Vecchia
e nuova questione urbana
Francesco Indovina
da A. Becchi, C. Bianchetti, P. Ceccarelli,
F. Indovina, La città del XXI secolo. Ragionando
con Bernardo Secchi, Franco Angeli, 2015
1.
La città e l’economia: da determinante a determinata
La città è stata sempre collegata
all’economia: anche la prima città nota sorge e si sviluppa sulla base di
un'innovazione tecnologica che aumenta la produttività della terra e del lavoro
e permette, per questa strada, l’accumulo di un surplus e quindi l’articolazione
sociale e la prima divisione del lavoro. Sono note nell’antichità e dal medio
evo, fino ad oggi, le città porto, le città mercato, ecc.
Tra città ed economia la relazione è
molto stretta al punto che è possibile affermare che la città genera l’economia
(nelle sue diverse fasi storiche). Senza determinismo, perché con l’evoluzione
e il progresso sociale si muovono dentro, contro e a favore della città, altre
forze e si costruisce un pensiero “autonomo”
di organizzazione della città.
Evidentemente questo rapporto non assume
sempre la stessa forma: dentro questa relazione le condizioni locali (risorse,
tradizioni, esperienze, intelligenza organizzativa), nonché i rapporti con
altre città (economie), ed ancora la forma di istituzionalizzazione del governo
e del potere, influiscono a determinare variazioni, similitudini e difformità
di tale rapporto.
Si può affermare, con una rilevante
semplificazione, che la città ha una forte influenza nel determinare la propria
economia. Si intende sostenere che sono le specifiche e varie condizioni urbane
a influenzare e strutturare l’economia della città; il livello di relazioni esterne, il livello tecnologico,
la struttura sociale, il livello di ricchezza complessivo e dei singoli, le
conoscenze scientifiche e altro ancora, non sono marginali nel dare corpo ad
una specifica economia. Dall’altra parte ciascuno di questi aspetti influenza
ogni altro e la città nel suo insieme, in un rapporto di relazioni circolari
che fanno grandi certe città o che ne fanno decadere altre. L’estrema
semplificazione di quanto detto non può, infatti, eliminare il fatto che
l’organizzazione urbana tenda a determinare la sua economia, con differenze di
luogo e di epoche.
La città, in quanto tale, per molto
tempo, per molti secoli, non fa
problema: è la sua organizzazione che è determinante per la sua economia.
Fondamentale appare la sua struttura fisica/morfologica (dove è insediata nel
territorio e in quale territorio e in quale relazione con altri territori),
mentre la modesta suddivisione funzionale e sociale dello
spazio è l’esito di un’economia non pervasiva e la sua struttura sociale
stabile garantisce il perpetuarsi della sua stessa economia e della struttura
sociale corrispondente. Non si sostiene che si è di fronte ad una città
pacificata, spesso conflitti interni devastano la città, spesso strati
subalterni si “ribellano”, ma molto spesso il conflitto si indirizza, fino alla
lotta armata, verso altre città, per la conquista di un territorio, delle
risorse relative, per mettere in ginocchio un’economia concorrente, ecc.
La cosa rilevante che piace sottolineare
è che mentre la città è determinante per lo sviluppo di una qualche forma di
economia che si relazioni con l’esterno, non tutta la città (le sue forze
sociali) sono coinvolte specificatamente nell’ambito di questa economia, non
solo perché esistono fasce consistenti di “autarchia” , ma anche perché accanto
al sistema economico principale sopravvivono sistemi economici autonomi e
indipendenti, circuiti secondari potremmo chiamarli, che nello scambio interno,
nella cooperazione e nella reciprocità trovano la loro sopravvivenza.
Tutto questo vale fino all’affermarsi del
modo di produzione capitalistico: con il capitalismo tutto cambia, è la
produzione capitalistica che determina la condizione urbana. Mi si faccia
grazia di questo passaggio brusco, non intendo una rottura definita ad un tempo
individuabile, ma un processo, che pur tuttavia ha avuto dei punti di
accelerazione (ne cito uno su tutti, il grosso processo di immigrazione della
“manodopera liberata” dalla campagna nelle città, dove sorgeva un “mercato del
lavoro” dai caratteri assolutamente nuovi e diversi rispetto a quello della
campagna, che mercato non era.).
Quando si fa riferimento al modo di
produzione capitalistico, non si intende soltanto il “lavoro in fabbrica”, ma
il ciclo completo del capitale (produzione, riproduzione, valorizzazione). Non
è quindi con l’occhio alla fabbrica che si afferma che il modo di produzione
capitalistico si impone sull’organizzazione della città, ma guardando piuttosto
al ciclo completo del capitale. Così quando indichiamo che il capitale impone
la sua legge sulla città, non intendiamo un determinismo banale, ma misuriamo
questa imposizione con quello che contrasta o corregge questa volontà di
dominio e questa oggettiva necessità (come si vedrà più avanti).
Quello che importa mettere in evidenza è
un passaggio, che semplifico: dalla città
che determina l’economia, all’economia che determina la città. E se in
precedenza l’interpretazione della città partiva dalla città stessa ora è il
processo di produzione capitalistica che permette la lettura della nuova
condizione urbana. Se la città prima non faceva problema ora essa fa problema,
diventa questione urbana, non cioè la semplice analisi delle condizioni di
organizzazione della città, dei suoi aspetti critici, della sua struttura, ma
piuttosto la tematizzazione di come il capitale si proietta sulla città, come
esso determina la città, la sua organizzazione e quale effetto produce la
divisione sociale imposta dal capitale sulla città. Nella fase pre-capitalista,
seguendo in parte Polanyi, l’economia riguarda i mezzi e i rapporti attraverso
i quali gli individui raggiungono i loro obiettivi di vita e di riproduzione
sociale, questi sono definiti di “reciprocità” e di “redistribuzione”. Sono le
regole sociali e di potere che determinano il meccanismo di scambio secondo i
bisogni. Di conseguenza in questo lungo periodo la città è determinata da
volontà sparse; insomma la città non
discende da una “scelta” specifica relativa alla sua organizzazione economica.
Altri sono gli aspetti che determinano l’organizzazione dello spazio urbano, la “difesa”, per esempio, – mura, porte, torrioni, ecc., - ma anche la
forma assunta dalla vita politica – l’agorà, il foro, per esempio,- i culti
religiosi, le attività ludiche, ecc.
Al contrario, con l’avvento del
capitalismo e con l’affermarsi dello scambio di mercato, alla base
dell’organizzazione della città sta una scelta funzionale al processo
complessivo del capitale; questo non vuol dire che necessità ludiche,
religiose, ecc. siano disattese, ma esse rientrano all’interno del processo
complessivo del capitale e segnatamente della riproduzione della forza lavoro; né scompaiono gli
elementi di “potere”, ma essi assumono l’aspetto di “regole generali”.
Non si intende dire che prima la città
era un esito casuale, ma piuttosto che era
un esito di “come andavano le cose” (si potrebbe scrivere “naturale” se
questo termine non avesse significati contraddittori) mentre con il capitalismo
si impone la scelta: forma,
organizzazione, meccanismi di rappresentanza, ecc. sono il risultato di scelte consapevoli (nella sostanza)
perché niente deve sfuggire alla valorizzazione del capitale. È a questo punto
che la città fa problema, cioè emerge come questione urbana, che interpreta
contemporaneamente l’organizzazione di sé e la dipendenza dai rapporti sociali
di produzione capitalistici.
