martedì 15 novembre 2011

Geografia politica urbana


U. Rossi e A. Vanolo
Geografia  politica urbana
Laterza 2010

(da Archivio di tudi Urbani e Regionali, n. 100, 2011)

Il saggio di Rossi e Vanolo è interessante, molto ricco di informazioni e non focalizzato su un aspetto disciplinare; è l’oggetto “città” che interessa i due autori. Tuttavia mi pare manchi un sottotiolo del tipo “ricostruzione di un dibattito soprattutto nella cultura anglosassone”. Con questa precisazione il volume assume autorevolezza e consapevolezza e non suscita negli studenti, il libro credo sia indirizzato agli studenti, la falsa impressione che le questioni affrontati nel libro trovano spessore solo nella cultura anglosassone. La cultura italiana non pare marginale nel dibattito sulla interpretazione della città e sulla sua gestione, di questa ricchezza di contenuti, non omogenei, contraddittori, ma che hanno cercato con strumenti e impostazioni diverse, sia sotto l’aspetto ideologico che politico, di affrontare molte delle questioni trattate nel testo in discussione, il volume non riporta che ben poco. Non né faccio una questione “nazionalista”, ci mancherebbe altro, ma proprio una questione culturale. Su 257 autori citati, non testi citati, gli italiani sono appena 38 e la loro scelta appare, come dire, un po’ casuale e in parte derivante da quelle che mi paiono le frequentazioni degli autori (tanto per fare degli esempi mancano, cito alla rinfusa e senza nessuna intenzione di completezza, e anche un po’ in modo  provocatorio: Secchi, Campos Venuti, Marcelloni, Cervellati, Astengo, Vittorini, Palermo, Piccinato, Mazza, Crosta, Belli, Salzano, Magnaghi, Maciocco, … Mi sono riferito solo ai “vecchi” che hanno teorizzato e in molti casi anche pianificato città e territori). Negli anni ’60, per continuare la provocazione, Secchi e Indovina hanno affrontato da un punto di vista comune, ma con risultati diversi, il rapporto tra settore edilizio e sviluppo economico; più recentemente Mazza non mi pare abbia dato contributi di poco rilievo a proposito delle strategie urbane nel nuovo contesto economico e culturale; o ancora Stefano Moroni ha trattato a più riprese il tema del liberismo e della pianificazione.
   Ovviamente non si tratta di essere d’accordo con le singole posizioni, anche perché tra di loro diverse, ma solo di esplicitare un apporto culturale ricco, complesso che ha fatto i conti con il cambiamento anche se qualche volta e in qualche caso  cedendo alla “moda” del momento, del resto i due autori non hanno assunto criticamente le diverse posizione che hanno esposto, anche se non è sempre semplice individuare il punto di vista dei due autori (ma forse per lo scopo didattico del libro questo può sembrare un dato positivo).
Un altro punto che a me non soddisfa è una sorta di indifferenza sul dato reale della città. A valle delle diverse interpretazioni e delle politiche suggeriti, cosa è avvenuto concretamente nelle città? come e in che direzioni si sono modificate? Di questo nulla o molto poco si dice.
Ho molto apprezzato, ammesso che tale apprezzamento abbia valore, una vena di scetticismo nei due autori quando hanno affrontato il tema della rappresentazione come strategia di crescita e di sviluppo delle città e quello del dato “culturale” che sovrasta la produzione materiale nel dare senso e significato alla singola città e come elemento caratterizzante il capitalismo odierno. Avere un approccio scettico a quelle che spesso sono delle tautologie o dei “pensieri” poco fondati mi pare molto ma molto utile. Anche se il fascino della novità mi pare che talvolta infranga lo scudo dello scetticismo. Le “città mondiali”, per dirla in soldoni, fanno parte di un club molto, ma molto esclusivo, con una tassa di iscrizione talmente alta che solo pochissime nuove adesioni si possono registrare. Non basta rifarsi il belletto, non basta innalzare la bandiera della creatività per entrare in questo club, né tanto meno basta un “piano strategico”. È certo che nella realtà è possibile registrare  una trasformazione dei ruoli e delle gerarchie tra le diverse città, una nuova geografia urbana mondiale è in cammino, su questo pochi dubbi è possibile sollevare, ma come la singola città si collocherà in questa nuova geografia dipenderà da moltissime variabili, compresa la storia consolidata. Non sono convinto che sia possibile stravolgere le gerarchie consolidate, si può fare parzialmente ma ci vuole intelligenza progettuale, perseveranza e un non modesto impiego di risorse. È più facile per alcune della città delle “nuove potenze mondiali” entrare a far parte di quello che è stato definito un club esclusivo, ma il merito o la ragione non è tanto da individuarsi nelle città, nelle loro politiche e strategie, certo anche queste contano, ma nel ruolo assunto a livello mondiale da questi paesi.
Personalmente non condivido quello che viene spesso affermato di “concorrenza” tra i territori, che annullerebbe la concorrenza economica delle imprese e delle singole economie. Che i territori, la loro organizzazione efficiente ed efficace prima di tutto, e poi l’immagine che possono veicolare all’esterno, possano essere un supporto di rilievo nell’aiutare le iniziative economiche (di qualsiasi tipo) presenti nello stesso territorio mi pare condivisibile, ma fondamentale è l’esistenza di iniziative economiche capaci di entrare in collisione (o in integrazione) con altre. Il pericolo che mi pare di intravedere, soprattutto per paesi di media potenza (come il caso italiano),  è quello della ricerca di una sorta di omogeneità contro una ragionevole specializzazione: se tutti faranno le stesse cose, tale omogeneità annulla ogni sforzo per emergere (in questo senso il concetto di “buone pratiche”, da riprodurre, mi pare deleterio come approccio teorico).
