giovedì 12 dicembre 2013

Il movimento dei forconi e la realtà

Diario 238

Il movimento dei forconi e la realtà

Non è più sopportabile questa situazione; basta. Sono questi i sentimenti che agitano quanti in questi giorni protestano e sono scesi in piazza. Che sia un mix di forze eterogenee, che all'interno di questo movimento si siano infiltrati organizzazioni fasciste e forse anche criminali, non pare sia rilevante. Non sto dicendo che non sia rilevante per un'analisi attenta della protesta, non mi pare rilevante sugli aspetti di cui vorrei occuparmi. Una cosa è certa la sensazione che la situazione sia insopportabile è comune a chi manifesta e ad altri milioni di italiani che si trovano in seria difficoltà economica. Ma cosa è insopportabile e ancora chi viene individuato come causa di questa situazione?

Se si cercasse di rispondere a questi interrogativi forse la situazione potrebbe apparire ancora più drammatica. La diagnosi che la folla grida in piazza e che moltissimi degli italiani condividono individua nei politici e nelle istituzioni il virus di questa situazione. “Tutti a casa” gridano nelle piazze, influenzati dagli slogan martellanti del “capo” del M5*. È esatta questa diagnosi? No, non è esatta ma è giustificata.

È giustificata dalla pessima immagine che i politici danno di se stessi. Come scrive oggi Nadia Urbinati (La Repubblica) “è responsabilità della politica ridare fiducia nelle istituzioni. Mettendo fine a comportamenti che calpestano la moralità pubblica (il misuso e l'abuso delle risorse pubbliche) e all'impotenza a decidere”. Non mi pare convincente, tuttavia, quando appunta la sua attenzione sulla legge elettorale (ma forse questo dipende dalla sua professione) mestiere.

Sicuramente il porcellum ha contribuito ad allontanare i cittadini dal “palazzo”, ma non si tratta solo di questo. L'immoralità nell'uso delle risorse pubbliche da parte dei politici a tutti i livelli riempie di rabbia il popolo che protesta; ma anche la melina che i politici conducono sulla riduzione dei costi della politica non è priva di effetti negativi; ancora l'insensibilità mostrata dai politici che mentre chiedono sacrifici alla popolazione difendono i propri privilegi, contribuisce ad esasperare. Rimolarizzare i comportamenti, ridurre i privilegi (anche economici), sicuramente non risolve la crisi economica del paese, ma da il senso di una condivisione della crisi e dei sacrifici.

Ma la diagnosi non è esatta. Alle mie orecchie fa scandalo non sentire protestare contro i “padroni” (mi si scuserà questo termine disueto); neanche più le banche e la finanza e nell'occhio della protesta. Quando il giovane emarginato di Torino, spinto a cercare lavoro in Australia, descrive Torino come un deserto di opportunità, come un concentrato di povertà e emarginazione, finisce per individuare il responsabile di tutto questo nella regione e nel suo presidente, per il suo stipendio per l'uso che ha fatto delle risorse pubbliche (anche le mutande si è fatto pagare), ma non ha percezione che la riduzione a quello stato della città e del paese tutto ha anche altri responsabili (per alcuni dei quali la remunerazione del presidente della regione rappresenta lo 0,0004%).

Ma quello che mi fa scandalo, non è il sintomo, cioè l'assenza dell'individuazione dei padroni come causa del disastro, ma la mancanza di analisi della situazione che questa mancanza denota. Ormai lo dicono una buona quantità di studiosi, anche premi Nobel (cioè non pregiudizialmente contrari al capitalismo): il sistema economico sociale che abbiamo conosciuto, che ha anche avuto dei meriti anche sociali, è al capolinea; processi suoi interni, l'ingordigia speculativa, la distruzione di ricchezza operata, l'ambiente compromesso, un progresso scientifico e tecnologico che non sopporta i rapporti sociali preesistenti, sono alcune delle cause della crisi. Siamo di fronte alla “necessità” di una profonda trasformazione (rivoluzione) che dovrà riguarda almeno le modalità di produzione, i modi di distribuire della ricchezza prodotta, e la loro accumulazione, le modalità di organizzare del lavoro necessario e la sua distribuzione equa.

Un mondo con le ineguaglianza attuali, un mondo che non sa guardare al futuro se non come una speranza di ritorno al passato, un mondo che annunzia quotidianamente l'illusione di una prossima uscita dalla crisi, un mondo nella quale la catena sociale si è rotta proiettando pochi in alto e molti in basso fino alla miseria, difficilmente sopravvive a se stesso.

La percezione dello stato delle cose, non manca solo alle persone che protestano, non manca ai capi popoli che li agitano, non mancano a quei dirigenti populisti che vorrebbero approfittarne con ricette salvifiche inconcludenti, ma riguarda la gran maggioranza della dirigenza politica ed economica. Speriamo che si apprestino a leggere qualche libro e qualche articolo.

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