Milano al Futuro
A cura di Andrea Arcidiacono e Laura Pogliani
et al / edizioni, Milano, 2011
pp 326, €22,0
in Archivio di Studi Urbani e Regionali n. 101
Il volume è dedicato a Fausto Curti, con una esplorazione di
Pier Carlo Palermo e dei curatori del libro degli interessi e dei contributi di
Fausto, alle nostre tematiche. Questo è uno dei meriti di questo libro.
Di Fausto Curti sono messi in evidenza i filoni che lo hanno
visto impegnato in tanti anni di ricerca. Dallo studio delle dinamiche
territoriali (questo delle dinamiche è un modo di guardare al territorio
prezioso), alla valutazione dei progetti urbani, dalla fiscalità ai piani
strategici e alla simulazione urbana. Su ciascuno di questi campi egli ha dato
dei contributi importanti, che vanno riconosciuti anche da chi può non essere
d’accordo con le sue proposte (sui piani strategici, nonostante le sue cautele
e le sue precisazioni, mantengo una mia diffidenza).
Pier Carlo Palermo ha dato conto, oltre che dei meriti
scientifici di Fausto anche del suo atteggiamento psicologico o meglio dello stile
(gentile) con il quale entrava in relazione, non solo con i colleghi, ma
suggeriva, e la cosa è da un certo punto di vista più importante, un approccio gentile
nei riguardi della politica (compresi i committenti e i governanti).
Per gli interessi coltivati, per la disponibilità dimostrata
al confronto e alla discussione, per molti dei risultati proposti Fausto Curti
è stato un importante personalità della nostra disciplina. Se molti dei suoi
suggerimenti non hanno trovato sbocco operativo nel governo del territorio è da
iscriversi alle “avventure” della politica.
Una seconda parte del volume, chiamata Prove di riformismo, raccoglie, introdotti da Arcidiacono e
Pagliani, i contributi di studiosi come Campos Venuti, Oliva, Mazza, Pasqui,
Gaeta e Camagni. Ad alcuni di questi va riconosciuto il titolo di “riformisti
in azione” a prescindere dai contenuti proposti e dai risultati ottenuti. Giuseppe
Campos venuti esalta la legislazione della Regione Emilia, nella sua lettera e
nella sua operatività, mentre Federico Oliva mette in luce come ancora sia
necessaria un azione di riforma. Senza mezzi termini Luigi Mazza attribuisce
una responsabilità non marginale alla cultura tecnica se “il governo del
territorio attraversa un periodo di disorientamento che spesso gli impedisce di
contribuire utilmente alla conversazione sociale e di rispondere efficacemente
ai bisogni collettivi”.
Liberarsi delle retoriche del piano, egli suggerisce, per giungere alla “pianificazione spaziale”,
solo questo deve essere il compito della pianificazione senza attribuirsi compiti
che non può realizzare imputandolo dopo di inefficacia. In più sostiene che un
piano di governo del territorio sia impossibile nel caso di una grande città.
Questa affermazione appare preoccupante
se fosse vero, come io credo, che quello che abbiamo di fronte sia la
metropolizzazione del territorio, richiamata da Pasqui, e che con questa realtà
il governo del territorio dovrà misurarsi: un territorio ancora più vasto di
quello di una grande città, un territorio che richiede maggiore e migliore
governo del territorio.
Mi pare che quasi tutti gli autori citati convengano
nell’accettare la dizione “governo del territorio” a preferenza delle altre
dizioni (urbanistica, pianificazione territoriale, ecc.). Proverei a suggerire,
senza rinvii a citazioni, che la dizione più corretta debba essere “governo
delle trasformazioni del territorio”, un formulazione che mette in luce non
solo un continua dinamica del territorio, ma anche la necessità (per fare
“governo”) di studiare e individuare le tendenze in atto per facilitarle,
corregerle e finanche vietarle. Senza questa analisi le buone intenzioni
finiranno per lastricare la strada per l’inferno.
Luca Gaeta presenta un riflessione sui “tempi” di ritorno
dell’investimento immobiliare e come questi tempi non siano irrilevanti se
coniugati con i tempi della pianificazione. Roberto Camagni si occupa della
rendita partendo dalla considerazione che “la città è un grande bene
collettivo, creato e definito da investimenti e decisioni sia pubbliche sia
private”, cosa sulla quale non si può non essere d’accordo. La sua attenzione
si focalizza su come “ripartire” i vantaggi tra privato e pubblico, ma senza
una definizione di “pubblico” come governo delle trasformazioni territoriali,
il tutto si riduce a meccanismi, più o meno raffinati, più o meno efficaci, di
redistribuzione, ma a monte ci sta la determinazione (strategica, oserei dire)
di un futuro che non mette tutto sullo stesso piano. Ma definire funzioni
diverse da allocare nel territorio, in funzione di un progetto futuro di città,
determina situazioni di redditività molto differenti che difficilmente possono
trovare posto in meccanismi di riequilibrio dei vantaggi privato/pubblico.
