martedì 13 novembre 2018

Pianificazione antifragile


Ivan Blecic e Arnaldo Cecchini, Verso una pianificazione antifragile: come pensare al futuro senza prevederlo, Franco Angeli editore, Milano, 2016,  pp. 191, 25 euro.    

da ASUR, 2016 
Questo saggio di Blecic e Cecchini si raccomanda per più di un motivo: è intelligente, puzza di originalità, non è accomodante e stimola punti di vista imprevisti.
Non è la solita lamentazione intorno alle difficoltà della pianificazione, né se ne prospetta l’abbandono, già questo sarebbe un motivo di grande apprezzamento, ma si propone di costruire un punto di vista nuovo sulla natura della città e della sua dinamica.
In apertura gli autori denunziano tre limiti del loro lavoro: aver posta attenzione alle città occidentali, non aver considerato il ruolo del conflitto sociale e aver fatto riferimento più alle “azioni di governo delle trasformazioni urbane” che alla strumentazione e alle tecniche di piano.
A me pare che l’ultima piuttosto che un limite sia un giusto atteggiamento che fa i conti con la realtà della pianificazione: non applicazione di modelli astratti, ma piuttosto “governo delle trasformazioni urbane”. Della prima non merita parlare, le situazioni urbane mondiali tendono ad una diversificazione di cui non sembra potersi intuire la dinamica, mentre più omogenee appaiono le città occidentali.
Il non aver considero il ruolo del conflitto sociale e la dinamica degli interessi contrastanti  nelle trasformazioni urbane, può effettivamente essere considerato un limite. “Conflitti”  (in tutte le  forme ed espressioni) e dinamica urbana appaiono legati da strettissime relazioni, si potrebbe azzardare che vivono in simbiosi: la dinamica urbana è figlia di conflitti, e questi ultimi nascono nell’alveo della dinamica urbana. A me pare che i due autori proprio nella formulazione della tesi, anche se non esplicitamente, hanno fatto riferimento ai conflitti anche se in una visione individualista; quando affermano con decisione che “la gente fa di testa propria”, essi di fatto si riferiscono ai conflitti, che in varia forma e con diversi esiti generano dinamiche urbane.

