Ivan Blecic e Arnaldo Cecchini, Verso una pianificazione
antifragile: come pensare al futuro senza prevederlo, Franco Angeli editore,
Milano, 2016, pp. 191, 25 euro.
Questo saggio di Blecic e Cecchini si raccomanda per più
di un motivo: è intelligente, puzza di originalità, non è accomodante e stimola
punti di vista imprevisti.
Non è la solita lamentazione intorno alle difficoltà
della pianificazione, né se ne prospetta l’abbandono, già questo sarebbe un
motivo di grande apprezzamento, ma si propone di costruire un punto di vista
nuovo sulla natura della città e della sua dinamica.
In apertura gli autori denunziano tre limiti del loro
lavoro: aver posta attenzione alle città occidentali, non aver considerato il
ruolo del conflitto sociale e aver fatto riferimento più alle “azioni di
governo delle trasformazioni urbane” che alla strumentazione e alle tecniche di
piano.
A me pare che l’ultima piuttosto che un limite sia un
giusto atteggiamento che fa i conti con la realtà della pianificazione: non
applicazione di modelli astratti, ma piuttosto “governo delle trasformazioni
urbane”. Della prima non merita parlare, le situazioni urbane mondiali tendono
ad una diversificazione di cui non sembra potersi intuire la dinamica, mentre
più omogenee appaiono le città occidentali.
Il non aver considero il ruolo del conflitto sociale e la
dinamica degli interessi contrastanti
nelle trasformazioni urbane, può effettivamente essere considerato un
limite. “Conflitti” (in tutte le forme ed espressioni) e dinamica urbana
appaiono legati da strettissime relazioni, si potrebbe azzardare che vivono in
simbiosi: la dinamica urbana è figlia di conflitti, e questi ultimi nascono
nell’alveo della dinamica urbana. A me pare che i due autori proprio nella
formulazione della tesi, anche se non esplicitamente, hanno fatto riferimento
ai conflitti anche se in una visione individualista; quando affermano con
decisione che “la gente fa di testa propria”, essi di fatto si riferiscono ai
conflitti, che in varia forma e con diversi esiti generano dinamiche urbane.
Blecic e Cecchini si muovono lungo la corrente che
individua come scopo del progetto l’adattamento “della forma alla funzione”. Ma
il progetto è possibile solo se c’è “un soggetto che consapevolmente si pone e
persegue degli obiettivi”. La relazione
tra adattamento della forma alla funzione e la necessità di una soggettività
che si ponga degli obiettivi applicata ai sistemi sociali non è priva di
implicazioni e di manomissioni, l’imprevedibilità essendo la natura costitutiva
dei sistemi sociali a motivo soprattutto dell’azione e dell’intenzione dei
soggetti sociali.
È a partire da queste considerazioni che i due autori
formulano un lungo elenco di idola (il
riferimento è a Francesco Bacone), che hanno tanta parte nella “scarsa
efficacia” della pianificazione e gestione del territorio.
Nonostante quello che appare o meglio che si crede, la
pianificazione non ha rappresentato un corpo stabile e immobile di regole,
principi e strumenti. Da sempre la sua scarsa efficacia, per dirla con i nostri
autori, ha spinto a continui aggiustamenti, a considerare nuove ipotesi, a
considerare nuove interpretazioni, e se anche qualcuna di queste ne ha messo in
discussione la necessità e utilità, hanno determinato, molto più spesso di
quanto non si creda, una struttura di pensiero poco efficace, costruendo degli idola alcuni dei quali sono elencati e
visitati dai nostri autori.
Non vorrei soffermarmi su ciascuno di essi (sono 12) ma
elencarli sì,
perché essi sono espressivi dell’attenzione e dell’acume degli autori, ma
anche perché il singolo titolo dovrebbe
o potrebbe fare arrossire molti pianificatori per la loro affezione ad alcuni
di questi (va detto, non parlo di errori, ma di convinzioni e di credulità che
esitano risultati negativi).
L’elenco comprende: Il dogma della continuità; La
fallacia dell’estrapolazione; L’assunto della retroattività dei principi
morali; La pretesa dell’universalità – spaziale e temporale – dei
comportamenti; L’oblio degli effetti contro-intuitivi; La sindrome del defroqué; L’ipotesi dell’agire
razionale; La querelle riduzionismo vs olismo; La querelle bottom-up vs
top-down; La querelle quantitativo vs qualitativo; Il buon dottore; Le intelligenze
sono multiple e non trasferibili; Misurare non è valutare, valutare non è
decidere; Troppo tardi per smettere.
Gli autori forniscono anche una ricetta per la cura dagli
idola: “attraverso la concezione del progetto come processo che si svolge a
molti livelli e coinvolge molti attori, e non come il prodotto di una mente
razionale che disegna in modo fermo e razionale la strada del futuro, si può
operare concretamente per selezionale azioni e percorsi che attraversino i futuri possibili e li conducano verso futuri desiderabili”.
