Antonio Fraschilla
Grandi e
inutili. Le grandi opere in Italia
Einaudi,
2015, pp. 163, € 17
In
una diversa sede avevo proposto la distinzione tra “grande opera” e “opera
grande”. Le prime appartenevano alla categorie delle opere che non avevano nessuna
giustificazione funzionale, come per esempio (citato da Fraschilla) un campo di polo in una zone del paese che non
conosceva neanche lontanamente questo sport, o ancora la cui giustificazione
era trovata in un risultato diverso da quello funzionale dell’opera, come
quando per giustificare il ponte sullo stretto di Messina ci si riferiva al
richiamo turistico, che data la sua bellezza, il ponte (una delle meraviglie
del mondo) avrebbe esercitato (per fortuna quell’opera non è stata mai iniziato
nonostante i miliardi spesi). La principale giustificazione di queste opere è
rintracciabile nella disponibilità di risorse finanziarie che per via politica
venivano assegnati a progetti del tutto ingiustificati e molti sicuramente inutili.
Le opere grandi, al contrario sono quelle che presentano una stretta relazione
tra la loro funzionalità e l’esistenza di una necessità. Sarebbero opere
grandi, per esempio, la messa in sicurezza delle nostre scuole, o, secondo un
richiamo ricorrente, interventi di salvaguardia idrogeologica per molti
territori, comprese grandi città come Genova o Firenze, che finiscono sotto un
mare di fango non appena il tempo atmosferico si mostri più inclemente del
solito e che, va sottolineato, non ha comportato nel recente passato solo danni
materiali ma anche morti. Per non parlare delle opere di “adattamento” che i
cambiamenti climatici richiedono.
La
caratteristica fondamentale di molte di queste opere pubbliche non è solo la loro inutilità, non sono solo i danni
ambientali che spesso producono, ma anche il fatto che spessissimo esse
risultano incompiute. Possono essere
tali perché fisicamente non portate a termine, perché portate a termine non
completamente o non in modo adeguato (il campione di questa categoria è l’autostrada
Salerno-Reggio Calabria), o perché non completate negli arredi e finiture, o perché,
dato la loro cervellotica destinazione nessuno vorrebbe gestirle, una gestione
comunque assolutamente costosa e fuori da ogni dimensione economica.
Sulle
opere incompiute esiste una notevole
documentazione, per esempio il sito www.incompiutosiciliano.org
presenta l’indicazione regione per regione e con indicazione del comune di
questi mostri di cemento abbandonati. Così come il Ministero delle infrastrutture
segnala l’esistenza di 700 di opere pubbliche incompiute avvertendo, tuttavia,
che si tratta di un dato parziale, poiché alcune regioni sono in ritardo con le
comunicazioni.
Il
libro di Antonio Frachilla nuota, per così dire, in questo mare di opere
incompiute, finite ma non funzionanti, necessarie ma non terminate, ecc. Si tratta
di uno spaccato non ignoto (la ricerca alla voce opere incompiute su google fornisce 64.000 risposte), ma impressionante e
reso vivo dalla puntale organizzazione della materia e dalla scrittura chiara,
dagli esempi documentati che l’autore fornisce.
Il
libro ci fa toccare con mano ospedali non finiti e mai entrati in funzione
anche per la loro dimensione ciclopica rispetto alla popolazione da servire; lo
stesso per palazzetti dello sport talvolta non accessibili, ma comunque
incompatibili, per eccesso, rispetto alle popolazioni di riferimento o agli
sport esercitati nella zona (il caso del campo di polo sembra un’invenzione
satirica, ma anche un velodromo appartiene a questa categoria); strade non
finite; invasi per l’acqua, necessari, non finiti; autoporti, richiesti dai
trasportatori, progettati in numero eccessivo, alcuni a 6 km di distanza tra di
loro, e comunque mai terminate; teatri lasciati incompleti, ma con le poltroncine;
ecc. Insomma un campionario che lascia anche chi consapevole con la bocca
aperta per la meraviglia e che in un certo senso fa giustizia di un luogo
comune di un Sud sprecone e incapace e un Nord efficiente ed efficace, il libro
documento che non è questione di latitudine, la malerba alligna ovunque, anche
se nel Sud e più florida (in Sicilia in particolare).
Ma
come se non bastasse queste opere sono delle sanguisughe, per loro vengono
continuamente richieste risorse per essere portate a termine, per essere
adeguate, per la loro manutenzione, ecc.
Per
ciascuna di queste opere, il testo, documenta la posa della prima pietra, per
molti anche il taglio del nastro che definisce la fine del lavoro; il danno si
sposa con la voglia di apparire di ministri, sottosegretari, sindaci, assessori
regionali (sempre), una fiera delle vanità che prende in giro le popolazioni, che
spreca risorse, che spesso guasta anche il territorio.
