domenica 22 aprile 2012

Milano al Futuro


Milano al Futuro
A cura di Andrea Arcidiacono e Laura Pogliani
et al / edizioni, Milano, 2011
pp 326, €22,0

in Archivio di Studi Urbani e Regionali n. 101

Il volume è dedicato a Fausto Curti, con una esplorazione di Pier Carlo Palermo e dei curatori del libro degli interessi e dei contributi di Fausto, alle nostre tematiche. Questo è uno dei meriti di questo libro.
Di Fausto Curti sono messi in evidenza i filoni che lo hanno visto impegnato in tanti anni di ricerca. Dallo studio delle dinamiche territoriali (questo delle dinamiche è un modo di guardare al territorio prezioso), alla valutazione dei progetti urbani, dalla fiscalità ai piani strategici e alla simulazione urbana. Su ciascuno di questi campi egli ha dato dei contributi importanti, che vanno riconosciuti anche da chi può non essere d’accordo con le sue proposte (sui piani strategici, nonostante le sue cautele e le sue precisazioni, mantengo una mia diffidenza).
Pier Carlo Palermo ha dato conto, oltre che dei meriti scientifici di Fausto anche del suo atteggiamento psicologico o meglio dello stile (gentile) con il quale entrava in relazione, non solo con i colleghi, ma suggeriva, e la cosa è da un certo punto di vista più importante, un approccio gentile nei riguardi della politica (compresi i committenti e i governanti).
Per gli interessi coltivati, per la disponibilità dimostrata al confronto e alla discussione, per molti dei risultati proposti Fausto Curti è stato un importante personalità della nostra disciplina. Se molti dei suoi suggerimenti non hanno trovato sbocco operativo nel governo del territorio è da iscriversi alle “avventure” della politica.
Una seconda parte del volume, chiamata Prove di riformismo, raccoglie, introdotti da Arcidiacono e Pagliani, i contributi di studiosi come Campos Venuti, Oliva, Mazza, Pasqui, Gaeta e Camagni. Ad alcuni di questi va riconosciuto il titolo di “riformisti in azione” a prescindere dai contenuti proposti e dai risultati ottenuti. Giuseppe Campos venuti esalta la legislazione della Regione Emilia, nella sua lettera e nella sua operatività, mentre Federico Oliva mette in luce come ancora sia necessaria un azione di riforma. Senza mezzi termini Luigi Mazza attribuisce una responsabilità non marginale alla cultura tecnica se “il governo del territorio attraversa un periodo di disorientamento che spesso gli impedisce di contribuire utilmente alla conversazione sociale e di rispondere efficacemente ai bisogni collettivi”.
Liberarsi delle retoriche del piano, egli suggerisce,  per giungere alla “pianificazione spaziale”, solo questo deve essere il compito della pianificazione senza attribuirsi compiti che non può realizzare imputandolo dopo di inefficacia. In più sostiene che un piano di governo del territorio sia impossibile nel caso di una grande città. Questa affermazione  appare preoccupante se fosse vero, come io credo, che quello che abbiamo di fronte sia la metropolizzazione del territorio, richiamata da Pasqui, e che con questa realtà il governo del territorio dovrà misurarsi: un territorio ancora più vasto di quello di una grande città, un territorio che richiede maggiore e migliore governo del territorio.
Mi pare che quasi tutti gli autori citati convengano nell’accettare la dizione “governo del territorio” a preferenza delle altre dizioni (urbanistica, pianificazione territoriale, ecc.). Proverei a suggerire, senza rinvii a citazioni, che la dizione più corretta debba essere “governo delle trasformazioni del territorio”, un formulazione che mette in luce non solo un continua dinamica del territorio, ma anche la necessità (per fare “governo”) di studiare e individuare le tendenze in atto per facilitarle, corregerle e finanche vietarle. Senza questa analisi le buone intenzioni finiranno per lastricare la strada per l’inferno.  
Luca Gaeta presenta un riflessione sui “tempi” di ritorno dell’investimento immobiliare e come questi tempi non siano irrilevanti se coniugati con i tempi della pianificazione. Roberto Camagni si occupa della rendita partendo dalla considerazione che “la città è un grande bene collettivo, creato e definito da investimenti e decisioni sia pubbliche sia private”, cosa sulla quale non si può non essere d’accordo. La sua attenzione si focalizza su come “ripartire” i vantaggi tra privato e pubblico, ma senza una definizione di “pubblico” come governo delle trasformazioni territoriali, il tutto si riduce a meccanismi, più o meno raffinati, più o meno efficaci, di redistribuzione, ma a monte ci sta la determinazione (strategica, oserei dire) di un futuro che non mette tutto sullo stesso piano. Ma definire funzioni diverse da allocare nel territorio, in funzione di un progetto futuro di città, determina situazioni di redditività molto differenti che difficilmente possono trovare posto in meccanismi di riequilibrio dei vantaggi privato/pubblico.        
