L’URBANISTICA DI FRONTE ALLA
FRAGILITÀ DEL TERRITORIO
Francesco Indovina
da Ecoscienza, n. 3, 2015, ARPA Emilia-Romagna
La fragilità del territorio, il
suo dissesto, smottamenti,
frane ecc. trovano sempre un
responsabile nell'urbanista, o meglio
ancora nell'urbanistica. Certo sono stati
prodotti dei piani inadeguati, sbagliati
e che si opponevano poco o niente
alla speculazione, ma il problema non
è questo, non si tratta del fallimento
dell’urbanistica, ma piuttosto della sua
sconfitta. Contro l’urbanistica ha vinto
l’opportunismo della politica (locale
e nazionale), la voracità del settore
edilizio e delle opere pubbliche, la
speculazione, la convinzione diffusa che
si poteva costruire ovunque, contro ogni
ragionevolezza, in una situazione in
cui il bisogno di una casa ha finito per
giustificare l’irresponsabilità costruttiva
(ci ricordiamo della teoria dell’abusivismo
di necessità?).
Detto questo, la situazione non cambia,
non solo, ma nuove situazioni pongono
problemi nuovi e più gravosi sul piano
della formazione, della disciplina, del
pensiero urbanistico.
I cambiamenti
climatici, per esempio, con il moltiplicarsi
di “eventi estremi”, pongono nuovi
problemi che si sommano a quelli
precedenti, ma la cui attenzione mi
sembra scarsa. A questo proposito vorrei
segnalare come mi pare ci si muova in
modo assolutamente inadeguato, come
se fossimo cinquanta anni fa e si fanno
le cose che bisognava fare allora, e che
non sono state fatte, e che ora forse sono
“dannose”. Ma pare, per esempio, che
l’attenzione al moltiplicare del verde
urbano, che ha moltissime giustificazioni,
non tenga conto della situazione nuova:
quale sia l’effetto di tale diffusione in
presenza, per esempio, delle così dette
“bombe d’acqua” o delle più tradizionali
alluvioni. Non sto prendendo posizione
contro il verde urbano, ma sottolineo che
questo oggi, in qualche modo che non so,
deve tenere conto della nuova situazione.
Che sia necessario un atteggiamento di
adattamento, mi sembra inevitabile, e questo non vuol dire accettare lo stato di
fatto, ma richiede che la ragione prenda
coscienza del cambiamento e cerchi di
adeguare gli strumenti per evitare danni
maggiori.
A me pare che sia da sottolineare sia
la fragilità delle città che quella del
territorio, che le due questioni siano
intrecciate è forse vero, ma ciò non toglie
che si tratta di questioni diverse che
hanno bisogno di tipologie d’intervento
diverse; ma ancora, dire fragilità delle città
è una generalizzazione che non convince,
anche se le “voragini” che si aprono nelle
strade urbane sono abbastanza comuni.
Così come dire fragilità del territorio è
diverso se riferito a un territorio di collina
e montagna o a un territorio marino, non
perché l’uno sia meno fragile dell’altro,
tutt’altro, ma perché diverse sono le
necessità d’intervento.
Gli urbanisti non possono pensare che
un’attenta politica delle “destinazioni
d’uso” dei suoli sia la soluzione dei nostri
problemi, né, ancora, che la riduzione del
consumo di suolo, la difesa del paesaggio
e il privilegio accordato alle piccole
opere, nobili e importanti propositi, siano
risolutive della situazione. Diciamolo
con molto chiarezza: c’è un futuro che
deve essere governato con sagacia e
intelligenza, ma c’è anche un passato che
deve essere risanato, messo in sicurezza,
reso “amico”, e per fare questo c’è molto
da fare. Diciamolo con tranquillità e con
la coscienza consapevole, il risanamento
del nostro territorio e delle nostre città
costituisce il New Deal del nostro paese
e della nostra epoca. Si tratta di fare
minuta manutenzione, ma anche opere
grandi (non “grandi opere”), si tratta di
mettere in moto progetti di ingegneria
ambientale e urbana.