Blecic e Cecchini si muovono lungo la corrente che individua come scopo del progetto l’adattamento “della forma alla funzione”. Ma il progetto è possibile solo se c’è “un soggetto che consapevolmente si pone e persegue degli obiettivi”. La  relazione tra adattamento della forma alla funzione e la necessità di una soggettività che si ponga degli obiettivi applicata ai sistemi sociali non è priva di implicazioni e di manomissioni, l’imprevedibilità essendo la natura costitutiva dei sistemi sociali a motivo soprattutto dell’azione e dell’intenzione dei soggetti sociali.
È a partire da queste considerazioni che i due autori formulano un lungo elenco di idola (il riferimento è a Francesco Bacone), che hanno tanta parte nella “scarsa efficacia” della pianificazione e gestione del territorio.
Nonostante quello che appare o meglio che si crede, la pianificazione non ha rappresentato un corpo stabile e immobile di regole, principi e strumenti. Da sempre la sua scarsa efficacia, per dirla con i nostri autori, ha spinto a continui aggiustamenti, a considerare nuove ipotesi, a considerare nuove interpretazioni, e se anche qualcuna di queste ne ha messo in discussione la necessità e utilità, hanno determinato, molto più spesso di quanto non si creda, una struttura di pensiero poco efficace, costruendo degli idola alcuni dei quali sono elencati e visitati dai nostri autori. 
Non vorrei soffermarmi su ciascuno di essi (sono 12) ma elencarli sì, perché essi sono espressivi dell’attenzione e dell’acume degli autori, ma anche  perché il singolo titolo dovrebbe o potrebbe fare arrossire molti pianificatori per la loro affezione ad alcuni di questi (va detto, non parlo di errori, ma di convinzioni e di credulità che esitano  risultati negativi).
L’elenco comprende: Il dogma della continuità; La fallacia dell’estrapolazione; L’assunto della retroattività dei principi morali; La pretesa dell’universalità – spaziale e temporale – dei comportamenti; L’oblio degli effetti contro-intuitivi; La sindrome del defroqué; L’ipotesi dell’agire razionale; La querelle riduzionismo vs olismo; La querelle bottom-up vs top-down; La querelle quantitativo vs qualitativo; Il buon dottore; Le intelligenze sono multiple e non trasferibili; Misurare non è valutare, valutare non è decidere; Troppo tardi per smettere.
Gli autori forniscono anche una ricetta per la cura dagli idola: “attraverso la concezione del progetto come processo che si svolge a molti livelli e coinvolge molti attori, e non come il prodotto di una mente razionale che disegna in modo fermo e razionale la strada del futuro, si può operare concretamente per selezionale azioni e percorsi che attraversino i futuri possibili e li conducano verso futuri desiderabili”.
Le ricette, come è noto, sono impastate con l’idola della semplificazione, non sfugge neanche questa ricetta, che pur nella sua linearità lascia fuori molte questioni, la principale delle quali mi pare un sorvolare sulla questione del potere o dei poteri. Ma voglio arrivare al nocciolo del saggio che mi pare molto interessante. 
Gli autori ci guidano verso una distinzione che nel loro ragionamento appare centrale: gli  oggetti, sistemi, organismi, ecc. possono essere distinti in fragili, robusti e  antifragili. Sono fragili quelli che subiscono negativamente gli effetti delle modifiche dell’ambiente; una tazza di vetro se cade a terra si rompe, non sappiamo quando, ma nel lungo periodo è molto probabile che ciò avverrà. Mentre robusto è un oggetto che non viene sostanzialmente modificato da eventi di trasformazione  dell’ambiente. Così mentre “cadere” per un bicchiere genera una catastrofe, cioè la rottura dell’oggetto, se cade un’incudine, questa non si modifica, resta intatta. 
Ma robusto non è il contrario di fragile, come non lo sono durevole, resistente, resiliente, ecc. “L’opposto di essere fragile sarebbe qualcosa cui  eventi, perturbazioni, fattori di stress, volatilità, disordine – dunque il tempo – in generale non nuociono e però nemmeno lasciano com’è. Sarebbe piuttosto qualche cosa che può, perlomeno in alcune circostanze, guadagnare, migliorare, ossia prosperare nel disordine”.  La parola adatta è allora: antifragile. 
Gli autori identificano la città come un sistema antifragile, nel disordine essa può migliorare. Possono cioè presentarsi dei “cigni neri” (N.N. Taleb, Il cigno nero), eventi con bassa probabilità di realizzarsi ma con notevoli conseguenze. Ma mi pare che la città si presenta come antifragile non solo per l’esistenza dei “cigni neri” (che in generale non è possibile né prevedere, né controllare), ma per le dinamiche delle sue stesse variabili. 
Mi viene comodo a questo punto far riferimento a quanto sottolineato in precedenza circa la relazione simbiotica esistente tra conflitto e città: il primo crea disordine, mette cioè in discussione l’ordine esistente e la città è costretta a migliorare, ma tale miglioramento determina nuovo conflitto. 
La nozione di fragilità assegnata alla città pare molto convincente, anche se  pone qualche problema. La Città, cioè la specie città, appare antifragile, mentre le singole città possono risultare fragili: non migliorare nel disordine ma perire. I motivi possono essere esogeni ed endogeni: l’incapacità, soprattutto nella prima fase della storia della città e nell’epoca attuale,  di fare i conti con la disponibilità di risorse; distruzioni belliche, che possono tuttavia essere occasioni di miglioramento; cataclismi naturali; epidemie, “piaghe”; ecc.
Ma qui sorge un  problema: la fragilità e la robustezza sono caratteristiche che distinguono oggetti o sistemi, ma lo è anche l’antifragilità? Mentre le prime due caratteristiche ci paiono  intrinseche agli oggetti o ai sistemi, l’antifragilità appare come una possibile “condizione”. Una città sarà antifragile se “curata” con intelligenza e amore, mentre in assenza di questa attitudine di governo una città può risultare fragile. Non è casuale se alla nozione di antifragile sia connessa la possibilità di un miglioramento. Una possibilità, non una certezza, devono essere presenti le condizioni perché quella potenzialità diventi effettiva. 
