giovedì 17 ottobre 2013

Le architetture raccontano



Giandomenico Amendola, Il brusio delle città. Le architetture raccontano, Liguori editore, Napoli, 2013; pp. 100, € 15,99



Libro di piacevole lettura, che si fa apprezzare non tanto per la novità della tesi, le architetture narrano la storia e una loro storia, ma perché questo viaggio attraverso i diversi edifici del potere e della sua rappresentazione, nelle diverse epoche, è armonizzato con le trasformazioni sociali ed economiche e accompagnato di continui riferimenti letterari e di filmografia. Un dialogo tra forme diverse di rappresentazione e di uso stesso della rappresentazione che sollecita l’immaginazione e la riflessione.

Nella trattazione si mischiano epoche e ruoli, stili canonici e innovazione rappresentativa. Il “potere” ha avuto bisogno sempre di rappresentarsi, o per meglio dire, dare di sé un’immagine che fosse soprattutto una comunicazione del potere incarnato. Sia esso politico, che religioso che economico. Ma non va dimenticato quello stesso potere che si rappresenta offre anche manifestazioni di potenza (spesso distruttiva): dal bruciare eretici e streghe al controllo della finanza che toglie respiro ai popoli.

Tra le chiese gotiche e barocche, non c’è soltanto un cambio di stile quanto piuttosto il cambio del ruolo e dell’aspirazione della religiosità; tra il castello del signore e il palazzo del “comune”, non c’è solo una cambio dimensionale e di stile, ma anche di ruolo politico. Così le democrazie moderne si acconciano a celebrare nei loro palazzi la democraticità del potere e questi edifici portano, con il loro stile, le stimmate di un’epoca nuova.

Viene in mente che in Italia, sarà forse perché il potere politico si è “sistemato” dentro i palazzi lasciati dal vaticano, rappresentazione di un potere spirituale e materiale tanto chiuso, quanto autoritario, che la nostra democrazia è così opaca e separata? Sarebbe cedere ad un determinismo troppo grezzo assecondare questo pensiero, ma è certo che la “rappresentazione, in questo caso, non appare coerente. Anche se, come sostiene l’autore, la stessa architettura può raccontare storie diverse nel tempo, il segno dell’inizio resta e si riverbera anche nella trasformazione del significato.

Gli esempi che Amendola porta di questo “libro di pietra” sono numerosissimi, e l’interpretazione che ne dà è condivisibile: da Mosca a Pechino, dalla Roma mussoliniana, alla Berlino di Hitler, dal palazzo del congresso a Washington (nessuno edificio poteva essere più alto del palazzo del congresso, neanche la Casa Bianca, dato che il “potere democratico” stava proprio nel Congresso). Per non parlare delle cattedrali, ecc. Come si è detto una lettura tanto piacevole quanto sollecitante.

Ma l’autore non resta invischiato nella sua tesi, ha chiaro ed esplicita la dinamica e il mutamento. Mette in luce come “contenuti, riferimenti e significati mutano in relazione ai cambiamenti della funzione dell’edificio, degli interessi e della cultura dei fruitori, dei codici e dei valori condivisi in un determinato momento storico”. E ancora “Mutano, perciò, profondamente le narrazioni degli edifici la cui architetture cambiano anche perché ciò che devono raccontare è diverso dal passato”.

Ma è alla città, al suo modificarsi, alla sua dinamica che l’autore è attento in relazione al tema della narrazione del “libro di pietra”: “Quello urbano è oggi più che un testo coerente una sorta di geroglifico su cui coesistono – contagiandosi reciprocamente – una quantità enorme e crescente di linguaggi e di codici”. Su questo si tornerà in chiusura, ma prima si vorrebbe rendere conto dell’attenzione che l’autore mette sulle stazioni ferroviarie; è una parte molto interessante del testo.

