Commento
al libro di Pier Luigi Bottino e Paola Foschi
Francesco
Indovina
(Città Bene Comune, la Casa della cultura Milano, 2020)
Il
testo La Via della Seta bolognese, di
Pier Luigi Bottino e Paola Foschi (Minerva 2019), non è solo lo spaccato della
storia di una città in uno specifico periodo storico. È soprattutto un esempio
di politica economica urbana molto efficace che mette in luce, oggi che ce ne
siamo dimenticati, quanto la “geografia” – ovvero la collocazione di una città
in un determinato territorio – possa contribuire al suo sviluppo economico e
sociale. Ma soprattutto fa emergere
quanto intraprendenza, innovazione e lungimiranza pubblica siano doti
fondamentali senza cui è improbabile che una società prosperi nel lungo periodo.
Verso
la metà del 1300 alcuni artigiani, dediti alla lavorazione della seta, furono
costretti per ragioni politiche ad abbandonare Lucca e si disseminarono in
varie zone dell’Italia settentrionale. A
Bologna – ci raccontano Bottino e Foschi – non solo furono ben accolti, ma la
città favorì l’insediamento e lo sviluppo delle loro attività, avendo
intravisto che la produzione della seta avrebbe potuto arricchirne l’economia.
Nello stesso periodo anche molti lavoranti della lana si trasferirono a
Bologna, attratti dalla ricchezza della città che, molto frequentata da
stranieri (studenti, ma non solo), appariva un mercato ricco e in continua
espansione. Anche a questi, con una lungimiranza che oggi fatichiamo a
ritrovare nel nostro Paese, fu riservato lo stesso trattamento. Insomma,
persone, competenze, tecniche venute da altrove furono intelligentemente
integrate nel contesto economico e sociale per rendere più vitale e florida la città.
Il
volume si occupa specificatamente dell’industria
della seta: gli autori ne ripercorrono la storia dalla sua prima
importazione dalla Cina (intorno al 200 a.c.) focalizzandosi sul suo sviluppo
nella città felsinea. Ma la cosa che mi
pare più rilevante di questo lavoro – quella per cui ho deciso di scriverne in
questa rubrica – è l’illustrazione delle politiche messe in atto dalle autorità
cittadine per facilitare l’insediarsi di questa produzione e l’ambiente innovativo
che quegli artigiani trovarono in questa città. A chi, costretto a fuggire
da Lucca, immigrava a Bologna con l’intenzione di costituire un’impresa il Comune
– da sempre accogliente verso chi immigrava in città e intraprendeva attività
economiche e commerciali – garantiva in dono un “tiratorium” (ambiente adatto
ad asciugare il prodotto finito) e due telai. Offriva, in uso gratuito per otto
anni, la casa e la bottega. Concedeva un mutuo a zero interesse per cinque anni:
50 lire bolognesi che dovevano servire per le spese di impianto, l’acquisto dei
materiali necessari, il mantenimento della famiglia. Infine, cosa non
secondaria, concedeva la cittadinanza e l’esenzione delle imposte per quindici
anni.
Come
si può constatare si tratto di una politica articolata e complessa, che anni
prima era stata sperimentata nei riguardi degli operatori della lana veronesi,
anche se – secondo gli autori nel volume – “di gran lunga più importante per la
città fu la migrazione lucchese della seta”, come per altro sembrano
testimoniare, seppur con qualche dubbio, alcune tracce lasciate nella
toponomastica cittadina (per esempio, via Capo di Lucca). L’ottica delle autorità comunali non fu solo quella di espandere le
attività economiche della città, ma soprattutto quella di acquisire e
sviluppare nuove tecnologie. Su quest’ aspetto gli autori insistono molto e
mettono anche in evidenza che se da una parte i setaioli trasferivano nuove
conoscenze, dall’altra la stessa produzione poté godere di innovazioni
tecnologiche che ne aumentarono notevolmente la resa. È qui che il legame tra
produzione e infrastrutturazione urbana e territoriale (e dunque lungimiranza
pubblica) si fa più stringente perché queste innovazioni erano legate alle vie
d’acqua. È infatti proprio la struttura dei canali bolognesi a fare da
acceleratore alla produzione della seta. Bologna e il suo territorio, infatti,
erano solcati da una vera e propria rete di vie d’acqua che permetteva ai
bolognesi di raggiungere il mare: “proprio
dall’acqua il mondo di quei tempi prese la forza di riattivare il commercio e
l’economia, applicando il proprio ingegno nel costruire canali in sostituzione
alle strade (…). La Via della Seta
bolognese – scrivono Bottino e Foschi – fu
quindi soprattutto una via d’acqua, attraverso quei canali che lo spirito
imprenditoriale della città aveva costruito partendo dal Reno: il canale di
Reno, il canale Navile, il Po”. L’imbarcazione maggiormente utilizzata per
il trasporto lungo questi canali era il “burchiello” che veniva trainato da un
cavallo che seguiva un sentiero parallelo al canale stesso. Per comprendere l’importanza
del trasporto via acqua si noti che, nello stesso periodo, un “biroccio”
trainato da un cavallo lungo le strade non solo impiegava più tempo ma poteva
trasportare solo 15 quintali di merce contro i 90 del “burchiello”. E tutto un
mondo di trattorie, di posti di sosta, ecc. si organizza lungo questi percorsi
dando quasi vita a una civiltà parallela.
