domenica 21 giugno 2015

Grandi e inutili. Le grandi opere in Italia

Antonio  Fraschilla
Grandi e inutili. Le grandi opere in Italia
Einaudi, 2015, pp. 163, € 17

In una diversa sede avevo proposto la distinzione tra “grande opera” e “opera grande”. Le prime appartenevano alla categorie delle opere che non avevano nessuna giustificazione funzionale, come per esempio (citato da Fraschilla)  un campo di polo in una zone del paese che non conosceva neanche lontanamente questo sport, o ancora la cui giustificazione era trovata in un risultato diverso da quello funzionale dell’opera, come quando per giustificare il ponte sullo stretto di Messina ci si riferiva al richiamo turistico, che data la sua bellezza, il ponte (una delle meraviglie del mondo) avrebbe esercitato (per fortuna quell’opera non è stata mai iniziato nonostante i miliardi spesi). La principale giustificazione di queste opere è rintracciabile nella disponibilità di risorse finanziarie che per via politica venivano assegnati a progetti del tutto ingiustificati e molti sicuramente inutili. Le opere grandi, al contrario sono quelle che presentano una stretta relazione tra la loro funzionalità e l’esistenza di una necessità. Sarebbero opere grandi, per esempio, la messa in sicurezza delle nostre scuole, o, secondo un richiamo ricorrente, interventi di salvaguardia idrogeologica per molti territori, comprese grandi città come Genova o Firenze, che finiscono sotto un mare di fango non appena il tempo atmosferico si mostri più inclemente del solito e che, va sottolineato, non ha comportato nel recente passato solo danni materiali ma anche morti. Per non parlare delle opere di “adattamento” che i cambiamenti climatici richiedono.
La caratteristica fondamentale di molte di queste opere pubbliche non è solo la loro inutilità, non sono solo i danni ambientali che spesso producono, ma anche il fatto che spessissimo esse risultano incompiute. Possono essere tali perché fisicamente non portate a termine, perché portate a termine non completamente o non in modo adeguato (il campione di questa categoria è l’autostrada Salerno-Reggio Calabria), o perché non completate negli arredi e finiture, o perché, dato la loro cervellotica destinazione nessuno vorrebbe gestirle, una gestione comunque assolutamente costosa e fuori da ogni dimensione economica.
Sulle opere incompiute esiste una notevole documentazione, per esempio il sito  www.incompiutosiciliano.org presenta l’indicazione regione per regione e con indicazione del comune di questi mostri di cemento abbandonati. Così come il Ministero delle infrastrutture segnala l’esistenza di 700 di opere pubbliche incompiute avvertendo, tuttavia, che si tratta di un dato parziale, poiché alcune regioni sono in ritardo con le comunicazioni.
Il libro di Antonio Frachilla nuota, per così dire, in questo mare di opere incompiute, finite ma non funzionanti, necessarie ma non terminate, ecc. Si tratta di uno spaccato non ignoto (la ricerca alla voce opere incompiute su google   fornisce 64.000 risposte), ma impressionante e reso vivo dalla puntale organizzazione della materia e dalla scrittura chiara, dagli esempi documentati che l’autore fornisce.
Il libro ci fa toccare con mano ospedali non finiti e mai entrati in funzione anche per la loro dimensione ciclopica rispetto alla popolazione da servire; lo stesso per palazzetti dello sport talvolta non accessibili, ma comunque incompatibili, per eccesso, rispetto alle popolazioni di riferimento o agli sport esercitati nella zona (il caso del campo di polo sembra un’invenzione satirica, ma anche un velodromo appartiene a questa categoria); strade non finite; invasi per l’acqua, necessari, non finiti; autoporti, richiesti dai trasportatori, progettati in numero eccessivo, alcuni a 6 km di distanza tra di loro, e comunque mai terminate; teatri lasciati incompleti, ma con le poltroncine; ecc. Insomma un campionario che lascia anche chi consapevole con la bocca aperta per la meraviglia e che in un certo senso fa giustizia di un luogo comune di un Sud sprecone e incapace e un Nord efficiente ed efficace, il libro documento che non è questione di latitudine, la malerba alligna ovunque, anche se nel Sud e più florida (in Sicilia in particolare).
Ma come se non bastasse queste opere sono delle sanguisughe, per loro vengono continuamente richieste risorse per essere portate a termine, per essere adeguate, per la loro manutenzione, ecc.
Per ciascuna di queste opere, il testo, documenta la posa della prima pietra, per molti anche il taglio del nastro che definisce la fine del lavoro; il danno si sposa con la voglia di apparire di ministri, sottosegretari, sindaci, assessori regionali (sempre), una fiera delle vanità che prende in giro le popolazioni, che spreca risorse, che spesso guasta anche il territorio.