La relazione tra capitale e città che ha
impegnato molti studiosi, appartenenti a discipline diverse (Max Weber o
Alfred Marshall, per esempio), ed è
affrontata nel secolo scorso in numerosi studi di impianto marxista, prevalentemente
italiani e francesi[1], apparsi, cioè, in paesi dove più forte era l’influenza del pensiero di
Marx. In quest’ambito il problema troverà una sua più completa trattazione nel
testo di Manuel Castells, La questione urbana[2].
In questo saggio la relazione tra il processo di produzione capitalistico e
l’organizzazione dello spazio (urbano e regionale) è analizzata in dettaglio e
la questione urbana assume sia connotato scientifico ed epistemologico, sia,
soprattutto, acquista dimensione politica[3].
Il capitale nella sua forza prometea
tutto investe e travolge; tutto
definisce nei suoi termini di convenienza. Ma attenzione, nello stesso tempo crea i suoi antagonisti e
dà forza ai suoi antagonismi (ideologici, culturali e sociali) che mettono un
freno alla sua voracità, altrimenti assolutamente priva, per propria natura, di
autocontrollo, nella convinzione che il suo affermarsi e il suo penetrare in
tutti i nodi della società non potrà che determinare progresso.
Non si crede necessario sottolineare che
il modo di produzione capitalistico sia un processo dinamico e continuamente in
trasformazione, mentre si assume come stabile la sua logica di valorizzazione.
Le modalità di produzione e realizzazione potrebbero essere mutevoli nel tempo
e nello spazio, ma omogenea la finalità di valorizzazione. Senza dire che il suo sviluppo è dipeso anche da quelle
forze antagonistiche che ha generato (questione che qui si tralascia) e che
hanno, appunto, permesso di frenarne forza e voracità determinando anche
livelli di progresso sociale e civile.
2.
La questione urbana problema politico
L’organizzazione urbana, con
l’affermarsi del capitalismo, diventa, come detto, un problema politico, cioè questione urbana e determina la
necessità e definisce le condizione della politica urbana, cioè di una scelta consapevole e finalizzata dell’organizzazione dello spazio: scelte politiche
intorno alla “gestione”, alla distribuzione delle funzioni, ai diversi livelli
della rendita, alla differenziazione sociale dello spazio, ecc. La determinazione
del modo di essere della città, la sua struttura e organizzazione sono sempre
più viste come una variabile del processo economico; un processo economico che
essendo molto dinamico, in tutti i sensi, ha bisogno che la città continuamente
si adegui, e sia disponibile a tale adeguamento. La struttura fisica della
città, per quanto resistente, non appare più come un ostacolo al cambiamento,
essa deve assumere le caratteristiche di malleabilità (la difesa della sua
struttura morfologica e storica diventa anche essa oggetto di conflitto
politico e sociale).
Ma attenzione non si parla di una “città
fabbrica”, formula che costituisce una inadatta semplificazione: la città
moderna (quella del capitale), per quanto dal capitale determinata, non appare e non risulta
completamente riconducibile al
capitale. Certo gli interessi di questo sono fondamentali e costituiscono una guida
per l’organizzazione dello spazio, ma nella sua realizzazione l’organizzazione
dello spazio deve fare i conti con l’articolazione sociale, con gli antagonismi
che il capitale stesso genera, con le ideologie e le idee che in ogni specifica
fase si affermano, e devono avere un sguardo al contesto. Al di là della
microvisione del singolo capitalista, la politica
dell’organizzazione dello spazio
dovrà fare i conti con i conflitti, espressi e latenti, con il
modificarsi del contesto, con la riproduzione dell’organizzazione sociale, in
una visione ampia e dinamica focalizzata al cambiamento. Non può essere nudo
segno del capitale.
Così nel secondo dopoguerra il contrasto
geopolitico tra blocchi, la pregnanza di analisi economiche e sociali più
moderne e realistiche, nonché la necessità di evitare i danni sociali e
politici del primo dopoguerra (disoccupazione
di massa, inflazione, conflitti, fascismi, ecc.), spiegano l'affermarsi di una politica socialdemocratica, o keynesiana
se si preferisse, che dà forma e corpo al Welfare State[4]
e che investe principalmente la questione urbana. Sicuramente l’affermarsi di
tale indirizzo politico non è omogeneo in tutti i paesi (o in tutti i
capitalismi): in alcuni il WS ha avuto una dimensione pervasiva in altri meno,
ma sicuramente ha messo in campo una serie di “provvedimenti politici” che
hanno toccato la questione urbana (la politica per la casa, l’assistenza e le
pensioni, i servizi sanitari, ecc.) e posto limiti all’aggressività, anche
sociale, del capitale. Nei diversi paesi, cioè nei diversi capitalismi, tali
opzioni sono state accettate o combattute (a viso aperto o in modo sotterraneo), secondo i livelli di sviluppo e di organizzazione
politica degli antagonisti.
Negli anni ’80, continuando questa
estrema semplificazione, cambiati gli equilibri mondiali, messe in evidenza le
prime concrete avvisaglie della crisi fiscale dello Stato[5]
e un mutamento delle opzioni politiche in Inghilterra e Usa, si deftermina un
diverso quadro politico, che va sotto il nome di thatcherismo, dal nome della primo ministro inglese Margaret
Thatcher, caratterizzato da un liberismo estremo e da un altrettanto estremo
individualismo. Nella filosofia della
Thatcher la “società” non esisteva, esistevano solo gli individui, e questa
visione ispirò la sua politica, liberista senza riserve e limiti (deregolazione,
tassazione indiretta, vendita del patrimonio pubblico, riduzione della spesa
pubblica, liberalizzazione finanziaria, ecc.). Tale indirizzo politico, così
come il precedente, divenne il sub-strato ideologico di ogni governo dei paesi
di antico sviluppo (Europa, Usa, Canada, Giappone).
La questione
urbana, in questa temperie, fu travolta: povertà, slum, degrado,
riduzione dell’intervento pubblico, riduzione dell’assistenza, una drastica
divisione sociale dello spazio, ecc.[6];
questi sono stati gli esiti. La deregolamentazione
(del potere pubblico) è stata applicata con più o meno vigore in
tutti i paesi sviluppati, così come la liberalizzazione dei processi e dei
meccanismi finanziari, cosa che ha facilitato la finanziarizzazione
dell’economia, la nascita delle “bolle finanziarie” e la crisi degli anni 2008.
L’apertura del mercato mondiale e la libera mobilità del capitale, hanno
modificato le radici dello sviluppo produttivo e generato un meccanismo di
valorizzazione del capitale fondato sulla finanza (un capitale senza casa,
fabbrica e uffici).
La crisi fiscale dello Stato, con
l’accentuarsi della crisi dei debiti sovrani e i nuovi assetti del capitale
finanziario, ha richiesto una nuova
politica di mediazione che potesse trovare un impiego all’enorme capitale
finanziario. Si è trattato, nella logica del sistema, di trovare nuove
possibilità alla valorizzazione del capitale, cioè una politica che più che di
mediazione assumesse l’aspetto di una politica di mobilizzazione del capitale.