So che ai miei colleghi urbanisti, al solo
sentire parlare di ingegneria ambientale
si rizzano i capelli in testa, ma anche di
questo si tratta. Non bastano i pannicelli
caldi, una filosofia di adattamento vuole
e pretende anche opere grandi, richiede
l’intelligenza degli ingegneri, richiede di
mettere mano a nuove idee. Della preparazione dell’urbanista non
deve cambiare niente e deve cambiare
molto. Non deve cambiare il formarsi
come tecnico dell’organizzazione del
territorio, oggi per il futuro, e che
attraverso tale organizzazione si pone
obiettivi di efficienza e di efficacia
circa il funzionamento della città,
fornire il proprio contributo, proprio
attraverso l’organizzazione dello spazio, a
obiettivi di equità sociale, combattendo contro tendenze all'emarginazione e
alla discriminazione, avendo piena
consapevolezza che le scelte urbanistiche
sono “scelte politiche” e che l’assistenza
tecnica per la realizzazione di questi
obiettivi non può essere un atteggiamento
anodino. Forte deve essere la coscienza
che il territorio è un bene sociale e
collettivo, che molti partecipano alla sua
formazione e organizzazione, ma questa
deve seguire l’interesse collettivo. Alla
formazione di tale tecnico, le nostre scuole
di urbanistica, per quanto lo permettano
istituzioni inadeguate, contribuiscono
non solo con gli insegnamenti tecnici
propri della disciplina, ma arricchendo la
formazione dell’urbanista con economia,
diritto, sociologia, matematica, storia,
antropologia, statistica, ecologia ecc. Tutti
strumenti per formare un’intelligenza in
grado di leggere una città e interpretarne le
dinamiche. Negli ultimi anni le discipline
ambientali hanno trovato maggior spazio,
ed è stata una cosa buona, ma è stato
male che questo allargamento spesso sia
avvenuto a scapito delle discipline sociali.
Deve cambiare un certo atteggiamento
nei riguardi della realizzazione del piano
o dell’intervento urbanistico. Se da
tempo è diventato senso comune che la
gestione del piano (attraverso accorte
politiche) è parte integrante del processo
di pianificazione, sia il piano che la sua
gestione hanno oggi bisogno di una
impostazione fondata su un atteggiamento
adattativo e che punto di riferimento
per ogni intervento non possa essere
ormai che l’area vasta, non solo perché
sempre più (nel nostro paese con enorme
ritardo) la gestione tende a competere a
istituzioni (fisse o variabili) di area vasta,
ma anche perché i processi a cui si è fatto
riferimento all’inizio non sono governabili
se non a livello di area vasta.
Un atteggiamento adattativo ha
due corollari: da una parte vedere
l’urbanistica come lo strumento nel suo
campo di governo delle trasformazioni,
che ovviamente non significa
“amministrazione” delle trasformazioni,
ma piuttosto governo delle forze della
trasformazione verso obiettivi noti,
trasparenti e significativi sul piano degli
esiti. Ma, dall’altra parte, avere netta
coscienza che il “futuro” non si realizza
automaticamente da buoni obiettivi, ma
che le incertezze e i rischi di tale futuro
devono essere indagati e ove possibile
contrastati.
Ma per questa operazione non bastano
né “danze della pioggia”, né esorcismi, né
idiosincrasie sulle necessarie modifiche
di assetto dello spazio. È in questa
dimensione che si intrecciano relazioni
fruttuose tra l’urbanistica e l’ingegneria
ambientale e ingegneria del territorio,
relazioni che non si possono immaginare
sempre pacifiche, ma che si devono
imporre come razionali e trasparenti. Le
paure e i timori per i mutamenti per gli
assetti del territorio devono costituire
un chiaro stimolo per moltiplicare
l’attenzione. Un laico atteggiamento è
l’unica speranza di salvezza (in questo e
in tutti gli altri campi).
Sia gli urbanisti che gli ingegneri
ambientali (in senso lato) durante la loro
formazione devono fare esperienze in
comune, partecipare insieme a progetti,
misurarsi, prima di avere acquisito
la “patente” di tecnico nel capirsi
vicendevolmente.
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