
destinazioni d’uso delle aree sia solo un aspetto. In questa direzione sembrano
muoversi alcune amministratori, ed è positivo, soprattutto in una fase di crisi
e di necessaria dilatazione dell’intervento pubblico con risorse scarse.
L’intervento pubblico sembra dilatarsi
ma anche si assottigliarsi; la scarsità, la possibilità molto ridotta di
possibili partenariati pubblico/privato, determinano una estensione
territoriale degli interventi pubblici ma costituiti prevalentemente da
interventi di ridotta dimensione e che cercano di rispondere ad esigenze
avanzate dalla popolazione. In un certo senso si manifesta una capacità di
ascolto molto superiore del passato, soprattutto perché il canto delle sirene dei
grandi interventi tace e si sentono le voci di protesta di quanti pesantemente
colpiti dalla crisi. Non potendo operare in estensione, l’intervento pubblico
sembra sviluppare una maggiore
attenzione alla qualità e al dettaglio.
Così le periferie non vengono sconvolti
da grandi progetti di ristrutturazione (cioè di valorizzazione e di espulsione
dei precedenti abitanti), quanto piuttosto da progetti di rigenerazione urbana.
È, in sostanza, sulla vivibilità che sembra spostarsi, in molte delle
amministrazioni indagate, l’attenzione massima. Tramontano le opere buone per
il marcheting urbano, le opere alla cui realizzazione sono interessati
interessi non sempre legali, opere frutto di amicizia o di corruzione, o semplicemente
di stupidità amministrativa. È difficile dire se quella fase si sia
definitivamente chiusa, anche nelle ristrettezze della crisi si possono
individuare casi nei quali la dimensione speculativa sembra prevalere e che da
luogo all’incompiuto o al
perennemente in lavorazione. Un catalogo, certo incompleto di opere incompiute si possono “ammirare” nel
sito incompiutosiciliano.org; si
tratta di un numero di opere inimmaginabile (la cartina con le localizzazioni è
molto istruttiva), che danno luogo, secondo gli autori, non solo ad un nuovo
stile architettonico, appunto, l’incompiuto, ma anche ad una tipologia e ad una
“formazione culturale” di governo del territorio.
Quello dell’intervento nelle periferie
sembra un dato comune e prevalente, si tratta di scelte dettate sia da una
maggiore attenzione politica e sia da un atteggiamento che non sarebbe sbagliato classificare come
“opportunismo virtuoso”. Sul piano politico l’evidenza che il disaggio della
popolazione, anche se generale, trova un punto di maggior coagulo proprio nelle
periferie, e che spesso questo si manifesta copn forme diverse di proteste, spinge
verso un intervento localizzato. Si tratta di periferie diverse nelle diverse
città, ma tutte con le stigmate del disaggio sociale. Intervenire nelle
periferie può essere un modo per mitigare il disaggio di tante famiglie e
individui e rende anche evidente come l’attenzione politica del governo della città
si focalizza dove maggiore è il disaggio. Niente grandi opere ma piccoli
interventi di qualità, non ristrutturazione urbana, ma rigenerazione della
città con l’attivazione di servizi, di micro servizi, di spazi pubblici,
ecc. È come se si fosse presa coscienza
che il dettaglio conta. Il termine rigenerazione
urbana è presentato diverso dall’intervento di riqualificazione e
ristrutturazione, esso tuttavia, sembra contenere ipotesi di intervento diverse
e non omogenee. Certo la rigenerazione deve fare i conti con la realtà, non può
essere un modello buono ovunque, ma questo non toglie che dovrebbe essere
caratterizzata da principi chiari.