Le stazioni sono considerate il “monumento pratico e narrativo della modernità industriale”. E se all’inizio, anche nei nomi (Waterloo o piuttosto Austerlitz), volevano essere una rappresentanza oltre che della modernità (la macchina a vapore, l’uso del vetro e dell’acciaio) anche della “storia” della nazione. Essa era di fatto il varco attraverso il quale si “entrava” in città, divisa, si potrebbe dire, in due parti: la “porta”, vera e propria, di accesso alla città e di abbandono di essa, per lo più monumentale nei diversi stili dell’epoca; ma dietro la porta il recinto della modernità la parte interna di arrivi e partenze dei treni, rotai, il fumo delle locomotive, ecc. “La stazione ferroviaria ottocentesca è, come gran parte dell’architettura civica dell’epoca, un monumento pratico, cioè dove vivono sinergicamente funzioni pratiche – controllo e gestione della mobilità – e simboliche – monumento celebrativo della modernità e della borghesia che di questa è artefice e protagonista”. Pur nelle differenze la stazione è un “luogo pubblico”, accessibile a tutti. Ma il tempo scorre, la dinamica sociale, tecnologica e culturale non si ferma: la stazione cambia. L’autore, sempre attento alle dinamiche, propone una periodicizzazione della storia delle stazioni che può essere condivisa.

Un primo periodo che giunge fino agli anni ’20 del ‘900: è la fase della stazione “monumento”, dominata dall’ecclettismo degli stili, simbolo dell’avanzamento tecnologico ma anche della borghesia imperante.

A questo periodo succede quello funzionalista, caratterizzata da quello che è definito “mutismo simbolico”, ad eccezione dei regimi totalitari dove le nuove stazioni assumono compiti di rappresentanza e di legittimità. I due dittatori, Mussolini e Hitler, prediligono l’incontro in stazione, sia all’arrivo che alla partenza, con il coro plaudente di moltitudini.

Nel secondo dopoguerra, fino agli anni ’80, si può registrare la decadenza simbolica e un degrado cumulativo delle stazioni. Le stazioni, per esempio in Italia ma in tutta l’Europa, sono il punto di arrivo dell’emigrazione alla ricerca di un lavoro (filmografia sterminata), ma sono anche il rifugio di un’umanità “altra”.

Nel periodo più prossimo si ha la, così detta, “rinascita”: la stazione ridiventa una centralità, certo perché centro dell’intermodalità dei trasporti, ma anche e soprattutto perché monumento allo shopping. La stazione non è più soltanto il luogo da dove si parte e dove si arriva, ma un luogo dove si va per quello che offre; un’offerta commerciale per tutti i cittadini, con i vari negozi specializzati e no, con luoghi di ristoro, ecc. Ha perso largamente la sua funzionalità ed anche molto del suo simbolismo (e fascino).

Di questa “rinascita” si potrebbero dire molte cose, ma la cosa principale è che il viaggiatore è l’ultimo degli interessi in questa nuova sistemazione (non pare che il testo colga questo aspetto). Per esempio il tracciato non ti porta velocemente dall’entrata ai binari, ma ti costringe ad un giro vizioso obbligato perché si possa essere attratti dalle vetrine (è il caso di Milano, per esempio). Che il viaggiatore sia negletto è evidente dal fatto che nella ristrutturazione (è il caso di Roma) sia stato eliminato il “Cobianchi”, che era un luogo di parziale delizie per chi arrivando la mattina presto (da Milano tra le 6 e le 7) poteva fare una doccia calda, che ti scrollava la stanchezza di una notte non comodissima di viaggio. Ma certo, i “treni della notte” sono molto ridotti, ma l’indifferenza verso il viaggiatore è palese.

Si vorrebbe, a questo punto, indicare alcuni disaccordi. Pare che il punto di vista di Benjamin, che l’autore rifiuta, secondo il quale le opere d’arte urbane sono fruite in condizioni di “distrazione”, appare sempre più attuale e generalizzato. Chi “attraversa” la città raramente ha interesse per essa, del resto ci sono tante incombenze a cui rispondere che non si ha tempo per guardarsi in giro, o l’attenzione è attratta dalle vetrine dal loro contenuto, ma dal loro contenente. Anche quando lo scopo dovrebbe essere quello di “vedere” si fa con distrazione; certo ci sono i luoghi che bisogna visitare (Piazza San Marco a Venezia, per dirne una), ma si guarda ma non si vede. Ci vuole attenzione e disposizione d’animo per svelare il contenuto del libro di pietre, ma rara appare questa attenzione e la voglia di leggere (fa da contrappunto a questa inconsapevolezza un coro di Oh! meravigliati).