In sostanza la vittoria (a livello
sociale e istituzionale) della politica liberista degli anni ’80 ha creato da
una parte l’esaltazione dell’individuo con, di fatto, la distruzione o la messa
in crisi di tutti i corpi intermedi e la
riduzione del conflitto, che privo di
corpi intermedi, manifesta
capacità di grandi mobilitazioni di corto respiro e sbocchi rivoltosi,
dall’altra ha ridotto, prosciugandone le risorse, la capacità di intervento
pubblico. In questa situazione ha preso corpo e tende a svilupparsi una nuova
forma politica che potremmo chiamare social-liberista,
una politica che non cerca di affrontare le questioni sociali strutturali in
campo (la disoccupazione, l’immigrazione, la casa, l’invecchiamento della
popolazione, la salute, la povertà, ecc. e soprattutto il super potere della
finanza internazionale) ma piuttosto individua nel partenariato
pubblico-privato lo strumento
per la mobilizzazione del capitale, per sfuggire ai vincoli di bilancio
pubblico, e per offrire all’opinione pubblica ricette nello stesso tempo
ambiziose e spesso fasulle. In quest’ambito un ruolo fondamentale giocano i
“grandi eventi” internazionali (luccichio di lustrini, improbabili
architetture, previsti fantastici e irrealistici usi di spazi ed edifici a
conclusione dell’evento, frotte di turisti con il naso in su, trasformazioni
non necessarie né utili del territorio e della città, ma che danno corpo a
sostanziosi processi speculativi, a complesse relazioni economiche-politiche,
non sempre confessabili, ad attività corruttive).
Il terreno fertile per questa nuova
dimensione social-liberista è soprattutto
la città e l’organizzazione del territorio, mentre le questioni sociali sono
sottoposte a trattamenti di sostanziale abbandono, con una riduzione
sostanziale del WS (si ripete: “non
possiamo permettercelo”), in una dimensione che è sempre più mondiale, anche se
le articolazioni reali delle diverse parti non sono prive di rilevanza.
3.
Bernardo Secchi e la questione urbana
Bernardo Secchi è stato partecipe del
punto di vista che lega l’organizzazione del territorio ai processi economici
del capitale, partecipe ma con una sua particolare attenzione sia agli aspetti
fisici della città che ai processi di pianificazione: “[Tutto ciò mostra]
l’emergere di una nuova area problematica della quale è urgente descrivere con
cura la mappa e ciò non può essere fatto che in via esplorativa, tramite
tentativi e sforzi tesi ad assemblare attrezzature mentali che consentano, a
costo forse di qualche non inutile riduzione, di far uscire l’analisi
morfologica dalla sua tradizionale vaghezza; tesi ad evitare che tra analisi
morfologica ed analisi dell’uso economico e sociale del territorio si apra un
varco troppo grande e difficile da colmare in futuro senza drastici e radicali
cambiamenti di rotta; tentativi, in altri termini, di utilizzare, per quanto
possibile, le sollecitazioni poste dalla nuova area problematica entro un
processo di accumulazione del sapere urbanistico, piuttosto che per la modifica
di un paradigma” (Secchi, 1986)
Di questa attenzione al “piano”, al
continuo tentativo di un suo adeguamento alle novità del xx secolo, alla
dimensione del suolo, sono testimonianza la ricca attività comunicativa operata
attraverso le riviste Urbanistica,
del quale come è noto è stato per molti anni direttore, e Casabella; non casualmente alla raccolta di questi interventi
Bernardo ha dato il nome di Un progetto
per l’urbanistica (1989).
Pur conservando la sua particolare
attenzione di cui si è detto, ma in modo più esplicito, nel saggio La città del ventesimo secolo (2005)
riconnette il processo di costruzione della città ai processi economici, ma
tende a far prevalere con una maggiore autonomia gli aspetti spaziali rispetto
a quelli economico-sociali, fino ad attribuire agli aspetti spaziali un ruolo
non secondario nell’attuale crisi. Ma di questo si dirà più avanti.
In uno dei suoi ultimi lavori (Secchi,
2014) la sua sensibilità sembra essersi orientata verso tematiche diverse (anche se non completamente
nuove per lui). In questo volume curato da Calafati e finalizzato alla
definizione di un'agenda urbana per l’Italia, in accordo alle indicazioni e
raccomandazioni della UE, nel saggio introduttivo, che costituisce lo spartito
del lavoro, Bernardo, dopo avere messo in luce gli importanti fenomeni
strutturali, come il cambiamento climatico, la nuova geografia economica,
l’invecchiamento della popolazione e la rigidità del capitale,[7]
mette a tema i seguenti punti di una possibile agenda: “prendere atto
dell’emergere di una nuova forma di città”; “valutare attentamente le
opportunità che nascono dalle nuove forme dell’insediamento”; “riflettere
attentamente sui temi della transizione energetica”; “dubitare dell’idea che la
modernità e lo sviluppo siano sospinti da un numero necessariamente limitato di
importanti infrastrutture, fortemente gerarchizzate”; “uscire dall’ideologia
del bigness e delle economie di scala”; “prendere atto delle modifiche
della struttura demografica del paese”; “ non un piano di grandi opere, ma un
grande piano di piccole opere diffuse”.
Questa tematizzazione fa emerge con
nettezza la sua anima da ingegnere, detto senza ironia, ma riferendola alla sua
forma mentis: visto il problema trovata la soluzione. Non è poco, ma
sembrerebbe non sufficiente se lo misurassimo con quanto ha scritto, nello stesso saggio, a proposito
della “rigidità del capitale” (vedi nota 5). Non è oggetto di polemica, anche
perché pare evidente che si tratti dell’espressione consapevole di
un'impossibilità e impotenza che accomuna molti: poco può cambiare senza aggredire la questione con la politica, ma questa pare fissata su
tutt’altri obiettivi.
Ma,
giustamente, (Bernardo, mi pare di sentirti),
ribatti: quale politica? dove la vedi? dove la trovi?
Hai
ragione e questo ha amareggiato i nostri declinanti anni.
La discussione e il confronto sarà
ripreso più avanti, a proposito
dell’ultimo suo libro La città dei ricchi e la città dei poveri
(Secchi, 2013), ma prima pare necessario affrontare gli effetti dei mutamenti
del capitale.
4.
Le nuove tendenze (del capitale e della città)
Come conseguenza del mutamento profondo
della natura e struttura dell’economia capitalistica e della sua pervasività a
livello mondiale, è possibile,
relativamente al tema che qui interessa, individuare una serie di effetti che
si proiettano sulla città (e sull’organizzazione spaziale).
-
Sul piano culturale e ideologico, viene investita la stessa immagine e l’idea
di città: la sua “compattezza” si sgretola: da una parte per la dimensione
assunta da molte metropoli (una metropoli di più di 30 milioni di abitanti
rende obsoleta l’immagine tradizionale di città e forse anche quella di
metropoli), e dall’altra parte per
quella che è stata chiamata l’esplosione urbana,[8]
che definisce una forma di organizzazione urbana a maglia larga, chiamata
talvolta metropoli territoriale, qualche volta città di città, che assume
l’assenza della compattezza e della tradizionale morfologia urbana non come un
ostacolo alla determinazione della “condizione urbana”.
