lunedì 7 ottobre 2013

Rinasce la DC? No! È peggio (Diario 6 ottobre 2013)





Con la crisi del PDL è l’emergere di una “nuova” classe dirigente di quel partito, dove pesante è il peso dei cattolici e di uomini e donne con esperienza democristiana, si è avviato il dibattito sulla rinascita della Dc. Un po’ per celia e un po’ per non morire al primo incontro, della resurrezione della DC se ne parla in vari contesti e con finalità diverse. 

Qualsiasi sarà la soluzione della spaccatura del PDL, la vittoria piena dei “ribelli”, una vittoria così così almeno in apparenza, o la nascita di due partiti, non si potrà parlare di rinascita della DC. È un modo di dire il “contesto è cambiato”, ma nel caso specifico il contesto è veramente cambiato: la chiesa non è più quella di padre Lombardi microfono di Dio; i “poteri forte”, di cui la DC era “compare” sono svaniti (le grande industrie non esistono più), i nuovi poteri forti, quelli della finanza, non sono alla portata di un partito italiano; non c’è più l’industria pubblica che era la linfa, anche economica di quel partito; non ci sono risorse da distribuire, né ai pochi, né ai tanti (lo spropositato numero di pensioni per invalidità, soprattutto nel mezzogiorno, non era solo lo strumento per acchiappare voti, ma soprattutto quello per evitare di affrontare il problema del mezzogiorno, con una specie di “reddito di sopravvivenza”). Queste condizioni, e altre ancora, rendono impossibile la rinascita DC. Si sottolinea una sorta di antropologia antica di quelli che dovrebbero essere i nuovi democristiani: la fame e l’ingordigia di potere, nonché un feroce antagonismo che non perdona. Ma questo atteggiamento e solo di questi? Non mi pare.

Ma soprattutto quello che hanno in mente questi nuovi leader è ben altro che la “dottrina sociale della chiesta”, comunque ne fosse l’interpretazione anche opportunistica. Sono portatori di un liberismo rigido e senza alternative. Anche loro adorano una trinità (non c’è intenzione di offendere i cattolici, ma la metafora risulta molto utile): il mercato, l’austerità e la stabilità. Ma andiamo per ordine.

Iniziamo con la stabilità: ci si è accorti che la stabilità viene continuamente evocata; ma perché? Ha a che fare con i problemi del nostro paese? No, essa è evocata perché altrimenti i mercati ci puniscono. Peccare di instabilità è come offendere la trinità, e così giù la punizione. La stabilità. Inoltre, è soprattutto di potere: ogni cambiamento è in odore di instabilità.

L’austerità è l’altro idolo. Se fosse una politica consapevolmente espressa ed operativamente organizzata contro lo spreco e il consumismo, a favore per una vita più morigerata ed essenziale. Sarebbe una linea di condotta apprezzabile e condivisibile, ma non è così, si tratta di una politica che toglie di bocca l’essenziale a fasce crescente di popolazione, che taglia servizi indispensabili e funzioni necessarie per il nostro futuro. Essa è determinata con ferocia e finalizzata a pagare ( o meglio a rinnovare) il nostro debito sovrano e a pagarne gli interessi e a mantenere il nostro deficit entro il 3% del reddito nazionale (ci riusciamo, forse, con qualche sotterfugio, che l’Europa fa finta di non vedere) . Spero che i partiti sappiano, che il presidente del consiglio sappia, che il ministro del tesoro nonché il governatore della banca d’Italia sappiano che questo debito non riusciremo mai a saldarlo e che non riusciremo neanche a ridurlo al 60% del PIL come ci siamo impegnati con l’Europa. In realtà ogni anno il nostro debito aumenta sia in valore assoluto che in percentuale del PIL. Non ci riusciremo noi, ma non ci riuscirà la Spagna, il Portogallo e giù fino agli USA. 

La sostanza è che continuamente il “popolo” viene tosato attraverso le imposte per far fronte al debito. Ci si lamenta delle imposte, gli imprenditori, piccoli e grandi chiedono la riduzione delle tasse, ma queste non diminuiscono, anzi aumentano. Perché? perché dobbiamo “onorare” il debito altrimenti i mercati ci puniscono, non ha pietà. Bisogna che la richiesta di ogni diminuzione delle imposte si scontra con questo “obbligo”. Certo si può tagliare la spesa pubblica, ma fino a quando e a quanto? Ogni riduzione di sopesa pubblica non migliora la nostra situazione debitoria ma la peggiora.

Il dio supremo, il padre, è il mercato, che non è misericordioso ma terribilmente cattivo. Per soddisfarlo sacrifichiamo ogni anno non una vergine, come in un rito pagano, ma milioni di pensionati, di giovani, di donne di lavoratori.

Certo oggi non si può invocare il comunismo (anche se necessario, in una nuova forma), ma il mercato può essere controllato, ammansito, reso anche utile. Ma non bisogna adorarlo, bisogna contestarlo politicamente, legislativamente, amministrativamente e funzionalmente. Le liberalizzazioni sono proprio il contrario, a fin di bene esaltano l’assolutismo del mercato. Per esempio la liquidazione dell’industria di stato (al netto delle sue storture), nei settori strategici e ordinatori dell’economia produttiva è stata un errore che mi pare continuiamo a commettere.

È questo un periodo in cui diversi partiti sinistra e di centro-sinistra si avviano ai congressi, sarebbe essenziale che ci dicessero una parola chiara rispetto a questa trinità. Ma di questo ne riparleremo.







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