Non si fa fatica a pensare che questa allegra gestione abbia previsto spreco, corruzione, e l’intervento spesso della criminalità organizzata, con conseguente incerta qualità delle realizzazioni come appare oggi che 1/5 delle strade di Sicilia sono interrotte per effetto di cattiva costruzione e di uso di materiali scadenti.
La lettura di questo testo suggerisce alcune riflessioni:
1.      Non si tratta soltanto di assenza di governance, ma assenza di ogni controllo di spesa. Sul decentramento regionale della spese bisognerà forse riflettere, così come merita attenzione la modalità con cui si progettano le opere pubbliche, sui controlli di merito, relative alla loro effettiva necessità, alla loro corrispondenza con i bisogni, alla loro fattibilità e alla loro esecuzione (certo se questi controlli saranno affidati a cricche come quella che collaborava con Bertolaso, allora non ci sono speranze);
2.      Gli appalti sono un tema complesso, si sa, ma sicuramente la loro forma deve essere modificata. La difesa della “concorrenza”, come si dice, deve essere resa più efficace ma deve essere liberata dal facile ricorso (Tar, Consiglio di Stato, ecc.), che finisce per bloccare per tempi interminati le opere;
3.      Che il completamento dell’opera non rappresenta un indice di buona riuscita, né la loro efficienza ed efficacia e operatività. Un opera può essere finita, può risultare anche pregevole, può anche funzionare, ma può risultare del tutto inadeguata. Il caso dell’aeroporto di Perugia, molto documentato nel testo di Fraschilla, è la dimostrazione di questo assunto. La sua fattibilità era giustificato sulla base di un traffico  passeggeri del tutto non prevedibile, come i fatti hanno dimostrato, da qui il declassamento.
4.      Un  ultimo punto mi pare di maggior rilievo, dato l’andazzo assunto dalla politica e dal consenso con il quale, in genere, viene proposto e accolto un grande Evento. I grandi Eventi, non solo nel nostro paese, quando tutto va bene producono sprechi, delusioni rispetto alle attese e danni. Non mi riferisco, tanto per fare un esempio, ai campionati mondiali di nuoto, quando alcune opere sono state consegnate anni dopo lo svolgimento delle gare, alcune piscine non sono risultate di misura corretta, ecc. e molte sono abbandonate; non mi riferisco al G8 alla Maddalena, di cui è nota la “speranza” e la “delusione” oltre ai danni; né mi riferisco alle Universiadi in Sicilia, caso meno noto,   mi riferisco ad un caso “positivo”, le Olimpiade invernali di Torino, documentato, come gli altri, nel libro. Le Olimpiade di Torino sono stati un successo di efficienza e di efficacia, ancora si fa riferimento al “piano strategico” messo a punto in quell’occasione che è diventato un caso di studio, ma tuttavia anche in questo caso non sono mancati errori, facilonerie, previsioni sbagliate. Sono  state costruite opere senza studiare il loro uso post-Olimpiadi, cioè in assenza di una pianificazione efficace. Si potrebbe dire che le  attrezzature non utilizzate,  abbandonate e  spesso vandalizzati, rappresentino “danni collaterali”, ma la dizione ha lo stesso significato del linguaggio di guerra. I grandi Eventi sono molto problematici da programmare e da gestire;  il dopo Evento lascia non solo l’amaro in bocca ma opere inutili e non utilizzate che erano previste (o immaginate) di utilità collettiva, alcune destinate a finalità economica, a centri di ricerca avanzati, ad uso sportivo, ecc. ma che nella realtà lasciano in campo una forma nuova: l’archeologia dell’evento. Si sente parlare di una candidatura di Roma alle Olimpiadi, dovrebbero far venire i brividi al Governo e al Sindaco, ma non è così.  È buona regola candidarsi a quello che si sa di saper fare, in questo ambito non siamo capaci, ma fingiamo di saper fare.
Il neo Ministro delle infrastrutture, Graziano Delrio, ha dichiarato la fine delle grandi opere, ma l’Italia ha bisogno di opere grandi, si spera che di questa distinzione sia consapevole. Mi pare, e questo sarebbe positivo, che abbia parlato di una strategia nazionale sulle infrastrutture approvata dal Consiglio dei ministri. Ma il paese non ha solo bisogno di infrastrutture di trasporto (l’elenco fatto circolare prevede 25 opere tutte legate alla mobilità), c’è bisogno d’altro.
Il testo di Antonio Fraschilla si legge con piacere ma anche con rabbia, risulta che non si fa quello che si dovrebbe e si fa spesso l’inutile, o meglio si comincia e non si finisce e spesso si fa male. Una lettura didattica di formazione.

Francesco Indovina

Nessun commento:

Posta un commento