- Sul piano delle politiche urbane è
possibile constatare che la dimensione di alcuni processi di inurbamento rapido
e intenso (in certe metropoli, soprattutto dell’Africa e dell’Asia, si tratta
di centinaia di migliaia di persone l’anno), contro i quali non vale nessuna
politica di freno, determinano un forte aumento della sperequazione tra le
parti di queste concentrazioni urbane: parti centrali sfavillanti e immensi
territori intorno, abbandonati alla “creatività” individuale. D’altra parte le
forme di intervento pubblico, nei paesi ricchi, sono ridotte al minimo e
fortemente condizionate dai processi complessivi del capitale e dal suo
coinvolgimento nei processi di trasformazione. Appare prevalente una riduzione dell’intervento pubblico di
indirizzo collettivo, che si presenta frammentato e determinato, più che nel
passato, a premiare certe dimensioni di interessi particolari (economici e
politici), mentre una parte consistente della popolazione va alla deriva.
- Dirompente appare l’effetto sulla
realtà fisica e sociale della città. Dilatazione della città, ma
contemporaneamente rarefazione dei servizi collettivi, realizzazione di enormi
periferie (anche quando non sono presenti slum, bidonville, ecc.) che
definiscono una distribuzione dei servizi sempre più diseguale e che peggiorano
le condizioni di vivibilità della città e di vita di fasce crescenti di
popolazione. Enorme mobilità automobilistica, che disegna, soprattutto nei
paesi sviluppati, una rete di infrastrutture che danno luogo ad un paesaggio
urbano inedito. La diversificazione sociale sempre più intensa, da una parte la
povertà dilagante, forme di economie incongrue, sfruttamento dei bambini, dei
giovani e delle donne, il dilagare di forme organizzate o meno di criminalità,
violenza crescente, e dall’altra parte la ricchezza, i quartieri del lusso, le
case ipersorvegliate.
La questione
urbana ha oggi questa dimensione e il suo territorio, anche quando ci
appare molto diversificato, a livelli diversi presenta gli stessi connotati (i
livelli non sono indifferenti). Ma se, come è, la questione urbana fosse
strettamente collegata con il ciclo completo del capitale, con le
trasformazioni di questo dovremmo fare i conti.
Anche se alcuni punti focali possono
essere considerati fermi, nonostante screzi e polemiche tra economisti, la
dinamica futura è difficile da delineare anche perché le dinamiche si
presentano non omogenee né tra i paesi europei, né tra i paesi sviluppati, né
tra i paesi di nuovo sviluppo, né con i pesi più arretrati. È ormai convinzione generale che la ricchezza
si concentri sempre più in poche mani; così come sembra vana la speranza di
tornare, nei paesi sviluppati, ad una piena occupazione. Il capitale trova
sempre meno impiego nella produzione materiale e le nuove tecnologie (si pensi
alle stampante 3D, per esempio) configurano crescenti livelli di forza lavoro
non mobilizzabile, mentre quello che sembrava il sogno di tecnici privi di
realismo e di ragionevolezza, la fabbrica senza operai, già si realizza in
situazioni come quella cinese, dove la manodopera non dovrebbe mancare. La così
detta “uscita dalla crisi”, non solo nel nostro paese, sembra sempre più una
favola, e gli appelli alla necessità di un “nuovo” modello di sviluppo trovano
voci autorevolissime. Ma quello che non pare convincente in tutto questo
parlare del “nuovo” modello di sviluppo (ovviamente sostenibile) e che trova un
centro propagandistico nell’Expo di Milano,
è che esso sia realizzabile via buona volontà e soluzioni tecniche. In
realtà quello di cui c’è necessità per “pensare” un nuovo modello di sviluppo è
un nuovo modello economico e sociale, un nuovo modo di produzione e
distribuzione, nuovi rapporti sociali di produzione e di potere. Anche se,
ovviamente, il famoso 1% nelle cui tasche si
concentra la ricchezza è disponibile ad atti di generosità, come creare
fondazioni che possano intervenire in diversi parti del mondo per contrastare
fame, violenza, malattie e ignoranza, non è pensabile che si vada oltre; la
virtuosità di questa generosità, infatti, contrasta con la virulenza dei
processi economici a livello mondiale del capitale finanziario, che interviene
per lenire, con atti di solidarietà e filantropia, dopo aver prodotto il disastro.
È
a questo punto che conviene fare i conti con l’ultimo libro di Secchi
(2013), dove si affrontano questioni
cruciali della questione urbana.
Come fa Secchi in questo suo lavoro ci
si soffermerà sulla situazione dell’Europa, anche se consapevoli che il mondo è
molto più grande e articolato di quanto sia l’Europa, e con l’impressione che
la centralità di questo continente sia ormai agli sgoccioli o, forse, è già tramontata.
È probabile che proprio in questo continente si avranno le
maggiori devastazioni prodotte dalla crisi economica e sociale attuale. Si può
anche sostenere che questa fragilità sia
il risultato dell’inconsistenza delle politiche di tanti governi e della UE, ma
non è escluso che poco o niente sia possibile fare a questo livello senza
affrontare i nodi ai quali si è fatto cenno in precedenza.
5.
Una conversazione con Bernardo Secchi che sarebbe stata possibile
Caro Bernardo, la
tesi principale che esponi in questo tuo ultimo lavoro é molto forte e
meritevole di approfondimento, anche perché se ho capito bene, proponi un
rovesciamento dei termini: non è la crisi economica e sociale che si riverbera
sulla città, ma la questione urbana come causa di questa crisi. Sono d’accordo
con te che il “territorio non è puro specchio della società e tantomeno questa
non è puro specchio dell’economia”. L’uso dell’aggettivo puro mi ricorda le polemiche che abbiamo sostenuto con quanti,
nostri amici di Potere operaio, proponevano l’interpretazione della città fabbrica, e come, anche per
contrastare quella interpretazione e dare corpo ai molteplici aspetti della
questione urbana e delle relative lotte sociali di quegli anni, abbiamo dato
corpo alla rivista cittàClasse (titolo proposto, se non ricordo male da
Paolo Ceccarelli e accettato come “perfetto”). Il fatto che non sia puro
specchio, nella mia interpretazione significa che lo specchio, pur sporco da
altri elementi , mostra nel suo riflesso
la sostanza.
Tu sai quanto io
apprezzi il rovesciamento del senso comune, ma ho l’impressione che questa
volta in questa tesi ti sia spostato troppo. Tu scrivi che “la tesi principale
di questo libro è che le diseguaglianze sociali sono uno dei più rilevanti
aspetti di ciò che indico come nuova questione urbana e che questa è causa non
secondaria della crisi che oggi attraversano le principali economie del
pianeta”. La prima parte di questa tua formulazione mi trova d’accordo, mentre non mi convince la seconda
parte, causa non secondaria scrivi, e
sebbene non affermi che sia l’unica causa, comunque a questa dai molto peso.
Una prima questione ti pongo con
una domanda banale: tu pensi che se la città non fosse permeata dalle
diseguaglianze sociali non avremmo avuto la crisi? O in altra forma, come non
poteva essere investita dalle diseguaglianze sociali la città, dato che la
crisi ha portato ad una forte redistribuzione della ricchezza a favore dei
pochi e contro i molti? Francesco: “Negli anni più recenti il territorio e il tempo
sono però apparsi teatri di eventi tra di loro irriducibili, che la prossimità
spaziale e la successione temporale non riuscivano a collegare, articolare e
spiegare. Le specificità geografiche, storiche e culturali dei differenti
luoghi (…) hanno assunto il carattere di elementi di resistenza nei confronti
di più generali leggi di movimento dell’intero sistema economico, sociale e
politico e della loro pervasività”.
