U. Rossi e A. Vanolo
Geografia politica
urbana
Laterza 2010
(da Archivio di tudi Urbani e Regionali, n. 100, 2011)
Il saggio di Rossi e Vanolo è interessante, molto ricco di
informazioni e non focalizzato su un aspetto disciplinare; è l’oggetto “città”
che interessa i due autori. Tuttavia mi pare manchi un sottotiolo del tipo
“ricostruzione di un dibattito soprattutto nella cultura anglosassone”. Con
questa precisazione il volume assume autorevolezza e consapevolezza e non
suscita negli studenti, il libro credo sia indirizzato agli studenti, la falsa
impressione che le questioni affrontati nel libro trovano spessore solo nella
cultura anglosassone. La cultura italiana non pare marginale nel dibattito
sulla interpretazione della città e sulla sua gestione, di questa ricchezza di
contenuti, non omogenei, contraddittori, ma che hanno cercato con strumenti e
impostazioni diverse, sia sotto l’aspetto ideologico che politico, di
affrontare molte delle questioni trattate nel testo in discussione, il volume
non riporta che ben poco. Non né faccio una questione “nazionalista”, ci
mancherebbe altro, ma proprio una questione culturale. Su 257 autori citati,
non testi citati, gli italiani sono appena 38 e la loro scelta appare, come
dire, un po’ casuale e in parte derivante da quelle che mi paiono le
frequentazioni degli autori (tanto per fare degli esempi mancano, cito alla
rinfusa e senza nessuna intenzione di completezza, e anche un po’ in modo provocatorio: Secchi, Campos Venuti,
Marcelloni, Cervellati, Astengo, Vittorini, Palermo, Piccinato, Mazza, Crosta,
Belli, Salzano, Magnaghi, Maciocco, … Mi sono riferito solo ai “vecchi” che
hanno teorizzato e in molti casi anche pianificato città e territori). Negli
anni ’60, per continuare la provocazione, Secchi e Indovina hanno affrontato da
un punto di vista comune, ma con risultati diversi, il rapporto tra settore
edilizio e sviluppo economico; più recentemente Mazza non mi pare abbia dato
contributi di poco rilievo a proposito delle strategie urbane nel nuovo
contesto economico e culturale; o ancora Stefano Moroni ha trattato a più
riprese il tema del liberismo e della pianificazione.
Ovviamente non si
tratta di essere d’accordo con le singole posizioni, anche perché tra di loro
diverse, ma solo di esplicitare un apporto culturale ricco, complesso che ha
fatto i conti con il cambiamento anche se qualche volta e in qualche caso cedendo alla “moda” del momento, del resto i
due autori non hanno assunto criticamente le diverse posizione che hanno esposto,
anche se non è sempre semplice individuare il punto di vista dei due autori (ma
forse per lo scopo didattico del libro questo può sembrare un dato positivo).
Un altro punto che a me non soddisfa è una sorta di
indifferenza sul dato reale della città. A valle delle diverse interpretazioni
e delle politiche suggeriti, cosa è avvenuto concretamente nelle città? come e
in che direzioni si sono modificate? Di questo nulla o molto poco si dice.
Ho molto apprezzato, ammesso che tale apprezzamento abbia
valore, una vena di scetticismo nei due autori quando hanno affrontato il tema
della rappresentazione come strategia di crescita e di sviluppo delle città e
quello del dato “culturale” che sovrasta la produzione materiale nel dare senso
e significato alla singola città e come elemento caratterizzante il capitalismo
odierno. Avere un approccio scettico a quelle che spesso sono delle tautologie
o dei “pensieri” poco fondati mi pare molto ma molto utile. Anche se il fascino
della novità mi pare che talvolta infranga lo scudo dello scetticismo. Le
“città mondiali”, per dirla in soldoni, fanno parte di un club molto, ma molto
esclusivo, con una tassa di iscrizione talmente alta che solo pochissime nuove
adesioni si possono registrare. Non basta rifarsi il belletto, non basta
innalzare la bandiera della creatività per entrare in questo club, né tanto
meno basta un “piano strategico”. È certo che nella realtà è possibile
registrare una trasformazione dei ruoli e
delle gerarchie tra le diverse città, una nuova geografia urbana mondiale è in
cammino, su questo pochi dubbi è possibile sollevare, ma come la singola città
si collocherà in questa nuova geografia dipenderà da moltissime variabili,
compresa la storia consolidata. Non sono convinto che sia possibile stravolgere
le gerarchie consolidate, si può fare parzialmente ma ci vuole intelligenza progettuale,
perseveranza e un non modesto impiego di risorse. È più facile per alcune della
città delle “nuove potenze mondiali” entrare a far parte di quello che è stato
definito un club esclusivo, ma il merito o la ragione non è tanto da
individuarsi nelle città, nelle loro politiche e strategie, certo anche queste
contano, ma nel ruolo assunto a livello mondiale da questi paesi.
Personalmente non condivido quello che viene spesso
affermato di “concorrenza” tra i territori, che annullerebbe la concorrenza
economica delle imprese e delle singole economie. Che i territori, la loro
organizzazione efficiente ed efficace prima di tutto, e poi l’immagine che possono
veicolare all’esterno, possano essere un supporto di rilievo nell’aiutare le
iniziative economiche (di qualsiasi tipo) presenti nello stesso territorio mi
pare condivisibile, ma fondamentale è l’esistenza di iniziative economiche
capaci di entrare in collisione (o in integrazione) con altre. Il pericolo che
mi pare di intravedere, soprattutto per paesi di media potenza (come il caso
italiano), è quello della ricerca di una
sorta di omogeneità contro una ragionevole specializzazione: se tutti faranno
le stesse cose, tale omogeneità annulla ogni sforzo per emergere (in questo
senso il concetto di “buone pratiche”, da riprodurre, mi pare deleterio come
approccio teorico).