La terza parte del volume è dedicata a Milano, soprattutto al suo processo di pianificazione. Pier Carlo Palermo torchia, da par suo, il piano approvato dalla giunta Moratti e ne mette in luce incongruenze, indeterminatezze, inefficacie. Sembra paradossale ma un piano, qualsiasi sia la sua ambizione, che mette su carta un deficit di finanziamenti per i servizi pubblici di 9,7 miliardi di euro dichiara, papale papale  la sua inefficacia e insieme la sua velleità. Palermo mette in evidenza l’approccio quantitativo-espansivo che contraddice ogni tendenza in atto, e che non crea condizioni di vita e qualità, da rendere  attrattiva la città e che quindi assegna il carattere di mitologia alla sua stessa espansione. Né tanto meno, argomenta, il Piano può rappresentare una sorta di manifesto del liberismo urbano, di questo infatti mancano i connotati essenziali: “si tratta piuttosto di un confuso intreccio di indirizzi permissivi e scelte pubbliche discrezionali, che sembrano tendere a un solo obiettivo: non liberare energie di mercato, nel rispetto liberale di alcune fondamentali autonomie individuali, ma cercare di incrementare per quanto possibile, sulla carta, il monte diritti di edificazione”. Una critica, insomma, che denunzia un furbizia politica ammantata di grosse potenzialità, inesistenti, di edificazione. Aspetto questo che si riconnette alla “promessa” del piano di “raggi verdi”, che appare irrealizzabile, connessa com’è alle previsioni di crescita edilizia “chiaramente sovradimensionate”.
Il Piano, sottoposto alla critica di Palermo, mostra tutta la sua inconsistenza, gli errori di prospettiva, la pochezza metodologica e la strumentalità politica. Lo scritto di Palermo si conclude con una breve nota sulla “nuova questione urbana” sulla qual vorrei tornare in conclusione.
Nel loro saggio  Arcidiacono e Pogliani mettono in luce le difficoltà del precedente piano, definito nel Documento di Inquadramento (DI): “le difficoltà più evidenti sono emerse nello svolgimento delle procedure negoziali e valutative. Gli indirizzi e gli obiettivi del DI, per quanto apprezzabili nel senso, sono stati caratterizzati da un’eccessiva genericità e astrazione spaziale che ha limitato di molto la forza di riferimento nell’ambito della concertazione negoziale”. Un gentile de profundis di quella esperienza. I due autori riprendono da punti di vista diversi la critica del piano Moratti già sviluppata da Palermo. In particolare si applicano a demolire le false retoriche del piano. In particolare mettono in luce che la dimensione metropolitana è solo evocata senza nessuna ricaduta operativa; sui “raggi verdi” mettono in luce che la “riduzione del consumo di suolo” è affermazione con poco senso in quanto il suolo urbanizzato non è rinnovabile; circa il  piano dei servizi chiariscono la rinunzia ad ogni dimensione programmatoria con in più l’insostenibilità finanziaria del progetto pubblico, già messa in luce da Palermo; infine, mettono in luce l’inconsistenza regolatrice della città esistente. Il saggio si conclude con una raccomandazione, forse più un’esortazione, alla nuova giunta di iniziare un nuovo percorso urbanistico che abbia i suoi punti di forza nella dimensione metropolitana e nel welfare urbano.
Ancora sulla dimensione metropolitana “negata” si applica il saggio di Isabella Susi Botta. Paolo Galluzzi e Piergiorgio Vitillo conducono un’analisi di dettaglio mettendo in relazione la perequazione e le trasformazione urbane analizzate su specifici progetti e concludendo che la rinunzia ad un progetto esplicito per la città esistente è coerente con la  mancanza di un progetto  futuro per la città.
Federico Oliva, nel rivendicare la “bellezza di Milano”, rianalizza i limiti del piano e individua in due “reti”, quella della mobilità e in quella ecologica i fondamentali assi del nuovo pino a cui la nuova amministrazione dovrà mettere mano.