Le ricette, come è noto, sono impastate con l’idola della
semplificazione, non sfugge neanche questa ricetta, che pur nella sua linearità
lascia fuori molte questioni, la principale delle quali mi pare un sorvolare
sulla questione del potere o dei poteri. Ma voglio arrivare al nocciolo del
saggio che mi pare molto interessante.
Gli autori ci guidano verso una distinzione che nel loro
ragionamento appare centrale: gli
oggetti, sistemi, organismi, ecc. possono essere distinti in fragili, robusti e antifragili. Sono fragili quelli che subiscono
negativamente gli effetti delle modifiche dell’ambiente; una tazza di vetro se
cade a terra si rompe, non sappiamo quando, ma nel lungo periodo è molto
probabile che ciò avverrà. Mentre robusto
è un oggetto che non viene sostanzialmente modificato da eventi di
trasformazione dell’ambiente. Così
mentre “cadere” per un bicchiere genera una catastrofe, cioè la rottura
dell’oggetto, se cade un’incudine, questa non si modifica, resta intatta.
Ma robusto non è il contrario di fragile, come non lo
sono durevole, resistente, resiliente, ecc. “L’opposto di essere fragile
sarebbe qualcosa cui eventi,
perturbazioni, fattori di stress, volatilità, disordine – dunque il tempo – in
generale non nuociono e però nemmeno lasciano com’è. Sarebbe piuttosto qualche
cosa che può, perlomeno in alcune circostanze, guadagnare, migliorare, ossia
prosperare nel disordine”. La parola
adatta è allora: antifragile.
Gli autori identificano la città come un sistema
antifragile, nel disordine essa può migliorare. Possono cioè presentarsi dei
“cigni neri” (N.N. Taleb, Il cigno nero),
eventi con bassa probabilità di realizzarsi ma con notevoli conseguenze. Ma mi
pare che la città si presenta come antifragile non solo per l’esistenza dei
“cigni neri” (che in generale non è possibile né prevedere, né controllare), ma
per le dinamiche delle sue stesse variabili.
Mi viene comodo a questo punto far riferimento a quanto
sottolineato in precedenza circa la relazione simbiotica esistente tra
conflitto e città: il primo crea disordine, mette cioè in discussione l’ordine
esistente e la città è costretta a migliorare, ma tale miglioramento determina
nuovo conflitto.
La nozione di fragilità assegnata alla città pare molto
convincente, anche se pone qualche
problema. La Città ,
cioè la specie città, appare antifragile, mentre le singole città possono
risultare fragili: non migliorare nel disordine ma perire. I motivi possono
essere esogeni ed endogeni: l’incapacità, soprattutto nella prima fase della
storia della città e nell’epoca attuale,
di fare i conti con la disponibilità di risorse; distruzioni belliche,
che possono tuttavia essere occasioni di miglioramento; cataclismi naturali;
epidemie, “piaghe”; ecc.
Ma qui sorge un
problema: la fragilità e la robustezza sono caratteristiche che
distinguono oggetti o sistemi, ma lo è anche l’antifragilità? Mentre le prime
due caratteristiche ci paiono intrinseche
agli oggetti o ai sistemi, l’antifragilità appare come una possibile
“condizione”. Una città sarà antifragile se “curata” con intelligenza e amore,
mentre in assenza di questa attitudine di governo una città può risultare
fragile. Non è casuale se alla nozione di antifragile sia connessa la
possibilità di un miglioramento. Una possibilità, non una certezza, devono
essere presenti le condizioni perché quella potenzialità diventi
effettiva.
Sollevare questo problema non ha il significato di
mettere in discussione il contributo, anche di metodo, di questo testo, ma piuttosto chiarire come
nell’antifragilità è contenuta una azione consapevole per realizzarne le
potenzialità. In modo diretto e indiretto i due autori hanno messo in luce
questo aspetto. Non è casuale che la seconda parte del testo sia dedicata alla
pianificazione antifragile.
L’aver impostato il testo sull’antifragilità della città,
mette in chiaro come la dinamica urbana sia collegata al disordine, un
disordine … che migliora, il governo della città deve, quindi, ritenere
preziosi gli elementi di disordine (il passare del tempo, ma non solo) e quindi
intervenire con mano intelligente e amorosa per non distruggere gli
elementi dinamici e migliorativi della città e nello stesso tempo tentare di
creare le condizioni per lo sviluppo creativo della popolazione.
Secondo gli autori i connotati di una pianificazione
antifragile dovrebbero sono: evitare di fare quel che è nocivo; cercare di
costruire una visione condivisa; garantire una certa azione autonoma delle
forze sociali.