Ho colto, ma forse mi sbaglio,  un tocco di semplificazione nell’accettazione acritica del prevalere del “neo liberismo” contro ogni politica keynesiana (interventista); non intendo dire che i due autori condividano una impostazione neo-liberista, mi pare il contrario, ma colgo un’accettazione in una sorta di ineluttabile prevalere di quest’ultima. La cosa mi pare dubbia in generale e in particolare con riferimento alla città e all’organizzazione del territorio. Una cosa è la foga propagandistica, una cosa è la sua traduzione nella realtà. Non è questa la sede per affrontare questa questione in generale, ma mi pare di poter dire che i cambiamenti (prescindiamo dall’aggettivo “grandi”) che sono periodicamente necessari per, uso un termine improprio ma rappresentativo, svecchiare l’organizzazione della società, ha bisogno di sventolare grandi bandiere, ma la vischiosità della società evita di fare grandi danni. Certo che si cambia ma la resistenza dell’esistente è tanto più forte quanto più l’esistente rappresenta un sentiero stabile per quella società. Fuor dal generico, per quanto riguarda la città l’individualismo dettato dalle rinnovate ideologie trova un limite nella stessa organizzazione della città. Nella città l’individuo, come dire, tocca con mano la necessità, l’opportunità e la convenienza di una dimensione collettiva; non può risolvere i propri problemi con l’azione singola, ha bisogno di soluzioni collettive che valgano per tutti. Questo ovviamente non vuol dire che il neo-liberismo non possa produrre (e ha già prodotto) disastri, e mi riferisco a disastri sull’organizzazione della città. Per usare una formula a me cara, la città bella non potrà che essere anche la città buona. Il dato estetico della città non è indipendente dal suo dato etico.
Certo il governo urbano e in particolare il governo delle trasformazioni urbane potrà essere modificato, potrà essere più intelligente, più accurato, più rispettoso delle esigenze di crescita, fino ad essere più flessibile nei suoi strumenti, ma non potrà abbandonare un punto di vista generale e collettivo, non potrà non perseguire un progetto di affermazione dell’equità, non potrà non porsi il tema dell’accoglienza, non potrà che moltiplicare le libertà individuali correggendo ogni forma di discriminazione. Tema questo che i due autori affrontano in parte legandolo a quello della sicurezza; dal mio punto di vista  la città sicura non può che essere la città buona.
Se ho capito bene mi pare di condividere il punto di vista che colloca il “conflitto urbano” nella dimensione del “governo della città”. Non condivido la critica avanzata alle posizioni marxiste tutte attente ai rapporti strutturali e indifferenti a quelli istituzionale di potere, mentre le posizioni post-liberali risulterebbero attente alla discriminazione istituzionale, non solo perché mi pare riduttivo la descrizione della posizione marxista, come dire innocente rispetto ai rapporti istituzionali (cosa sarebbe l’impresa? per esempio), ma soprattutto perché nella pratica i conflitti urbani non distinguono i due aspetti. Affrontano i temi del disaggio, che il conflitto porta in primo piano, cercandone le radici (strutturali) e la loro incapacità di affrontarli (istituzionale). Non si può, tuttavia, non sottolineare, che non sempre i conflitti, soprattutto quelli ambientali, mostrano di avere tale spessore, appaiono come delle semplificazioni; ma per fortuna non tutte si collocano in queste dimensione.
Mi pare di condividere la posizione conclusiva dei due autori, secondo cui i soggetti esclusi e svantaggiati nel loro costituirsi come soggetti politici attivi. Mi permetto solo di allargare questo punto di vista, non sono solo i soggetti esclusi, ma i movimenti urbani in generale, che superano questa dicotomia proprio perché affrontano il tema del governo della città e della sua trasformazione, città che è insieme e indissolubilmente istituzione e struttura, è la natura della città (oggetto collettivo, luogo denso delle contraddizioni sociali, strumento di integrazione e di mitigazione delle posizione meno avvantaggiate, tavolo della socialità, turpitudine della discriminazione, ecc.) che costringe ad una visione integrata di istituzioni e struttura. 
La città, il discorso politico, culturale e scientifico sulla città, le operazioni di riorganizzazione della città, le politiche che ne dovrebbero governare l’evoluzione, come lasciano intravedere i due autori, operano all’interno di una “bolla”, che è diventata sempre più grande e sempre più complessa, insieme un vaso di Pandora e le meraviglie di un paradiso terreste; periodicamente la città è messa in pericolo dalla bramosia economica di imprenditori e speculatori, spesso una coltre ideologica ne mistifica i contenuti, ma periodicamente i suoi abitanti ne prendono le retini e sembrano guidarla verso  obiettivi di interesse generale, ma ecco che nuovamente tutto si fa più confuso. Necessità e opportunità, bisogno di comunità e di libertà individuale, voglia di emergere e solidarietà, insomma un insieme contraddittorio di spinte e controspinte: è questa realtà che molto spesso il discorso “scientifico” sulla città finisce per mistificare.   

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