Diario n. 307
24/12/2015
A proposito della crisi che ha colpito l’economia mondiale,
due filoni di pensiero si scontrano. Da una parte chi crede, fermamente e senza
che un dubbio attraversi la propria intelligenza, che per quanto grave sia la
crisi, essa deve essere considerata un “accidente”, e che i sani spiriti
capitalistici sapranno fare ripartire il meccanismo economico. Questa posizione
considera un errore qualsiasi intervento pubblico; l’economia, sgragionano, non è più quella
degli anni ’30, un articolazione mondiale (la globalizzazione), una fitta rete
di relazioni e di interdipendenze, la grande disponibilità finanziaria esalteranno i primi segni di ripresa. La politica
che si ritiene utile e opportuna è quella monetaria: disponibilità crescente di
moneta, bassi tassi di interessi, ecc. Un tempo si diceva che quando il cavallo
non vuole bere è inutile offrigli l’acqua (che si traduce come è inutile
offrire denaro comodo se non c’è voglia, o possibilità, di investimenti).
Questa posizione da una parte produce l’austerità (ridurre drasticamente il debito
pubblico, quindi l’occupazione nel settore, i servizi collettivi, gli
investimenti infrastrutturali, ecc.) con risultati modesti, dall’altra favorire
i consumi per rimettere in moto la domanda e quindi l’investimento (per questo
vanno benissimo sussidi, riduzioni delle tasse, bassi tassi d’interesse, ecc.).
Per favorire questo, inoltre si rende indispensabile una moderata inflazione,
con la speranza che l’aspettativa di prezzi in crescita possano stimolare gli investimenti.
L’altro filone ritiene necessaria una politica di
investimenti pubblici, una politica keynesiana. Il capitale non si riprende da
solo, ha bisogno di massicci stimoli che solo una politica di investimenti
pubblici può determinare. Anche in questo caso gli investimenti pubblici dovrebbero
produrre occupazione, reddito disponibile, aumento dei consumi e ripresa degli
investimenti. Questo è possibile tassando di più i “ricchi”, svolgendo opere pubbliche
necessarie (ambiente, territorio, risanamento edilizio, riqualificazione
urbana, ecc.).
Sul piano teorico si tratta di due posizioni
contrapposte, ma nella pratica le cose sono più pasticciate, i governi in
realtà fanno politiche che sommano pezzi dell’una e pezzi dell’altra, avendo
come obiettivo più che la soluzione della crisi la tendenza a tamponare e
soprattutto la ricerca del consenso. Del resto anche sul piano teorico oggi non
paiono esistano dei templi (accademici, per lo più) dove le due posizioni
trovavano voce autorevole e soprattutto omogenee.
Anche se i due filoni si contrappongono le politiche che
i governi fanno sono sostanzialmente un mix senza principi, frutto del convincimento
momentaneo, dell’occasione e soprattutto, torno a ripetere del possibile
consenso che i singoli provvedimenti possono promuovere (al di là della reale
capacità di produrre quegli effetti propagandati). I danni di questo andazzo
politico sono sotto gli occhi di tutti.
Ma non bisogna pensare che non ci siano dei punti fermi,
o meglio delle proposizioni di fede ai quali i governi recitano il credo.
Queste proposizioni di fede, comuni in
ambedue le posizioni, sono sostanzialmente due, mai espresse sotto forma di un “credo”
esplicitato, ma pur tuttavia
determinante nelle scelte: da una parte la fede nel sistema capitalistico, dall’altra
la convinzione che un mercato sempre più libero, o molto moderatamente
controllato, faccia un gran bene all’economia (ma non del singolo mono o
oligopolista, ma a tutta l’economia e per riflesso a tutta la società).
Poche voci sono quelle che si levano nell’individuare
nella crisi, un limite della
formazione capitalista. Il capitalismo è al tramonto. Questo non vuol dire che
sia già morto (i sistemi sociali non praticano l’eutanasia), avremo periodo di
piccola ripresa (ora la dimensione della crescita si misura in zero virgola
incremento del Pil), risorgerà, prima o dopo, la questione dei redditi sovrani,
l’occupazione sarà sempre in altalena ma pesantemente negativa, ecc.). Questa
malattia del sistema, malattia mortale, può portare ad una lunga, lunghissima,
degenza, con pochi benefici sociali, ma soprattutto inquinando, per così dire,
l’aria.
