giovedì 22 maggio 2014

Euro, maledetto euro

Diario 261



Euro, maledetto euro 
I test di ammissione per le facoltà a numero chiuso 
Il processo popolare promesso da Grillo: l’intolleranza al potere 


Euro, maledetto euro

In occasione della campagna elettorale per il Parlamento europeo, spesso viene avanzata una richiesta politica di “abbandonare” l’euro, essendo la moneta unica responsabile del disastro economico del nostro paese. Si fa strada tra le gente il convincimento che tutto il male dipenda dall’euro, mentre tornare alla lira risolverebbe i problemi. 

Si tratta di una proposizione opportunistica, si scarica su una “cosa” che tutti conoscono e maneggiano, appunto l’euro, l’insofferenza per il disaggio economico e sociale senza andare alla ricerca dei veri “responsabili”.

Anche quanti si oppongono a questa “ricetta”, discettano dei meccanismi complessi e non chiari, e forse non previsti, attraverso i quali questa fuoriuscita possa avvenire. Altri, giustamente, sostengono che l’abbandono dell’euro con il ritorno alla lira che dovrebbe permette una svalutazione in modo da aiutare e facilitare le nostre esportazioni, e quindi avviare un nuovo periodo di sviluppo, trova una sua contropartita negativa nell’aumentato costo delle importazioni, ed essendo il nostro paese dipendente dalle importazioni per beni essenziali non solo all’economica ma anche alla vita quotidianità, si pensi solo all’energia, la svalutazione finirebbe per essere negativa e produrrebbe ulteriori processi di redistribuzione negativi. 

Ma tutti questi ragionamenti sono fuffa e soprattutto si vuole consapevolmente nascondere il nodo fondamentale. Si possono dividere le questioni considerando due aspetti principali. 

Da una parte va detto che la crisi da cui non si riesce ad uscire, e non parlo solo dell’Italia, è generato dalla speculazione finanziaria (fare denaro con denaro), e negli strumenti che la finanza internazionale ha “inventato” per poter concentrare sempre più il potere economico in poche mani, il famoso 1%, e scaricare, sul 99% , il costo dell’operazione.

Dall’altra parte le politiche di austerità attivate in Europa (ma non solo) hanno aggravato la crisi per il semplice fatto che esse non erano finalizzate a cercare, in qualche modo, delle soluzioni, anche parziali, alla crisi, ma solo a garantire finanza e banche. Si salvano le banche e si affamano i popoli, questa è la fondamentale guida delle politiche dell’Unione Europea e delle istituzioni pubbliche finanziarie internazionali.

Se ipotizzassimo il nostro paese fuori dallo euro e dalla UE, avremmo lo stesso enorme debito, con la stessa percentuale del 130% sul PIL, questo rapporto non cambierebbe. Ma quale sarebbe la politica del governo? Non faccio fatica a pensare che sarebbe la stessa: la sua preoccupazione maggiore sarebbe quello di garantire i “possessori” del nostro debito, con il pagamento degli interessi e il rimborso del capitale, attraverso il rinnovo del debito. La finanza ci terrebbe per il collo e non saremmo capace di scioglierci da questo nodo. Continueremmo ad avere una continua tosatura della popolazione per garantire i creditori. Faremmo delle politiche di ristrutturazione del debito? non credo; faremmo delle politiche di taglio del valore del debito? non credo; ci rifiuteremmo di pagare il debito? non credo. Non solo perché non esiste nell’orizzonte della nostra politica andare contro la finanza, ma perché un paese solo (debole e piccolo, questa è l’Italia) non potrebbe fare una tale politica con risultati positivi. La fionda di David in questo caso non funziona. 

Non è l’euro il nostro problema e dell’Europa, sono solo in parte le politiche di austerità imposte dalla UE (pensare che sia possibile una politica di espansione e che questa sia la soluzione ci pare un’illusione), il nostro problema è la finanza internazionale, ma per combatterla bisogna essere forti e grandi. È la politica della UE che va cambiata, ma non solo in termine di meno austerità, certo anche questo, ma in termini di conflitto aperto e risolutivo verso la finanza internazionale. Ma di questo non si parla.