Matteo Bolocan Goldstein e Gabriele Pasqui, danno un’accentuazione più politica programmatica al loro saggio. Intanto forniscono una disamina molto utile e significativa delle politiche urbane in concreto delle precedenti giunte, ma poi assumono la discontinuità  politica e cultura rappresentata dalla vittoria di Pisapia. È da questa discontinuità che prendono le mosse per individuare gli elementi della nuova “agenda urbana”. Per individuare questi elementi i nostri autori partono dalle modificazioni che la città ha subito sul piano demografico, economico e ambientale (immigrazione, invecchiamento, trasformazione della famiglia, crisi di settori trainanti, carenza di relazione internazionale nonostante il ruolo che Milano ha nella rete delle relazioni economiche internazionali, ecc.). I temi sui quali suggeriscono di fissare l’attenzione sono: lo sviluppo qualitativo fondato sull’innovazione (il che comporta: la semplificazione amministrativa, la riconsiderazione delle politiche di settore, azioni a favore della ricerca e dell’università, “forma innovative di finanza di progetto”) (la formula “forme innovative” mi lascia sempre perplesso);  rendere la città più friendly (il che comporta la riqualificazione urbana sostenibile con rinnovo del patrimonio edilizio, la mobilità sostenibile, gli spazi aperti); lo sviluppo di un welfare municipale (prevenzione dell’esclusione sociale; politica della casa; assistenza; nuove generazioni); infine la dimensione metropolitana e l’integrazione internazionale.
Insomma si avanza l’esigenza di un disegno complessivo della “Milano al futuro”, che tenga conto, come già rilevato, della discontinuità politica e culturale costituita dalla nuova amministrazione.
Vorrei riprendere il tema rinviato di nuovi strumenti di intervento.
Pier Carlo Palermo prende le mosse sia da Secchi che ha messo in luce un “nuova questione urbana” che richiede visioni e strumenti rinnovati, che da Shane che mette in luce l’esistenza di “brani di paesaggi” abitanti da una società che fa “rete” in forma autonoma e che quindi avanza domande diverse, insomma le forme di autorganizzazione che mostrano sia la capacità di soddisfare in autonomia i loro bisogni sia il carico che tale autorganizzazione proietta sul governo del territorio e sulla spesa pubblica.
Palermo, mi pare, diffidi da queste posizioni e richiami come la questione urbana presenta ancora tradizionali problemi non risolti e che forse a questi bisognerà mettere mano (sintetizzo e schematizzo, ma non mi pare di forzare il senso del testo).  
Personalmente, in linea di massima, sono perplesso quando si rivendica la necessità di nuovi strumenti, il governo delle trasformazioni della città e del territorio ha bisogno, si anche forse di nuovi strumenti, ma soprattutto di intenzioni politiche chiare. Questo tuttavia non vuol dire che non bisogna guardare alle trasformazioni che si sono prodotte e alle quali mi pare alludano sia Secchi che Shane. Ma c’è qualcosa di più. Ni pare di cogliere una carenza nel testo complessivo e nei singoli saggi che, vorrei sottolineare, non attribuisco agli autori ma piuttosto al tempo che passa: un libro quando arriva sul tavolo del libraio già risente del tempo che è passato. Mi riferisco, anche se qualche accenno si ritrova in alcuni saggi, all’indifferenza manifesta rispetto alle profonde trasformazioni economiche che vanno sotto la dizione di “crisi”. Io non credo che siamo di fronte ad una crisi congiunturale, anche pesante, ma agli esiti di profondi cambiamenti sia della struttura economica capitalista che delle relazioni mondali e della distribuzione del potere internazionale. Né  mi pare che il risanamento (temporaneo) della finanza pubblica costituisca un’epifania della fine della crisi. Se questo fosse il quadro generale (prevalenza della finanza sull’economia reale, valorizzazione del capitale via speculazione finanziaria, dislocamento internazionale del potere economico, impoverimento delle masse e del ceto medio, ecc.) il nostro paese e le nostre città, si troverebbero  in una situazione non solo marginale ma molto esposte. All’interno di questa situazione, sempre che qualcuno non pensi che fra qualche anno tutto riprenda come prima,  
il problema di un’urbanistica per, nella e della crisi si porrebbe in modo drammatico e urgente. Detto questo non ho ricette, so solo che un’eventuale ulteriore deriva liberista anche in urbanistica sarebbe drammatica per la qualità della vita delle nostre città e per la stessa gestione democratica. Forse una riflessione collettiva in proposito potrebbe essere salutare per la disciplina e anche per il governo delle trasformazioni urbane.
Tornando al volume vorrei esprimere il mio apprezzamento, nonostante qualche sovra-abbondanza, e ripetizione (ineliminabibile nei volumi collettami). Mi sembra un utile strumento per riflettere non solo, o meglio non soltanto, sulla pianificazione milanese, ma su molti esperimenti, elaborazioni, pratiche (buone e cattive) e politiche che in questi anni sono stati dati per “avanzamenti” e che alla prova del budino si sono dimostrati immangiabili.
Il volume è chiuso da un inserto fotografico apprezzabile nella diversità di immagine che offre di Milano.

Francesco Indovina          

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