(Secchi, 1987). Riconosco che nel momento in cui scrivevi queste parole
queste stesse potevano essere condivise, ma era il 1987, oggi come tu stesso
hai riconosciuto, la situazione è completamente mutata. Certo, Francesco,
infatti ho scritto: “l’eccesso di
accumulazione finanziaria e il suo distacco dalla produzione, come l’eccesso di
accumulazione immobiliare, ma anche la mobilità internazionale del capitale, di
dollari in cerca di rendita, renderanno assai difficile, se non si riuscirà a
disegnare un diverso percorso di crescita e sviluppo, raggiungere i livelli di
occupazione e di benessere degli anni sessanta e settanta del secolo scorso”
(Secchi, 2014). I livelli di benessere e di occupazione non sono quelli di
allora e non sono più raggiungibili, non mi pare poco come effetto sulla città.
Ma nella tesi citata io
riconosco un tuo pensiero forte, una specifica modalità di interpretazione
dell’urbanistica, esplicitamente offerta nelle prime pagine della tua Prima lezione di urbanistica (2000) “Ne
discende che l’idea di urbanistica che propongo è quella di un sapere, più che
una scienza, un sapere relativo ai modi di costruzione, continua modificazione
e miglioramento dello spazio abitabile della città in particolare. (…) Può
sembrare poco e riduttivo, ogni termine, in questa descrizione della mia idea
di urbanistica. Può sembrare allo stesso tempo limitante e poco preciso, troppo
vago. Ma corrisponde esattamente a ciò che voglio dire dell’urbanistica. Essa
riguarda aspetti limitati e locali del mondo che ci circonda, e
contemporaneamente, è curiosa, aspetta suggerimenti e interpretazioni che degli
stessi aspetti hanno fornito le diverse epoche e i diversi soggetti, individui,
gruppi sociali e discipline”. Si può
convenire che l’urbanistica si occupi di “aspetti limitati e locali del mondo”
e che non sta nella sua azione di cambiare la società; essa, come mi piace
dire, può operare una mitigazione dei
peggiori effetti del nostro modo di produzione, ma non può cambiare la società.
Mi ricordo l’irrisione con cui definivamo alcune posizioni come la “strada
urbanistica per il socialismo” (e forse eravamo poco generosi non verso l’idea
ma verso le persone). La “continua
modificazione e miglioramento dello spazio abitabile della città” mi
paiono essenziali per cercare di intervenire sugli effetti della crisi, ma non
sulle cause, e so che su questo sei d’accordo, ma allora in che senso la
“questione urbana è causa non secondaria della crisi che oggi attraversano le
principali economie del pianeta”?
Se avessi cercato con attenzione
nel mio recente testo (La città dei
ricchi e la città dei poveri) avresti forse potuto trovare qualche risposta
quando scrivo “L’emergere oggi di una specifica questione urbana articolata
attorno a temi tra di loro difficilmente separabili, come quelli delle
diseguaglianze sociali, del cambiamento climatico e del diritto all’accessibilità
mostra qualcosa di importante e cioè che lo spazio, grande prodotto sociale
costruito e modellato nel tempo, non è infinitamente malleabile, non è
infinitamente disponibile ai cambiamenti dell’economia, delle istituzioni e
della politica. Non solo perché vi frappone la resistenza della propria
inerzia, ma anche perché in qualche
misura costruisce la traiettoria lungo la quale questi stessi cambiamenti
possono avvenire”.
Voglio sottolineare questa tua
ultima osservazione che mi pare sottile, soprattutto se la colleghiamo alle tue
conclusioni, ma non mi convince, forse perché sono molto più scettico e
pessimista di te. Certo “traiettoria” è termine in qualche modo preciso se
applicato alla fisica, ma nel significato traslato nel quale lo usi è vago.
Se vado alla conclusione di
questo tuo libro, che ho trovato ricchissimo di osservazioni acute, mi ritrovo
nella stessa contraddizione: di essere molto d’accordo nell’analisi ma
perplesso sulla prospettiva. Nell’analisi scrivi: “Raramente si vuole accettare
che le politiche urbane e del territorio sono ovunque parte ineludibile di più
ampie visioni e azioni di biopolitiche; che la città, da sempre immaginata come
lo spazio dell’integrazione sociale e culturale per eccellenza, è diventata,
negli ultimi decenni del ventesimo secolo, potente macchina di sospensione dei
diritti dei singoli e di loro insiemi. Questa politica, come tutte le
politiche, ha richiesto una ideologia e una retorica: l’ideologia del mercato e
la retorica della sicurezza”.
E facendo riferimento ad un
rapporto del National Resource Committee (Our
Cities. Their Role in the National Economy) presentato nel 1937 al
presidente degli USA, nel quale le città erano riconosciute come fondamentali
per la ripresa dell’economia degli USA, “per
la grande quantità di capitale umano che vi si trova, distribuito in un largo
spettro di competenze”, da cui l’opportunità di predisporre “un grande piano di attrezzature pubbliche, di
recupero dei quartieri più poveri, di costruzioni di abitazioni”, ne deduci che le città, per le stesse ragioni,
sono anche oggi una grande risorsa. “Le città e le grandi aree urbane sono
ancor oggi una risorsa: una risorsa riciclabile e rinnovabile, che meriterebbe
maggior attenzione da parte delle politiche nazionali e sovranazionali”. Che meriterebbe maggiore attenzione,
d’accordo, ma non merita attenzione anche ricordare che, nonostante le notevoli
risorse utilizzate negli USA, quel paese ha dovuto attendere l’ampliamento
della spesa in armamenti per uscire effettivamente dalla crisi? Non nego che la politica di espansione della spesa
pubblica ha avuto effetti positivi. Ma oggi la situazione sociale e politica è
paragonabile a quella?
Non mi riferisco a te, ma
considero cinico ogni ragionamento che assume la crisi come un’opportunità, non
solo per la mancanza di rispetto verso quanti da questa crisi sono colpiti
duramente, ma perché non è una retorica che può funzionare. L’assenza di
coesione negli antagonismi, una filosofia di individualismo estremo, la
mancanza di corpi intermedi, l’insicurezza sociale non militano per una forte
ripresa politica ed economica di obiettivi di trasformazione.
Nelle ultime righe sostieni di
“intravedere i sintomi e le potenzialità di tale trasformazione”, ma la tua
lucidità ti fa dire “può darsi che nel prossimo futuro le cose vadano sempre
peggio”. Io credo sia così, ma questo non implica l’abbandono della riflessione
e dell’azione.
Caro Bernardo, io credo che il
tuo lascito sia importante, e lo sia soprattutto questo tuo ultimo lavoro su La città dei ricchi e la città dei poveri.
Io l’ho preso da un lato, ma a sguardi diversi può dire anche altre cose. Leghi
la tua riflessione alla professione e alla disciplina, così alimenti una
speranza, che, nonostante il pessimismo, condivido.
6.