La terza parte del volume è dedicata a Milano, soprattutto
al suo processo di pianificazione. Pier Carlo Palermo torchia, da par suo, il
piano approvato dalla giunta Moratti e ne mette in luce incongruenze,
indeterminatezze, inefficacie. Sembra paradossale ma un piano, qualsiasi sia la
sua ambizione, che mette su carta un deficit di finanziamenti per i servizi
pubblici di 9,7 miliardi di euro dichiara, papale papale la sua inefficacia e insieme la sua velleità.
Palermo mette in evidenza l’approccio quantitativo-espansivo che contraddice
ogni tendenza in atto, e che non crea condizioni di vita e qualità, da
rendere attrattiva la città e che quindi
assegna il carattere di mitologia alla sua stessa espansione. Né tanto meno,
argomenta, il Piano può rappresentare una sorta di manifesto del liberismo
urbano, di questo infatti mancano i connotati essenziali: “si tratta piuttosto
di un confuso intreccio di indirizzi permissivi e scelte pubbliche
discrezionali, che sembrano tendere a un solo obiettivo: non liberare energie
di mercato, nel rispetto liberale di alcune fondamentali autonomie individuali,
ma cercare di incrementare per quanto possibile, sulla carta, il monte diritti
di edificazione”. Una critica, insomma, che denunzia un furbizia politica
ammantata di grosse potenzialità, inesistenti, di edificazione. Aspetto questo
che si riconnette alla “promessa” del piano di “raggi verdi”, che appare
irrealizzabile, connessa com’è alle previsioni di crescita edilizia
“chiaramente sovradimensionate”.
Il Piano, sottoposto alla critica di Palermo, mostra tutta
la sua inconsistenza, gli errori di prospettiva, la pochezza metodologica e la
strumentalità politica. Lo scritto di Palermo si conclude con una breve nota
sulla “nuova questione urbana” sulla qual vorrei tornare in conclusione.
Nel loro saggio Arcidiacono
e Pogliani mettono in luce le difficoltà del precedente piano, definito nel
Documento di Inquadramento (DI): “le difficoltà più evidenti sono emerse nello
svolgimento delle procedure negoziali e valutative. Gli indirizzi e gli
obiettivi del DI, per quanto apprezzabili nel senso, sono stati caratterizzati
da un’eccessiva genericità e astrazione spaziale che ha limitato di molto la
forza di riferimento nell’ambito della concertazione negoziale”. Un gentile de
profundis di quella esperienza. I due autori riprendono da punti di vista
diversi la critica del piano Moratti già sviluppata da Palermo. In particolare
si applicano a demolire le false retoriche del piano. In particolare mettono in
luce che la dimensione metropolitana è solo evocata senza nessuna ricaduta operativa;
sui “raggi verdi” mettono in luce che la “riduzione del consumo di suolo” è affermazione
con poco senso in quanto il suolo urbanizzato non è rinnovabile; circa il piano dei servizi chiariscono la rinunzia ad
ogni dimensione programmatoria con in più l’insostenibilità finanziaria del
progetto pubblico, già messa in luce da Palermo; infine, mettono in luce l’inconsistenza
regolatrice della città esistente. Il saggio si conclude con una
raccomandazione, forse più un’esortazione, alla nuova giunta di iniziare un
nuovo percorso urbanistico che abbia i suoi punti di forza nella dimensione
metropolitana e nel welfare urbano.
Ancora sulla dimensione metropolitana “negata” si applica il
saggio di Isabella Susi Botta. Paolo Galluzzi e Piergiorgio Vitillo conducono
un’analisi di dettaglio mettendo in relazione la perequazione e le
trasformazione urbane analizzate su specifici progetti e concludendo che la
rinunzia ad un progetto esplicito per la città esistente è coerente con la mancanza di un progetto futuro per la città.
Federico Oliva, nel rivendicare la “bellezza di Milano”,
rianalizza i limiti del piano e individua in due “reti”, quella della mobilità
e in quella ecologica i fondamentali assi del nuovo pino a cui la nuova
amministrazione dovrà mettere mano.