Non pare che la città “è per la prima volta centrata sulla domanda della gente. Un’alta qualità della vita è oggi il più importante degli asset di una città che grazie a questa risorsa vede aumentare le chances di attrarre imprese e famiglie. A patto, però, che questa qualità sia ben visibile. Qui torna in gioco l’architettura” . Non disconosco che la “grande” architettura (qualsiasi cosa significhi “grande”) possa essere un elemento di qualificazione della città (il caso di Bilbao è sempre citato) ma non basta. La qualità della città non si fonda solo sulla “bellezza” ma anche sulla “bontà”. Una città di alta qualità deve essere bella e buona, deve cioè coniugare insieme e strettamente la sua bellezza (fisica, artistica, di localizzazione, naturale, ecc.), con una gestione pubblica onesta, trasparente e finalizzata al bene collettivo e con un atteggiamento della popolazione accogliente e convivente. La semplificazione della “grande architettura” ha portato a molte spese inutili, ad opere magniloquenti dagli esiti incerti. Si possono ammirare ma non garantiscano la qualità della vita.

Che le città siano centrate a soddisfare le domande dei cittadini mi pare un punto di vista molto ottimista, forse troppo ottimista. In quest’epoca di esibizione la verità è che anche le città amano esibirsi, il gesto architettonico è quello più usato allo scopo, si finisce sulle riviste, ma forse i risultati fattuali spesso sono deludenti per i cittadini alla ricerca di una qualità della vita.

A questo punto, apprezzando il lavoro di Amendola, la domanda è: il “libro di pietra”, che narra della città, della sua trasformazione e della sua evoluzione, è fatto solo delle pagine dei “monumenti” (intesi nella versione larga dell’autore) o è la “pietra” di tutta la città che fa sentire il suo brusio?

Amendola ha scelto di riferirsi alle “architetture che raccontano”, sembra chiaro, altrimenti avrebbe scritto un altro libro. Ma un libro è rilevante anche per i corti circuiti che crea, per i rimandi involontari che sollecita, per la ricerca di un … oltre. Le note che seguono non sono una critica al fatto che gli “uomini e le donne” in larga misura mancano in questa esplorazione, quanto piuttosto rendere conto di questo “oltre” che il libro esercita.

Sono tutte le pietre della città che raccontano la storia e l’evoluzione dell’insediamento di uomini e donne in quel posto. A differenza del periodo pre-capitalista oggi domina la divisione sociale dello spazio, ciascuno a posto suo, in gironi di qualità e di omogeneità sociale. Ma le periferie non sono un’altra città, se mai potrebbero essere classificate come città senza città, ma anch’esse hanno una storia. E la storia che raccontano è sociale e politica, ma essa è fatta non solo di costruzioni ma anche di “architetture”; molti architetti si sono impegnati, non sempre con buoni risultati, a queste architetture, a sperimentare, e le amministrazioni pubbliche l’hanno lasciato fare dimentiche che la città è opera collettiva e sociale. Se si volesse esplorare questo segmento della storia, se si vuole da un lato estremo ma reale, un buon viatico potrebbe essere rappresentato dal lavoro di Julia Schulz-Dornburg (Ruinas Modernas, 2012, Ambit, Barcellona), che mette in luce come l’attenzione al benessere collettivo sia nullo e massimo quello verso la speculazione (spesso fallimentare in sé, come queste rovine dimostrano).

In epoca più recente la banalizzazione sembra la cifra che caratterizza l’urbano. Tutto uguale ovunque tu sia, spesso si prova un senso di spaesamento, quello che si vede lo si è già visto identico e si perdono le coordinate di dove uno si trovi.
Forse il punto di vista di Francesc Munoz (Urbanalization, Gilli, 2010,Barcellona) può non essere condiviso, ma pare che significativamente dà conto di una realtà in evoluzione. Secondo questo autore la globalizzazione ha come esito, per quanto riguarda la città, una standardizzazione del paesaggio urbano.


Insomma, il libro di Amendola non solo è interessante in sé, ma anche per le questioni che fa emergere, domande sottaciute, ma presenti nella filigrana del testo.

Nessun commento:

Posta un commento