Una prospettiva
Per concludere questo testo si assume la prospettiva
positiva di Bernardo Secchi (anche 2010) per misurarne, da un diverso punto di
vista, il potenziale. Una città, ben organizzata, con una rilevante ed equa
distribuzione spaziale di servizi collettivi, con trasporti che ne aumentino la
permeabilità, con rilevanti spazi verdi, con un sistema di reti che
garantiscano igiene e drenaggio, con aria pulita e che attraverso politiche
pubbliche tenda a ridurre le differenze economico-sociali e promuova
occupazione è una città che contribuisce a combattere la crisi. C’è in questa
formulazione, che traduce alcuni dei discorsi di Bernardo Secchi, un rifiuto netto del catastrofismo e la
convinzione, come egli spiega, che solo una “nuova alleanza” disciplinare (non
solo urbanisti con economisti e sociologi ma anche con geografi, geologi,
idraulici, ecologi, ecc.), possa realizzare la città di cui c’è bisogno.
Se da una parte una nuova alleanza disciplinare può
sicuramente migliorare l’intervento di trasformazione, non credo che sia
sufficiente. Consapevolmente o meno, potenti forze sono oggettivamente
mobilitate a che la città declini: si potrebbe forse avanzare la tesi che nella
sua nuova forma il capitalismo non ha “bisogno” della città, così come è conosciuta.
Le peggiori distopie che ci sono state offerte dalla filmografia (per esempio Fuga da New York) e da tantissimi
racconti di fantascienza ci possono venire in mente, ma la realtà futura ci
appare meno drammatica ma meno fantastica.
La relazione tra capitale e città, si è visto, è
stata caratterizzata dal prevalere della
produzione capitalistica sui modi di essere della città. Pur non potendo
eliminare le contraddizione che esso stesso produceva, il capitale aveva
bisogno della città (concentrazione di manodopera, rapporti tra le varie
industrie, servizi di trasporto, mezzi per la riproduzione della forza lavoro,
ecc.), e quindi si adattava “politicamente” al suo continuo cambiamento ma
anche alla sua conservazione, disposto a qualche “sacrificio” (per esempio in
termini di stato sociale). Questo è valso fino a quando la valorizzazione del
capitale è stata legata allo “sfruttamento” attraverso la produzione materiale,
ma cosa succede quando la valorizzazione del capitale diventa prevalentemente
finanziaria?
C'erano state delle avvisaglie, dei sintomi, ma non
si è stati in grado di coglierli: quando alcune città si sono trasformate in
“città di servizi” si doveva riflettere (ma non si poteva, mancava
l’immaginazione) sul fatto che il capitale specializzava alcune città per i suoi nuovi interessi, mentre sembrava
poco interessato alle altre. Non sostengo che si è trattato di un processo
consapevole, ma esso è stato oggettivo e seguiva una sua logica.
Quando il capitale diventa prevalentemente (10 a 1)
un capitale senza fabbriche, senza uffici e senza operai, quando la sua
valorizzazione è prevalentemente
finanziaria, allora il rapporto con la città e il territorio si
modifica. Il capitale passa dallo sfruttamento alla razzia e per far questo
utilizza direttamente gli apparati statali, che, da una parte, lo devono
sostenere nei momenti di disastri (per esempio fallimenti di banche) e,
dall’altra parte, devono “tosare le pecore” per poter pagare gli interessi dei
debiti sovrani e garantire la finanza
che anche i debiti privati saranno onorati.
Il capitale, nella sua globalità, oggi non sembra
aver bisogno di masse di operai da sfruttare, di organizzare fabbriche, ma
soltanto di algoritmi intelligenti che permettano di realizzare diecine di
migliaia di transazioni finanziarie al minuto, di rapaci esperti di finanza in
grado di inventare sempre nuovi strumenti oggettivamente truffaldini. Esistono
ancora le produzioni materiali, ma esse non sono significative rispetto
all’intera valorizzazione del capitale, esse servono a rispondere a domande
essenziali o a domande sociali di esibizione, ma soprattutto servono a
costituire le greggi da tosare (parzialmente soddisfatte da redditi apparenti
prima della tosatura)
Nello stesso tempo le nuove ricorrenti tecnologie determinano
possibilità di produzioni con l’impiego di sempre minore di forza lavoro. La
fabbrica senza operai di cui si è detto è un esempio estremo, mentre il robot
familiare sarà la nuova frontiera del lusso. Ma l’innovazione non sposta posti
di lavoro dalla produzione materiale ai servizi, perché anche questi sono
investiti dagli stessi processi, e quando si spulciano le pubblicazioni
sulle “nuove professionalità” future si
scopre che i “servizi”, molto spesso, recuperano l’etimologia del termine
(prestare opera ad un padrone) o si sbizzarriscono in fantastiche previsioni[9].
In realtà si fa fatica a prendere coscienza di questa nuova realtà del capitale, non per
caso le politiche più avanzate per “uscire” dalla crisi , di fatto, propongono
delle soluzioni che ipotizzano ancora
che il processo di valorizzazione del capitale sussista ancora
nella “produzione” materiale (il
ridicolo estremo è la presentazione della salvaguardia ambientale come
un’occasione di business).
In questa nuova fase del capitalismo che cosa stanno
diventando le città, quale evoluzione futura è possibile immaginare per loro?
Intanto la città non è più la grande concentrazione
di lavoro e capitale. Tale resta ancora nei paesi di nuovo sviluppo, ma anche
in questi casi la tendenza al decentramento, alla frammentazione produttiva e
l’innovazione tecnologica ridurranno
questa concentrazione. In realtà in città si ha sempre più la concentrazione di
forza lavoro senza capitale; la forza lavoro resta una variabile urbana, ma la
sua caratteristica principale per il futuro, a meccanismo economico-sociale
immodificato, sembra essere la
disoccupazione o forme di occupazione marginale e insicura. Il capitale
produttivo, facendosi forte delle nuove tecnologie che ne permettono la
gestione e il controllo anche a distanza, è emigrato in spazi non urbani o alla
ricerca di vantaggi competitivi (salari più bassi) di breve durata. La
“fabbrica” sostanzialmente non è più un oggetto urbano. Le prove a contrario
che possono essere portate a questa affermazione non tengono conto delle
tendenze in atto. Il capitale finanziario, come è noto, non ha bisogno di una
casa, esso è estremamente mobile e spesso puro “nome” o, se si preferisce, pura
annotazione contabile.
La mancanza del rapporto capitale/lavoro concentrato nella città, con tutti gli elementi di
collaborazione e di conflitto che questa duplice presenza ha generato in
passato (e che ancora genera
occasionalmente), determina una modificazione sostanziale della natura della
città: non più luogo di produzione ma solamente luogo di consumo. Si osservi
che il conflitto sempre più raramente investe il rapporto capitale/lavoro e
sempre più quello tra popolazione e governo (nazionale e locale), assunto come
il responsabile della situazione, come se il capitale fosse stato espulso
dall’orizzonte della contestazione; è probabile si tratti di un esito della sua
“invisibilità”.
Ma se fosse
vero che è stata la classe sociale “media” (qualsiasi cosa con questo termine
si identifichi e rappresenti) che ha alimentato l’incremento del consumo fino
all’affermarsi di quella che è stata definita l’era del consumismo, questo ora sarebbe un problema, dato
l’assottigliarsi di questa classe. La macchina del consumo, inoltre, tende a
viaggiare a bassa velocità, data la contrazione dei redditi per il crescente
prelievo fiscale necessario per soddisfare gli impegni che gli Stati hanno
assunto verso la finanza internazionale, contraendo i debiti sovrani per effetto della crisi
fiscale dello stato e per il pagamento dei debiti “privati” contratti dalle
famiglie (mutui, carte di credito, ecc.).