Non
si fa fatica a pensare che questa allegra gestione abbia previsto spreco,
corruzione, e l’intervento spesso della criminalità organizzata, con
conseguente incerta qualità delle realizzazioni come appare oggi che 1/5 delle
strade di Sicilia sono interrotte per effetto di cattiva costruzione e di uso
di materiali scadenti.
La
lettura di questo testo suggerisce alcune riflessioni:
1.
Non
si tratta soltanto di assenza di governance, ma assenza di ogni controllo di
spesa. Sul decentramento regionale della spese bisognerà forse riflettere, così
come merita attenzione la modalità con cui si progettano le opere pubbliche,
sui controlli di merito, relative alla loro effettiva necessità, alla loro
corrispondenza con i bisogni, alla loro fattibilità e alla loro esecuzione (certo
se questi controlli saranno affidati a cricche come quella che collaborava con Bertolaso,
allora non ci sono speranze);
2.
Gli
appalti sono un tema complesso, si sa, ma sicuramente la loro forma deve essere
modificata. La difesa della “concorrenza”, come si dice, deve essere resa più
efficace ma deve essere liberata dal facile ricorso (Tar, Consiglio di Stato,
ecc.), che finisce per bloccare per tempi interminati le opere;
3.
Che
il completamento dell’opera non rappresenta un indice di buona riuscita, né la
loro efficienza ed efficacia e operatività. Un opera può essere finita, può
risultare anche pregevole, può anche funzionare, ma può risultare del tutto
inadeguata. Il caso dell’aeroporto di Perugia, molto documentato nel testo di
Fraschilla, è la dimostrazione di questo assunto. La sua fattibilità era giustificato
sulla base di un traffico passeggeri del
tutto non prevedibile, come i fatti hanno dimostrato, da qui il declassamento.
4.
Un
ultimo punto mi pare di maggior rilievo,
dato l’andazzo assunto dalla politica e dal consenso con il quale, in genere,
viene proposto e accolto un grande Evento.
I grandi Eventi, non solo nel nostro paese, quando tutto va bene producono sprechi,
delusioni rispetto alle attese e danni. Non mi riferisco, tanto per fare un
esempio, ai campionati mondiali di nuoto, quando alcune opere sono state
consegnate anni dopo lo svolgimento delle gare, alcune piscine non sono
risultate di misura corretta, ecc. e molte sono abbandonate; non mi riferisco
al G8 alla Maddalena, di cui è nota la “speranza” e la “delusione” oltre ai
danni; né mi riferisco alle Universiadi in Sicilia, caso meno noto, mi
riferisco ad un caso “positivo”, le Olimpiade invernali di Torino, documentato,
come gli altri, nel libro. Le Olimpiade di Torino sono stati un successo di
efficienza e di efficacia, ancora si fa riferimento al “piano strategico” messo
a punto in quell’occasione che è diventato un caso di studio, ma tuttavia anche
in questo caso non sono mancati errori, facilonerie, previsioni sbagliate. Sono
state costruite opere senza studiare il
loro uso post-Olimpiadi, cioè in assenza di una pianificazione efficace. Si potrebbe
dire che le attrezzature non utilizzate,
abbandonate e spesso vandalizzati, rappresentino “danni
collaterali”, ma la dizione ha lo stesso significato del linguaggio di guerra.
I grandi Eventi sono molto problematici da programmare e da gestire; il dopo Evento lascia non solo l’amaro in
bocca ma opere inutili e non utilizzate che erano previste (o immaginate) di
utilità collettiva, alcune destinate a finalità economica, a centri di ricerca
avanzati, ad uso sportivo, ecc. ma che nella realtà lasciano in campo una forma
nuova: l’archeologia dell’evento. Si sente parlare di una candidatura di Roma alle
Olimpiadi, dovrebbero far venire i brividi al Governo e al Sindaco, ma non è
così. È buona regola candidarsi a quello
che si sa di saper fare, in questo ambito non siamo capaci, ma fingiamo di
saper fare.
Il
neo Ministro delle infrastrutture, Graziano Delrio, ha dichiarato la fine delle
grandi opere, ma l’Italia ha bisogno di opere grandi, si spera che di questa
distinzione sia consapevole. Mi pare, e questo sarebbe positivo, che abbia
parlato di una strategia nazionale sulle infrastrutture approvata dal Consiglio
dei ministri. Ma il paese non ha solo bisogno di infrastrutture di trasporto (l’elenco
fatto circolare prevede 25 opere tutte legate alla mobilità), c’è bisogno d’altro.
Il
testo di Antonio Fraschilla si legge con piacere ma anche con rabbia, risulta
che non si fa quello che si dovrebbe e si fa spesso l’inutile, o meglio si
comincia e non si finisce e spesso si fa male. Una lettura didattica di
formazione.
Francesco
Indovina
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