Matteo Bolocan Goldstein e Gabriele Pasqui, danno un’accentuazione
più politica programmatica al loro saggio. Intanto forniscono una disamina
molto utile e significativa delle politiche urbane in concreto delle precedenti
giunte, ma poi assumono la discontinuità
politica e cultura rappresentata dalla
vittoria di Pisapia. È da questa discontinuità che prendono le mosse per
individuare gli elementi della nuova “agenda urbana”. Per individuare questi
elementi i nostri autori partono dalle modificazioni che la città ha subito sul
piano demografico, economico e ambientale (immigrazione, invecchiamento,
trasformazione della famiglia, crisi di settori trainanti, carenza di relazione
internazionale nonostante il ruolo che Milano ha nella rete delle relazioni
economiche internazionali, ecc.). I temi sui quali suggeriscono di fissare
l’attenzione sono: lo sviluppo
qualitativo fondato sull’innovazione (il che comporta: la semplificazione
amministrativa, la riconsiderazione delle politiche di settore, azioni a favore
della ricerca e dell’università, “forma innovative di finanza di progetto”) (la
formula “forme innovative” mi lascia sempre perplesso); rendere
la città più friendly (il che comporta la riqualificazione urbana
sostenibile con rinnovo del patrimonio edilizio, la mobilità sostenibile, gli
spazi aperti); lo sviluppo di un welfare
municipale (prevenzione dell’esclusione sociale; politica della casa;
assistenza; nuove generazioni); infine la dimensione
metropolitana e l’integrazione
internazionale.
Insomma si avanza l’esigenza di un disegno complessivo della
“Milano al futuro”, che tenga conto, come già rilevato, della discontinuità
politica e culturale costituita dalla nuova amministrazione.
Vorrei riprendere il tema rinviato di nuovi strumenti di
intervento.
Pier Carlo Palermo prende le mosse sia da Secchi che ha
messo in luce un “nuova questione urbana” che richiede visioni e strumenti
rinnovati, che da Shane che mette in luce l’esistenza di “brani di paesaggi”
abitanti da una società che fa “rete” in forma autonoma e che quindi avanza
domande diverse, insomma le forme di autorganizzazione che mostrano sia la
capacità di soddisfare in autonomia i loro bisogni sia il carico che tale
autorganizzazione proietta sul governo del territorio e sulla spesa pubblica.
Palermo, mi pare, diffidi da queste posizioni e richiami
come la questione urbana presenta ancora tradizionali problemi non risolti e
che forse a questi bisognerà mettere mano (sintetizzo e schematizzo, ma non mi
pare di forzare il senso del testo).
Personalmente, in linea di massima, sono perplesso quando si
rivendica la necessità di nuovi strumenti,
il governo delle trasformazioni della città e del territorio ha bisogno, si
anche forse di nuovi strumenti, ma soprattutto di intenzioni politiche chiare. Questo
tuttavia non vuol dire che non bisogna guardare alle trasformazioni che si sono
prodotte e alle quali mi pare alludano sia Secchi che Shane. Ma c’è qualcosa di
più. Ni pare di cogliere una carenza nel testo complessivo e nei singoli saggi che,
vorrei sottolineare, non attribuisco agli autori ma piuttosto al tempo che
passa: un libro quando arriva sul tavolo del libraio già risente del tempo che
è passato. Mi riferisco, anche se qualche accenno si ritrova in alcuni saggi, all’indifferenza
manifesta rispetto alle profonde trasformazioni economiche che vanno sotto la
dizione di “crisi”. Io non credo che siamo di fronte ad una crisi
congiunturale, anche pesante, ma agli esiti di profondi cambiamenti sia della
struttura economica capitalista che delle relazioni mondali e della
distribuzione del potere internazionale. Né
mi pare che il risanamento (temporaneo) della finanza pubblica
costituisca un’epifania della fine della crisi. Se questo fosse il quadro
generale (prevalenza della finanza sull’economia reale, valorizzazione del
capitale via speculazione finanziaria, dislocamento internazionale del potere
economico, impoverimento delle masse e del ceto medio, ecc.) il nostro paese e
le nostre città, si troverebbero in una
situazione non solo marginale ma molto esposte. All’interno di questa
situazione, sempre che qualcuno non pensi che fra qualche anno tutto riprenda
come prima,
il problema di un’urbanistica per, nella e della crisi
si porrebbe in modo drammatico e urgente. Detto questo non ho ricette, so solo
che un’eventuale ulteriore deriva liberista anche in urbanistica sarebbe
drammatica per la qualità della vita delle nostre città e per la stessa
gestione democratica. Forse una riflessione collettiva in proposito potrebbe
essere salutare per la disciplina e anche per il governo delle trasformazioni
urbane.
Tornando al volume vorrei esprimere il mio apprezzamento,
nonostante qualche sovra-abbondanza, e ripetizione (ineliminabibile nei volumi
collettami). Mi sembra un utile strumento per riflettere non solo, o meglio non
soltanto, sulla pianificazione milanese, ma su molti esperimenti, elaborazioni,
pratiche (buone e cattive) e politiche che in questi anni sono stati dati per
“avanzamenti” e che alla prova del budino si sono dimostrati immangiabili.
Il volume è chiuso da un inserto fotografico apprezzabile
nella diversità di immagine che offre di Milano.
Francesco Indovina
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