Correlato all’intervento di
rigenerazione urbana è spesso il
tentativo di una mobilizzazione della popolazione: si punta non tanto ad una generica partecipazione,
quanto piuttosto l’assunzione di responsabilità diretta nella gestione degli
spazi e dei servizi. Non è il caso di costruire una nuova retorica su questo
aspetto, ma assumere che in un momento
di crisi, del quale l’Ente locale ha qualche responsabilità ma soprattutto nessuna capacità
di incidere, la partecipazione della popolazione alla gestione oltre che alla
decisione può essere un contributo di rilievo. Se questo costruisse una nuova
cittadinanza e una nuova politica sarebbe tutto da verificare; non mi pare che nel medio-lungo periodo si possa
caricare sulla popolazione delle funzioni che spesso, con dure lotte, sono
state affidate ad una funzione pubblica che ha liberato famiglie e individui da
impegni e da carichi. I cittadini hanno il dovere, oltre che il diritto, di
interessarsi dell’amministrazione pubblica e di controllarne i diversi aspetti,
passare alla “gestione” sembrerebbe un salto verso la democrazia diretta di cui
tuttavia mancano le premesse teoriche e politiche (al di là della retorica).
Non può essere che il mal funzionamento dell’amministrazione pubblica, o di sue
parti, oltre a determinare disagi nella popolazione, richieda a questa di
assumersene la gestione, non fornendo, per altro né gli strumenti (politici e
amministrativi), né le competenze. L’opportunismo virtuoso, si intende dire,
non deve eccedere i limiti determinati dalla responsabilità che
istituzionalmente e nella prassi viene assegnata all’amministrazione pubblica.
La divisione di compiti e ruoli deve essere mantenuta, almeno di rivoluzionare
funzioni e ruoli. Detto questo non è inopportuno che in un momento di “crisi” e
di scarsità di risorse i cittadini mettono mano alle loro competenze e
disponibilità per realizzare obiettivi d’interesse generale.
Ci sono ancora due aspetti che per
effetto della crisi vengono liberati da i veli mistificanti che li ricoprivano. Il
primo di questi riguarda la “aree dismesse”, da sempre salutate come la grande
occasione per le amministrazioni locali per risolvere alcune delle carenze
endemiche della città: dalla mancanza di spazi di vivibilità (verde pubblico e
quant’altro), alla necessità di ampliamento dei servizi tradizionali e alla
necessità di attivarne di nuovi, per
finire alla predisposizione di abitazioni
sociali o destinati a giovani coppie o
ad anziani soli.
Di tutto questo si parlava, ma poco si
realizzava (tranne rari casi); le aree dismesse hanno continuato a crescere,
sia quelle private (manufatti industriali prevalentemente) sia quelli pubblici
o para pubblici (caserme, opifici, palazzi di uffici, ecc.), questo immenso patrimonio veniva a costituire quello
che si è chiamato dei “vuoti urbani”, terminologia che alludeva alla
possibilità di una ricucitura della città, sfruttando appunto tali vuoti, dando
hai cittadini servizi, verde e abitazioni sociali. Si dimenticava che questo patrimonio (in senso specifico) non era
costituito da “vuoti” ma era un pieno di rendita. In concreto la possibilità
per l’amministrazione pubblica di far conto su queste aree è stata molto
ridotta, ma dentro la crisi (virtuosa) si torna a sperare che questo patrimonio
possa venire utile. Non è allarmismo rilevare che i proprietari di queste aree
in passato, direttamente o indirettamente, hanno elaborato dei progetti (alcuni
veramente grandi) che hanno concordato con l’operatore pubblico sulla base di
pochi benefici concessi alla città (ma spesso generando grossi “affari” segnati
da corruzione). Il cambio d’uso, da industriale a residenziale o commerciale,
per esempio, se da una parte non poteva essere evitato, trattandosi di ciò che era
indispensabile per la convenienza dell’operato immobiliare, dall’altra non portava
i vantaggi per la collettività che si era sperato.
Non si capisce perché dentro la crisi le
pretese dei proprietari della aree dismesse dovrebbero diminuire. In realtà è possibile
proprio il contrario: la difficoltà del mercato immobiliare spinge all’attesa o
se si preferisse all’inoperosità dei promotori immobiliari, ove si pensasse che
una riattivazione della produzione edilizia fosse auspicabile è certo che
maggiori devono essere le convenienze che l’amministrazione pubblica deve
concedere. Proprio l’inverso di quello che si spera.
Data la vulgata nazionale, anche le
amministrazioni locali si sono acconciate a vendere parti dei loro patrimoni.