Le trasformazioni del capitale, ovviamente, inducono
rilevanti trasformazioni sociali, la prima delle quali è costituita dalle
crescenti diseguaglianze, che pur basandosi su diseguaglianze economiche, si proiettano, ovviamente, nel
campo della cultura, della professionalità, delle opportunità, delle relazioni
e della salute.
Tali diseguaglianze incentivano la divisione sociale
dello spazio e la segregazione, una divisione dello spazio che ricopia sulle
differenze sociali anche differenze nella dotazione dei servizi collettivi,
nell’accessibilità e, anche, nella disponibilità e qualità dei servizi privati.
Non si è più di fronte a quelli che un tempo si erano classificati come
quartieri dormitorio, ma piuttosto a zone di degrado alle quali si
contrappongono le zone riservate ai ceti ricchi (zone più o meno circondate da
muri, come le gated community). Ma,
contemporaneamente, mentre il luogo dove si abita è determinato dal mercato
(che mette ciascuno al posto suo), cioè dai prezzi delle abitazioni, questi
luoghi sempre meno costituiscono i centri di vita, soprattutto per le nuove
generazioni. I giovani spesso si aggregano nei luoghi di residenza (fino a
formare delle “bande”), altri considerano insopportabile la propria condizione,
nell’uno e nell’altro caso valicano i
confini spaziali definiti dalla propria condizione socio-economica e cercano di
usare la città tutta, invadendo anche i luoghi che un tempo erano resi a loro
inaccessibili dal condizionamento sociale.
Paradossalmente quello che prima era il contenuto
ideologico dell’apparato città (la città di tutti, la città è libertà, ecc. )
diventa dato fattuale, trasformando l’ideologia in programma di vita. Un
fenomeno che si può considerare per molti versi positivo (rottura dello schema
sociale imposto), una sorta di democratizzazione della città, ma che configura
modi di vita epidermici, formali più che sostanziali (liquidi direbbe Bauman) e spinge i ceti ricchi a rinchiudersi
sempre più nei loro quartieri e di fatto a rifiutare la città. Bisogna inoltre
aggiungere che questa situazione in molte città è aggravata dall’arrivo di
immigrati che non trovano quelle opportunità che si aspettavano e che vanno ad
ingrossare la quota di popolazione senza lavoro o con lavori marginali.
La città moderna, pur caratterizzata da contrasti
sociali ed economici, pur diversificata, spesso piazza di conflitti, risultava
un mix variegato e ricco, talvolta esplosivo, mentre la città
contemporanea con la sua rafforzata
tendenza alla polarizzazione accompagnata dalla frammentazione sociale,
appare costituita da ceti sociali non
comunicanti neanche conflittualmente e rischia il deperimento della sua qualità
fondamentale: la convivenza.
Infine le condizioni ambientali proprie della
singola città, nonché gli effetti dei cambiamenti climatici con la
moltiplicazione di eventi estremi, rendono più complessa la situazione delle
città e abbassano notevolmente la loro vivibilità (benchè non in modo omogeneo in ogni sua parte; il proverbio
dice che “piove sempre sul bagnato”).
Su questo amalgama così complesso plana la questione
della sicurezza. L’insicurezza ha qualche fondamento oggettivo: la miseria, la
disgregazione sociale, la solitudine sono territori di cultura per azioni
illegali e criminali, ma più di quanto non si creda essa costituisce un
costrutto sociale (politico) che
addebita al “diverso” (immigrato, di altra religione, barbone, gay, ecc.) la
propria condizione; il che da una parte genera, appunto, insicurezza e paura e,
dall’altra parte, fa maturare la coscienza del “giustiziere” (ronde, bande di
“castigatori”, ecc.), che rende ancor meno sicura la vita urbana. Costrutto
politico che devia l’attenzione dei singoli e dei gruppi sociali dai reali e più
importanti problemi.
In questa situazione sarebbero necessari crescenti
interventi pubblici (nelle attrezzature urbane, nei servizi, nell’edilizia,
ecc.) mentre questi tendono a contrarsi in ragione delle sempre minori risorse
disponibili da parte della pubblica
amministrazione; il WS urbano è ovunque in sofferenza e non appare neanche
sufficiente per una politica di contenimento. Gli appelli, spesso intellettualmente
elaborati ma in realtà banali, all’esercizio della propria singola volontà per
affermarsi e contribuire a contrastare la crisi, se da una parte invitano ad
una valutazione delle proprie potenzialità, che è sempre cosa buona, dall’altra
continuano ad esaltare l’individualismo estremo al grido di battaglia
“arricchitevi” (un’illusione che fa venire in mente altre esperienze e altri
disastri).
Questi paiono i connotati principali della condizione urbana oggi. Mentre in alcune
situazioni la realtà si avvicina a quella descritta, in altre sembra lontana,
ma appare come muoversi in questa direzione. Il dato di movimento, comunque,
pare questo.
In una situazione che può scoraggiare e spingere
all’inerzia e ad un’attesa messianica (foriera di disastri politici di cui si è
fatto esperienza) operare si deve, ma operare significa assumere in tutta la
sua complessità la realtà. Fino a quando non interverranno provvedimenti
politici tesi a frenare (eliminare) la voracità del capitale finanziario, fino
alla costruzione di un nuova forma di produzione, la realtà nella quale ci si
trova ad operare nella città è quella descritta e ogni ipotesi di intervento
deve assumere la consistenza di tale realtà nella consapevolezza della sua
parzialità. Quello di cui ci sarebbe
assolutamente bisogno sarebbe un
nuovo protagonismo istituzionale che sappia fare scelte selettive ed adeguate
alle necessità.
Nessuna singola città potrà contrastare il
meccanismo di valorizzazione del capitale al quale si è fatto cenno, ma
ciascuna amministrazione dovrebbe operare in controtendenza. Sembra prevalere oggi,
per esempio, un indirizzo di restringimento dei meccanismi democratici, mentre
in parte della popolazione si fanno esperienze di protagonismo politico. Primo
compito sarebbe quindi quello di forzare i limiti della democrazia delegata per
allargarla verso forme di democrazia diretta e verso forme di
responsabilizzazione diretta dei cittadini nella gestione di beni collettivi.
Un esempio: la tendenza ad attivare forme di gestione diretta di aree pubbliche
sembra una buona strada. Gli “orti urbani” sono una di queste, si deve
riconoscere che essi hanno alcuni aspetti positivi (eliminare aree incolte che
si possono trasformare in discariche, mobilitare professionalità diffuse,
garantire una gestione ambientalmente corretta e la “sorveglianza”, dotare la
città di spazi verdi attivi, ecc.); eppure li trovo equivoci, perché
suggeriscono anche un ritorno all’autoproduzione per il proprio consumo, una
forma arcaica e pre-moderna di vita.
La pressante razzia del capitale finanziario
inaridisce le disponibilità di risorse da parte delle amministrazioni
pubbliche, qui gli equivoci tendono a non dare ragione alla necessità di
guardare con durezza la realtà. L’idea che la carenza delle risorse pubbliche
possa essere “sanata” da partenariati pubblici/privati non tiene conto che gli
investitori privati guardano ai servizi collettivi come una fonte molto lucrosa
di investimento (uno studio della Deutsche Bank indicava i servizi pubblici di
molte città italiane come occasione di lucrosi investimenti privati) e che per
la collettività non si tratta mai di un buon affare (i casi virtuosi sono molto
pochi). È più facile, come già
osservato, che il partenariato si concretizzi per la realizzazione di “grandi
eventi”, che determinano non necessari
processi di trasformazione urbana e territoriale, e che hanno per i
“finanziatori” un ritorno diretto in termini di profitti e un ritorno indiretto
in termini di riconoscimento pubblico.