Sollevare questo problema non ha il significato di mettere in discussione il contributo, anche di metodo,  di questo testo, ma piuttosto chiarire come nell’antifragilità è contenuta una azione consapevole per realizzarne le potenzialità. In modo diretto e indiretto i due autori hanno messo in luce questo aspetto. Non è casuale che la seconda parte del testo sia dedicata alla pianificazione antifragile.
L’aver impostato il testo sull’antifragilità della città, mette in chiaro come la dinamica urbana sia collegata al disordine, un disordine … che migliora, il governo della città deve, quindi, ritenere preziosi gli elementi di disordine (il passare del tempo, ma non solo) e  quindi  intervenire con mano intelligente e amorosa per non distruggere gli elementi dinamici e migliorativi della città e nello stesso tempo tentare di creare le condizioni per lo sviluppo creativo della popolazione.
Secondo gli autori i connotati di una pianificazione antifragile dovrebbero sono: evitare di fare quel che è nocivo; cercare di costruire una visione condivisa; garantire una certa azione autonoma delle forze sociali.   
In quest’ambito gli autori mettono dei paletti, dei punti fermi e fanno sfoggio di buon senso pianificatorio, avendo sempre presente la realtà contraddittoria: “in ultima istanza, questo suggerisce di intervenire solo quando e dove è necessario, con massima economia e sfruttando il più possibile tendenze «naturali» facendo il più possibile scelte aperte e reversibili. Ciò dall’altro canto non vuol dire abbandonare l’idea delle regole. Al contrario. Ma occorrono regole e vincoli che siano generali, sovraordinati e sottratti alle contingenze e convenienze di breve periodo”.     
La pianificazione antifragile trova nei cittadini non solo i soggetti che dovranno sopportare le scelte di pianificazione, ma i soggetti attivi nella determinazione degli obiettivi, si tratta di mettere in campo nuovi strumenti in grado di coinvolgere i cittadini, con particolare attenzione a quelli  più svantaggiati. Gli scenari potrebbero essere lo strumento adatto per costruire un punto di vista condiviso, mettendo in luce quelli desiderabili e quelli da evitare.
L’approccio teorico che i due autori propongono per definire meglio la loro ipotesi programmatoria è quello della capability approach. Gli autori propongono di tradurre la capability approach come capacità urbana: “si tratta di stabilire, e possibilmente di isolare, come e sino a che punto le loro [delle persone che abitano la città] capacità complessive – che ovviamente dipendono da molti altri fattori a-spaziali e non legati al loro ambiente fisico – sono determinate da fattori eminentemente urbani, legati al funzionamento della città e dell’ambiente urbano”.  L’esempio dei parchi, uno dei tanti, forse chiarisce questa problematica: non si tratta soltanto di determinare la quantità di verde necessaria per la specifica città, ma piuttosto di individuare le opportunità e gli ostacoli che hanno le persone a “ricrearsi in luoghi naturalistici”. In sostanza, se mi posso produrre in una traduzione, il problema sta nel negare operatività ad approcci che privilegiano “quantità”, secondo parametri quanto articolati si voglia ma comunque astratti e non misurati nella specifica condizione urbana, e affermare invece la necessità di realizzare funzionamenti urbani adatti per gli individui più svantaggiati (se fossero positivi per gli individui più svantaggiati a maggior ragione lo sarebbero per gli altri dotati di maggior capacità urbana).  Mi pare di condividere questo modo di ragionare, anche se non mi nascondo le difficoltà applicative, del resto in altro contesto ho affermato che compito della pianificazione e dell’organizzazione della città sia quello di mitigare le condizioni più svantaggiate, non essendo nella natura del piano modificare l’origine degli svantaggi. 
Non si fa fatica a riconoscere nell’approccio di Blecic e Cecchini un atteggiamento più universalistico, un atteggiamento che è facilitato dall’avere espunto dal loro lavoro la matrice dello svantaggio sociale, risolta, semplifico, nella capacità urbana.
Il testo mi sembra molto interessante per i problemi che direttamente o indirettamente pone ai pianificatori e a chi ha responsabilità di governo della città; che siano state messe a punto soluzioni complete all’ordine dei problemi sollevati, non si può dire, del resto in chiusura i due autori ci invitano ad un “arrivederci” per il molto lavoro che ancora c’è da fare.
Le novità sono molte, che siano tutte convincenti non mi pare (ho cercato di mettere in luce alcune obiezioni, la necessità di approfondimenti, ecc. anche per evitare che l’elaborazione dei due autori diventi non un modello di approccio ma uno strumento standardizzato (cosa che gli autori non vorrebbero). È importante, infatti,  ricordare che  dentro un dato sistema socio-economico la logica di funzionamento della città sia abbastanza omogeneo, si potrebbe dire che si tratta di un’“unica logica”, con poche variazioni, mentre la concreta realizzazione della singola città, pur rispondendo alla stessa logica, si presenta diversa da ogni altra (in ragione del sito, della storia, dello sviluppo economico, delle tipologie di produzione, ecc.). Si ha l’impressione che nel testo analizzato questa “logica” venga se non cancellata almeno messa tra parentesi:  la città viene “osservata” nella sua antropologica realtà, mentre non viene affrontato il tema dei meccanismi generativi, degli interessi contrastanti, dei conflitti e, spesso, della non disponibilità individuale. L’uso per esempio del termine “attore”, corrisponde alla deprivazione dei singoli individui di ogni propria componente sociale.   
Personalmente ho trovato la lettura del testo molto interessante, soprattutto ho apprezzato la capacità di prospettare una modalità di osservazione non usuale e che provoca nuovi pensieri. Un testo vale proprio per i pensieri che è capace di generare. Come in concreto si possa organizzare una pianificazione antifragile è problema di ulteriore approfondimenti, ricerche e sperimentazioni, l’importante è non innamorarsi e non guardarsi allo specchio: il lavoro fatto è tanto e interessante, quello da fare mi pare tanto.

Francesco Indovina
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