Che questa sia una politica saggia è difficile convenirne, ma quello che qui
interessa è mettere in luce come, oggettivamente si potrebbe dire, gli Enti
locali (e in generale gli enti pubblici) hanno dovuto rendere appetibile, come
si dice, l’operazione ai privati. Insomma chi comprava doveva fare un “affare” (né
poteva essere diversamente), un affare che si concretizzava in modifiche di
cubatura, di destinazione d’uso, e altro ancora. Non solo un impoverimento
della comunità ma anche un peggioramento della città.
Quello che pare emergere dalla storia
recente dei processi di trasformazione urbana, è la inconsapevolezza (nei
migliori dei casi, nei peggiori è roba da codice penale) degli enti locali del
loro “potere” o spesso una consapevolezza giocata non a favore della città ma
dei promotori e di se stessi. In realtà sarebbe gli enti locali a detenere il
potere delle trasformazioni urbane da realizzare a beneficio collettivo. Non sono né i
proprietari delle aree, né i promotori immobiliari ad avere questo potere, ma
questi dipendono dalle scelte e decisioni che, con strumenti vari, il governo
della città prende. In tutte le
trasformazioni deve essere evidente il beneficio per la collettività. Non si intende
dire che questo potere debba e possa essere usato cervelloticamente o in modo
autoreferenziale, né che in qualche modo non debba essere riconosciuto una
remunerazione a chi le operazione di trasformazione di fatto realizza, ma tutte
le cose devono stare insieme non dimenticando che i promotori hanno interesse
alle operazioni di trasformazione ma che il potere di trasformazione sta in
mano all’Ente locale che opera a beneficio dei cittadini e della città. E se
questo potere viene mal usato non è ne per caso né per insipienza ma solo per
interesse (personale).
Si potrebbe sostenere che questo modo di operare poteva valere in periodo di vacche grasse,
quando cioè l’attività di trasformazione era rilevante, la spinta forte e, in
certa misura, la concorrenza operante; oggi quando questa spinta langue bisogna “adescare” i promotori con
molte buone occasioni. Ma si osservi che, tranne pochi casi, anche in periodo
di vacche grasse l’Ente locale non ha usato il suo potere, permettendo
operazioni a tutto vantaggio dei promotori e poco della città, né pare
convincente che la politica di trasformazione debba dipendere dal ciclo
edilizio, sia nei periodi dinamici che in quelli di stagnazione, sembrerebbe più sano per la salute delle
città che fosse il ciclo edilizio da sottomettere ad una politica consapevole
e dichiarata di trasformazione nell’interesse collettivo.
Emerge dalle interviste agli assessori,
in generale, la consapevolezza che con la crisi dovranno fare i conti, e per
molto tempo ancora nonostante i reiterati annunzi di una prossima ripresa. Si
nota una consapevolezza del ruolo che può giocare l’Ente locale per attenuare
il disaggio della popolazione; insomma, usando una terminologia di moda,
prevale il “pensiero positivo”. Pur apprezzando questo atteggiamento nasconde un pericolo, la costruzione di un pensiero
retorico: la crisi come opportunità. Come si è già detto la crisi non può essere
un’opportunità per le sofferenze che porta, non è neanche detto che ci renda
migliori, potrebbe farci incanaglire, può portare ad una gestione più oculata,
ad una politica più attenta, ma la retorica dell’opportunità può finire per coprire inettitudine,
inoperosità e ridurci al “piccolo” come dimensione ottimale. La crisi non passa tanto facilmente, sta
sconvolgendo la struttura sociale del paese (e di tutti i paesi), fa crescere
umori autoritari, rende inoperosa la democrazia e sposta i rapporti di forza a
favore dei pochi che molto hanno contro i molti che poco hanno. La crisi può
essere un’opportunità se si mette mano a trasformare le nostre città, se ci si
muove verso una politica dei diritti e verso l’eguaglianza. Non è detto che gli
Enti locali possono fare poco su questo piano, senza velleitarismi “volere e
potere”, si tratta come salmoni di nuotare contro corrente, rifiutare le
banalità del fare, per fissare obiettivi di migliore vivibilità e convivenza.
Se si riuscisse a fare “più città e migliore città”, allora nessuno sforzo
sarebbe inutile.
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