Una situazione simile si manifesta nel settore delle
abitazioni: scarsissime risorse pubbliche investite, mentre il settore privato
di produzione edilizia si indirizza sempre più verso l’edilizia di lusso dove è
crescente la domanda. I ricchi di oggi si comportano come quelli che uscivano
dalla povertà ieri: la roba era
l’obiettivo e prima di tutto la casa. Così loro comprano case di lusso in ogni
posto, a torto o ragione, ritenuto simbolico di status: Manhattan, Dubai,
Londra, ecc.
Se così fosse, si tratterebbe, allora,
di usare le risorse scarse (si dice così) per colpire le situazioni di
maggior sofferenza. Oggi il punto più grave sembra quello della iniqua
sperequazione sociale, è in questo settore che le amministrazioni devono
intervenire.
La questione urbana è sicuramente anche una
questione urbanistica, e se la nuova alleanza disciplinare, proposta da Secchi,
può aiutare gli urbanisti a prospettare migliori progetti di città, ciò non
determina automaticamente una migliore città. Come argomenta Oriol Nel.lo [10]
la domanda che la popolazione manifesta è per
maggior città ma anche per una diversa città. Maggiore e diversa non è poco.
Il presente, sottolineava Marx, ma non è l’unico, è
una combinazione di passato, presente e futuro. Gli elementi del futuro, in
nuce, sono tra di noi, sia in termini di vere e proprie nuove esperienze
sia in domande solo parzialmente soddisfatte. Sono proprio queste schegge di
futuro che meriteranno l’attenzione, l’intelligenza progettuale e la capacità
immaginativa degli urbanisti. Non sto parlando dell’invenzione fine a se
stessa, non sto parlando di una qualche idea per alimentare la sperimentazione
senza fondamento, ma mi riferisco ad un'analisi attenta dei connotati specifici
della nuova questione urbana, dei tentativi che, indipendentemente, gruppi di
cittadini fanno per costruire un nuovo uso della città, del peso che la crisi
ha su individui, famiglie e gruppi, sulla necessaria convivenza, non sempre
priva di contrasti, tra persone con diverse esperienze di vita e di cultura; e
ancora un'analisi della necessaria condivisione dello spazio urbano, e della nuova
“forma” da dare allo spazio pubblico (squisito tema da urbanista), del
contrasto da portare alla divisione sociale dello spazio, della necessaria
dotazione di servizi omogenei nelle singole parti di città, delle nuove forme
di mobilità, della nuova struttura demografica.
Questi elementi sono nuovi? Sicuramente no, ma
assolutamente nuova è la forma in cui il
singolo fenomeno si presenta oggi; si potrebbero fare molti esempi, come l’accresciuta
quota di popolazione anziana, il modificarsi dell’uso dello spazio pubblico e
segnatamente della piazza, la questione dell’abitazione che torna all’ordine
del giorno, la visibile presenza di culture diverse che pongono domande di diverse tipologie spaziali, il
peggioramento dell’ambiente, che richiede interventi eccezionali e di
adattamento.
La crisi economica non è una buona situazione per
costruire più e migliore città, né l’organizzazione dello spazio è una adeguata
diga per frenare lo sfaldamento della società prodotto dalla trasformazione del
capitalismo, ma il lavorare su queste tematiche può far maturare la
consapevolezza che il vortice delle trasformazioni del modo di produzione del
capitale potrebbe trasformarsi in un
tornado di grande distruzione.
Riferimenti
ai testi di Bernardo Secchi
- 1986, “Una
nuova forma di piano”, in Urbanistica,
n.82,
- 1987,
“Territorio economia e società”, in Urbanistica,
n. 86
- 1989, Un progetto per l’urbanistica, Einaudi,
Torino
- 2000, La prima lezione di urbanistica,
Laterza, Bari
- 2005, La città del ventesimo secolo, Laterza,
Bari
- 2010, “A
new urban question” in Territorio, n.
53
- 2013, La città dei ricchi e la città dei poveri, Laterza,
Bari
- 2014, “Per
un’agenda urbana e territoriale” in A.G. Calafati (a cura di) Città tra
sviluppo e declino, Donzelli, Roma
[1] Per
una breve bibliografia sul tema vd. Calabi, l’introduzione a Castells, La questione urbana, Marsilio, 1974
[3] Il testo di Castell ha avuto una
rilevante influenza sulla mia generazione e il tema, in quella sede delineato,
ha costituito, nella Scuola di Venezia, la base di sempre maggiori
approfondimenti scientifici e di riflessioni politiche, come questione inerente
l’intervento di organizzazione del territorio. Di quella scuola Bernardo Secchi
faceva parte pur
con
proprie sottolineature.
[4] “Le
politiche di welfare sono così poste al centro di un secolo lungo ma
discontinuo, cui danno forse un contributo originale. Che esse abbiano
profondamente inciso sulla città fisica e sulla sua immagine non può essere
messo in dubbio: i programmi di edilizia economica e popolare, ad esempio,
cercano ovunque, in questo periodo, di costruire una città pubblica che anche
ostensivamente si opponga alla città privata; attrezzature urbane, asili,
scuole, ospedali, parchi e giardini, terreni e attrezzature per lo sport
costruiscono una nuova geografia della città; le nuove infrastrutture della
mobilità modificano gli idioritmi, le
temporalità di ciascun gruppo e individuo, danno luogo ad una nuova percezione
e concezione del tempo e dello spazio e trasformano radicalmente le domande che
ciascuno pone alle politiche della città” Secchi, 2005)
[5] J. O’Connor, La crisi fiscale dello stato,
Einaudi, 1973
[6] Nei film di Ken Loach, per esempio, vengono spesso messe in scena le tragedie
umane di questa fase storica in Inghilterra.
[7] “Considero
questo un punto importante e vorrei fare una citazione testuale: “l’eccesso di accumulazione finanziaria e il
suo distacco dalla produzione, come l’eccesso di accumulazione immobiliare, ma
anche la mobilità internazionale del capitale, di dollari in cerca di rendita,
renderanno assai difficile, se non si riuscirà a disegnare un diverso percorso
di crescita e sviluppo, raggiungere i livelli di occupazione e di benessere
degli anni sessanta e settanta del secolo scorso” (Secchi, 2014).
[8] A. Font, F. Indovina, N. Portas (a cura
di), L’explosio
de la ciutat, COAC publicacion, Barcellona, 2004 (in italiano: L.
Fregolent, F. Indovina, M. Savino, ( a cura di ) L’esplosione della città, Compositori, Bologna, 2005
[9] Di quante guide specialistiche in viaggi galattici ci
sarà bisogno? o di Responsabile
della gestione e dell’organizzazione della vita digitale, o di Broker del
tempo, o ancora di Assistente sociale per social network?
[10] Oriol Nel.lo , Ciutat
de ciutats. Reflexions sobre el procés d’urbanització a
Catalunya, Barcelona, Empúries,
2001; Ordenar el territorio. La experiencia de Barcelona y
Cataluña, València, Tirant lo
Blanch, 2012.