In quest’ambito gli autori mettono dei paletti, dei punti
fermi e fanno sfoggio di buon senso pianificatorio, avendo sempre presente la
realtà contraddittoria: “in ultima istanza, questo suggerisce di intervenire
solo quando e dove è necessario, con massima economia e sfruttando il più possibile
tendenze «naturali» facendo il più possibile scelte aperte e reversibili. Ciò
dall’altro canto non vuol dire abbandonare l’idea delle regole. Al contrario.
Ma occorrono regole e vincoli che siano generali, sovraordinati e sottratti
alle contingenze e convenienze di breve periodo”.
La pianificazione antifragile trova nei cittadini non
solo i soggetti che dovranno sopportare le scelte di pianificazione, ma i
soggetti attivi nella determinazione degli obiettivi, si tratta di mettere in
campo nuovi strumenti in grado di coinvolgere i cittadini, con particolare
attenzione a quelli più svantaggiati.
Gli scenari potrebbero essere lo strumento adatto per costruire un punto di
vista condiviso, mettendo in luce quelli desiderabili e quelli da evitare.
L’approccio teorico che i due autori propongono per
definire meglio la loro ipotesi programmatoria è quello della capability approach. Gli autori
propongono di tradurre la capability approach come capacità urbana: “si tratta di stabilire, e possibilmente di
isolare, come e sino a che punto le loro [delle persone che abitano la città]
capacità complessive – che ovviamente dipendono da molti altri fattori
a-spaziali e non legati al loro ambiente fisico – sono determinate da fattori
eminentemente urbani, legati al funzionamento della città e dell’ambiente
urbano”. L’esempio dei parchi, uno dei
tanti, forse chiarisce questa problematica: non si tratta soltanto di
determinare la quantità di verde necessaria per la specifica città, ma
piuttosto di individuare le opportunità e gli ostacoli che hanno le persone a
“ricrearsi in luoghi naturalistici”. In sostanza, se mi posso produrre in una
traduzione, il problema sta nel negare operatività ad approcci che privilegiano
“quantità”, secondo parametri quanto articolati si voglia ma comunque astratti
e non misurati nella specifica condizione urbana, e affermare invece la
necessità di realizzare funzionamenti urbani adatti per gli individui più
svantaggiati (se fossero positivi per gli individui più svantaggiati a maggior
ragione lo sarebbero per gli altri dotati di maggior capacità urbana). Mi pare di condividere questo modo di
ragionare, anche se non mi nascondo le difficoltà applicative, del resto in
altro contesto ho affermato che compito della pianificazione e
dell’organizzazione della città sia quello di mitigare le condizioni più svantaggiate, non essendo nella natura
del piano modificare l’origine degli svantaggi.
Non si fa fatica a riconoscere nell’approccio di Blecic e
Cecchini un atteggiamento più universalistico, un atteggiamento che è
facilitato dall’avere espunto dal loro lavoro la matrice dello svantaggio
sociale, risolta, semplifico, nella capacità urbana.
Il testo mi sembra molto interessante per i problemi che
direttamente o indirettamente pone ai pianificatori e a chi ha responsabilità
di governo della città; che siano state messe a punto soluzioni complete all’ordine
dei problemi sollevati, non si può dire, del resto in chiusura i due autori ci
invitano ad un “arrivederci” per il molto lavoro che ancora c’è da fare.
Le novità sono molte, che siano tutte convincenti non mi
pare (ho cercato di mettere in luce alcune obiezioni, la necessità di
approfondimenti, ecc. anche per evitare che l’elaborazione dei due autori
diventi non un modello di approccio ma uno strumento standardizzato (cosa che gli autori non vorrebbero). È
importante, infatti, ricordare che dentro un dato sistema socio-economico la
logica di funzionamento della città sia abbastanza omogeneo, si potrebbe dire
che si tratta di un’“unica logica”, con poche variazioni, mentre la concreta
realizzazione della singola città, pur rispondendo alla stessa logica, si
presenta diversa da ogni altra (in ragione del sito, della storia, dello
sviluppo economico, delle tipologie di produzione, ecc.). Si ha l’impressione
che nel testo analizzato questa “logica” venga se non cancellata almeno messa
tra parentesi: la città viene
“osservata” nella sua antropologica realtà, mentre non viene affrontato il tema
dei meccanismi generativi, degli interessi contrastanti, dei conflitti e,
spesso, della non disponibilità individuale. L’uso per esempio del termine
“attore”, corrisponde alla deprivazione dei singoli individui di ogni propria
componente sociale.
Personalmente ho trovato la lettura del testo molto
interessante, soprattutto ho apprezzato la capacità di prospettare una modalità
di osservazione non usuale e che provoca nuovi pensieri. Un testo vale proprio
per i pensieri che è capace di generare. Come in concreto si possa organizzare
una pianificazione antifragile è
problema di ulteriore approfondimenti, ricerche e sperimentazioni, l’importante
è non innamorarsi e non guardarsi allo specchio: il lavoro fatto è tanto e
interessante, quello da fare mi pare tanto.
Francesco Indovina
.
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