Ho colto, ma forse mi sbaglio, un tocco di semplificazione nell’accettazione
acritica del prevalere del “neo liberismo” contro ogni politica keynesiana
(interventista); non intendo dire che i due autori condividano una impostazione
neo-liberista, mi pare il contrario, ma colgo un’accettazione in una sorta di
ineluttabile prevalere di quest’ultima. La cosa mi pare dubbia in generale e in
particolare con riferimento alla città e all’organizzazione del territorio. Una
cosa è la foga propagandistica, una cosa è la sua traduzione nella realtà. Non
è questa la sede per affrontare questa questione in generale, ma mi pare di
poter dire che i cambiamenti (prescindiamo dall’aggettivo “grandi”) che sono
periodicamente necessari per, uso un termine improprio ma rappresentativo,
svecchiare l’organizzazione della società, ha bisogno di sventolare grandi
bandiere, ma la vischiosità della società evita di fare grandi danni. Certo che
si cambia ma la resistenza dell’esistente è tanto più forte quanto più
l’esistente rappresenta un sentiero stabile per quella società. Fuor dal
generico, per quanto riguarda la città l’individualismo dettato dalle rinnovate
ideologie trova un limite nella stessa organizzazione della città. Nella città
l’individuo, come dire, tocca con mano la necessità, l’opportunità e la
convenienza di una dimensione collettiva; non può risolvere i propri problemi
con l’azione singola, ha bisogno di soluzioni collettive che valgano per tutti.
Questo ovviamente non vuol dire che il neo-liberismo non possa produrre (e ha
già prodotto) disastri, e mi riferisco a disastri sull’organizzazione della
città. Per usare una formula a me cara, la città bella non potrà che essere anche la città buona. Il dato estetico della città non è indipendente dal suo dato
etico.
Certo il governo urbano e in particolare il governo delle
trasformazioni urbane potrà essere modificato, potrà essere più intelligente,
più accurato, più rispettoso delle esigenze di crescita, fino ad essere più
flessibile nei suoi strumenti, ma non potrà abbandonare un punto di vista
generale e collettivo, non potrà non perseguire un progetto di affermazione
dell’equità, non potrà non porsi il tema dell’accoglienza, non potrà che
moltiplicare le libertà individuali correggendo ogni forma di discriminazione.
Tema questo che i due autori affrontano in parte legandolo a quello della
sicurezza; dal mio punto di vista la
città sicura non può che essere la città buona.
Se ho capito bene mi pare di condividere il punto di vista
che colloca il “conflitto urbano” nella dimensione del “governo della città”.
Non condivido la critica avanzata alle posizioni marxiste tutte attente ai
rapporti strutturali e indifferenti a quelli istituzionale di potere, mentre le
posizioni post-liberali risulterebbero attente alla discriminazione
istituzionale, non solo perché mi pare riduttivo la descrizione della posizione
marxista, come dire innocente rispetto ai rapporti istituzionali (cosa sarebbe
l’impresa? per esempio), ma soprattutto perché nella pratica i conflitti urbani
non distinguono i due aspetti. Affrontano i temi del disaggio, che il conflitto
porta in primo piano, cercandone le radici (strutturali) e la loro incapacità
di affrontarli (istituzionale). Non si può, tuttavia, non sottolineare, che non
sempre i conflitti, soprattutto quelli ambientali, mostrano di avere tale
spessore, appaiono come delle semplificazioni; ma per fortuna non tutte si
collocano in queste dimensione.
Mi pare di condividere la posizione conclusiva dei due
autori, secondo cui i soggetti esclusi e svantaggiati nel loro costituirsi come
soggetti politici attivi. Mi permetto solo di allargare questo punto di vista,
non sono solo i soggetti esclusi, ma i movimenti urbani in generale, che superano
questa dicotomia proprio perché affrontano il tema del governo della città e
della sua trasformazione, città che è insieme e indissolubilmente istituzione e
struttura, è la natura della città (oggetto collettivo, luogo denso delle
contraddizioni sociali, strumento di integrazione e di mitigazione delle
posizione meno avvantaggiate, tavolo della socialità, turpitudine della
discriminazione, ecc.) che costringe ad una visione integrata di istituzioni e
struttura.
La città, il discorso politico, culturale e scientifico sulla
città, le operazioni di riorganizzazione della città, le politiche che ne
dovrebbero governare l’evoluzione, come lasciano intravedere i due autori,
operano all’interno di una “bolla”, che è diventata sempre più grande e sempre
più complessa, insieme un vaso di Pandora e le meraviglie di un paradiso
terreste; periodicamente la città è messa in pericolo dalla bramosia economica
di imprenditori e speculatori, spesso una coltre ideologica ne mistifica i
contenuti, ma periodicamente i suoi abitanti ne prendono le retini e sembrano
guidarla verso obiettivi di interesse
generale, ma ecco che nuovamente tutto si fa più confuso. Necessità e
opportunità, bisogno di comunità e di libertà individuale, voglia di emergere e
solidarietà, insomma un insieme contraddittorio di spinte e controspinte: è
questa realtà che molto spesso il discorso “scientifico” sulla città finisce
per mistificare.
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