La cura sarebbe, infatti, è la cremazione del cadavere e
la costruzione di una nuova forma di società, qui viene il difficile.
Intanto due cose: da una parte in questa situazione una politica keynesiana
sia senz’altro da preferire e per la quale vale la pena battersi (ma che sia
coerente). Non potrà essere risolutiva, ma per lo meno potrà alleggerire, non
sempre e non per tutti, la situazione. Dall’altra parte gli amici e i compagni
impegnati a lottare per una politica ambientalista dimentiche delle relazioni
esistenti all’interno della formazione sociale mi paiono che finiranno, nonostante
qualche “vittoria”, a pestare l’acqua
nel mortaio. E quelli tra questi che farneticano di “economia verde”, di “business
ambientale”, senza pensare che quando queste “cose” se saranno inserite nel
processo produttivo capitalista assumeranno una valenza diversa. Tutti si
vorrebbe vivere in un ambiente sano e piacevole, ma il “desiderio” poi si
scontra con la realtà sociale, che ricordiamolo non è solo la cupidigia del
capitale ma anche la difesa del posto di lavoro di operai. Questa
contraddizione non ci farà mai fare dei reali passi avanti.
In questa situazione l’econo0mia fluttua e non si
stabilizza. Per esempio nel 2014 il successo dell’economia USA ha fatto gridare
alla fine della crisi, solo che quest’anno il risultato è inferiore a quello
dell’anno scorso. L’annunzio che si intravede una luce alla fine del tunnel e
sempre attualòe ma la fiammella traballa ad ogni soffio di vento.
In questa situazione la “società” si muove in modo aleatorio,
sembra determinata dall’emozione e dalla comunicazione più che dalla
riflessione. Al successo inequivocabile della destra in Francia, si contrappone
una battuta della destra spagnola, mentre nei paesi dell’est Europa i risultati
elettorali spesso sono molto preoccupanti, ed il quadro internazionale si
focalizza sul terrorismo mentre la situazione geopolitica è tellurica nella
sostanza.
È chiaro che per determinare una situazione della reale
uscita della crisi che comporti una modifica di struttura economica sociale ci
vuole insieme un “pensiero”, una “forza” e un “collegamento internazionale”.
Se in Portogallo, Spagna, e Grecia si sono sviluppate dei
nuovi soggetti politici, che sebbene inadeguati sul piano del pensiero, si
collocano a sinistra (si tratta di una semplificazione forse ingiusta), in
Italia non si riesce a cavare un ragno dal buco. I “tavoli” si fanno e si
disfano con una velocità irresponsabile.
C’è il problema di dare “forma” a questo nuovo soggetto
politico (“la forma partito”, si veda l’articolo sul Il Manifesto del 24
dicembre di Lidia Menapace, che pone problemi meritevoli di attenzione), ma c’è
soprattutto un problema di “pensiero”. Leggere che uno dei meno corrivi dei
leader della sinistra affermi che la nuova formazione non può fondarsi sul
pensiero del ‘900 mi scoraggia. Sono sicuro che le soluzioni adottate nel ‘900 non sono più valide (tanto per
intenderci non c’è da prendere il “palazzo d’inverno”), ma che l’analisi dei
meccanismi economico sociali della formazione sociale capitalista fatta in quel
ricco secolo di pensiero, sia ancora valida lo pensano e lo dicono molte
autorevoli menti.
Senza pensiero niente trasformazione. Ed è alla trasformazione
che bisogna rendere convinti e consapevoli le forze sociali. La politica è
anche fascinazione (non falsificazione), ma è non è possibile che il fascino
che la sinistra (nelle sue varie articolazioni) produce, sia il rinnovo della
classe dirigente (magari da rotamare), la trasparenze delle decisioni, la
sostenibilità, ecc., tutte cose utili e necessarie ma che non fanno nuova
società. Una nuova prospettiva deve
esprimere “fascino” a livello dei problemi, deve essere convincente,
propositiva nel dettaglio, ma con un grande respiro di trasformazione, deve essere
unificante, deve rompere schemi e barriere, deve essere luminosa. Altrimenti
prevale la falsa promessa di arricchirsi, all’arricchimento bisogno contrappore
felicità, libertà, autonomia, eguaglianza.
