martedì 13 novembre 2018

Conca d'oro



Giuseppe Barbera, Conca d’oro, Sellerio editore Palermo, 2012, pp. 155, € 12,00

Da ASUR, 2013


Un prezioso libro, l’autore docente di Colture arboree all’Università di Palermo,  narra in una lingua densa e chiara nello stesso tempo, delle trasformazioni della Conca d’oro di Palermo, un paesaggio meraviglioso che è stato coinvolte in tanti sommovimenti e cambiamenti fino alla sua, di fatto,  distruzione, frutto dell’incontro  perverso e si potrebbe dire contro natura, tra amministrazione locale e mafia edilizia. A Palermo questo incontro più che perverso è stato per tanto tempo naturale. Mafia e amministrazione locale, come in molte località dell'isola, non è che hanno convissuto ma hanno intrecciato strettamente le loro decisioni.
Non si tratta di un libro sulla mafia, ma di un libro su un paesaggio, la Conca d’oro,  che ha segnato nei secoli la città e che dalla città ha assorbito umori, trasformazioni, modifiche culturali, ma tutte, fino ad un certo periodo,  all’insegna del meraviglioso. “L’ordine produttivo degli orti e dei frutteti che hanno cinto Palermo, la diversità biologica accresciuta secolo dopo secolo cogliendo opportunità offerte dalla posizione geografica e dalla storia con  il concorso di differenti civiltà agrarie, la presenza rinfrescante dell’acqua, la forma degli alberi, i profumi, i sapori, i colori, hanno segnato come  ‹fruttifero e dilettevole› il suo paesaggio agrario, attraverso un percorso di lavoro e di ingegno che inizia con la storia della città”.   
L’autore insegue, si potrebbe dire, le trasformazioni legate alle diverse vicissitudini della città, ai popoli che vi si sono insediati, originari di “differenti civiltà agrarie”, ciascuno dei quali ha contribuito a creare, conservare e trasformare un paesaggio che era contemporaneamente estetico e produttivo. Cioè il vero paesaggio dell'uomo.
Va sottolineato come la Sicilia e Palermo sono stati sedi di convivenza, molto spesso pacifica, fin dalle origine e come a Palermo sono riscontrabili le testimonianze che, fin dal quarto millennio, trovava insediata una “cultura evoluta”, oggi nominata come cultura Conca d’oro.
Palermo come città di frontiera, cioè luogo di scambio culturale tra diverse popoli e tra gli insediamenti diversificati al mare, in collina sui monti. La descrizione che l’autore fa della forma delle coltivazioni, soprattutto all’inizio della vite, dell’olivo e dei cereali (“trinità figlia del clima e della storia” la definiva Braudel), e come si inseriscano poi, duraturi nel tempo gli agrumi, segnando il paesaggio con i colori sgargianti dei frutti, è piena di passione, ma soprattutto esplicita con attenzione le trasformazioni, le ibridazioni, la costruzione di una civiltà.
Particolare attenzione viene posta alla rivoluzione agraria introdotta dagli islamici, con la loro attenzione all’acqua. L’autore esalta la visione complessiva di questa cultura che lega uomini, animali e piante; la città con la campagna; “bisogni e desideri”; la sussistenza e il commercio, la bellezza e il piacere. L’acqua come elemento fondamentale per la vita e la coltivazione ma anche per la sua capacità di contribuire a creare la bellezza del luogo. “Utilità e contemplazione, cioè frutti e fiori, contemporaneamente presenti, sono prerogativa dell’albero del limone: la coltura che, con gli altri agrumi, segna l’ultima gloriosa pagina della Conca  d’oro e ne rappresenta al meglio il fascino paesaggistico fiorendo ininterrottamente  nel corso delle stagioni”. Questi “giardini”, spesso promiscui di “melaranci, melangoli, limoni, limoncelli, lumie, cedri, cedrati, cetrangoli” stregano quanti arrivano a Palermo.  
La Conca d’oro luogo produttivo, ma anche luogo del piacere, non è casuale l’insediamento di  ville e palazzi per il divertimento, l’ozio, certo il piacere dei potenti, ma che sapevano costruire e che hanno lasciato edifici che ammiriamo (come la Zisa, Mare dolce),  lo stesso parco della Favorita con la discutibile Palazzina cinese, di epoca borbonica,  poi le ville nelle quali si ritirano gli aristocratici a tramare, a disegnare percorsi di trasformazione spesso velleitari (non c’è bisogno di far riferimento al Gattopardo).      
