Diario n. 245
16/10/2015
Cesare Damiano, PD, già dirigente della CGIL, già
Ministro del lavoro, ora presidente della Commissione del lavoro della Camera
dei Deputati, il 14 ottobre in una intervista sul Il Manifesto, si domandava se
il PD fosse ancora di sinistra.
Mai domanda è stata così inutile. Tutta la sinistra,
tranne rare eccezioni, non è più di
sinistra da tempo (mi si scusi il bisticcio).
Ma intendiamoci cosa vuol dire “sinistra”? Non certo un afflato verso i poveri e le donne
e gli uomini più sfortunati; non certo una poco condivisibile elegia per l’agricolo
(bisogna tornare a fare i contadini!); non certo una nostalgia per il tempo che
fu (in occidente e in oriente); non già una polemica verso la scienza e la
ricerca scientifica accusata di “manipolazione”; non già una generica difesa
dell’ambiente e del paesaggio; ecc. sinistra vuol dire “critica della formazione sociale capitalista
e del suo modo di produzione”. È là la matrice di tutti gli aspetti negativi
della nostra vita quotidiana, della violenza, delle discriminazione, delle
ineguaglianze, della concentrazione della ricchezza.
Quando è caduto il muro di Berlino, assunto
simbolicamente, ed è stato chiaro il fallimento del “socialismo reale” (fallimento
già prima analizzato e interpretato), per la sinistra (socialista e comunista
soprattutto) si apriva uno spazio per ripensare a quella “critica”, per
prendere atto della necessità di un suo rinnovamento (il capitalismo era
cambiato e cambiava), per affinare strumenti e armi per dare speranza di
uguaglianza e di libertà. Ma la sinistra non seppe rifondarsi, subì una fascinazione:
il capitalismo non solo era il sistema che risultava vincitore nella
competizione con il socialismo reale, ma era anche quello che garantiva uno
sviluppo globale, mentre il mercato era assunto come lo strumento di regolazione. La
globalizzazione non è stata un’apertura mondiale ai traffici ma l’affermazione
globale di un sistema di produzione.
Pensare ad un sistema sociale “diverso” è tornato ad
essere un’utopia.
Ma è maturato qualcosa di più grave: lungo la strada
intrapresa si è assunto che ad ogni tentativo di controllo sul processo
capitalistico (e sulla sua evoluzione) sarebbe corrisposto un danno. Quindi andavano abbandonati, e sono
stati abbandonati, anche i mezzi e gli
strumenti che la socialdemocrazia (non i socialisti, non i comunisti) aveva, in
un secolo, elaborato e messo in atto per mettere sotto un parziale controllo
quel sistema sociale di produzione e quel mercato, derivandone benefici per la collettività.
Mi immagino che non si possa dire di dover far a meno del
mercato (nonostante il suo carattere discriminatorio), ma si potrebbe almeno
cercare di “regolarlo” (anche se sembra un’antitesi logica, forse non lo
sarebbe sul piano sociale). Mi immagino che non si possa dire di far a meno del
capitalismo, ma si potrebbe controllarlo, se ne potrebbe limitarne l’estensione
e la concentrazione, vi si potrebbe opporre una produzione pubblica. Ma niente!
Renzi (ma prima Monti, prima Letta) non è che l’interprete di questa svolta
storica. Privatizzazioni; liberalizzazione; riforme fiscali e provvedimenti a
favore delle “fasce deboli” più come meccanismi “per favorire la ripresa del
mercato” che per alleviare le sofferenze; riduzione della progressività dell’imposizione,
sperando in investimenti dei “ricchi”, dimentichi del capitalismo finanziario;
riduzione dei diritti dei lavoratori e in generale riduzione degli strumenti
che garantiscono i diritti di cittadinanza (scuola e sanità, in primis). Ora
mano sui contratti collettivi.
Damiano pensa che se Renzi smantellasse i contratti
collettivi allora il PD perderebbe il bollino di “partito di sinistra”. Ma si
metta il cuore in pace, non può perdere una cosa che non ha.
Nessun commento:
Posta un commento