Non ho ricette, non esiste l’Artusi della trasformazione, ma tra tutti i problemi che emergono con
grande evidenza si potrebbe tentare di affrontarli parzialmente alcuni.
C’è una problema di concentrazione della ricchezza? Pare di
si: oggi, è stato stimato che l’1% della popolazione detiene una ricchezza pari
a quella del restante 99% della popolazione. Altro che invitare e facilitare i
grandi patrimoni ad opere di bontà, o sostegno alla culture, ecc. piuttosto è necessario operare un drastico prelievo fiscale secondo scaglioni
progressivi fino al prelievo totale per l’ultima frazione di reddito che supera
una certa soglia. Si dirà che questo scoraggia lo sviluppo, nessuno lavorerà oltre
per raggiungere quel reddito, sembra una buona notizia, ciascuno valuterà il
livello di opportunità di scorzo, e oltre si dedicherà alla lettura, allo
sport, al godimento della natura, dei figli, dell’amata e degli amici. Ma non
basta, basta decidere che la moneta è solo strumento di scambio e di
accumulazione relativa: uno può godersi la ricchezza accumulata fino all’ultimo
respiro, dopo di che la sua ricchezza passerà alla collettività.
C’è un problema di progresso tecnico, di obsolescenza e
di aumento di produttività. Il progresso tecnico è un meraviglioso meccanismo
che rende inadeguati i rapporti sociali di tipo capitalistico e che per
affermarsi quei rapporti deve superare. Il progresso tecnico può rendere il
mondo migliore e gli uomini e donne meno infelici. L’occupazione langue, e
banale dirlo ma lavorare tutti e lavorare meno. Ma non basta se si legasse il
punto precedente a questo si potrebbero trovare soluzioni interessanti. Sono
perplesso su tutta l’attenzione che si mette all’inflazione (si capisce una
modesta inflazione): si congettura che una inflazione al 2% potrebbe rilanciare
gli investimenti. Si fa fatica a seguire il ragionamento: io capitalista mi
avventuro a realizzare un investimento, nella situazione, diciamo così, fluida
nella quale si trova l’economia, perché mi aspetto che i prezzi “generali” aumenteranno
del 2%. Ho l’impressione che si tratti di un modello di ragionamento per lo
meno fragile; per un andamento dei prezzi crescenti per percentuali molte più
alte questo potrebbe essere possibile, ma il 2% non muove nessuno. Ma se collegassimo
il progresso tecnico, cioè l’aumento di produttività, ai prezzi con delle
regole che guardano al complesso della società e non al ristretto mondo di un’azienda
allora si potrebbe puntare ad una deflazione costante e continua. Oggi l’aumento
di produttività va tutta a beneficio dell’impresa (i contratti aziendali
dovrebbero forse far partecipare i lavorato ai risultati dell’aumento della
produttività), ma niente va direttamente alla società, questa o i consumatori
si dovrebbero avvantaggiare dalla concorrenza che si fanno le imprese, teoricamente
abbassando i prezzi, in realtà questo non avviene perché sono crescenti i costi
commerciale (basta osservare la pubblicità) e gli accordi manifesti o impliciti.
Allora si potrebbe imporre la regola che l’aumento di produttività per il 30-40% resta
all’impresa che lo distribuisce all’interno, e per il rimanente va ad abbassare i prezzi
con vantaggio di tutta la società.
Mi fermo perché non voglio dare l’impressione di avere il
ricettario, e poi perché solo la convergenza di più opzioni e proposte possono
dare fondamento. I precedenti sono soltanto
delle indicazioni, ma essi (o altri) non devono essere visti come dei “provvedimenti”,
certo anche questo, ma piuttosto devono
essere il risultato di una nuova teoria d’intervento,
un nuovo pensiero, che avrà sicuramente un risvolto per così dire istituzionale
ma che dovrà (dovrebbe) essere collegata con un azione di lotte e di conflitti
e che potrebbe (dovrebbe) coinvolgere le forze sociali anche nella gestione dei
risultati, in un processo lungo ma certo di trasformazione.
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