I test di ammissione per le facoltà a numero chiuso

Il destino della nostra Università è legata al “pensiero”, diciamo così, dei relativi ministri che si succedono al ministero. Ci deve essere qualcosa di malvagio, un incantesimo ministeriale: professori ed ex rettori di università prestigiose appena si siedono su quella poltrona perdono la conoscenza che hanno, o dovrebbero avere, dell’Università.

Non sfugge neanche l’attuale ministro, il quale raccogliendo il “grido di dolore” per i test di selezione per le facoltà a numero chiuso, indica una nuova strada: tutti dentro la selezione sarà effettuata alla fine del primo anno (ma si dice anche alla fine del secondo anno) sulla base dei risultati conseguiti. 

Intanto, i test non piacciono anche al ministro perché mal fatti, o come strumento in sé? Questo non è chiaro, e sarebbe un’opinione importante. Ma tralasciamo. Una volta deciso il numero chiuso un criterio di selezione si impone. Quello proposto dal ministro mi sembra peggiore dei test.

Anche se il ministro contemporaneamente avesse garantito al primo (o ai primi due anni) di quelle facoltà una triplicazione, e anche più, degli spazi, delle attrezzature, del personale docente e di assistenza, la soluzione mi sembra barbara, da una parte, e fondata sul “mercato”, dall’altra. Barbara perché promette a chi non riuscisse di avere perso uno o due anni. Va bene che i giovani non hanno niente da fare, resteranno senza lavoro anche se laureati, ma approfittare di questa situazione mi pare cinico. Di mercato, perché fioriranno gli “istituti” che prepareranno all’esame dietro pagamento di cospicue rette quanti potranno pagare.

Questa situazione sarebbe moltiplicata esponenzialmente se la Ministra non garantisse, come fa, maggiore risorse, allora dove prima ce ne stavano 150,ora ce ne devono stare 800 o più, chi insegnava e curava 150 studenti ora non insegna e non cura 800 e più studenti. Già si parla di lezioni in video conferenze (con strumenti che si interrompono, che mal trasmettono, ecc.); le video lezioni sono uno strumento che richiede mezzi e tempi di preparazione adeguati, non basta una piccola telecamera fissa davanti alla cattedra.

Insomma un vero pasticcio, cinico, di favoreggiamento, e, soprattutto, inefficace e inefficiente. 

Forse, con impegno, si possono trovare strumenti migliori, parametri più significativi, test più sensati, ecc. Si tratta di una selezione che ha grande importanza per il paese, meriterebbe che su questa necessità si misurassero energie creative e scientifiche serie. Ma questo sarebbe troppo, basta avviare la mandria in aule inospitali e inadeguate, poi la rigidità dell’esame (di 800 o più studenti esaminati) farà la selezione. Ma come? Uno studente deve superare tutti gli esami, l’80% o quale altra percentuale. 

La ministra ha sopra il suo tavolo l’esito dell’abilitazione di professore associato e ordinario, con i ricorsi, le ambiguità, gli scandali, ecc. La selezione di massa con mezzi inadeguati genera storture, non selezione.


Il processo popolare promesso da Grillo: l’intolleranza al potere

Il farneticare di Grillo non deve essere preso sotto gamba. Non perché farà i processi popolari, ma per il clima di violenza e di intolleranza che genera.

Grillo ha sostenuto che senza il M5* oggi l’Italia sarebbe attraversata dalla violenza, mentre il movimento incanala politicamente (sia fa per dire) il malcontento popolare, il disaggio sociale, la rabbia per la disoccupazione giovanile, ecc. A me pare il contrario è Grillo ad alimentare violenza e intolleranza.

La convivenza non è assenza di conflitto, ma è sicuramente assenza di intolleranza individuale, che è quella che arma la mano non solo contro il politico, ma contro le donne, i nonni, chi ti guarda storto, ecc. 

Si può ridere della proposta dei processi popolari, si possono ricostruire tutti i motivi che non giustificano questo atteggiamento morale da parte di Grillo, ma io penso che bisogna avere preoccupazione per il clima di intolleranza che genera. Questa è una battaglia da fare contro Grillo e il suo movimento, per la convivenza, la civiltà e la libertà.



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