Per
la nascente industria della seta bolognese, tuttavia, i canali non furono
soltanto una via di comunicazione efficiente sul piano del costo e rispetto
alla possibilità, attraverso Venezia, di raggiungere i più importanti mercati
europei. È da questi, infatti, che scaturisce una rilevante innovazione
tecnologica volta allo sfruttamento della forza dell’acqua come forza motrice
per muovere i filatoi. Infatti, “in
questa città – osservano gli autori – si
conosceva da secoli l’uso dell’acqua dei canali di Reno e di Savena per muovere
i mulini da grano” e trasferendo questo sistema alla produzione della seta
si ottenne un grande risparmio di forza lavoro e un aumento della velocità di
lavorazione. Insomma, un importantissimo aumento della produttività che fece
lievitare il benessere collettivo. Fino alla fine del Trecento le “ruote
idrauliche” erano collocate lungo il percorso dei canali, ma il Comune, per
aumentare il potenziale produttivo, concesse per fini industriali la
derivazione dell’acqua dai canali. Ciò avveniva attraverso le “chiaviche”,
condotti con portata d’acqua modesta ma tale da sviluppare la “forza motrice”
necessaria e sufficiente per la nascente industria della seta. Tali condotti sotterranei
vennero indirizzati nelle cantine degli edifici industriali dove erano collocati
i macchinari che la forza delle acque faceva così muovere e lavorare attraverso
le ruote idrauliche. Sulla base di questa prima innovazione se ne svilupparono
altre, come l’organizzazione dell’edificio industriale, l’uso di “rocchelle” per
la torsione del filo, e altre ancora su cui non è necessario soffermarsi. Tutte attività che liberavano mano d’opera
che attivava nuovi filatoi in un processo di crescita continua che ancor oggi
avrebbe molto da insegnarci.
Oltre
praticare l’accoglienza delle nuove attività produttive e investire in infrastrutture innovative, il
Comune di Bologna mise in atto provvedimenti per difendere questa industria,
per esempio, attraverso il controllo del mercato dei bozzoli. Ed è grazie a questa pluralità di azioni
pubbliche che quella della seta bolognese diventò in un tempo relativamente
breve una delle principali industrie della città rifornendo i mercati
internazionali. Alla fine del ‘600 erano presenti a Bologna più di 300
impianti che impiegavano più di 25.000 “uomini,
donne, bambini e zitelle” (si tenga conto che gli abitanti di Bologna nel
periodo non supervano i 60.000).
Come
si è fatto cenno all’inizio, questo testo pare importante perché riesce a cogliere e ad
evidenziare alcuni aspetti importanti di politica economica urbana, sia sul
piano strettamente economico sia su quello che potremmo chiamare della
costruzione di un ambiente tecnologico e sociale adatto allo sviluppo. Gli autori sottolineano a
più riprese l’importanza della moltiplicazione delle conoscenze attraverso lo
scambio tra popolazioni con culture e tradizioni differenti, con esperienze
produttive nuove, con tecnologie prima sconosciute. Si trattò, in altri
termini, di un processo di costruzione di un ambiente favorevole allo sviluppo
economico fondato sull’innovazione, non soltanto sulla ripetitività di approcci
già sperimentati. Soprattutto si trattò di un processo in cui
l’immigrazione non venne considerata una forma di invasione, una possibile
sottrazione di benessere collettivo, ma come una risorsa dalle enormi
potenzialità. Ciò che – a giudizio di chi scrive – appare di grande rilievo non
è dunque solo la capacità di accoglienza, ma anche la volontà di favorire i nuovi arrivati nel momento in
cui si adoperano per creare nuove attività.
Bologna
diventa un centro d’innovazione. La seta bolognese esplode a livello mondiale,
del mondo di allora, sia con i veli leggerissimi sia con i tessuti di maggior
consistenza. Quello bolognese fu un prodotto ricercato nelle grandi piazze di
Parigi, di Amsterdam, ecc., dalla nobiltà e dalla borghesia dell’epoca e
diventò un elemento di distinzione (molto più di quella di Lucca da cui prende
le mosse). Il libro di Pier Luigi Bottino e Paola Foschi è, tenendo conto della
materia che affronta, accattivante e leggero. Le numerose illustrazioni che lo
arricchiscono e lo rendono prezioso aiutano le parole a rendere viva la
narrazione. Ma soprattutto, questo libro ci insegna che è nell’integrazione,
nell’innovazione e nell’investimento pubblico che si trova la ricetta della
prosperità.
Francesco
Indovina
N.d.C. - Francesco Indovina, già
professore ordinario di Tecnica e Pianificazione urbanistica all'Università
IUAV di Venezia, dal 2003 insegna alla Scuola di Architettura di Alghero
(Università degli Studi di Sassari). Da sempre è fautore di un approccio
interdisciplinare agli studi sulla città e il territorio coniugato a un saldo
impegno civile. È autore di numerose pubblicazioni e ha fondato e diretto i
periodici "Archivio di studi urbani e regionali" e "Economia
urbana" (già "Oltre il Ponte"); dirige inoltre la collana di Studi urbani
e regionali edita da
FrancoAngeli.
Per Città Bene Comune
ha scritto: Si può essere "contro"
l'urbanistica? (20 ottobre 2015); Quale urbanistica in epoca
neo-liberale (3 febbraio 2017); Pianificazione
"antifragile": problema aperto (23 giugno 2017); Una vita da urbanista, tra
cultura e politica (24 novembre 2017); Non tutte le colpe sono
dell'urbanistica (14 settembre 2018); Che si torni a riflettere sulla
rendita (8
febbraio 2019); Un giardino
delle muse per capire la città
(4 ottobre 2019).
N.B. I grassetti nel
testo sono nostri.
R.R.
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