All’inizio del ‘900  l’attenzione  è ancora per il giardino ornamentale, ancora per qualche tempo è possibile passeggiare negli agrumeti, godere di queste bellezze “fruttifere”.  Poi venne la guerra, la seconda guerra mondiale,  con i terribili bombardamenti sulla città e, soprattutto, per il tema che qui interessa venne il “dopoguerra”. La ricostruzione, non della città che per decenni si caratterizzerà ancora per le zone sventrate dalle bombe, ma piuttosto la costruzione della nuova Palermo, una costruzione senza sapienza, senza cura, senza estetica, ma sola attenta al guadagno e con la speculazione edilizia in mano alla mafia. Si può dire che quello che non fecero le fortezze volanti delle forze alleate lo fece la mafia. Si distrusse un pezzo di città, i villini della via libertà, spesso manufatti appartenenti al miglior liberty italiano, per costruire palazzoni. Una distruzione-ricostruzione sistematica e quando si paventava la possibilità, per altro molto rara data la permeabilità della mafia,  di un blocco amministrativo (in difesa del patrimonio) per la distruzione di qualche villa, si procedeva rapidamente con un incendio notturno. Intanto la città si ampliava e questo ampliamento invadeva la Conca d’ora, mentre il centro storico (uno dei più grandi d' Italia) degradava sempre più e veniva abbandonato. Solo negli ultimi anni è iniziato un’opera di recupero (anche se non sistematica).
Il “sacco di Palermo”, un episodio di “mani sulla città” tra i più feroci sul piano urbanistico e ambientale, con l’Amministrazione locale a tenere il sacco. Un’amministrazione non tanto e non solo collusa con la mafia, ma fortemente infiltrata dalla mafia. La mafia palermitana nominava, di fatto, sindaci e assessori, con propri uomini di fiducia o direttamente con propri affiliati. Nonostante un opposizione spesso vivace e qualche volta distratta, la distruzione della Conca d’oro si è consumata. E se qualche parte si è salvata, come quella del mandarino tardivo di Ciaculli,  non dipende tanto da un ripensamento, né dalla vittoria dell'ambiente e dell’estetica sul soldo, ma solamente perché era  (è?) utile alla mafia per organizzare la trasformazione della droga.
L’autore illustra bene  questa parte della storia di un pezzo di Palermo,  rende edotti, chi della città o è un abitante “distratto” (tanti sono gli abitanti “distratti”) o un visitatore più o meno frettoloso. Rendendo esplicito che la città, ancora, nonostante tutto,  bella, i  chilometri di rettilineo che tutta l’attraversano, costituiscono un'eccezione urbanistica, come il suo patrimonio artistico testimonia della sua storia, sarebbe potuta essere ancora più bella e attraente incorniciata dalla corona dei giardini. La Conca d’oro non è ormai più godibile che per pezzettini minuscoli che non rendono la  meraviglia di un tempo.
Questo di Barbera è un libro di storia “naturale” e sociale, l’intreccio reale della trasformazione,  ma è anche una sorta di galateo filosofico, le citazioni potrebbero essere diverse ma questa mi appare come molto significativa:  la Conca d’oro conferma un basilare dogma ecologico e culturale. Insegna che è solo il confronto tra diversi, l’incontro reso possibile e non ostacolato o negato, che si compie attraverso margini permeabili e non barriere invalicabili (muri, fili spinati, recinti e respingimenti), a generare nuova vita, saperi e  paesaggi che rispondono ai bisogni, sempre in evoluzione, del mondo.”
Un libro gradevole, leggero e profondo, una lettura da raccomandare a tutti ma specialmente ai giovani che studiano e si interessano di territorio, di ambiente e di paesaggio e che spesso guardano con occhi che semplificano troppo i processi di trasformazione. 
 Francesco Indovina
    

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